Pablo Neruda e Insetti


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Tra Michoacán e Punitaqui (1939-1947) - 3^ parte

NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1939 a 1952

VI
VIAGGI 3
(1942-1943)


Viaggio al Nord

VIAJES 3. VIAJE AL NORTE. (Pagine 560-579.) Qui, e nel precedente "Saludo al Norte", Neruda sottolinea come la sua opposta prospettiva di uomo del Sud arricchisce l'elaborazione verbale della sua nuova esperienza. Il testo documenta la passione e la sincerità con cui Neruda fa convivere il senatore ed il poeta nella sua scrittura. Notevole il passaggio che comincia "Entro en la casa de máquinas (Entro nella casa delle macchine)" la cui visione degli strumenti immobili e dei vecchi ferri minacciati dall'ossido poteva essere messa in connessione con l'ottica adolescente di "Maestranzas de noche", in Crepusculario, e con la coetanea di "La helga (Lo sciopero)" in Canto general, XI, XIII (OCGC vol. I, pp. 127-128 e 729-730). Conferenza tenuta a studenti dell'Università del Cile durante il grande sciopero del salnitro nel 1946.

Che non sia rivelata la pampa totale, la sua desolazione e la sua bellezza dagli alti minerali di Huantajaya. Da lì contempliamo l’aspra e opalina immensità. Le pianure si estendono da lì, e lì anche si accalcano in moltitudine, le colline serene. Il sole del pomeriggio fa affluire verso le sue linee tagliate, soavi colori che nascono dalle ocre eterne, le vette di verde pallidissimo, i soavi gialli cereali, gli stacchi del violetto, le punte come diademi di porpora impolverata. Co- me in mille immensi colli di colomba selvaggia il colore dei gessi levigati dal vento e dal cielo, aderiscono a infinite miscele che si ondulano e si alzano: la pelle calcinata della pampa si gonfia e si immobilizza, un teatro di pezzi metallici, di soavi seni e gole turgide, si raggruppa e si stende ricevendo nella sua abbandonata nudità i raggi segreti che il sole lascia cadere sopra le più alte e pure solitudini.
Io che sono aborigeno australe, abituato alle campagne e ai boschi, ai
copihue e alle felci impregnate di grossa rugiada sotto l’ombra maestosa dei larici, lascio in Huantajaya una delle più belle visioni della terra. La terra della pampa, senza vegetazione, né uccelli, né animali, è uno spettacolo che dobbiamo tenere nel recondito o per sempre tutte le gocce di sensualità che avemmo nel contemplare gli altri paesaggi del pianeta. Lì sta la terra nella sua reggia di diamante invisibile, nelle sue pieghe di arenile e estensione. Lì sta la geografia pura, fissata in un paesaggio strano e astratto, aereo e terreno. Da lì iniziano anche i duri e dolorosi cammini dell’uomo.
Davanti alla miniera abbandonata, vicino a una discarica di latte e rottami di ferro, perché il resto, il tempo e il vento lo ha disperso, c’è il vecchio cimitero della miniera. Questi cimiteri della pampa sono tutti uguali: un piccolo monte di croci storte, scompigliate, battute dal vento salnitrico, circondate da una moltitudine polverosa di carte che un giorno furono corone. Non c’è molta differenza tra questi acerbi camposanti e le abitazioni degli uomini. Lì, anticamente vennero i cortei dei duri abitanti della pampa caduti nell’incidente: le ossa triturate e bruciate, le dita contratte nell’ultimo lavoro. I bambini che non ottennero di sopravvivere, e le eroiche e consumate compagne degli uomini. Tutta questa razza ha un putridario aperto al vento e alle stelle che le dettero l’unica bellezza in questo mondo e vicino agli accampamenti miserabili questa patria di croci senza nome e senza steccato, è una tappa in più, un altro movimento compiuto dal lavoro doloroso.
Tempo fa ci fu agitazione nella pampa. Gli abitanti della pampa volevano che le compagnie recintassero i cimiteri. Volevano che la loro morte ed i loro morti fossero rispettati. Vi fu un inizio di sciopero. I cimiteri sono rimasti così. I cadaveri non interessano alle compagnie. I vivi interessano poco. I morti non hanno significato. E lì rimangono per tutta l’immensa pampa questi ossari abbandonati, questi operai morti a cui nessuno, mai, porterà i rossi fiori che amarono, questi cimiteri distrutti, spaccati, triturati dalle intemperie, come le povere vite che lì si fermarono.

Quaranta anni fa, Lafertte lavorò in queste miniere d argento e sua madre fu maestra della piccola scuola. Siamo arrivati con un altro minatore come Lafertte, di Huantajaya, José Luis. I due si addentrano nell’abbandono. Li vedo sparire cercando la scuola. Non rimane una traccia, una parete, una porta, un segno di quella né delle abitazioni. Li guardo da lontano indicare il suolo con un palo, e discutere soavemente sulla vita scomparsa. Delle vecchie lotte e allegrie soltanto rimane questo detrito di vetro e ferraglia, questo spazio nelle alte cime dove passarono la ingordigia ed il lavoro, l’argento e il sangue.
Qui come in altre miniere di metalli preziosi c’erano minatori che riuscivano a nascondere introducendoli dentro il proprio organismo grossi lingotti di argento che poi commerciavano clandestinamente. Si dice che
Monos o Cangalla, come si chiamavano questi pezzi di metallo tanto disperatamente ottenuti, arrivavano a pesare cinque chili. In certe epoche saltava fuori nel villaggio in personaggio forestiero: don Jacinto, o come lo chiamavano a Iquique, don Jacinto de Huantajaya. Passeggiava vestito di una redingote per un corridoio determinato, instancabilmente, tutto il giorno. Ogni tanto spariva per alcuni minuti in una porta in cui anche un minatore spariva furtivamente in un’altra porta della stessa casa. E i lingotti entravano nelle tasche di don Jacinto de Huantajaya. Adesso nell’aria vuota, tra l’immondizia, mi sembra di veder passare senza fretta e senza sosta, su un corridoio fantasma di una casa che non esiste, il vecchio picaro delle miniere. Mentre Lafertte e José Luis continuano a esaminare le ombre di ieri, entro nell’edificio dell’amministrazione che ancora sta in piedi. Case signorili di finestre senza vetri da cui il vento che avanza scuote le carte accumulate al suolo. La carta delle pareti cade in grandi pezzi, e si unisce ai plichi dei contratti. Alzo uno di questi. Antonio Bustamante: 55 anni, lavoratore a giornata, sposato, eccetera.
Dove sarà in questi giorni Antonio Bustamante? Per la pampa o in altri lavori oscuri? O nel piccolo cimitero, sotto le croci secche e contorte?
Entro nell’edificio delle macchine. A guardare l’abbandono sembrano essersi fermate solo ieri. Il ferro resiste più dell’uomo ed a guardare le vecchie macchine ferme, con le loro mole di fina precisione dove l’ossido comincia a imprimere la sua ombra color del tempo, penso che i ferri appartengono a questa solitudine, sono parte aggressiva, agganciata, tritatutto di questo luogo. C’è qualcosa di immensamente crudele nel suo sonno. Si risvegliano i nostri divoratori.
E quando chiudo le porte dell’edificio delle macchine per abbandonare i minerali di Huantajaya e seguire la strada della pampa, la porta, per salutarci con i suoi cardini ammuffiti risuona acutamente, come un gemito di bambino di ferro che rimane per sempre solo nelle solitarie sommità del vento minerale.
Nella storia sotterranea di queste miniere c’è una storia di talpe, di oscure talpe del sistema, del capitale perforatore e disonorevole. Due compagnie, due padroni ebbero questi giacimenti e questi dai loro uffici, seduti sopra i loro numerosi servitori e schiavi, si fecero profonde riverenze, e si dedicavano, da uguale a uguale, le più sottili gentilezze. Ma il gruppo di uno dei proprietari, esaurita la sua vena, segretamente, sotto la terra, entrò nel territorio del vicino, estraendo le pietre d’argento dall’altro lato della linea. Al di sopra della terra si salutavano e di sotto, nell’oscurità umida, i minatori come talpe cieche scavavano nel terreno proibito. Dopo i saluti perduti si perse la gentilezza, e vennero allora gli irrimediabili spari, gli avvocati, gli ingegneri che diminuivano e aumentavano sotto i salati arsenali, la polizia, i litigi. Ma dopo venne l’acqua. Spuntò improvvisamente, sul picco maggiore, l’acqua negata alla superficie, l’acqua perduta in gocce al cielo azzurro ed alle frontiere distanti, l’acqua arrivò come un’implacabile emorragia, come il sangue della terra violata, e arrivò nelle gallerie cancellando di nuovo i limiti sotterranei dell’altrui e del proprio. Vedo qui come una fatalità sistematica, come una paralisi capitalistica, in questi cedimenti rubati nell’oscurità della terra, in queste tragedie grottesche, accresciute dalla cupidigia, condite con il sangue umano e cancellate dalla cieca giustizia stravagante della natura.

Siamo arrivati di notte a Antofagasta sul treno longitudinale, iniziando così la prima tournée della candidatura presidenziale di Elías Lafertte. Tutta la nostra tournée era programmata minuziosamente. Ma a Antofagasta avemmo notizie dello sciopero di Humberstone e Mapocho, e proseguimmo il giorno dopo in aereo verso Tarapacá. Arrivammo a Iquique e salimmo immediatamente alla pampa.
Il movimento si era esteso a quasi tutti i luoghi di lavoro. Salivano in tutta fretta per i polverosi sentieri camion blindati, jeeps, carri di trasporto, carri armati. Una guerra. Una guerra strana. È come se il popolo fosse una nazione sottomessa al quale dovevano mostrarle gli strumenti del potere. Appena di agita il sedimento dell’angoscia nel popolo, si producono miracoli di mobilitazione. Le imbarcazioni che fino ad oggi sono cariche di vino fino al massimo si caricano di soldati, di marineria, di mitragliatrici. Una popolazione forestiera vestita di ferro, galoppante e ruggente, alza la polvere delle piste. Gli operai guardano con serietà i piccoli soldati che arrivano.
Qui a Humberstone, da lontano, vidi la bandiera del Cile alzata sulla strada ad aspettarci. Varie centinaia di operai ci circondavano. Un giovane colonnello, che conobbi a Parigi, mi si avvicinò. Non poteva impedirci di parlare ma ci pregava un po’ vago, qualcosa che fino a ora non capisco. L’ordine, ci diceva.
Il governo aveva già chiuso il sindacato. Fummo condotti dagli operai a un avvallamento vicino alla pista. Questo era il Cile. Nei vecchi tempi della persecuzione e terrore, Racabarren parlava agli operai dalla linea ferrata, o dalla strada. Questo era quello che rimaneva del Cile. Questa linea fittizia di sovranità fu incontrata dagli operai e quasi sempre rispettata. Oggi, dopo tanti anni, Lafertte e io torniamo alla strada, parliamo dal Cile.
Adesso ci puntavano le mitragliatrici, e il colonnello, molto serio, si pose al mio fianco, ascoltando militarmente le nostre parole. Poi mi abituai in tutti gli accampamenti a questi giovani ufficiali, attenti e rigidi, arrivati fin lì per un concetto falso di governo, per mettersi di fronte al proprio popolo, con il più serio di tutta la patria, come se volesse separarsi perfino dal più profondo e purificato, dagli scarsi abitanti del sud e del deserto.
Guardai la moltitudine. Palavamo dall’alto. Cadeva il terribile sole verticale del deserto. Predominavano le camice azzurre, i vestiti di tessuto di fibra mista. Un’emozione come un’onda speciale saliva dalle mie radici fino alle schiume della mia anima.
Questi volti indimenticabili degli operai della pampa. Queste facce bruciate da un uniforme fuoco iodato, da dove risplendono le più bianche dentature del Cile. Questi occhi brillanti e oscuri come una luce fissa e pura, come una fiamma nera inappagabile che soltanto si alimenta dell’aria del deserto. Queste mani che allo stringersi, dopo il breve abbraccio, dolce, lento e timido, hanno grattato le mie, dandomi nelle palme il loro contatto di piccole cordigliere.
Da questo momento cominciamo ad indagare le cause dello sciopero. Noi, gli “agitatori professionisti”, cominciammo quel giorno e continuiamo da accampamento in accampamento, cercando la prima origine, domandando di bocca in bocca e davanti a migliaia di uomini le cause del conflitto.
Non è facile sapere il punto esatto in cui si originano i movimenti operai. Sotto di essi c’è una intensa fermentazione di angoscia, un lievito disperato che sta alzando il suo volume, un trascinamento di umiliazioni e dolori e miserie che un giorno portano un uomo e poi a mille, a dire:
- Ora basta, non ne possiamo più.
Questa volta l’origine furono dei fagioli bianchi. Questo grande sciopero, e l’arresto più grande della nostra storia, e il sangue fiammante della Piazza Bulnes, questo cominciò con dei fagioli bianchi. Ma questi fagioli colmarono una coppa amara, e si rovesciarono i patimenti del popolo.
Questi fagioli bianchi erano rotti e duri e difficili da cuocere. Inoltre, hanno cattiva reputazione, cioè che sono i fagioli che danno al disoccupato o li dettero qualche volta. Sono scarsamente nutritivi, e lo sembravano.
Gli abitanti della pampa vogliono il loro fagiolo
bayo, il loro tradizionale e succulento fagiolo bayo, con cui hanno fatto i combattimenti della pampa. L’intendente Brenner ci disse: “Togliere i bayos agli abitanti della pampa è impossibile”. La compagnia sostenne che i suoi spacci non avrebbero continuato a vendere i bayos perché non esistevano sul mercato. Ma l’intendente ci rivelò che la compagnia aveva comprato una partita a buon mercato di circa duecento tonnellate di fagioli bianchi e “doveva” venderli agli operai. Ci rivelò l’intendente che aveva offerto alla compagnia di distribuirli nel commercio al minuto di Iquique perché facilmente si sarebbero eliminati, ma la compagnia non accettò. Se li “dovevano” mangiare gli operai.
Gli operai tiravano i piatti nelle loro case, litigavano con le loro mogli: “non vogliamo fagioli bianchi”. Le mogli erano disperate e ritornavano disperate dallo spaccio. Non c’erano altri fagioli.
E un giorno smisero di cucinare. Le mogli di Humberstone e Mapocho, migliaia di mogli cessarono questo giorno di cucinare fagioli bianchi. Quel giorno quando tornarono gli operai non avevano da mangiare.
Così cominciò lo sciopero.

Lo sciopero proviene dalle imprese, arriva agli spacci, passa agli stomaci, arriva infine alle braccia. Cominciamo ad interrogare lì ed in altre fabbriche della stessa Compagnia Tarapacá-Antofagasta. Mai adempì questa ai suoi compromessi di alimentazione. Gli articoli pertinenti rimasero stabiliti nel convegno, ma non arrivarono alla gente. Un giorno mancava il tè, il giorno seguente il riso, il giorno seguente la carne, al giorno seguente le tagliatelle. I razionamenti sono miserabili.
Qui parlo delle tagliatelle. Si sono comprate già razionate nella Officina Alianza. Sono 15 grammi a persona, ogni due giorni. Gli abitanti della pampa mi dicono nel darmi il pacchetto di tagliatelle: “Una talpa ha bisogno di più”.
Dall’altra parte, la compagnia sosteneva le sue richiesta contro i sindacati nella Corte di Giustizia. Da una parte provocava un nuovo sciopero e dall’altra faceva pendere una spada sopra un movimento precedente rendendo inutili tutte le conquiste raggiunte.
In fondo il problema dei salari è la base mobile di tutta la tranquillità. In quei giorni un giornale di Iquique conteneva informazioni ufficiali della compagnia con le tabelle dei salari attuali. Lafertte li lesse in Humberstone agli operai. Fu per me una prova decisiva.
A ciascun tipo di mestiere con i soldi attribuiti dalla compagnia esplodevano grandi risate dalle migliaia di operai. Non erano, tuttavia, soldi alti quelli che alterava la compagnia. Erano da 35 a 45 pesos al giorno. Tuttavia, provocavano una ilarità incontenibile, una risata sana, stentorea, come se si trovassero al cinema in un film comico. I soldi reali sono nella maggioranza dei casi di 17 pesos e 50 centesimi. Quando leggemmo l’editoriale del medesimo giornale in cui tra le altre perdite degli scioperanti il giornale diceva che stavano perdendo la loro partecipazione ai guadagni, la ilarità fu ancora più grande. Mai è stata data agli operai questa partecipazione legale. Come tante cose, con avvocati e con sotterfugi la compagnia lo ha rubato impunemente, estraendolo dal portafoglio dei suoi lavoratori.

A Santa Rosa de Huara, i carrillanos, operai che lavorano sui carri di nitrato, chiesero una anno fa un aumento di salario. Un vecchio operaio rugoso e severo si alzò tra i suoi compagni per raccontarci il fatto. Stettero un anno a richiedere. Con la paralisi di Humberstone e Mapocho, tornarono a insistere. Li congedarono: “Andatevene al diavolo”, gli disse il superiore, e rimasero disoccupati. Allora fermarono tutto il resto. Lo dissero a tutti.
Quanto guadagnano? – gli domandai -. Guadagnavano 12, 13 e 15 pesos al giorno, sposati e con famiglia, in questo duro lavoro, i
carrillanos. Gente invecchiata nella pampa, questi spargitori dell’arido suolo, questi che hanno conquistato il nord a colpi di sudore, guadagnano 12 pesos al giorno. Questo è il cancro della patria.
Domandai lì in questa fabbrica alle mogli le loro spese alimentari, e al pomeriggio tornarono con differenti liste. Vado a sceglierne una, la più semplice, di due persone, marito e moglie, di quello che serve giornalmente a questa coppia in questo posto di indescrivibile abbandono e miseria che è la Officina Santa Rosa de Huara.

Carne Pesos 2,50
Pane “ 3,60
Patata “ 1,40
Te “ 1,00
Riso “ 0.60
Spaghettini “ 1,00
Strutto “ 1.00
Fagioli “ 1.00
Pesche seccate “ 1.00
Carbone “ 1,60
Olio “ 1,00
Paraffina “ 0,40
Candele “ 0,80
Sale “ 0,20
Cumino,peperone,color “ 0,40
Legna “ 0,40
Acqua “ 0,20
Fiammiferi “ 0,20
Burro " 1.00
Granturco bollito e salato “ 0.60
Semola “ 0,40

Totale Pesos 20,30

Mancano vino, sigarette, legumi, zucchero, vestiti, scarpe, medicine, giocattoli, giornali, cinema, libri, eccetera.
Sono 20,30 per gente che guadagna fino a 12 pesos al giorno. E avete udito che questa lista non contiene zucchero né legumi, non c’è vino, sigarette, vestiti, scarpe, medicine, giocattoli, giornali, cinema, libri. In generale, a queste cose non hanno diritto gli uomini e le donne né i figli di Tarapacá. Né a carne né a latte. Non parliamo di prosciutto o pesce, che non lo hanno assaggiato mai.
A volte potei vedere appesi alle pareti in qualche abitazione della pampa ritratti scoloriti dei vecchi abitatori della pampa, di zappatori o lavoratori a giornata, caricatori o
carrilanos. Erano stati ritratti in riposo sopra le loro pale, i torsi vigorosi nudi, di impressionante garbo e statura. Questi sono i giganti che caricavano i sacchi da 120 chili, sacchi che dopo in Europa si rifiutarono di scaricare. Io domandavo agli uomini lì riuniti, e alle loro mogli: Chi farà adesso questo lavoro?
Dove sono quei poderosi titani?
Riposano sotto gli arenili della pampa nei piccoli cimiteri di croci martoriate dall’aspro vento.
Uno sguardo alla moltitudine basta per vedere il dramma. La statura degli abitanti della pampa si è andata riducendo artificialmente per l’alimentazione miserabile. È come una guerra dichiarata contro la nostra razza. È una impresa di distruzione condotta in forma totale sulla parte più preziosa della popolazione del Cile. I grandi campi di concentramento che si chiamano stabilimento del salnitro stanno riducendo la forza dei sopravvissuti. Io gli dissi: quando difendete i vostri fagioli
bayos, state difendendo, senza saperlo, il centimetro di statura che vogliono rubare ai vostri figli.

Più in là, a Pan de Azúcar, lo sciopero si alimentava con immenso eroismo. Ancora mi fa tremare il cuore il ricordo della miseria di questo accampamento. La stessa strada è difficile e intransitabile, come per mostrarci dal primo momento che si è voluto isolare dal mondo e dalla civiltà i nostri compatrioti, compatrioti di quel buco miserabile. Abitazioni di calamina riscaldata dal sole e che conservano il calore del forno durante la notte, qui sono stati aggiunte con case costruite con pezzi di corteccia o mattoni crudi salnitrali senza dipingere né pulire. Come in tutti gli accampamenti non c’è pavimento di tavola. I signori del salnitro mai pensarono che le famiglie degli abitanti della pampa avevano bisogno come tutti gli esseri civilizzati di un pavimento isolante nelle loro abitazioni. Qui nel Pan de Azúcar l’accampamento fu costruito sopra delle discariche. Mentre entro in una delle case, una moglie mi va raccontando come all’improvviso escono dal suolo della sua abitazione, topi morti, suole di scarpe, la spazzatura che affiora alla superficie. Entro nella sua casa e essa mi mostra i giacigli, alcuni sopra il suolo, gli altri mobili, una tavola fatta di cassette, una sola sedia per tutta la casa. Non fecero la cucina a queste abitazioni. A livello del suolo un focolare fatto di calamina e fascette metalliche fa da cucina. “Il cibo esce nero”, mi dice.
Guardo le camerette degli scapoli, senza finestre, con enormi macchie di ossido sopra la calamina, lunghe file oscure e puzzolenti. Non c’è un
water né un bagno nell’accampamento e come manca l’acqua, che a volte devono comprare, gli eczemi e le ulcere che producono gli acidi della elaborazione del salnitro sono un problema in più nelle loro vite angosciate.
Entriamo nell’altro accampamento. Vi invito ad entrare con me nell’accampamento di San José. Un momento dopo che siamo arrivati, l’Inno Nazionale si alza da tutti i petti. Vi invito di nuovo a vedere questi volti, questo generoso sguardo bruno della pampa. Ascoltiamo le loro tribolazioni che Lafertte tanto conosce. Egli è stato come loro operaio di tutte le fabbriche e non c’è un solo punto del desertico nord che non lo abbia visto lavorare in ogni mestiere. Lo circondano, lo riempiono della loro venerazione carica di infinita fiducia. Che sogno per tutti loro, che sogno per tutti i bambini della pampa, che sogno per questi cuori maltrattati, per questa folla tanto lungamente martirizzata.
Le bandiere sembrano ricevere dal sole ardente un azzurro più splendido, un rosso più vivente, una stella più pura. Ho udito mille volte Lafertte nella pampa. Non mi ha stancato mai. Dozzine di bambini lo aspettano, non possono portargli fiori perché non ne hanno, un bambino gli offre un biglietto in cui vi sono alcuni fiori dipinti.
Lafertte si ingrandisce nella pampa. È già il presidente della pampa. Parla lungamente agli abitanti e nelle sue comunicazioni ha qualcosa di tanto diretto e emozionante che la vostra attenzione rimarrebbe spaventata come quella di quei semplici figli della sabbia. Gli parla di tutti i problemi politici, quindi crede che non c’è tema che non possano capire gli operai. Questa volta in tutte le fabbriche gli dirà come si conduce uno sciopero da dentro. Gli mostrerà lo scheletro morale del movimento. Unità, solidarietà, sobrietà, le ripeterà mille volte. L’alcool è un alleato dei vostri nemici. In questi giorni dovete sollevarvi sopra la vostra situazione, essere più sobri, più preziosi, dovete imparare quello che prima non avete imparato. Quello che sa leggere insegni a quello che non sa leggere. Che questi giorni di sciopero siano così incancellabili nella vostra memoria, perché domani potrete dire: Imparai a leggere nello sciopero. E questo, chi potrà toglierlo a voi? Lo ho udito parlar loro anche della Orchestra Sinfonica, di Camilo Mori, della mia poesia. Lo ho ascoltato spiegargli, in maniera diretta e grafica, frammenti del miei versi, e mille direttive morali perché sia più fraterna la relazione tra gli uomini, e più corrette e più dolci le relazioni coniugali. Lo ho udito parlare, come nessuno talvolta, dei problemi del lavoro e dell’economia, del nostro senso nazionale, della nostra intimità cilena. Quando Lafertte arriva nella pampa, spariscono i tanghi e le rumbe perché tutti conoscono la sua esigenza: prima di tutto, la
cueca.
Adesso entriamo di sorpresa in una casa dell’accampamento. Busso. È la casa di donna Emelina Rojas. Non mi conosce ma mi riceve sorridente. Il suo vestito è fatto di cento pezzetti di stoffa differente, come certe sovraccoperte che ricordo aver visto nella mia infanzia. Anche se questo vestito è vecchio e spezzettato e piccole pezze di tessuto rotto lo attaccano da tutte le parti, penso che è un’opera maestra di economia e di pazienza. Penso: “Perché possano vestirsi i bambini”.
Sono due stanze con pavimento di terra. In una stanno i letti puliti, con quella pulizia sorprendente che si incontra nelle abitazioni della pampa. Lì dormono sette persone. L’altra serve da sala da pranzo, da cucina e da pollaio. Vado a contare quattro galline, due conigli, due cavie (che anche si mangiano). Inoltre, un cagnolino di lana di indefinito colore. Sulle pareti l’immancabile ritratto di Balmaceda vicino a quello di Recabarren e l’inaudita oleografia tedesca: eleganti cacciatori che offrono ad una dama sulla porta di un castello un cervo appena cacciato nei loro possedimenti. Domando alla signora Emelina dei suoi problemi. È una donna rassegnata e dolce. Suo fratello e suo figlio sostengono la casa. Che età ha suo figlio, le domando? Diciassette anni ed è un figlio molto buono. Non beve. Guadagnano fra tutti e due 40 pesos. Quanto spende signora, al giorno? Da 30 a 40 pesos. A volte più di 40.
Sempre alla mercé di una angosciante spada queste teste della pampa! Un incidente, una infermità, la mancanza del fratello o del figlio, un matrimonio, una morte o una nuova vita, scompiglieranno tutte queste vite, le vite di queste donne, di queste galline e di queste cavie. I 40 pesos non possono allungarsi mai. Al vestito di donna Emelina non spettano più pezzetti di tela. Il cuore valoroso di donna Emelina deve anche essere fatto di molti frammenti cuciti con un ago molto duro. Un poco più di combattimento e si romperanno le sue ultime sfilacciature. Ricordo i piccoli cimiteri aridi, le croci pure sfilacciate.
Si riempirebbero pagine e pagine, potremmo riferire fino a domani la catena innumerevole di questi innumerevoli patimenti. Per questo c’è tale determinazione in questo sciopero. Dopo 20 giorni ritorno alla pampa, vedo il medesimo sforzo, la medesima fede per resistere. I fagioli bianchi sono stati la goccia finale. La lista di ingiustizie, di persecuzioni, di freddezza nella distruzione di un popolo riempirebbe le pagine di un lungo libro, straordinariamente amaro.

Quante volte, arrivando di notte dalle profondità oscure della pampa con lo spirito depresso e dolorante, pensai che esisteva una volontà diabolica nel perpetuare questo stato di angoscia irrespirabile. Ricordai i campi di concentramento e di lavoro forzato dei nazisti nei paesi invasi. La Compagnia Tarapacá-Antofagasta tra gli altri crimini ha quello di uccidere l’allegria del lavoro. Ricordo i motti dei nazisti, specialmente quello che stava dipinto con grandi lettere sopra l’entrata del campo di Auschwitz: “La libertà per il lavoro”. Fatidica bugia per quei condannati. E si tratta in realtà di assassinio dell’allegria per il lavoro.
A Mapocho ci diceva una compagna: “La compagnia ci fa sporgere querela contro noi stessi. Nello spaccio è tanto scarsa l’esistenza delle provviste che le donne devono lottare lì, fino all’insulto e a volte fino ad arrivare alle mani per ottenere insignificanti razioni”. E ricordo un libro della scrittrice polacca Pelagia Lewinska, che ci racconta come nel campo di sterminio di Auschwitz i tedeschi usavano non soltanto il gas, la forca, la fucilazione. Usavano anche la lotta intestina, la denuncia per le più piccole cose della vita dei condannati, per abbassare, schiacciare e annientare il loro morale. E, precisamente, Pelagia Lewinska ci racconta in questo libro terribile che quando i condannati furono a conoscenza di questa arma iniqua, scoprirono che il conservare la fratellanza e la solidarietà e la decenza, il non abbandonarsi alla disperazione, era anche un’arma poderosa contro il nemico. E questo è stato il grande sciopero del nord: una prova di meravigliosa fratellanza e solidarietà nella disgrazia, e se di qualcosa devono sentirci orgogliosi i cileni è dell’importanza e della grandezza dei nostri compatrioti, i lavoratori del salnitro, che nella lotta di distruzione fisica e circondati dalla desolazione e dall’isolamento delle immense pampas desertiche difendono con incorruttibile bravura l’unico dei loro tesori: i privilegi umani, la dignità dell’uomo.
Scrissi in quei giorni questo sonetto, piccola medaglia che lasciai penzolante dal petto degli abitanti della pampa:

Salnitro

Salnitro, farina della luna piena,
cereale della pampa calcinata,
spuma delle aspre sabbie,
gelsomino di fiori sotterrati.

Polvere di stella sprofondata nella terra oscura,
neve di solitudini bruciate,
coltello di innevata impugnatura,
rosa bianca di sangue spruzzato.

Vicino alla tua nivea luce di stalattite
duello, vento e dolore l’uomo abita:
brandelli e solitudine sono la sua medaglia.

Fratelli delle terre desolate:
qui possedete come un mucchio di spade
il mio cuore disposto alla battaglia.

Una delle ultime notti scendiamo a Iquique con Rodomiro Tomic da Humberstone. Siamo andati a portare con alcuni dirigenti sindacali i punti di accordo finale del conflitto. I punti sopra i quali terminò questo grande sciopero furono fragili: la compagnia non incasserebbe il denaro delle richieste antisindacali, studierebbe il compimento degli accordi sullo spaccio, studierebbe alcuni miglioramenti di salario. La compagnia non abbandonerà i suoi fagioli bianchi. Li manterrebbe alternati alcuni giorni della settimana.
Un mare agitato ci aspettava all’arrivo a Humberstone. Gli operai non volevano tornare al lavoro. I dirigenti dettero la loro parola, anche Tomic ed io cercando la fine del conflitto. Ma ancora dopo quasi un mese di sciopero la gente non voleva né credeva a niente. “Siamo stati ingannati tante volte”. “Tutto continuerà lo stesso”, ci dicevano. Dieci ore dopo, dopo lungo dibattito terminò il conflitto di Humberstone. Ma lì come in tutta la pampa continua il clamore, il clamore di mare di quella notte: “Non crediamo, siamo stati tante volte ingannati”.
E quella notte Tomic mi diceva: “Che cieco è il capitalismo che danneggia e uccide la stessa struttura che gli da la vita”. E è questa una grande verità per il nord. Più che niente è questa politica turpe, cieca e egoista delle compagnie imperialiste che stanno minando la fonte stessa della loro forza: il lavoro umano. In quei giorni di producevano in Nordamerica gli immensi scioperi che interessarono più di un milione e mezzo di lavoratori organizzati. Lì chiedevano il 25 per cento sui salari più bassi, di un dollaro l’ora. Nello stesso istante degli operai del salnitro, i lavoratori nordamericani che guadagnavano in un’ora il doppio di quello che i nostri operai guadagnano in un giorno, chiedono di più, per vivere in luoghi privilegiati per l’apporto della cultura e della bellezza conquistata con la civiltà, a Chigago, a Detroit, a Nuova York o Filadelfia. E qui in mezzo all’isolamento mortale, senza un vero piacere collettivo, senza alberi e senza città, senza uccelli e senza musica, frustati dal vento sabbioso del deserto, quando la nostra gente, carne e sangue della patria, chiede un centesimo di aumento, un mutamento insignificante di alimentazione, si rovescia la collera dell’Olimpo, salgono i carri armati, i giornali parlano degli agitatori professionisti, si chiudono i sindacati, e quello che può conseguirsi per salvare il meglio della razza, si perde e tutto l’impulso vitale è servito per raccogliere un tozzo di pane.
In nessun luogo dei molti che ho percorso nella mia esistenza, ho visto una stampa tanto avvelenata e maligna come i tre giornali che impudicamente difendono le compagnie del salnitro nel nord. Sono questi
El Tarapacá, di Iquique, La Prensa, di Tocopilla e El Mercurio, di Antofagasta. Ogni giorno si pubblica in ciascuno di essi un editoriale dello stessa dimensione, della stessa dimensione materiale e morale, macchiato dallo stesso denaro sudicio. Non soltanto si falsifica e deforma quanto concerne il lavoro operaio, ma anche si insulta e calunnia con una costanza infame.
Da quei giornali, da queste viscose paludi da cui la calunnia fermenta al calore del forno, si estende per tutto il Cile la menzogna. E anche la gente onesta riceve l’eco di una propaganda traditrice sullo stato vero, le condizioni del lavoro e salari del nord. A Chuquicamata, la poderosa e pulita, la spaventosa industria, che nel suo potere tiene una bella città e le migliori condizioni, i salari più alti per gli operai specializzati delle macchine, sono di 55 pesos al giorno. Il valore medio è molto più basso. Ricordo che a María Elena, una delle scarse fabbriche di superiore concetto di vita e condizioni generali, domandai ad una delle campionesse del basket nazionale, della prima equipe del Cile, quanto guadagnava al giorno. Mi sorprese: “Diciassette pesos al giorno”. Non soltanto sono campionesse, sono eroine e sopravviventi, i suoi muscoli e la sua vitalità hanno innumerevoli forze che si acuirono fino a sopravvivere.
A María Elena, nel nostro giro, quando portai un regalo di cento libri al sindacato, mi chiesero versi, poemi. Pure nei luoghi più abbandonati gli abitanti della pampa avevano udito il mio nome di poeta, e non volevano rinunciare alla parte che essi sanno gli appartiene della mia poesia. E nell’alto di Chuquicamata come nei più piccoli accampamenti ascoltavano con religioso silenzio i miei versi. Avrei desiderato che la mia poesia fosse stata più pura, più pura dell’acqua delle alte montagne: mi sembrava che essa scendesse dai miei più profondi versanti come una chiarezza della quale essi erano assetati.
Da Mejillones, caduto in letargo e dimenticato nel centro della sua splendida baia, salimmo verso Calama. All’arrivo a Calama, le alte luci di Pedro de Valdivia, sospese nell’alto dell’ombra, e arriva ancora la visione di Chuquicamata illuminata e notturna, elevata come una corona di diamanti nell’altissima atmosfera. Lì parliamo e proclamiamo Lafertte davanti a circa diecimila operai, riuniti nel magnifico recinto sportivo, poiché la folla non stava in nessuno dei teatri. Bambini e donne ascoltarono da noi lo sviluppo dei successi di Tarapacá, la storia del massacro a Santiago, e le notizie del mondo intero. Ascoltavano con avidità quanto succede nel pianeta, in Jugoslavia e in Francia, in Cina come in Venezuela.

Lasciando dietro l’alta collina di ciottoli di Chuquicamata, dietro la quale il fuoco perenne dei forni dà alla cittadina del rame ancora più fortemente questa apparenza di immenso rito, di piramide verde, di anfiteatro degli dei, scendiamo e nella strada, di notte, arriviamo a un luogo di entusiasmo indimenticabile. A un accampamento dei più dimenticati e poveri, l’accampamento di La Paloma.
Da lontano dalla strada vediamo luci accese. Erano fiaccole, fiaccole maldestramente fatte, e un pugno di gente, un pugno di esseri abbronzati della pampa, anche goffamente vestiti, malamente abbigliati, ma anche luminosi come le loro povere e le dolci fiaccole.
C’era tutta la gente dell’accampamento. Erano poche centinaia. Uomini e donne, e soprattutto, per la sua presenza abbondante e preziosa, bambini, molti bambini. Erano bambini miracolosi della pampa, i bambini più interessanti del mondo intero, con i loro occhi scintillanti di fuoco nero, con i loro piccoli visi che si trasformeranno poco a poco con il lavoro in maschere indurite.
Essi cominciarono a cantare. È una canzone che Lafertte ed io amiamo come nessuna, una canzone patetica e solenne, una canzone triste di angoscia e ribellione. È la
Canción de la Pampa, di Francisco Pezoa. Canta nelle sue dolorose strofe il massacro di Iquique. Per noi significava, udita in questo luogo e in questo momento, con il sangue recentemente versato della Piazza Bulnes, un tono più amaro, più terribile e doloroso.

Anno dopo anno, per le saline
del desolato Tamarugal
lenti attraversando vanno per migliaia
i tristi paria della capitale.

Cantando continuiamo circondati dai bambini e dalle fiaccole fino a fermarci nell’unico vicolo dell’accampamento. Inquadrati fra le abitazioni miserrime il gruppo si fece intimo e unanime.
Allora, quando ci elevammo sopra un piccolo palco per parlare, in piena luna piena, in una notte azzurra come ne ho viste molto poche, rauca e ardente, solenne e grave, si alzò il coro del nostro inno nazionale. Mai lo ho udito più bello. La notte azzurra ara infinitamente vasta e planetaria, come una volta fissa illuminata. La luna stessa sembrava essersi fermata sopra il povero accampamento.
E in quel silenzio centinaia di voci aspre e sicure, voci di petti tanto colpiti come i metalli più nobili, voci di donne della pampa, voci come il vento indomabile, voci pure uscite da cuori puri, cantavano nella notte celeste:

Puro Cile, è il tuo cielo azzurrato,
anche pure brezze ti percorrono,
e il tuo campo di fiori ricamato
è la copia felice dell’Eden.

Avrei voluto piangere, piangere urlando, piangere per anni interi.
In quel punto abbandonato della terra, tra quelle abitazioni desolate, circondati dal deserto la cui unica voce è lo scricchiolio tetro delle saline che screpola l’ombra o il sole, lontani da tutto quello che è umano, lontani da tutte le praterie fiorite, lì, con voce profonda.

e il tuo campo di fiori ricamato…

lì, circondati dalla immensa notte solitaria che per altri esseri della città è un fiume oscuro di piacere, per altri uomini dei campi, un movimento del vento tra gli alberi e le stelle, lì

è la copia felice dell’Eden…

lì, dove la sabbia si tinse tante volte di sangue, e le rivalità si riempirono per tutta la pampa di cadaveri, quando tante voci chiesero tanta poca cosa “un altro pezzo soltanto dei pane” come nei versi di Pezoa, lì dove il sole di fuoco brucia l’estensione senza acqua e il lavoro è tanto violento e la vita tanto miserabile che la nostra razza si consuma, lì

maestosa è la bianca montagna
che ti dette per baluardo il Signore.

Pensai una volta di più che dovevo difenderli. Difendere. difendere… Che strana parola! Difendere l’uomo, il popolo, il numero della razza, la cellula della patria, difenderlo da altri uomini. In altre terre c’è da difenderlo dalla guerra, dalle bestie feroci. Qui dobbiamo difenderlo dalla miseria mortale, dalla fame, dall’infermità e dall’abbandono. Dobbiamo difenderlo da quelli che lo sfruttano e lo attaccano, da quelli che quando non poterono trasformarlo in servo, pieno di collera e di odio, cercano complici che tradiscano e dividano. I lavoratori del salnitro sapevano quella notte per chi cantavano e chi era con loro. E ricorderò tutta la vita quella notte stellare, nella desolazione del deserto selvaggio, quelle voci che chiamarono la mia per cantare per sempre vicino a loro

maestosa è la bianca montagna…

perché la loro lotta è grandiosa come la montagna che mai hanno visto né mai vedranno

questo campo di fiori ricamato…

perché anche se mai hanno guardato le verdi campagne né potranno vederle mai, poiché anche alla loro morte in quei distrutti cimiteri della pampa li accompagneranno delle povere corone di carta dipinta, perché essi guardano come eredità sacra la speranza che Recabarren rovesciò con le sue mani di maestoso proletario, credo che essi siano il campo e i fiori, il ricamo e la montagna, l’acqua e la terra. Essi sono la patria.


Testo letto agli studenti dell'Università
del Cile, Santiago, maggio o giugno
1946. Raccolto in
Viaggi, 1955


VII
TEMPO DI BATTAGLIE. TEMPO DI TRADIMENTO
(1946-1947)

Le piccole sorelle dimenticate

Le piccole repubbliche sorelle dell'America Centrale continuano, solitariamente, una lotta incredibilmente dura per la sua liberazione. Quelli che hanno raggiunto, come l'eroico Guate- mala, il trionfo dopo lotte esemplari, si videro nell'istante decisivo isolate ed incomprese dalle grandi repubbliche, ed ancora in questa ora non sono appoggiate come dovessero essere egli nell'introduzione ed esecuzione dei suoi nuovi codici democratici.
Il caso della Repubblica Dominicana, come quello del Nicaragua, continua nella mappa mostrando la sua lampada spenta nel continente. Le comitive presidenziali passano tra i dominicani oltraggiati, sono ricevute e festeggiate per il tiranno Trujillo, si insigniscono mutuamente rappresentanti di regimi incompatibili, e dopo il gran silenzio che conosce già tutta la l'America Centrale, cade sulla piccola repubblica soggiogata, coprendo di ombra il calvario terrificante.
Queste pagine sono un'accusa terribile. Mentre i fatti qui denunciati stanno succedendo in una nazione fraterna, i nostri delegati alle conferenze internazionali frequentano nelle deliberazioni i delegati di questa sopravvivenza di una America tenebrosa. Di questi piccoli paesi circondati dalla tirannia vanno e vengono confabulazioni, intrighi del labirinto dittatoriale. Un consigliere a stipendio di Trujillo è, contemporaneamente, funzionario del Servizio Esterno del Cile. A chi dà consigli? Da che fonti vengono questi?
Perciò tutto si complica ed aggroviglia, e la bugia ufficiale è protetta da imperialisti e falsi democratici, mentre nella Repubblica Dominicana si eterna il crimine mostruoso.
Che queste pagine del giovane e feroce lottatore Franco Ornes arrivino alle tronfie coscienze di quelli che governano le relazioni esterne dei nostri paesi fratelli. Tutti o quasi tutti proteggono fatti come la sinistra combriccola nazi argentina, la servitù della Bolivia consegnata ad alcuni audaci avventurieri fascisti, e quando si parla di attaccare le grotte della tirannia, tutto diventa ipocrita sostentamento di principi che non vengono a racconto, tutto diventa pratica e scuse, ed il viso completo della libertà americana continua attraversato per queste sinistre cicatrici. Nessuno interviene. Gli abbracci continuano, e le onorificenze del letamaio si ostentano nel banchetto delle nazioni libere.
Nel frattempo i morti, quelli martirizzati, quegli imprigionati, gli esiliati della Repubblica Dominicana fanno domande mortali a tutta la nostra America, e queste domande devono, qualche volta, avere risposte.

Prologo a Pericles Franco Ornes, La tragedia dominicana.
Análisis de la tiranía de Trujillo, Santiago, edizione della
Federación de Estudiantes de Chile, gennaio 1946


L'ombrello marcio di Monaco, di nuovo sui martirii della Spagna

Quelli che si danno il lavoro giornaliero di leggere penosamente la scalcinata e errata pagina editoriale di
El Mercurio, il quotidiano peggio scritto dell'America del Sud, poiché è scritto dai suoi diretti giganti, robusti mercenari della penna, avranno trovato oggi uno di quegli articoli che protesta per la realizzazione di questo atto, e richiama l'attenzione alle autorità chiedendo al cielo affinché i finanzieri chiudano le porte di questo salone. Per gli alpinisti di El Mercurio, le università servono solo da disturbo. Per che motivo servono, se il Manuale del perfetto sciatore, La zia Pepa, La mia terra nativa, Asparago, non hanno bisogno della conoscenza, non necessitano per prodursisi del crocevia dei quattro venti dello spirito, bensì di alcuni male pagati copisti e traduttori e si incaricherà già il quotidiano di chiedere più tardi un monumento affinché si perpetui all'autore che tanta gomma avesse speso attaccando pensieri altrui.
Ha ragione
El Mercurio nel chiedere che si chiuda questa sala e, se gli fosse possibile, questa università, in cui tante volte si sentirono le voci che hanno sostenuto fuori dalle sfere ufficiali l'immortale dignità della nostra patria. Perché quando un ex proprietario di El Mercurio nel Consiglio della Lega delle Nazioni dava la peggiore pugnalata, la pugnalata fascista, alla dolorosa schiena della Repubblica spagnola, eliminandola a colpi di prevaricazione e di minaccia e dando quindi un colpo mortale alla stessa Lega delle Nazioni, qui in questo recinto non mancarono uomini di diritto e di cuore che denunciassero questo oltraggio e che lasciassero scritta nell'aria, e nel più incancellabile del ricordo, quello che potè essere la politica internazionale del Cile, senza questi tradimenti e l'adesione fedele, risoluta, ostinata, incorruttibile e commovente alla causa del paese spagnolo di tutta la nostra intelligenza e di tutto il nostro paese.
Da allora si stabilirono le strade che in questo giorno di oggi si trovarono anche in situazione conflittuale: da un lato gli scribacchini fascisti di
El Mercurio e d'altra parte e per altri sentieri, diametralmente differenti, lo spirito repubblicano e liberatore di questa università, spirito che è stato difeso da molti giovani, da molti vecchi che attraverso una non interrotta catena di etica civile ci hanno trasmesso l'indistruttibile cattedra e la tradizione spirituale necessarie affinché l'università continui aperta alla vita del mondo, all'aria pura della libertà e non incassata, polverosa e mortuaria come lo volessero questi esautorati e screditati mercanti della stampa fascista.
Uno di essi, uscendo dalla stessa boscaglia, pretese, alcune domeniche fa, tirare alcuni grandi macchie del suo inchiostro mercenario alla radiante figura del gran poeta spagnolo Rafael Alberti, che poco tempo fa sentivamo in questa stessa sala ed il cui luminosa presenza non si cancellerà facilmente dal ricordo cileno. In questa aggressione di inchiostro stupido troviamo quella codarda ed indelebile marca del fascismo di sagrestia. Si pretese di coinvolgere Alberti e fino ad accusarlo dell'assassinio di Federico García Lorca. Quelli che aizzano la maledetta muta di lupi spagnoli affinché il sangue continui macchiando ed allagando le terre della Spagna, quelli che non ebbero mai una parola di condanna davanti al più mostruoso dei crimini franchisti, quelli che fecero continuamente da propagandisti crudeli delle malvage orde di Franco, quelli che tradirono coscienziosamente il loro dovere e la loro carta di intellettuali allineandosi con gli assassini, osano oggi accusare quelli che per dignità, e per coscienza, e per dovere storico e morale, persero tutto, famiglia, paese e patria. Ma questi ladri che pretendono di correre dietro il giudice, non inganneranno nessuno. Cadere su essi il nostro più attivo, pesante e giustiziere disprezzo!

Stiamo riuniti qui per evitare alla nostra maniera e con le nostre forze che un nuovo crimine ritorni a spruzzare il viso insanguinato della Spagna.
Che doloroso destino quello degli spagnoli di questa epoca! Giustamente nello stesso momento in cui a Norimberga, a pochi passi delle forche che li aspettano, sono investigati e scrutinati per tutte le tenebrose rughe dell'anima i boia nazisti che riuscirono quasi a strangolare la libertà del mondo, in Spagna gli stessi boia osano sedersi per giudicare ed assassinare i combattenti della libertà restaurata da tutte le parti. Gli stessi boia possono lì, nelle abbandonate e tradite terre della Spagna, vendicare in Álvarez e Zapiraín, l'umiliante sconfitta che soffrirono quando l'Esercito Rosso inchiodò le bandiere che continuano a ondeggiare a Berlino. Possono lì i boia grazie al rinascere della vigliaccheria e della pacificazione spegnere i battiti di altri due cuori guerriglieri del cui movimento sta in questo istante prendedo la coscienza di tutti quelli che lottarono in qualunque terreno per assicurare il trionfo dei diritti umani calpestati per il fascismo.
Che angosciato destino quello di questi spagnoli!
Furono i primi a mostrare ad un mondo addormentato la tempesta che veniva, tirarono fuori dai campi il fucile arrugginito, dalle miniere la dinamite che santificarono e dalle strade le pietre ed i pali, e così continuarono combattendo. Solo una mano attraversò il gelato cuore dell'Europa per aiutarli nel loro combattimento, e questa fu la stessa mano che oggi batte il tavolo delle Nazioni Unite per chiedere attenzione verso la stessa lotta, per chiedere lo stesso decoro perso per le nazioni che non seppero o non vollero aiutare in tempo. Questa mano dell'Unione Sovietica fu combattuta allora e questo aiuto fu mozzato e così si bollarono i martirii della Spagna. Ed oggi che chiediamo per questi due giovani eroi della libertà mondiale, Álvarez e Zapiraín, le due nazioni imperialista, che credono che la pace si è guadagnata per essi, per certe avidità, per certi sfruttamenti, hanno respinto la mozione della Polonia appoggiata dall'Unione Sovietica che avrebbe finito con questa farsa sanguinante. Invece, si è nominato un comitato investigatore. Lo spettro di Monaco si è alzato, l'abbiamo sentito coi suoi passi trascinati attraversare il vestibolo della casa in cui si sta costruendo la nuova pace del mondo, abbiamo sentito il suo odore di cadavere seppellito, ma ha avanzato lasciando sul tavolo il suo marcio ombrello. Un comitato investigatore dopo un milione di spagnoli morti, un comitato investigatore dopo aver cacciato Franco per il mondo mezzo milione di esiliati, un comitato investigatore quando alcune settimane fa fucilarono nove guerriglieri, un comitato investigatore quando le prigioni sono piene di gente degna che non uscirà da esse se non verso il cimitero o verso la libertà.
Così, dunque, in brutti momenti di dimenticanza in cui sembrano un'altra volta arenarsi le sorgenti di tanta speranza umana che si andò accumulando, in un'altra ora indecisa torna ad essere la Spagna la pietra di rintocco della libertà. Verso lei guardiamo dandole dal nostro più profondo essere il rispetto verso i suoi eroi, la giustizia che gli hanno strappato, il ricordo indistruttibile che la sua lotta inchiodò nelle nostre spaziose Americhe, la sicurezza che in un'ora non lontana sarà alzata da tutte le nostre braccia, le sarà lavato il sangue del martirio e con la sua orgogliosa testa eretta tra tutte le nazioni, ripartirà la giustizia e la punizione. Ed a questi due uomini, frutti fortificati e fecondi del paese spagnolo, a voi, Álvarez e Zapiraín, a voi, fratelli, fratelli eroici, benché non ascoltiate il nostro grido, da questa casa del pensiero del Cile, da questa casa generosa dell'intelligenza americana, gridiamo attraverso l'oceano:
"Continuate a guardare faccia a faccia i vostri boia, perché incarnate il grande e l’immortale del vostro paese che se non può salvarvi oggi vi vendicherà domani."

El Siglo, Santiago, 11.5.1946.


Silva nell'ombra

Il secolo diciannovesimo americano fu più lungo di tutti i secoli, ed isolato, ed acerbo, e piovoso. Le pampas e le cordigliere, le savane ed i fiumi, gli uomini ed i campanili trascorsero avvolti in distanza, solitudine e nebbia.
Questa nebbia grande e transustanziale galoppa e rimane sulle nostre altezze, come un manto violetto, qui e là diretto dalle raffiche degli uragani più violenti, combattuto contro le pareti glaciali della cordigliera innevata, e respinto o accettato a volte dal cuore degli uomini solitari.
Per le strade ci sono ancora vampate ed odore acre di polvere e soldato, ed i capi interrompono il silenzio con le loro cavalcate di puledri guerrieri, ed alla luce della luna mostrano in un lampo le spalline dorate, i pantaloni scarlatti. Nelle profonde case di patii e granai, alcuni uomini cadono sui libri, divorando le pagine alla scarsa luce dei ceri, professando la vita in forma intellettuale accanita, insegnando e combattendo come Sarmiento o Bilbao, o dandosi alla poesia in forma profonda e totale come Pedro Antonio González o José Asunción Silva.
Satani, angeli oscuri, sacerdoti martirizzati da più spettrale e perduto, sale da pranzo di stelle, pescatori della notte ombrosa. Le sue sagome di spettro funebremente vestite risaltano nella bianchiccia luce del vapore boreale, e così cominciai a vedere José Asunción Silva, elegantemente tetro, con la sua lira purpurea ed i suoi soavi guanti di cavaliere a lutto. Nell'altro angolo dell'America, alla luce dei lampioni più amari, andava ad attraversare barcollante l'ombra di Pedro Antonio González, minacciato da tutti i terrori, triturato dai pugnali più mortali, spettinato dalla sua sonambolica ubriachezza. Per i saloni incerati di Bogotà, vicino alle più dolcissime signore, vicino all'arpa da mille voci di oro, portava a spasso il doloroso usignolo inguantato, e per gli stagni pestilenziali delle colline di Valparaíso continuava a dare scossoni il nostro tenebroso e misterioso maestro.
Tutte queste solitudini le andava a disperdere in un solo tuono di neve e suono l'alto canto di Rubén Darío.
Ma questa unità totale americana che ci andava a dare Rubén Darío, questo tono forestale e corale, questa unità di rumore e di canto si alzava sui dolori da una America tormentata, sui crepuscoli di una America oscura.
Herrera y Reissig nei cui sonetti brilla una magnanima luce da frutti, luce che non dura che si torce, si increspa, si infuria negli ultimi lampi geniali della sua opera, disfatto da droghe e da amarezza, parsimonioso suicida di questo clima spettrale. Lugones, orgoglioso gigante della forma e del vocabolario; Alfonsina Storni, appassionata e fiorita; José Asunción Silva, albero e cetra del romanticismo americano, entrando nella morte per volontà propria, sono solo i più coraggiosi suicidi, sono gli anticipatori di un corteo legato alle radici sterminatrici della poesia americana. Suicidi furono anche il padre Rubén Darío, tanto atterrito e martire di quanto esisteva, e la delirante e perversa Barba Jacob, e l'abbandonato ed esiliato César Vallejo, grande tra i grandi... Morrò a Parigi con acquazzone / un giorno del quale ho già il ricordo."
In questo coro angosciato come la massa ombrosa di un cielo Je pioggia di una determinata selva americana, di questa necrologia che abbraccia tutti gli inni e le sillabe, l'espressione tutta del nostro essere continentale, la voce di José Asunción Silva si stacca con una purezza ed una dolcezza illimitate, come un violino esile e combattente o come la voce dell'usignolo che esce dalla notte ombrosa.
A quanti abbiamo abbracciato il cammino la poesia ci spaventa a volte l'immenso lavoro degli antenati. Un "Notturno" di José Asunción Silva è tale progresso attivo del pensiero poetico, tale commozione nella città lirica dello spagnolo, come può esserlo nell'inglese del Nordamerica "Il corvo" di Poe, o nell'inglese dell'Inghilterra "La ballata del vecchio marinaio", di Coleridge. Questo gran poema scritto durante questa agonica e breve vita dalle mani tanto delicate che, tuttavia, poterono spararsi il colpo mortale, apre le porte di velluto di un spagnolo magnifico e tenebroso, di una lingua mai prima usata, condotta da un angelo notturno alle ultime decisioni e premure del rituale. Per quelle larghe porte del gran notturno penetra la nostra voce dell'America a prendere parte al coro orchestrale della terra.
È per la voce di Eduardo Carranza, gran poeta della Colombia, espressione viva della forza e la purezza poetica, di un paese che ha fatto saltare la poesia di roccia in roccia e di metallo in metallo, raccogliendo così il più diamantino di vetro e fulgore, è per la voce di questo grande giovane e rappresentativo maestro della gioventù poetica della Colombia che continuerete a conoscere e riconoscere nelle sue pieghe e ripiegature l'ombrosa figura di José Asunción. Ed il fatto stesso che Eduardo Carranza, capitano della nuova poesia colombiana abbia scelto - o la vita lo abbia scelto - per parlare per la prima volta davanti ai cileni di una figura tanto aureolata per la poesia, e tanto irriducibile nel suo misterioso esempio, ci mostrano la grandezza e la continuità della cultura colombiana. In questo pomeriggio di grande inverno australe, Silva e Carranza, uniti dal più segreto e permanente di un'inesauribile tradizione poetica, non possono essere qui ascoltati se non come due grandi fratelli fioriti, l'uno taciturno nel suo abisso, l'altro ardente nel suo fuoco, che si danno le mani attraverso la notte, nel ponte immortale della poesia.

La Nación, Santiago, 27.5.1946. Introduzione ad una
conferenza di Eduardo Carranza su José Asunción
Silva (a 50 anni dalla sua morte) nel Salone di Onore di
l'Università del Cile.


A Eduardo Carranza

Caro Eduardo, poeta della Colombia:
Quando per molti anni e per molte regioni il mio pensiero si tratteneva in Colombia, mi era apparsa la tua vasta terra verde e forestale, il fiume Cauca gonfiato dalle lacrime di María e planando su tutte le terre ed i fiumi, come fazzoletti di velluto celestiale, le straordinarie farfalle amazzoniche, le farfalle di Muzo. Vidi sempre il tuo paese attraverso una luce azzurra di farfalle sotto questo sciame di ali ultraviolette, e vidi anche i casali spiegati in questo tremulo viavai di ali, e dopo vidi la storia della Colombia seguita per un cometa di farfalle azzurre: i suoi grandi capitani, Santander, Bolivar con una farfalla luminosa posata in ogni spalla, come la più abbagliante spallina, ed ai tuoi poeti sfortunati come José Asunción o come Porfirio o superbi come Valencia, perseguitati fino al fine della loro vita da una farfalla, che dimenticavano all'improvviso nel cappello o in un sonetto, farfalla che volò quando Silva consumò il suo romantico suicidio per posarsi più tardi forse sulle tue tempie, Eduardo Carranza.
Perché tu sei la fronte poetica della Colombia, di quella Colombia divisa in mille fronti, di quella patria sonora, popolata per i canti segreti della foresta verginale e per l'alto e disinteressato inno della poesia colombiana. Nella tua patria si accumulò nel sottosuolo la misteriosa pasta dello smeraldo e nell'aria si costruì, come una colonna di vetro, la poesia.
Lasciami ricordare oggi a questa fraternità di poeti che lì potei amare e conoscere. Ti piacerebbe, colombiano pazzo, che stiano i tuoi amici in questa festa. Guardate qui tra noi questo stravagante cavaliere scandinavo che entra per quella porta: è León de Greiff, alto voce corale americana. Guardate più in là quel grande buongustaio di caffè, di vita e di biblioteca: è Arturo Camacho Ramírez, dionisiaco e rivoluzionario; qui, Carlos Martín, che appena ha pescato tre versi ancora inzuppati di fioriture strane nell'ansa caimanica del suo fiume natale; qui viene Ciro Mendía, appena arrivato di Medellin, con la sua lira silvestre sotto il braccio ed il suo nobile aspetto di fuochista marino; e, finalmente, qui hai tuo gran fratello, Jorge Rojas, di gran corpo e di gran cuore, appena uscito dalla sua poesia brinosa, dalla sua epopeica missione sottomarina in cui le sue vittorie furono insignite per il sale più difficile.
Ma tu dai qui, e questa notte, il viso a tutti questi cari assenti.
Nella tua poesia si cristallizzano, rapprendendosi in mille roseti, le linee geometriche della vostra tradizione poetica e, vicino al suo vigore, un sentimento, un'aria emozionante che tocca tutte le foglie del Monte Parnaso americano, aria di vita e di malinconia, aria di congedo e di arrivo, sapore di dolce amore e di grappolo.
Oggi arrivi al nostro tempestoss territorio, all'uragano oceanico della nostra poesia, di una poesia senza più norma che quella delle sue vitali esplorazioni, di una poesia che copre, da Gabriela Mistral ed Ángel Cruchaga fino agli ultimi giovani, tutte le sabbie ed i boschi e gli abissi ed i sentieri, come una clamide agitata dalla furia del vento marino.
Con questo abbraccio irregolare e con questa festa allegra ti riceviamo tra il più nostro, e lo facciamo nella coscienza che sei un lavoratore onesto del laboratorio americano, che il tuo bicchiere cristallino c'appartiene perché in lei mettesti uno specchio vivo di trasparenza e di sogno.
Quando arrivai dalla tua Colombia natale mi ricevettero i tuoi fratelli e compagni, e ricordo che in quello coro di tanta poderosa fraternità, uno dei più giovani e dei più preziosi mi rimproverò in linguaggio di senza pari dignità questa ultima tappa della mia vita e della mia poesia, consacrata ferreamente al futuro dell'uomo ed alle lotte del popolo.
Appena risposi, bensì essendo io stesso, davanti a voi, affinché vedeste il naturale che in me erano allo stesso modo la mia vocazione poetica e la mia condotta politica. Non risposi perché sto rispondendo sempre col mio canto e con la mia azione alle molte domande che mi sono fatte e mi faccio. Ma forse risponderei loro dicendo che lottando tanto ferocemente stiamo difendendo, tra altre cose pure, la poesia pura; cioè, la libertà futura del poeta affinché in un mondo felice - questo è -, in un mondo senza stracci e senza fame, possano sorgere i suoi canti più segreti e più profondi.
Così, dunque, al mio passo per la Colombia, non mi negai alle emanazioni della vostra concezione estetica, ma feci anche mie la vostra investigazione, il vostro problema ed i vostri miti. Entrai nelle vostre belle sale rettangolari e, quando per le loro finestre entrava il largo crepuscolo della Colombia, mi sentii ricco nella vostra preziosità, luminoso con la vostra luce diamantina.
Così pure, oggi che vengo a vivere ed a cantare tra noi, ti voglio chiedere a nome della nostra poesia, dai piedini scalzi di Gabriella ed i poemi che per la bocca di Víctor Domingo Silva parlarono già tempo fa i dolori di un paese pieno di sofferenze, oggi ti chiedo di non negarti al destino che andrai a conquistarti, e che continui a separare qualcosa dal tuo ben riempito tesoro per il tuo paese che è anche il nostro. Marinai delle zattere dei tuoi grandi fiumi, pescatori neri del tuo litorale, minatori del sale e degli smeraldi, contadini caffeari dalla casa povera, tutti essi hanno diritto al tuo pensiero, alla tua attenzione e la tua poesia, e che gran regalo farai ai cileni se la tua vita nella nostra terra australe, tanto bella e tanto dolorosa come tutta la nostra l'America, arriva ad inzupparsi degli oscuri dolori dei paesi che amiamo e per il cui liberazione combatterà domani la tua preziosa, fertile e risplendente poesia.
Bastano queste parole, benché esse ti portino tanto il nostro affetto. Oggi è giorno di festa nel tuo cuore ed in questa sala. Oggi è nato in una strada di Santiago, tra quattro pareti cilene, un tuo figlio. Tua moglie, la dolce Rositaa Coronado, le racconterà della nostra tenerezza. E per te questa festa con fiori di carta sminuzzata, tagliati da noi stessi, con chitarre e vino di autunno, coi nomi di alcuni di quelli che nella tua terra veneriamo, e con un fuoco di amicizia tra la tua patria e la nostra, che tu sei venuto ad accendere, e che deve alzarsi alto, tra la pietra ed il cielo, per non spegnersi mai più.

Santiago, 1.6.1946. Raccolto in PNN, pp. 83-86.


Italia, tesoro universale

Abbiamo amato all'Italia come la più antica madre della cultura, abbiamo visto più tardi una Italia sfigurata e matrigna, trascinando per i capelli i suoi figli, giocare una parte tragica nelle distruzioni di questo tempo: oggi salutiamo con amore e speranza una Italia rinata, una Italia sorella, repubblicana e popolare.
Non perdemmo mai la fede in Italia, nel popolo italiano. Sapevamo della solitudine di Croce, conoscevamo il pensiero di Sforza, stringevamo la mano dei fratelli Rosselli, a Parigi, prima che fossero assassinati vilmente, conoscemmo Frola, Montagnana, Vidali, centinaia di emigrati che vivevano la fede nella resurrezione patria come una fiamma inestinguibile. E quando i soldati italiani perdevano battaglie in una guerra che non volevano, i soldati italiani delle Brigate Internazionali lasciarono in Spagna un nome legendario di prodezza e di onore.
Io credo che di tutte le nazioni sia questo continente latinoamericano quello che raccoglie con più fervore, con una scossa profonda e fraterna queste nuove mani repubblicane che aiutano a sostenere d'ora in poi il baluardo della democrazia europea. Quando la Spagna, prima odiata, dopo sconosciuta, rompe le sue legature feudali ed irrompe oltre il mare con la sua bandiera repubblicana purpurea, rossa e gialla, noi, gli americani, alziamo il nostro più alto e straripante bicchiere per salutare la nascita di un Stato che speravamo dalla nostra propria indipendenza, perché i patrioti americani non lottarono col paese spagnolo, non lottarono contro il ribelle spirito dei casigliani del partito delle Comunitades, né contro Riego, né contro Quevedo e Cervantes, né contro Gracián o Góngora, né contro Goya, bensì contro una Spagna tentacolare, inquisitoria e maledetta. Bolivar ed O'Higgins, Sucre e Morelos, Hidalgo e San Martin lottarono nel 1810 contro una Spagna sanguinaria che oggi continua Francisco Franco, e quegli americani che oggi pretendono di dare la mano a Franco, come quelli che la diedero a Mussolini e Hitler, tradiscono la causa dell'indipendenza americana.
Non furono mai anti italiani gli antifascisti. Precisamente perché veneravamo il faro ultravioletto della sua poesia medievale, perché avevamo imparato in Alighieri il rispetto augusto all'intelligenza ed in Garibaldi il culto indivisibile della libertà e nella sua pittura i più profondi piaceri dello spirito, perché adoravamo i suoi paesi di olio e vini dorati, i suoi casali litoranei pieni di profumo e musica, la costruzione serena e la turbolenza di secoli nel suo pensiero, la fraternità generosa del suo popolo, precisamente per tutto quell'e per molte altre cose che tesoreggiavamo, usciamo nel mezzo della strada a gridare contro il fascismo, mai contro l'Italia, precisamente per non perdere l'Italia, per liberarla dei suoi boia, per recuperarla come un tesoro universale.
Anni angosciati! I reazionari fascisti cominciano col chiudere per un giorno o tre giorni un quotidiano comunista, cominciano ad intervenire nei sindacati, producendo risse mortali, e dopo portano la soldatesca per schiacciare il disordine che loro stessi provocano. Ahi a quei paesi che non vedono in tempo il pericolo, perché dopo i tiranni vanno inghiottendo tutte le altre libertà, finchè solo rimagono fuori dalla prigione con alcuni bande di avventurieri che al suo turno sono divorati! C'è allora un gran silenzio che chiamano ordine questi becchini della libertà.
Oggi la nostra America repubblicana ha una notizia, grande e luminosa sorella: Italia della conoscenza e della bellezza, Italia guerrigliera e popolare, Italia piena di api e bandiere, in questi giorni grandi del tuo destino in cui apri le dure porte del futuro, pulisci la tua casa dalle bestie, e che il tuo paese ordini, costruisca, pensi, balli, purifichi, lotti e cammini, ricostruisca e canti!

Aurora de Chile, num. 23, Santiago, giugno-luglio 1946.


Julio Ortiz di Zárate
Araucaria nazionale

Questo formidabile edificio di forza e tenerezza è crollato, come una gran araucaria dei territori australi. La vita di Julio Ortiz di Zárate trascorse tra le materie fondamentali dell'universo: pietra, legno, colore e lotta, fraternità umana.
Ebbe la statura aspra e tenera della gran araucaria, ogni muscolo e frutto, ferma radice sotto la terra rocciosa e padiglione poderoso dove le canzoni si preservavano della tempesta.
Le sue mani di artigiano combatterono il ferro più duro e la pietra più altezzosa. Ferro e pietra sotto le sue mani si trasformarono in fiore, in rampicante, in ala.
Dopo, queste mani lottarono con la luce e la sua forza artigiana raccolse per la nostra pittura il soffio immortale del vivente.
Io lo conobbi negli umidi giorni passati e, anche, nei giorni di sole. Fu il mio amico di temporale e primavera, e nell'ombrosa notte del patimento usciva da lui una canzone come da una casa di pietra, e nei giorni dei ciliegi fioriti cantava in lui la luce innumerevole.
È morto in questi giorni di nebbia e lotta, quando appena avemmo tempo per accompagnarlo, e quando dobbiamo sistemare la sua immensa assenza, rimpicciolirla, per potere vivere. Forse anche pecchiamo con la sua vita, senza prendere abbastanza da lei, senza tirare fuori del suo cuore giganti più radici, più forza, più profondità, più tenerezza.

Extra, Santiago, 1.8.1946.


Il popolo ti chiama Gabriel
[Frammento]
EL PUEBLO TE LLAMA GABRIEL. (Pagina 594.) Neruda fu il Capo Nazionale della Propaganda della candidatura di Gabriel González Videla. La organizzò con successo incluso un raduno di folla nello Stadio Nazionale di Santiago, dove il candidato lesse il giuramento che alcuni mesi dopo avrebbe tradito. Sul poema Neruda stesso ricorderà dopo anni: "Effettivamente, io lo scrissi. Gabriel González Videla stava sempre dietro me chiedendomi che scrivessi cose nel suo onore. Non l'accettai mai. Quel suo atteggiamento, man mano che si avvicinava l'elezione, diventava sempre di più insopportabile. Alla vigilia dell'atto dello Stadio insistè fino alla stanchezza affinché gli scrivessi un poema. Lo feci solo dopo che me lo chiese la Direzione del mio partito. Fu un breve romanzo cavalleresco nel quale ognuna delle sue strofe finiva col verso El pueblo te llama gabriel (Il popolo ti chiama Gabriel). Non ne feci nessuna copia. Lesse il manoscritto di fronte al microfono l'attrice Inés Moreno. Ed appena finì di recitare mi avvicinai a lei, gli chiesi l'originale del poema e lo spezzai lì stesso in mille pezzi. Avevo visto tante cose cose nei miei contatti con lui che intuivo la possibilità di una capriola. Nessuno conosce oggi quel poema, perché non si pubblicò da nessuna parte!" (dichiarazioni ad El Siglo, Santiago, 3.8.1963). Il frammento che qui pubblichiamo - a titolo di curiosità documentale e senza garanzie di totale fedeltà - fu probabilmente ricostruito a memoria dal quotidiano Extra, magari a richiesta del candidato stesso. Neanche Collier e Sater menzionano la fonte della strofa che citano nella loro Historia de Chile.

Dalla sabbia fino all'altezza,
dal salnitro allo spessore,
il popolo ti chiama Gabriel,
con semplicità e con dolcezza

come un fratello, fratello fedele.
E tra tutte le cose pure
non ce n'è un'altra come questo alloro:
il popolo ti chiama Gabriel.

Extra, Santiago, 4.9.1946.


Nel nord l'operaio del rame,
nel sud l'operaio della rotaia,
da un confine all’altro della patria
il popolo ti chiama Gabriel

In Collier y Sater, p. 217.


Salnitro

Salnitro, farina della luna piena,
cereale della pampa riarsa,
schiuma delle aspre sabbie,
gelsomino di fiori sepolti.

Polvere di stella infossata in terra oscura,
neve di solitudini infocate,
coltello di innevata impugnatura,
rosa bianca di sangue schizzato.

Vicino alla tua nivea luce di stalattite,
dolore, vento e dolore, l'uomo abita:
straccio e solitudine sono la sua medaglia.

Fratelli delle terre desolate:
qui avete come un mucchio di spade
il mio cuore disposto alla battaglia.

El Siglo, Santiago, 27.10.1946.


Argelia Veloso

Camminando tra razze di altre terre, nelle isole del Pacifico caldo, o tra le rugose sierre messicane, lamentai molte volte che il Cile non producesse arti miniaturiali del Paese: ci mancherà il Don prolisso che lavora in una goccia: la scienza e la pazienza del minuscolo.
Al contrario la nostra gran cordigliera, e l'immagine di gesta e valori leggendari, provoca e sostiene lo smisurato del Cile, altezza ed avvallamento, elevazione o caduta che a volte generano grandi cose belle ed altre rovesciano nel vuoto le pale della forza inutile.
La grazia e la bellezza minute di queste creazioni dell'Argelia Veloso, mi restituiscono con generoso splendore questa assenza, come certi poemi di Barrenechea o Nicanor Parra, in cui la luce, la rugiada ed il polline ballano su un'ape.
Queste minime statue di colore di grano, finemente tramate, intessute filo a filo, vivono dentro l’infinito popolare, come molte meravigliose creazioni senza cognome, germogliate delle mani del popolo.
Questa arte della
raffia portata in Cile dalla nostra luminosa María Valencia, devia e continua, trovando in Algelia un nuovo alveo.
Quanti dettagli di bellezza. Come se lo sfregamento digitale di una fata avesse toccato questa materia gialla, dandogli movimento affascinante, numerosa poesia, vento di ballo, corporazione di fiori.
Un nuovo artista arriva alla nostra geografia, popolando la mappa con piccoli esseri indimenticabili che, tra i grandi macigni e fiumi della patria, esisteranno orgogliosamente, perché furono costruiti con avanzi vegetali, con sogni e dita di donna, con quasi niente, e tuttavia conservano nella sua costruzione parte del fragile ed eterno monumento umano: popolo, tenerezza, verità e poesia.

Los Guindos, dicembre 1946

Extra, Santiago, 24.12.1946.


Addio a Nicolás Guillén

Io comprendo che Nicolás Guillén abbia poca voglia di andare via del Cile. Quello che accade è che ha molti motivi di tornare a Cuba, ed io anche. Cuba è un punto di terra circondato dappertutto dal mare e dalla poesia di Nicolás Guillén. Lì le braccia ed i bicchieri, le palme e le anche, i venti ed i racconti hanno il profumo acido, salato ed azzurro della schiuma antillana, e propagano un suono di argento fine e sonaglio silvestre; sono suoni che Nicolás Guillen ricevè corno eredità nel sangue o donazione che egli fece del suo attivo cuore facendolo patrimonio sonoro del suo paese.
La cosa certa è che se a Cuba dovessimo mettergli un cognome, malgrado Martí gli desse le sue stalattiti intellettuali e guerriere, troviamo quel nome un poco freddo per Cuba, e non gli metteremo neanche Marinello, malgrado Juan onori all'isola e ci onori perché la rigida geometria di quel cognome non quadra a questa isola marina nel suo matrimonio. No, signori, a Cuba, tra tanti nomi illustri di filosofi o liberatori, gli daremo oggi un cognome fragrante di poeta platinato dall'amore americano, un cognome di cantore e lottatore, richiameremo a Cuba CUBA GUILLÉN per il suo profondo amore reciproco, poiché l'isola ama il suo gran poeta e questo nonostante le sue infedeltà di viaggiatore conquista a Cuba palio e rispetto, devozione e passione dappertutto.

Questo Guillén è, dunque, parte principale, organica ed estiva di quello mondo antillano limitato da aromi e cicloni dalle cui viscere esce un paese coraggioso e ballerino, guerriero ed allegro, che molte volte ha stupito il nostro tempo.
Invincibili ed indelebili cubani delle paludi, fratelli della selva, studenti antidispotici, capitani di Mella e di Martí, dinamitardi e poeti, sanguinanti tra i canneti, dormieti con libri macchiati dalla polvere da sparo ed il sangue, seri, affilati, inflessibili e notturni combattenti della libertà cubana!
Tra essi questo Nicolás che alla cadenza sorprendente del suo tamburo razziale aggreghi tutta l'area fiorita di un combattimento senza tregua!
In Spagna lo vedemmo tra le esplosioni, in Messico appena distribuite le terre aspirando l'odore acre delle praterie liberate, in Venezuela, pensoso e direttore in epoca di grandi confusioni, in Cile, nella piazza della Costituzione, nel mulinello della nostra lotta, dicendo le sue parole memorabili e care: "Se io fossi cileno, voterei per Gabriel González Videla." Da allora, Nicolás, sei cileno. Lì firmò il popolo del Cile la tua lettera di cittadinanza.

Per il resto, americano integrale, di costa e cordigliera; di neve e caldo, di schiavitú e libertà, sei gran poeta di Cuba. Ora, dopo i tuoi viaggi atlantici e pacifici, vai da un lato all’altro, di questa grande Patria nostra, assorbendo l'asprezza e la soavità della nostra geografia comune. In alcuni posti ti ubriacò la zagara o la raffica bagnata e penetrante dell'alba nell'Orinoco, in altre parti spruzzarono il tuo viso bruno le gocce di sangue che saltano ancora dal corpo martirizzato dell'America. Dopo, nell'alto Perù, ricevesti l'aria originale del nostro pianeta americano, uscita dell'ombelico sepolto, delle culture del mais; dopo volasti sulla Bolivia, paese misterioso, profondo e metallurgico che si affaccia alle aurore di una coscienza popolare. Finalmente, arrivasti a questo aspro paese australe, di neve ed oceano dove già ti chiamiano Nicolás, e dove ti seguiamo ricordando con una tenacia nell'amore che solo noi, nella nostra America conosciamo, perché siamo fino al fine un paese di radici e di giacimenti, una patria di profondità.
Così pure ti è amato il nostro paese, il gran baluardo australe della libertà nel mondo. Antifascisti ed antimperialisti, accigliati cittadini della miniera o del campo feudale, i lavoratori del Cile sostengono la colonna del futuro americano. Essi ti hanno abbracciato nella desolata pampa salnitrica, nelle cordigliere del rame, da tutte le parti essi ti hanno riconosciuto come campana nefasta e sonora nel crepuscolo mattutino dell'uomo.

Nicolás Guillén, manca qui un poco, il mio abbraccio personale. Mi sarebbe piaciuto farti un regalo grandioso: averti regalato le migliori stelle della grandezza australe, averti dato un fiume di vino oscuro della zona dei grandi vigneti, c'esserti regalato Porto Montt o Valparaíso, affinché fossi re di queste solitudini marine. Ma hai preferito seguire le vaste strade dell'America in cui altre città ed altri paesi ti riceveranno come fratello, come conquistatore conquistato.
Il Cile non ferma nessuno se non col suo amore. Le nostre grandi porte di acqua marina, di granito e ghiacciaio, si aprirono per ricevere il tuo rango di poeta esemplare, e rimarranno aperte aspettandoti, come solo si aprono per gli eroi o gli esiliati in questa fortezza i cui i migliori soldati ti conobbero e ti amarono nella poesia e nella lotta.

El Siglo, Santiago, 11.1.1947.


A Paul Langevin

Non sparisce Paul Langevin dallo SCENARIO europeo, bensì dall'INTEGRITÀ europea, dalla fondamentale malta della Francia.
Non è Langevin un uomo di SCENARIO ma di PROFONDITÀ: non è una maschera della cultura quella che vediamo oggi estinguersi attraverso l'oceano e la morte, bensì una delle sue radici esploratrici e nutrizionali.
Situiamo questa gran figura dell'intelligenza tra la luce sanguinante delle due guerre mondiali. Tra quei due angosciosi rantoli vediamo sorgere straordinarie figure umaniste, eroi della coscienza universale, come Einstein e Romain Rolland, Henri Barbusse e Paul Langevin.
Nel grave disorientamento di quegli anni, fermi nei suoi baluardi di saggezza e serenità, questi uomini espressero molte volte con un'interezza che li ha fatti immortali i sordidi conflitti, le bugie sistematiche del capitalismo, le minaccianti tenebre che si accumulavano per il futuro dell'umanità.

Langevin è tanto grande in questo terreno della morale politica del nostro tempo come nella sua azione tenace nella fisica materiale.
Durante quegli anni lo vediamo allo stesso modo nel laboratorio che sul palco, cercando e mostrando la verità scientifica e civile.
È tra i primi ad annunciare lo splendore sovietico, tra i primi in guardare verso l'Unione Sovietica e mantenere lì il su alto sguardo incorruttibile, resistendo con ciò la calunnia e la viltà che dal principio accumularono gli imperialismi per distruggere la resurrezione dell'uomo che lì si operava.
Questo gran palombaro della materia porta la sua esplorazione all’inevitabile: non trema davanti allo sconosciuto, ma cerca nelle leggi del materialismo la difesa e l'elevazione degli esseri umani. Questo materialista implacabile risulta essere uno dei campioni dello spirito umano, un gladiatore titanico ingigantito nella difesa del patrimonio culturale.

Io lo conobbi in quegli anni annunciatori poco prima della guerra spagnola e della nuova guerra mondiale.
Prima lo vidi molte volte nelle presidenze di grandi riunioni dell'intelligenza. A volte nella Casa della Cultura, vicino a Barbusse, spettrale, divorato per la lotta, altre volte nelle grandi moltitudini del Vélodrome d'Hiver: dappertutto dove si associava l'uomo per illuminare la strada storica della società o per difendere i diritti conquistati dal popolo, lì stava questo maschio cavaliere bianco e scrutatori occhi sereni ed azzurri.
Così mi fu mostrata la grandezza di certe anzianità dell’Europa che mostrano dozzine di queste teste innevate, vecchi visi eminenti, testate di prua della conoscenza.
Quanto ci manca in America la robusta anzianità da questi grandi protagonisti della cultura. Qui l'uomo in generale si rammollisce presto, come una cascata tropicale, e dall'equilibrio, con gli anni, passa all'equilibrismo e di lì alla vigliaccheria, al tradimento e alla reazione.
Mi piaceva in quegli agitati giorni in cui si dibattevano i problemi impetuodi dell'Europa vedere la testa d’argento di Langevin, vicino al vecchio e glorioso Barbusse, vicino al vecchio e glorioso Victor Base, assassinato dopo dai nazisti, vicino ad altre figure memorabili, presiedendo innumerabili riunioni, combattendo in tutti i fronti della libertà minacciata.
Poi la guerra della Spagna mi fece conoscerlo più intimamente. Conobbi la sua casa, sua figlia e suo giovane genero, giovane saggio che anche torturarono ed assassinarono i nazisti. Strinsi la sua mano di conoscitore e combattente, e al riceverla e stringerla mi sembrò toccare la più vigorosa quercia di Francia rumorosa.
Poi lo persi di vista. I nazisti lo gettano in una cella solitaria e con fiammiferi spenti scrive formule fisiche e pensieri in minuscole carte di sigaretta. Durante la notte dell'Europa, la coscienza del nostro camerata illustre continua accesa, illuminando con molte altre volontà quello verso la liberazione.

Immediatamente restituito alla libertà, installato nuovamente con tutti gli onori nella direzione della celebre Scuola di Fisica e Chimica di Parigi, entra nel Partito Comunista della Francia.
I suoi ultimi lavori ci avvertono del pericolo immenso dell'uso nella guerra dell'energia atomica e del benessere che questa energia può derivare per l'umanità se non è incanalata aggressivamente verso la distruzione.
Cito le sue parole: "Nei principi del periodo capitalista si ebbe urgente necessità di dare al lavoratore il minimo di istruzione, rappresentata dall'educazione primaria dei vecchi tempi, questo è, per la lettura, la scrittura e le quattro operazioni, aumentare la sua abilità tecnica ed il plusvalore del suo lavoro. Nella nuova era sarà necessario sfruttare tecniche e maneggiare macchine di complessità crescente in mezzo ad una comunità umana che costantemente progredirà in coesione ed unità, e questo esigerà da ognuno nell'interesse comune un grado elevato di istruzione, una comprensione incessantemente in sviluppo della struttura del mondo e delle leggi che dirigono la natura e l'uomo."
Avete ascoltato già questo pomeriggio di labbra del maestro signor Lira e del giovane fisico Nicanor Parra, una valutazione senza dubbio veritiera della portata scientifica che Langevin lascia come eredità alla scienza universale.
È conveniente che ci licenziamo questo pomeriggio stabilendo anche il lascito che ci lascia riassumendo la sua preziosa condotta cittadina.

E permettetemi per concentrare l'eredità civile di questo gran pensatore che scenda dal generale all’incidentale ad un piccolo motivo di ieri nella notte nella nostra città di Santiago.
Io uscivo in strada da un ristorante, pensando alle parole che questo pomeriggio doveva dirvi quando osservai centinaia di volantini di propaganda appena incollati nella parete.
Mi avvicinai, ne staccai alcuni. Qui ne ho uno. Dice: "Cileno: Scegli." Ed una bandiera cilena vicino ad una bandiera sovietica. Ed alcune iniziali di una società anticomunista.
E pensai alle lotte di quell'uomo, di quell'anziano illustre.
I suoi nemici sono vivi.
I nemici dell'intelligenza della verità, gli avversari di Langevin stanno anche vicino a qui.
Si alzano in altre parti i velenosi incubi e succubi, le larve che alimentarono le tenebre dell'Europa.
I figli di Goebbels, di Laval, di Franco, di Hitler, degli assassini di Norimberga, alzano la testa.
Gli assassini del genero di Langevin, quelli che inviarono la figlia del saggio illustre ad una casa di morte, stanno vicino a noi in questo istante.
Pubblicano una rivista (
Estanquero) con fiele e bugia, con veleno e crimine, con detrito di boia.
A quelle due bandiere che essi vogliono far apparire come bandiere nemiche rispondiamo sempre con la voce eterna di Langevin: "Non scegliamo, accettiamo le due, amiamo la nostra bandiera e la bandiera di una gran nazione, madre di paesi e di azioni immense." Rispondiamo: "La nostra bandiera ed altre bandiere, tutte le bandiere dei paesi liberi." Però mai la loro bandiera, la svastica dell'odio gocciolante di sangue innocente di gas maledetto.
Questa è l'eredità di Langevin, compatrioti. Questo è il suo insegnamento.
Benché il nostro sforzo non sia tanto intenso, benché la nostra capacità non si confronti alla sua grandezza, mettiamo la nostra vita nell'ora decisiva della lotta, per la dignità e la libertà, per la coscienza e la cultura, per la verità e per il paese, Per tutto quello che amò nella sua vita il grande, nobile ed austero Paul Langevin, eroe venerato della sua patria e del mondo.

El Siglo, Santiago, 17.1.1947. Discorso nel
Salone di Onore dell'Università del Cile.


La parola del cancelliere

Ricordo che in quei terribili primi mesi della guerra spagnola, quando solo l'URSS alzava la voce in difesa da quella accerchiata democrazia, irruppe nella mia casa un gruppo di giovani miliziani che, pieni di polvere e sudore, tirarono sopra al mio tavolo alcune cartucce vuote e tiepide ancora del combattimento:

- Guarda ll loro marchio - mi dissero.

Erano del Messico.
Erano l'unico aiuto della nostra America al paese eroico. Mi riempii di allegria, di un'allegria inzuppata di vergogna e lacrime.
- E il Cile? - domandava qualcosa dentro me - E il Cile?
Il governo di allora - ed alcuni altri che lo seguirono - tradirono la propria causa della nostra nascita come Repubblica. Agustín Edwards, nella Lega delle Nazioni, diede la sua pugnalata di assassino nella schiena della Repubblica con l'applauso di tutta la villania fascista del mondo.
Quelle pallottole messicane sparate al petto del fascismo mi riempirono di orgoglio e pena.
Portai questa vergogna per molti anni nella lotta. Il Cile, mi sembrava, non pagava il suo debito con la causa universale della libertà.
I nostri ministri di Relazioni Esterne continuarono una politica di vigliaccheria, di compromesso, di negare la luce.
Oggi per la prima volta ho una sensazione grande di sollievo.
La voce del cancelliere nel Senato ha riempito questi anni strrili in cui il paese del Cile non era stato udito.
Julliet ha fatto un discorso storico. Le sue parole sostentando i nostri diritti nell'Antartide, la sua formidabile denuncia del regime franchista, la sua posizione di appoggio al veto nelle Nazioni Unite, furono per la prima volta in lunghi anni, le parole che aspettavamo dalla nostra patria e dalla nostra democrazia.
Questo nobile allegato per la nostra sovranità, in difesa della dignità umana, restituisce onore alla nostra politica estera. Sulle istruzioni torbide delle cancellerie precedenti, cariche di veleno nazista, di istruzioni antiespagnole ed antisemite, di circolari antidemocratiche, arriva finalmente questo documento di alta morale, figlio di una nuova coscienza.
Che lo conoscano i paesi dell'America, i paesi duramente schiavizzati che ci cercarono nei momenti difficili, e non rispondemmo. Che lo conoscano i paesi liberati, perché il Cile assume di nuovo la carta direttiva ed orientatrice nella lotta contro le tirannie.
E che la rottura con Franco non tardi. È già esposta in questo documento trascendentale del cancelliere, e realizzata in piccolo, con sacrificio eroico, dagli operai portuali di Tocopilla.

El Siglo, Santiago, 22.1.1947.


María Luisa Vicentini, futuro consigliere comunale per Ñuñoa

Una vita di sforzo, di esempio, di lotta. Una vita che, dall'infanzia, si annuncia con un destino irrevocabile. A 16 anni, María Luisa Vicentini è già maestra. A quella stessa età, tutto l'ambiente che la circonda ed in cui si è formata, gli dà il marchio sostanziale della suo fede vendicatrice. Tra i suoi amici sta quello martire indimenticabile di tutte le gioventù, José Domingo Gómez Rojas, sta quel Juan Gandulfo, ribelle, brillante e sarcastico, e quell'altro martire del suo proprio destino, il dottore Demaría, che formano la nervatura della più brillante e rivoluzionaria Federazione di Studenti, esempio e coscienza, allora, di tutte le gioventù dell'America.
Ha avuto dei genitori formati nel lavoro rude ed onesto degli emigranti. Suo patrigno è un artista che appartiene ad un partito rivoluzionario in Italia, del quale questa bambina che è María Luisa Vicentini, segnalata dal dito del destino, impara le prime lezioni di amore al paese che più tardi la porta ad entrare al Partito Comunista.
A venti anni è madre e con ciò ha imparato tutte le lezioni della vita, perché i casi del suo destino e la sua consegna completa alla causa popolare, fanno, allora, più solitaria ed esemplare una vita di studio e preparazione. È ancora quasi una bambina. Ma che cosa fa allora questa donna dai ricchi e puri doni di umanità? Coi suoi scarsi mezzi, forma una scuola che denomina Juan Martínez de Rozas. Lì insegna e le riesce il sostentamento per i suoi figli. Poi organizza una scuola notturna per operai che non possono pagare la loro educazione. In questi atti si vede già la pasta di lottatrice che più tardi di fronte a tutti i più effettivi raggruppamenti femminili del Partito Comunista, lotterà nelle segreterie e per strade per la gran campagna antifascista del partito, senza evitare mai i carichi di maggiore responsabilità e sacrificio. È l'ora in cui la bestia bruna ha mostrato i suoi artigli e ha sommerso il mondo nella guerra più cruenta e sterminatrice di tutti i tempi. María Luisa Vicentini è incaricata nel suo comune di raccogliere fondi per aiuto dei poveri, delle grandi desolazioni della guerra. È l'opera che deve compiere nella 7.ª Comune, alla quale ha dedicato mille dolori e sforzi anonimi. Non c'è una casa operaia in cui María Luisa non abbia fatto arrivare la sua voce e la sua mano piena di insegnamenti e tenerezza. La sua voce che incoraggia e consiglia; la sua mano che segnala e che protegge. È tanto sincera ed efficace la sua fede ed il suo lavoro, sono stati tanto notevoli i suoi servizi, che quando il partito necessita di rinforzare i suoi centri di azione più responsabile, la chiama per organizzare il macchina organizzatrice del Primo Congresso di Donne, nella Commissione di Propaganda e nella difficile Commissione dei Problemi Internazionali, per portarla dopo aver sommato tutte queste dure prove, alla Commissione Nazionale Femminile.
Riflessiva, onesta, rivoluzianaria e studiosa María Luisa Vicentini rappresenterà al paese del Comune di Ñuñoa con straordinaria lucidità, col prestigio della sua cultura formata nella lotta, e la sua fine personalità, sensibile e ferrea, forgiata nel migliore acciaio del partito.

El Siglo, Santiago, 23.3.1947.


Attacca alla cultura

Negli stessi giorni, e dalla stessa mano avvelenata, nei quotidiani più rappresentativi del letamaio reazionario,
El Diario Ilustrado e La Opinión, sono usciti attacchi a due poeti significativi nella nostra vita nazionale: Angelo Cruchaga Santa María e Julio Barrenechea.
Questi attacchi continuano le linee appena apparse in
El Diario Ilustrado in cui incitano a nome del patriottismo a non ascoltare musica russa. Ma non si sono fermati lì questi burini fascisti.
Attaccano Angelo Cruchaga per ostacolare che gli sia concesso il premio Nazionale di Letteratura. Questo premio è un atto di giustizia ritardata, una tardiva onorificenza per il largo e rumoroso fiume della sua poesia, una manifestazione ufficiale di riconoscimento ad una nobile ed elevata vita, ad un'opera trascendentale nella nostra letteratura.
Non credo che i giurati, a causa di questi attacchi ignobili, risentiti ed invidiosi, smettano di prendere in considerazione chi rappresenta nella sua poetica il totale splendore della nostra poesia.
A Julio Barrenechea rimproverano la sua brillante rappresentazione, sicuramente la prima in qualità della nostra diplomazia, e specialmente il suo coraggioso telegramma inviato dalla sua ambasciata dove rappresentava il paese del Cile e non ad avviliti governanti, per protestare per quello che il miserabile di
La Opinión chiama "alcuni incidenti nella piazza Bulnes."
Né Cruchaga né Barrenechea hanno bisogno di difensori, ma l'origine oscuramente anticomunista, immondamente reazionario, envidentemente nazista di questi attacchi alla cultura mi fa scrivere queste righe, sebbene i suoi autori anonimi e codardi meriterebbero solo un sputo nel viso.
L'atteggiamento democratico di questi scrittori che rappresentano lo spirito del nostro paese, e che generosamente hanno contribuito dalla presidenza dell'Alianza de Intelectuales che ambedue hanno esercitato alle lotte antifasciste ed antimperialiste della nostra patria, li fanno loro oggi oggetto di questi sporchi attacchi.
È forse il vero riconoscimento alla loro posizione di lottatori, di scrittori e di patrioti. Ciò indicherà loro, senza dubbio, quanto disturba l'esercizio della dignità alla marmaglia.

El Siglo, Santiago, 26.5.1947.


Per Alfonso Alcalde

Chi li chiama?
Dai boschi,
da una pioggia, più altra, da tutte le sabbie
arrivano i poeti
lasciando una traccia di platino
bruciato
una piccola orma di scarpe perdute
nell'argilla sotterranea.

Tu, Alfonso, dalle
città marine porti
fumo e pioggia nelle tue mani
e sai tessere il filo fresco e freddo
della profondità mattutina.

Tu come altri all'improvviso
accorri dall'onore della selva, o
perduto, tra le case di legno
bagnato
nel silenzio
insabbiato
prendi il treno o l'aria
e qui sta il tuo cappello tremulo, lo
spazio delle nuove radici.

Ti saluta
Pablo Neruda
Maggio 1947

Alfonso Alcalde, Balada para la ciutad muerta,
Santiago, Nascimento, 1947.


Prologo per Juan de Luigi
PRÓLOGO PARA JUAN DE LUIGI. (Pagine 608-609.) La relazione amichevole che questo prologo manifesta si ruppe più tardi, forse per effetto dello stretto contatto tra De Luigi (critico letterario del quotidiano El Siglo durante vari anni) e Pablo de Rokha. Come sembra, Neruda pensava a De Luigi scrivendo la " Oda al mal ciego", OCGC, vol. II, pp. 768-769.

Se chiudendo gli occhi affondate la mano in questa trasparenza che si schianterà nelle vostre dita, sappiate che questa corrente è poesia.
Chiara materia!
Corse segreta tra la notte e l'asprezza, filò una ad una le nevi della conoscenza, si immerse in moltissime sabbie, cantò sotto le foglie.
Sillaba insigne!
Quindi il silenzio la seppellì vivente: la aggrovigliò con le sue fibre più notturne, la separò con le sue mani tessili e cadde su questa corrente sonora come una pietra grande in una strada.
Allora Juan de Luigi si alzò dalla sua propria ombra giacente: arrivò l'aspro giorno della vita ed il suo combattimento. Lottò ora ed ora, notte e notte, fuoco e fuoco.
Lo vidi da lontano consumare i suoi occhi, alzare pagine scintillanti, abbattere altipiani di ragnatela, affondare il suo raggio nelle retrobotteghe tenebrose.
Ricordai allora la sua implacabile gioventù, il suo esame del più indecifrabile, la sua intelligenza mai tranquilla, la sua passione elevata alle nevi più alte. Ricordai quello che, adolescenti, c'unì; i testi che ci diedero rivelazioni, le parole che insieme leggevamo tremando.
Allora lo vidi sempre di più vicino. Diversi giorni e viaggi e lotte differenti, e terre remote ed amici e nemici, ci portarono, tuttavia, allo stesso posto: a difendere gomito a gomito principi e verità perseguite ed eterne.
Ed allora brillarono queste pagine, questa antica corrente di acque pure. Volle Juan rimuovere la gran pietra della vita sull'acqua.
E questa voce canta tra rami ed api, dolce e penetrante, impregnata di immortale malinconia e allegro vino classico! Il tempo ed il silenzio la decantarono, l'oscurità rispettò il suo fulgore.
Eternità trasparente!
Lucido fuoco!

Sotto i castagni, domenica 21 dicembre 1947.

Juan de Luigi,
Poema del verano, Santiago, Zig-Zag, 1948
ed anche in Prólogos, ed. Lumen, pp. 25-26.


La patria prigioniera

Patria della mia tenerezza e dei miei dolori,
patria di amore, di primavera ed acqua,
oggi sanguinano le tue bandiere tricolori
sui reticolati di Pisagua.

Esisti, patria, sopra le paure
ed arde il tuo cuore di fuoco e forgia
oggi, tra carcerieri e traditori,
ieri, tra i muri di Rancagua.

Ma uscirai all'aria, all'allegria,
uscirai dal dolore di queste agonie,
e da questa sommersa primavera,

libera nella dignità del tuo diritto
e canterai nella luce, ed a pieno petto,
la tua dolce voce, oh, patria prigioniera!

Unidad, num. 60, Santiago, dicembre 1947.



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