Pablo Neruda e Insetti


Vai ai contenuti

Menu principale:


La clandestinità e l'esilio (1948-1952) - 2^ parte

NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1939 a 1952

IV
VIAGGI 4
(1950)

Lo splendore della terra
VIAJES 4. EL ESPLENDOR DE LA TIERRA. (Pagine 777-798.) Sotto il titolo "El esplendor del mundo", conferenza edita originalmente nell'opuscolo Neruda en Guatemala, Città del Guatemala, Edizioni del Gruppo Saker-Ti, 1950. Con alcuni varianti e soppressioni, e col nuovo titolo, passò al volume Viajes, Santiago, Nascimento, 1955, il cui colofon diceva testualmente: "Fui affezionato al paese della Guatemala, nel 1950, quando questa Repubblica era libera e nobilmente governata dal presidente [Juan José] Arévalo."

I fiumi del Cile sono brevi e sfrenati. Scendono dalle altezze innevate della grande cordigliera, scendono dalle eterne solitudini innevate, del gran silenzio, ed uscendo dalle loro prigioni si liberano, combattendo terre e prati, perforando rocce, tuonando come mille leoni, impennandosi in rapide, cristalline e segrete cascate.
Molto pochi di questi fiumi si pacificano e sognano. Ma ce n'è uno, dagli argini spaziosi e lento movimento il cui specchio quasi immobile riflettè molte lune e ricevette molto sangue.
È l'alveo dell'Araucanía, il fiume Bío Bío. Lì i conquistatori spagnoli fermarono il passo e vicino alle sue grandi acque sacre, nell'anno di 1550, i guerrieri araucani divorarono il cuore di Don Pedro di Valdivia, il Pedro di Alvarado del Cile, il gran conquistatore. Da lì si estendono i boschi del continente freddo, la selva alza le sue gigantesche colonne, dopo si muove in arcipelaghi, in infinite isole e canali, in territori irsuti con le spade oscure della
Araucaria imbricata. Più in là, la terra desolata sente scivolare la bianchezza dei nevai e ghiacciai, più in là, le estensioni dell'Antartide formano la luce bianca della fine del mondo.
Lì il mio cuore si aprì alla luce e all'ombra. Il mio cuore andò scoprendo la pioggia, gli esseri e le foglie. Non fu il mio pensiero quello che si alzava alla luce, il mio pensiero giaceva sotto la cupola dei boschi immensi, sotto il suono della tempesta antartica. Ancora ora, dopo avere percorso tutti i venti del pianeta, mi sostentano quelli territori, mi coprono di ombra verde, mi chiamano col rumore della pioggia d’inverno.
Erano scoperte di foglie immense ed spinose, o di tremuli filamenti vegetali, o di ricamati rampicanti incollati ai tronchi millenari della selva.
Quando vestito di nero, vestito di poeta, immensamente piccolo nell'ombra di quelli vegetali e fredde moschee, sprofondando i piedi nell’humus soffice ed umido, un suono mi oltrepassava come una lancia, erano le grida misteriose del bosco, erano gli uccelli di colore freddo che all'improvviso mi chiamavano o si burlavano con una rapida ed oscura esplosione, con una voce repentina e bagnata.
Lì, vicino all'unione del Bío Bío e dell'oceano, stanno le grandi miniere di carbone. Circa trentamila famiglie di minatori vivono ammucchiate sotto il distruttivo clima di quelle regioni. Le popolazioni di Lota e Coronel stanno vicino ad un mare senza allegria, al roco mare grigio delle coste australi del Cile. Una storia di lotta e di martirio copre le vite degli uomini, degli indomabili eroi del carbone. Li ho visti uscire dalla profondità, anneriti e stanchi, avanzando verso i loro sobborghi inumani.
Che bella epoca questa, in cui noi i poeti abbiamo potuto guardare oltre le foglie ed i fiori, oltre i nostri piccoli cuori, che volevano abbracciare imprendibili inesistenze!
Che bella epoca questa in cui noi i poeti abbiamo visto nelle miniere esseri uguali a noi, a noi stessi! Gli esseri che non conobbero la tenerezza, ma che c'insegnarono la vittoria.

Alcuni anni fa arrivò nel porto dei minatori, a causa di qualche avaria, una barca strana per la sua provenienza: era una barca sovietica. Non mai era spuntata prima a quelle coste una barca nella cui aria ondeggiasse la gialla falce ed il dorato martello, fermamente inchiodati nel loro campo di sangue glorioso.
I governanti del Cile non riconoscevano, come non riconoscono oggi, all'Unione Sovietica, cioè, operavano come quelli che coprirsi gli occhi negano l'esistenza del sole. Questo governo di struzzi tese la sua piccola tenda vicino alla barca sovietica. Proibirono ai marinai rossi di scendere a terra e portare su a bordo ai nostri minatori rossi. Perciò, tutto il giorno i navigatori sovietici guardavano la costa desolata, della quale il più approssimativamente umano era il cordone di poliziotti che li vigilava. Più in là, tutto era grigiastro, freddo e nero.
Ma nella notte di quello giorno i minatori si raggrupparono sulle colline, riempirono le altezze ed i tetti e da lì, nell'oscura notte australe, durante la notte intera, accesero e spensero le loro lampade minerarie, dirigendole come segnali di immensa fraternità al mutamento imbarcazione sovietica. Tutta la notte, quelli che crebbero nell'ostilità di quelle terre, videro come attraverso le tenebre batteva luminoso, costante ed innumerabile, il cuore del paese che li salutava.
Che epoca per i poeti, che tempo grandioso! Questo è il tempo dell'unità e della fraternità, questo è il tempo della vittoria, questo non è il tempo di una vita, bensì di tutte le vite, questo è il tempo delle lampade che ardono sulle colline oscure. Per secoli non si sono comunicati i popoli, ed i poeti sono cresciuti come i funghi del bosco, nella umidità segreta e pestilenziale. Sono cresciuti inferocendosi in se stessi e divorandosi gli uni con agli altri.
Che epoca differente quella in cui viviamo! Che fulgori sta costruendo l'aurora! In quanta luce stiamo partecipando!
La nostra America tenebrosa si riempì di catenacci. I feudali ed i boia, i capi tribù indiani ed i traditori hanno voluto chiudere la porta dei nostri paesi. Servono così il loro padrone. L'oscurità della notte in America! I catenacci da tutte le parti, i libri che si bruciano per mani infami. La parola di Lenin sepolta, nascosta. E tuttavia, oltre le pareti, un'intensa vita, agitatrice e sovversiva, alimenta il cuore dei nostri paesi, oggi come cento anni fa, oggi durante la vita di Prestes come prima durante i giorni di Morazán o di Bolivar. Una bandiera perseguita, calunniata rotta e cancellata, oggi come ieri, si tesse con le stesse fibre di altre ore vittoriose e con altre mani invincibili.

Nel mese di Luglio del 1947, un grande sciopero si produsse nelle miniere di carbone.
Andiamo insieme ad esplorare queste miniere. Tu, Panchito, tu Ramírez, tu sei il minatore. Ti alzasti alle cinque: ora vai molto in fretta per le strade fangose. Panchito Ramírez che freddo fa! Ma bisogna arrivare al luogo di lavoro. Sono dodici chilometri sotto il mare. Quanto è tardi! Ma bisogna correre! Sì, si deve correre! Da quaranta anni, Panchito, deve correre. Bisogna scendere legato ai ferri del carrello, nella semioscurità bisogna discendere, dopo due ore di viaggio, e mettersi semicoricato o semisollevato, perché quella è la posizione del minatore, piccola larva nera delle cavità sulla quale trasuda l'umidità arteriale dell'oceano freddo e nella quale morde la silicosi come una cagna affamata.
Bene, Panchito Ramírez, già ora passarono le 10 ore, le 12 ore, le 14 ore, delle quali te ne hanno pagate solo 8, ed ora dove vai? Continua a piovere, continua a essere fredda la notte, le tenebre sotto, le tenebre sopra, e bisogna correre a casa, Panchito Ramírez. Ma, che cosa casa è questa?
Questa casa è così, come l'ho vista io, come lo testimonio io, come l'affermo io:
Il tetto è indescrivibile. Non ci sono tetti come questo. Questo tetto somiglia all'abito dei poveri, dei mendicanti, degli sconfitti. È un tetto che non potè vincere, perché è sistemato con materie nemiche. Ha pietre, ha cartoni, ha zinco, ha tegole, ha buchi, ha fango, ha carte.
Sotto il tetto vivi, Panchito Ramírez, minatore. Quante stanze? Non lo seppi mai. Sono letti. Letti nei quali sta dormendo sempre qualcuno. Non c'è sala, non c'è sala da pranzo, non c'è cucina, non c'è casa. Ci sono letti. L’unica cosa che vidi, è una radio. Questa radio è il dio della casa. È coperta con un ricamo bianco e fine. Quanto c’è nell'abitazione è duro, necessario ed ombroso. Questo è il gran lusso delle vite oscure. È la comunicazione con le altre vite, è la comunicazione con la vita.
Quelli letti sono i letti caldi. In quello letto sta dormendo un minatore che quando si sveglia, si alzerà e barcollando andrà verso la miniera, mentre un altro minatore che ha aspettato il suo turno per dormire, occuperà il letto. Nei 365 giorni dell'anno, quello letto non si raffredda. Quello è il letto caldo.
E per questo, per il grande inverno e per l'alimentazione miserabile, e per i dodici chilometri di viaggio mortale sotto l'oceano, e per il grisú, e per la morte, e per il salario impossibili - 50 centesimi di dollaro per quelle 12 ore di lavoro - e per tutto quello che sappiamo, per le scarpe rotte, e per i vestiti bagnati, e per la tubercolosi e la silicosi, per questo, in quel mese di Luglio del 1947, ci fu, come deve essere, come necessita che sia, un grande sciopero tra i minatori del carbone di Lota e Coronel, nelle profondità del desolato sud, sotto le raffiche antartiche, vicino al mare in cui il
petrel e l'albatro delle solitudini volano nella nebbia marina.

Che presidente avevamo allora!
Sei mesi prima andò a chiedere il voto agli uomini del carbone. Diecimila, venti mille di essi l'acclamarono e quando gesticolava parlando di come gli altri candidati erano ricchi, e non lui, erano poderosi, e non lui, una vecchietta stracciona, ombra pallida delle terribili miniere, si avvicinò titubante, disfece con difficoltà il nodo del suo fazzoletto vecchio e tirando fuori un biglietto da cinque pesos del Cile, qualcosa come cinque centesimi di dollaro, glielo consegnò nella tribuna dicendolo: "È tutto quello che ho." Ed il candidato prese quei centesimi, raggrinziti per la povertà, e li alzò davanti alla moltitudine: "Era il suo nuovo titolo", disse, e le lacrime cadevano tra i suoi denti. Già ripagherò quei cinque pesos, disse loro, già li ripagherò abbondantemente facendo stanze, elevando i salari, cancellando la povertà.
Ed ora, in questo sciopero, quando la povertà come un lievito stava gonfiando il pane dei poveri, quando crebbe l'angoscia fino a colpire le porte, scese solo dal suo trono per affondare i suoi canini nella carne del popolo.
Ed i porti minerari furono circondati da un uragano di ferro: corazzate nella baia, carri armati per le strade, aereoplani nell'aria giorno e notte, artiglieria sulle colline, soldati e poliziotti da tutte le parti.
I minatori si rinchiusero nelle loro case o andarono ai monti, difendendo i loro diritti di sciopero. Allora, caricarono su interminabili treni migliaia di loro ed le loro donne ed i loro bambini, e questi treni rimasero abbandonati a volte nelle stazioni e lì morirono bambini e vecchi.
Alcuni di quegli uomini avevano lavorato quaranta anni nelle miniere ed ora, con un colpo di calcio nella testa, rimanevano rovesciati per le strade, nelle altezze inospitali della Gran Cordigliera, nel deserto o nelle isole antartiche.
L'agonia dell'imperialismo ha avuto bisogno di altre armi, non solo la mano del boia in Asia, bensì il tradimento, la falsità di un Chiang Kai-shek o un Bao Dai. Ha dovuto creare quello che chiamano una terza forza con questi uomini cuneo affinché colpiscano l'aggressione, dividendo la resistenza popolare. Ha contato il nemico del popolo su tutti questi falsi amici dei popoli, con tutti questi quali si spaventarono del movimento che davanti a loro cresceva e che lasciava dietro di loro, e l'imperialismo nel suo sacco tesoreggiò non solo esplosivi, mitragliatrici e fruste di negriero, ma anche spergiuri, indegnità, tradimenti e sorrisi.

Alla fine noi poeti vediamo i visi nudi e le maschere nel suolo. Abbiamo tutto lo spazio davanti a noi. Abbiamo la libertà davanti a noi. Nessuno potrà ingannarci. Già i commedianti, quelli che resisterono tra la spada e la parete, non poterono resistere tra l'oro e la parete. Già i Malraux, gli Ezra Pound, i Koestler, sono arrivati al
Reader's Digest, mentre gli Aragona, gli Ehrenburg, gli Éluard, i Machado, gli Alberti, i Guillen, i Marinello, sono arrivati al popolo.
Allora ci fu silenzio in Cile, il silenzio della censura e della morte. I giornali operai furono rasi al suolo, i sindacati furono aggrediti, le radio furono messe sotto controllo, si dichiarò l'ordine di Truman, l'ordine delle tombe.
E così passò un anno. Era da un anno che i dirigenti sindacali della zona del carbone erano reclusi nel campo di concentramento di Pisagua. E quando arrivò il momento di scegliere il nuovo direttivo, quelli minatori, quegli uomini bastonati ed oltraggiati, quelli di cui espulsero un enorme numero dalla resistenza attiva, ancora assediati da poliziotti e militari, ebbero una nuova elezione sindacale. Ed in questa elezione scelsero il loro stesso direttivo prigioniero, agli stessi che sopportavano l'agonia del campo di concentramento di Pisagua da un anno, custoditi dalle mitragliatrici e dal deserto inumano.
Questa è l'età dell'eroismo. Questa è l'età del gran eroismo, l'età del popolo organizzato.
Io canto quelli minatori che sopportarono e resisterono e resistono. Io non canto nessun uomo tra di loro, perché non conosco nessuno.
Io canto la parola sotterranea che li unì, io canto il voto innumerabile che uscì dalle mani ferite. Io canto, tu canti, perché questi sono i fatti di un nuovo giorno, perché queste sono le voci che annunciano la primavera, la gran primavera, la gran primavera del mondo.
Io canto, tu canti piccoli fatti che prima non ebbero significato alcuno, lo sguardo di un uomo, una porta che si chiude, una proclama unto di grasso che va di mano in mano.
Io canto quello che palpita sotterraneo o addormentato nella nostra America, il risveglio dei popoli, e canto e credo in ciò.
Chi può fermarlo? Chi può fermare la mia mano? E chi può fermare la tua mano?
È l'ora del canto, l'ora di una maggiore profondità e di una maggiore estensione. È un'ora di geografia e di movimento, un'epoca di fraternità e di azione, un'ora senza maschere, della quale si è staccata tutta la falsa luce dalla bugia, un'ora come un viso fatto di tutti i visi e che ci guarda affinché noi gli diamo la voce che necessita.
Quella voce la sentii a Danzig
(Danzica in tedesco), oppure a Gdansk (Danzica in polacco), in Polonia. Io passai per i cantieri navali, tra i ferri contorti, tra le vecchie case di mattoni scavate, bruciate e bombardate. Lì La guerra aveva tentato di ammazzare ogni resurrezione.

E morti erano i grandi viali e le strette viuzze e gli elevati camini e le pareti sdentate Tutto era morto, meno l'uomo. Lì vidi la potenza della nuova Polonia. Vidi il formicaio dei cantieri navale e delle dighe e, come piccoli insetti della ricostruzione, gli uomini portuali, vicino ad una gru gigantesca come un'unghia colossale sotto il cielo grigiastro, una gigantesca gru appena ricostruita e provocatoria attraversare su una chiatta tra i fischietti della vittoria del lavoro.
Ascoltarono le mie parole gli operai dei nuovi cantieri navali. Lì stesso nascevano veloci imbarcazioni ed essi per sentirmi, coi loro abiti azzurri e le loro camicie appena lavate, erano usciti dalle miniere e da tutte quelli pietre disordinate che dicevano ancora la loro attestazione atroce contro la guerra e la morte. Ed allora, quando mi ascoltarono, quando sentirono i miei racconti del sud del mondo, da dove io venivo, essi, uomini del nord, abituati ai più amari patimenti ed ora recenti padroni della vittoria, essi, ascoltandomi, con occhi velati ed una voce alta e marittima, in piedi, per ringraziare per la mia visita e per il mio messaggio, non fecero altro che cantare un'antica e nuova canzone, di unità, di lotta e di speranza, promettendo solidarietà con gli altri lavoratori del Cile:

In alto i poveri del mondo, in piedi gli schiavi senza pane

E tra le barche ed i fischietti e le gru e la nebbia e la ricostruzione e la fermezza di quegli uomini uniti, salì quella canzone come una voce di pietra, come una voce di nuova cattedrale, come una roca voce disciplinata e risonante. Cantando con essi mi sembrava che la canzone dei lavoratori si alzasse con una curvatura di ferro che sottometteva enormi edifici. Mi sembrò di non averla ascoltata mai prima. L'ascoltai sempre in tempi di sorda o sanguinante lotta. Ma ora era un'altra cosa, usciva da una sicurezza immensa e veniva, come una mano gigantesca a stringere la mia piccola mano di poeta e pellegrino, e le mani del mio paese, offeso e lontano.

Un poeta morto più di un secolo fa mi invitò alla sua patria. Percorsi col ricordo di Pushkin l'Unione Sovietica. Che giorni straordinari! Dalla vecchia statua di bronzo a Mosca, dove i bambini ed i lavoratori depositano fiori e poemi fino alla peregrinazione nei sacri luoghi per il paese sovietico, dove visse, soffrì e morì la cristallina voce della Russia. Pushkin è amato nell'Unione Sovietica, perché Pushkin fu un romantico ed un realista e perché non si allontanò mai dal suo paese. Quando i cospiratori decembristi contro lo zar, egli era esiliato, e per quelli dei suoi camerati caduti o deportati in Siberia, egli scrisse nell'anno 1825, con una fede ed una fermezza che desidererebbero molti poeti di oggi, questo "Messaggio per Siberia":

Profondo, nella miniera siberiana,
conserva la tua pazienza orgogliosa,
l'amaro sforzo non sarà perduto
né il pensiero ribelle dominato.

La sorella dell'Infortunio, la Speranza,
muta nell'oscurità di sotto
parla con allegro valore ai vostri cuori:
arriverà già il giorno atteso.

Amore ed amicizia si verseranno su voi
attraverso le porte oscure
quando vicino ai vostri letti di prigionieri
la mia libera musica si sparga.

Le pesanti catene cadranno,
una parola abbatterà i muri,
la libertà vi saluterà a piena luce,
ed i vostri fratelli vi restituiranno la spada.

Ma continuiamo a percorrere la strada, del braccio del poeta.
Già abbiamo visitato l'immenso Museo Pushkin, nella città di Pushkin. Questa si chiamava prima "Passatempodell'Imperatore",
Tsarskoe Selo. Oggi, il popolo e Pushkin sono padroni della terra russa. La città che portava il nome dell'imperatore che lo confinò, porta oggi il nome della città di Pushkin, Púshkino.
Ora stiamo nel posto del suo esilio, nella profondità delle terre russe. Stiamo nella piccola casa bianca nella quale scrisse
Borís Godunov e nella quale la sua lingua di vetro descrisse con la semplicità dell'acqua, la vita dei contadini, degli artigiani, dei ribelli, di tutti gli umili esseri che lo circondavano, ed anche le auree leggende della sua terra ancestrale.
Lì programmò anche il suo libro su Pugachov, il leader che nelle tenebre dell'antica Russia diede la sua grido "Terra e Libertà."
Dalla bianca casa si vede la verde valle, attraversata da tranquilli fiumi. Da qui vedo come in una spianata vanno a riunirsi i contadini dei kolkhoz più vicini, fino a centocinquantamila uomini e donne, che hanno lasciato i loro trattori ed il loro lavoro, vestiti molti di essi con gli abiti regionali, verdi e rossi, o alcuni vestendo i loro azzurri abiti di operai meccanici, si vanno unendo fino al numero di cinquantamila, per ascoltare dalla bocca dei saggi dell'Accademia di Scienze e dei poeti sovietici, la vita ed il pensiero del poeta che amano.
Cinquantamila uomini festeggiando un poeta, in quelle terre in cui i calunniatori dicono che sono la negazione dello spirito, lo stagno della malvagità. Sì, cinquantamila, ma in un solo punto della Russia. In realtà, in quell'ora, duecento milioni di abitanti sovietici sentivano nelle loro radio i versi di quel padre della sua lingua, inauguravano centinaia di musei con la sua effigie ed i suoi libri. Nei campi, come bandiere, fluttuavano i versi del dolce e coraggioso trovatore, tutte le sue opere erano interpretate in tutti i teatri di quella patria vasta. Venti milioni di nuovi esemplari dei suoi libri uscivano alla luce, tutte le cattedre brillavano con le vecchie parole di malinconia e di lotta che Pushkin aggiunse alla voce del suo popolo.
Ricordai dalla casetta bianca nella quale la tirannia volle cancellare per sempre la voce del poeta, ricordai le parole che egli scrisse sotto lo stesso soffitto che mi copriva, con una fede profetica,

La diceria della mia fama si estenderà per tutta la vasta Russia,
e tutti i suoi popoli diranno il mio nome la cui luce regnerà
uguale per l'alto schiavo e per il finlandese, ed il selvaggio manchu,
e per i kalmyks, fantini della steppa.
Sarò amato ed il popolo ricorderà per lungo tempo
i pensieri che feci svegliare, la brillante corona,
e saprà come in questa epoca crudele io celebrai della mia musica la libertà.

Continuiamo il nostro viaggio per i luoghi sacri della storia di Pushkin. Un anno e mezzo durò l’assedio di Leningrado. Nella storia del mondo, niente la eguaglia in sofferenze, niente la eguaglia in resistenza vittoriosa. Che bella città! Col maestoso ricordo dell'impero di Pietro il Grande, passeggiando vicino al lento fiume, cammino per la prospettiva Nevski, strada di vecchi sogni, luogo di patetico sonnambulismo, emanato dai vecchi romanzi russi. Ora, una moltitudine sveglia e precisa riempie i viali. Oramai non c'è mistero. Il mistero, il sonnambulismo, la teoria della letteratura come sogno, sono teorie letterarie di servi e coi servi sono partite... Già sono andati via i conducenti che abbracciavano i loro cavalli e sono partiti, verso la strada senza ritorno, le prostitute deliranti ed i nobili osceni. Già non c'è orma in Russia dei suoi crudeli passi. Ci sono orme nella prospettiva Nevski e sono orme di mitraglia nelle pareti, spruzzate dell'inferno. Quelle sì, quelle orme della guerra sono registrate nel poderoso viso dell'Unione Sovietica. Dietro il sorriso combattente c'è il ricordo della patria trapanata. Quello non lo dimenticheranno mai i russi. Ahi a quello che di nuovo entra o tentare di entrare per le sue frontiere! Ahi a quelli che sognano in una nuova passeggiata per quella patria invincibile!
Seppi come nel terribile inverno di Leningrado, attraverso le finestre rotte, il freddo ammazzava i vivi e conservava i morti. La madre stava nella sua stanza per settimane col cadavere del marito morto. Chi poteva portarli a seppellire? Appena alcuni grammi di pane erano gli unici alimenti, il doppio per i soldati. L'acqua si prendeva fangosa dalle strade. La luce era un problema risolto con multiple e strane idee. E vidi nel museo pezzi di cinghie di macchinario, rose dai denti di bambini.
Orbene, mentre durava questo assedio terribile, gli ingegneri si riunivano per pianificare la ricostruzione della città.
Ed io l'ho vista ricostruita, senza più orme tranne che quella grandine di mitraglia sotto i balconi, ma bella e pulita, larga e grigia, infinitamente occupata, libero da patimenti, coi migliori teatri del mondo, trapassata dal suono delle fabbriche e dal fischio delle imbarcazioni. La città di Lenin, la città fondatrice, che rivelò al mondo la forza organizzata dei popoli.
Così soffrì e così vinse. Ed ora credete voi che possano intimorire quella città di pietra grigia e di cuori capitani i preparativi di guerra con la bomba atomica ed il ricatto della bomba a idrogeno? Lì perfino le pietre sono immortali. Tutte quelle hanno ricevuto il sangue dei suoi invincibili difensori. La forza atomica sta lì, nel nuovo uomo creato dalla "umanità sovietica."


Continuiamo il viaggio. Lasciando indietro Pushkin, in una mattina di estate implacabile, arriviamo a Stalingrado. Che giorni quegli in cui il mondo tremava in cui tutta l'angoscia, tutta la speranza, tutto il silenzio, tutto si concentrava in quello remoto punto, in quella città del Volga lontano! Ed ora, pulita dai rottami, comincia ad emergere una nuova, bianca e vibrante città. Dappertutto, come monumenti strazianti, le alte rovine bruciate ci parlano di quella gloriosa vittoria. Giardini vicino alle rovine, ed il largo Volga immutabile porta a spasso la sua grandezza. E nel centro stesso della battaglia, dove sembrava che andasse a terminare il polso della vita umana, nella gran fabbrica di trattori, dove si abbattè tutto il pesante uragano della guerra più grande lasciando solo ferri ammucchiati ed aggrovigliate e contorte rovine, ora ho visto nascere i trattori con un ritmo continuo, rapido e felice. Passo tra le file di operai, separate tra loro da alcuni vasi da fiori fioriti, tra le migliaia di meccanici che stringono, uno ad uno, il rodaggio della creazione della pace.
Visito poi il nuovo Palazzo della Cultura per gli operai della fabbrica. Sale di sport, sale di musica, giardino d’inverno e biblioteche, sale da pranzo e docce. Tutto l'immenso edificio, con le sue grandi finestre, guarda lo scorrere del Volga.
Lascio indietro la città di Stalin, la città risorta, che si alza minuto dopo minuto, come simbolo colossale della speranza.

Io dico: Chi vuole cantare? Chi vuole cantare con me? È che mancano temi ai poeti? È che manca acciaio ai poeti?
Venite con me, poeti, ai bordi delle città che rinascono: venite con me ai bordi della pace e del Volga, o ai vostri propri fiumi e alla vostra propria pace. Se non dovete cantare le ricostruzioni di questa epoca, cantate le costruzioni che ci aspettano. Che si senta nel vostro canto una rumore di fiumi ed un rumore di martelli.
Ci sono molti che sostengono che non dobbiamo cantare i nuovi fatti, le nuove vittorie, né dare nel nostro canto quello che ci chiede il nostro paese e la nostra patria.
Alcuni mentono ed altri non sanno. Alcuni mentono perché non hanno un altro scopo che quello di spingerci all'indietro, quello di trascinarci al passato. I poeti fanno parte del paese, hanno sentimenti e dolori e lotte più profonde, più importanti, e più poetiche che le loro piccole questioni metafisiche e che le loro sporadiche interiezioni di amore. La borghesia, nella sua agonia, si aggrappa ai poeti, perché conosce il loro valore, per ammutolirli e per farli retrocedere. I pressa con un misticismo frenetico, con un surrealismo perverso con un occultismo metafisico, con un soggettivismo morto.
Le cose sono più semplici. Possiamo noi poeti, come i pittori, senza perdere la nostra libertà - al contrario, fecondandola - dare quello che il nostro tempo esige da noi ed il nostro paese ci chiede.
Si è sparsa la diceria che nell'Unione Sovietica gli scrittori ed i musicisti e gli scienziati devono conformare la loro creazione alla petizione di alcuni dirigenti. Questa è una calunnia in più della reazione internazionale, calunnia alla quale si afferrano gli agonizzanti intellettuali della borghesia per aggiungere la loro parte di fango nello stagno reazionario.
Sarebbe strano che alcuni dei nostri antichi partiti creolo, i partiti politici di Somoza e di González Videla, di Trujillo, preoccupati esclusivamente dello sfruttamento dell'uomo e della consegna di quanto abbiamo alle compagnie straniere, esaminassero il problema estetico e popolare della musica o il cammino verso le scienze biologiche. No, questi partiti non lo faranno perché sono partiti del passato.
Il gran compositore Shostakóvich ha appena conquistato il premio Stalin per il 1950. È il più amato dei musicisti nell'Unione Sovietica, ma la sua musica si stava allontanando dal suo popolo ed andava via verso i labirinti del formalismo e della decadenza europea. Lì la musica è un tesoro nazionale. Sono milioni e milioni gli operai che accorrono ai concerti e fu detto a questo gran musicista:
"Ascolta, la tua musica va lontano dalle orecchie del nostro paese. Ritorna al gran fiume della nostra profonda tradizione, sviluppati e progredisci dentro lui, affinché tutti ti ascoltino, affinché tutti ti comprendano e ti condividano."
I musicisti di molte parti del mondo, gli stessi che fanno bolero oltre misura e musica geniale per film nordamericani, nei quali devono sentirsi certi tempi quando la
vedette esce dal bagno mostrando la sua anatomia, tutti questi musicisti protestarono: “Non c'è libertà per la creazione del genio nell'Unione Sovietica." E continuarono a fare musica per i polpacci delle vedette, mentre il gran Shostakóvich, riconoscendo i suoi errori, come un umile artigiano, come dobbiamo essere noi che crediamo e crediamo, ha fatto nuove opere magnifiche e generose nelle quali ha preso come nuovo impulso quello che gli consigliava il suo paese ed il suo partito.

Parlando un giorno a Budapest, in una riunione di poeti di tutte le parti, uscì il caso dal poeta Borís Pasternak. Questo è uno dei poeti apolitici dell'Unione Sovietica, e molto conosciuto nel mondo. Si discusse il suo caso, e qualcuno disse tra quelli che lì parlavamo: "Non tocchiate, non disturbiate il buon Pasternak." Non dimenticherò mai la risposta che un poeta sovietico, lì presente, ci diede a tutti. Ci disse: "No, non tocchiamo, non disturbiamo a Pasternak. In tutte le biblioteche dell'URSS stanno i suoi libri e gli alunni fanno tesi decifrando i suoi poemi. Ma il mio paese ha sofferto il blocco dell'imperialismo, l'attacco dei nazisti, fiumi di sangue hanno riempito la terra russa ed abbiamo avuto la vittoria che ha illuminato il mondo. E durante tanti e tanto lunghi anni, non c'è una riga di Pasternak che aiuti al nostro paese che ricordi il nostro paese. Non criticiamo Pasternak, non disturbiamo Pasternak. Io vivo nella stessa casa che lui, corridoio nel mezzo. Ci prestiamo libri. Ma se io fossi Pasternak, io sarei molto triste."
Anche un poeta, la sua immagine, la sua bandiera, si agitava in Ungheria quando passai per le sue campagne coltivate dolci e verdi fino a Budapest. Era il centenario della morte di Petöfi. Cento anni fa morì quel romantico straordinario, agitava la sua poesia il roco vento della Francia rivoluzionaria, poeta protagonista come nessuno della disubbidienza e della turbolenza del suo paese. Fece tutti i mestieri, arrivava di notte a recitare i suoi versi e canzoni della
puszta, della pianura ungherese. I suoi versi, canzoni erranti, canzoni a cavallo, correvano per tutti gli angoli del suo paese, della sua patria sommessa. Tutte le idee di libertà della sua epoca stanno in Petöfi. La sua poesia è una spada che brilla sulla testa degli sfruttatori. Un giorno le sue frecce vanno contro la monarchia austriaca, al giorno dopo contro i proprietari terrieri ed i feudali. E così lasciò seminata tutta questa ardente palpitazione rivoluzionaria, che ora si è fatta stabilità e luce nella patria che egli cantava.
Morì combattendo contro gli invasori della sua patria. Migliaia di cadaveri ungheresi seminarono la pianura. Nessuno trovò mai quello dell'ussaro sonoro, che avvolse la sua terra coi suoi canti.

Sono arrivato in Ungheria ed ora mi tocca parlare vicino al suo monumento, nei musei in cui si conservano le sue reliquie, oggi mi tocca presenziare alla resurrezione della sua grandezza.
Quelli contadini che si battevano per la terra, hanno terra. La riforma agraria moltiplica la produzione dell'Ungheria, i trattori ed il macchinario agricolo passano tuonando per le praterie, ed in questo momento di primavera e di pane, il giovane poeta morto cento anni fa, torna ad accompagnare, col suo cavallo e con la sua lira, il destino del suo paese.
Grandiosa epoca, epoca senza lacrime, epoca della pura allegria! Per centinaia di anni le classi governanti martirizzarono i poeti, li incatenarono o li bastonarono, li ammazzarono di fame, li alcolizzarono. Tirarono fuori a rilucere le loro stravaganze per allontanarli dal comune umano, diedero reputazione di viziosi ai puri affinché il paese si allontanasse da loro come da bestie, o li circondarono, assediandoli con eleganza, o isolandoli nei saloni.
Che lunga è la lista di nostri martirizzata offesi, del nostro Poes, Verlaines, Daríos amari! Senza parlare dei più recenti morti, di quelli assassinati come García Lorca e Miguel Hernández.
Oggi il nuovo mondo che si costruisce, nel nuovo mondo dell'uomo, il poeta sta al centro della sua patria, al piede delle bandiere, nel centro dei raccolti, vigilando e cantando, combattendo e difendendo, assumendo, per volta prima nella storia, il vero ruolo della poesia.
Vicino a Praga, il più bel castello della Cecoslovacchia, una piccolo Versalles, vicino ad un lago di meravigliosi alberi, il castello di Dobris, è stato destinato dallo Stato a residenza e riposo degli scrittori.
Una settimana passai con loro. Lì gli scrittori tutti hanno diritto di riposare, così come hanno diritto a chiedere che lo Stato finanzi tutte le loro spese nelle regioni o fabbriche o industrie o miniere sulle quali vogliano scrivere le sue opere. E lì, un pomeriggio, con loro riunito, volli parlar loro della vita e della morte di García Lorca e di Miguel Hernández.
E lì lessi per nuovi amici del suo paese, versi che Miguel scrisse prima di morire:

Bacio sono, ombra con ombra.
Bacio, dolore con dolore,
per essermi innamorato,
cuore senza cuore,
delle cose, dell'alito
senza ombra della creazione.
Sete con acqua nella distanza,
ma sete intorno.

Cuore in un bicchiere
dove me lo bevo io
e non se lo beve nessuno,
nessuno sa il suo sapore.
Odio, vita. Quanto odio
solo per amore!

Non è possibile accarezzarti
con le mani che mi diede
il fuoco di più desiderio,
l'ansia di più ardore.
Varie ali, vari voli
abbattono in esse oggi
ferri che accerchiano le vene
e le mordono con rancore.
Per amore, vita, avvilito,
uccello senza remissione.
Solo per amore odiato,
solo per amore.

Amore, la tua volta sopra
ed io sotto sempre, amore,
senza un'altra luce che queste ansie,
senza un'altra illuminazione.
Guardami qui incatenato,
sputato, senza calore
ai piedi della tenebra
più subitanea, più feroce,
mangiando pane e coltello
come buon lavoratore,
ed a volte coltello solo,
solo per amore.

Tutto quello che significa
rondini, ascensione,
chiarezza, larghezza, aria,
deciso spazio, sole,
orizzonte svolazzante,
seppellito in un angolo.
Spessore, mare, deserto,
sanguini, monte fluente:
libertà della mia anima
clamorose di passione,
sfilando per il mio corpo,
dove non rimangono, no,
ma dove si spiegano,
solo per amore.

Perché dentro la triste
ghirlanda dell'anello,
del sapore di carceriere
costante e di muraglia,
ed a precipizio in agguato,
alto, allegro, libero sono.
Alto, allegro, libero, libero,
solo per amore.

No, non c'è prigione per l'uomo
non potranno legarmi, no.
Questo mondo di catene
mi è piccolo ed estraneo.
Chi rinchiude un sorriso?
Chi mura una voce?
In lontananza tu, più sola
che la morte, tu ed io.
In lontananza tu, sentendo
nelle tue braccia la mia prigione:
nelle tue braccia dove batte
la libertà dei due.
Libero sono, sentimi libero.
Solo per amore.

Ora, gli autori di tutti questi crimini, gli usurpatori della Spagna, pubblicano sulle loro riviste e nei loro libri i poemi di Federico e di Miguel Hernández. Gli assassini vogliono cancellare col fulgore di questa poesia i loro crimini. Ma si avvicina anche la liberazione della Spagna alla quale accorreremo noi quelli che amiamo e rispettiamo il paese spagnolo nelle sue sfortune e nelle sue vittorie, ed allora vedremo in mezzo al suo popolo, come Pushkin, in Russia, come Petöfi in Ungheria, le figure di Federico e di Miguel Hernández, riverite e rinate.
Lì, in Dobris, in Cecoslovacchia, sorgevano i problemi dalla letteratura. Le strade di Praga hanno spesso due tre librerie in ogni isolato. Le stamperie e le case editrici esauriscono la letteratura. In tutte le nuove democrazie c'è un'ansia di carta stampata. Sono astronomiche le tiraturee di Shakespeare, di Tolstói, di Pushkin e di tutti gli scrittori moderni, dell'Europa e dell'America.
Dietro quella che è chiamata cortina di ferro è dove c'è più informazione sulla vita e sulla la cultura di tutti i popoli. Orbene, la cosa più importante per essi è una letteratura nazionale, uscita delle sue proprie radici, è una letteratura di classe, uscita delle viscere del suo popolo, della sua maggioranza. Per quel motivo, insieme ed attenti a tutto quello che avvicini loro questo ideale, lavorano e scavano nelle profondità, cercando il meglio di se stessi. Non ci sono giorni più gioiosi per me che quegli in cui i giovani poeti ungheresi mi circondavano e mi leggevano i loro nuovi poemi di ogni giorno. Uno di una fabbrica e su un edificio, uno dell'esercito e sul suo esercito, una di una miniera e sulla sua miniera. Lì sta la gioventù del mondo.
Finalmente vinsero sugli orgogliosi e sanguinari feudali, finalmente, dentro la libertà, una dottrina, un'organizzazione ed una disciplina unisce la poesia con le aspirazioni più profonde delle patrie da poco liberate.

Io pensavo al nostro romanzo americano. Io sono patriota americano e mi intenerisce ogni crescita di germoglio nella nostra vegetale aurora. E riconosco i grandi alberi che nel nostro territorio scosso da tragiche raffiche, hanno elevato fino al cielo i nidi ed i canti.
Ma il nostro romanzo e la nostra poesia sono state letali, dolenti ed ombrose. Conversando con gli scrittori di lì mi dicevano, quando io li incitavo a tradurre alcune delle nostre crudeli creazioni: "Siamo in guerra, siamo in guerra per la costruzione e per la pace: mobilitiamo tutte le nostre risorse, tutti i nostri uomini. E tu, camerata, quando vanno alla guerra i soldati, che canzone canteresti loro? Diresti loro che andassero con un'inno funebre?."
E quando io rispondevo per i nostri disperati scrittori parlando delle tetre condizioni dei nostri paesi, della repressione e del massacro di massa, dei campi di concentramento in America Centrale ed in Pisagua, essi mi dicevano: "Gorki scrisse
La madre, quel libro di fede profonda nel suo paese, dopo la terribile repressione del 1905 in Russia."
Ed avevano ragione.
Ed hanno ragione. Il nostro realismo deve scuotere le sue colonne. Non deve aprire le fosse di Huasipungo, bensì agitare le bandiere di fronte alle teste dei minatori di Lota e Coronel, dei lavoratori del Continente.
Il nostro realismo non deve guardare il fondo rarefatto dei martirii, bensì alzare di nuovo lo sguardo al cielo, alla terra e l'aria che c'appartiene.
Perché aspiriamo a lasciare come eredità ai nostri paesi una letteratura fatta di ceneri e di pustole?
Lasciamo come eredità la fede nei nostri destini. Io conosco questa America. Vengo dal profondo di essa, dalle sue tenebre, dalle sue prigioni, dai suoi assassinati. Ma conosco anche le sorgenti invincibili, la forza turbolenta che deve incanalarsi, la luce di ogni giorno di domani.
Noi abbiamo quei compiti. Dobbiamo infiammare tutte le lampade spente. Dobbiamo illuminare tutti gli angoli oscuri. Dobbiamo pulire tutte le habítaciones della nostra America straziata. Dobbiamo precipitarci sulla stabilità invincibile della libertà. Dobbiamo costruire le scuole nelle quali i nostri pittori dipingeranno i muri, nelle quali i nostri musicisti daranno il loro canto, nelle quali i nostri scrittori troveranno il nuovo seme di nuove Americhe. Dobbiamo cancellare il cosmopolitismo trapiantato dalla reazione nelle nostre terre e dobbiamo fare dei nostri creatori i più nazionali, quelli che più profondamente mostrino ai nostri popoli la sua strada verso il futuro. Solo essendo intensamente nazionali arriveremo a tutti i paesi, solo distruggendo il cosmopolitismo della borghesia, arriveremo all'internazionalismo di tutti i lavoratori del mondo.
Viviamo una stessa speranza. Tenebre e vittorie hanno percosso la nostra America, ma i nostri paesi non sono gli stessi. I nostri popoli hanno visto i due avvenimenti più importanti della storia dell'umanità: la Rivoluzione di ottobre e la liberazione della Cina. I nostri popoli, nonostante le bugie giornaliere, vedono la verità attraverso le ombre.
Non può mentirsi eternamente ai popoli. I contadini sanno, perché lo leggono nel mais, nel grano e nel riso che le vaste terre della Cina non appartengono ai vampiri di Chiang Kai-shek, né ai lupi di Wall Street, bensì semplicemente ai contadini della Cina. I minatori del rame delle alte e grandi miniere di Chuquicamata, in Cile, che con le loro dita spezzate elaborano la ricchezza degli stranieri, imperatori del rame, sanno che il rame e la terra possono essere nostri.

Questa è l'epoca della verità. Questa è l'epoca delle azioni e dei fatti. Non importa l'ombra sul Cile, su Santo Domingo, sul Nicaragua, sulla Colombia, sul Perú, sul Venezuela.
Sono le ultime ombre prima della gran aurora. Sono le ultime caverne prima della gran primavera che aspettiamo. Ricordiamo quello che vi raccontai dei minatori del Cile. In quella notte di tenebre australi tutto sembrava essere morto. Niente sembrava vivo. Ed all'improvviso, nella notte, cominciarono a brillare piccole lampade, cominciarono a popolarsi le colline di piccoli riflessi. Una non si sarebbe vista, ma migliaia di lampade minerarie, spegnendosi ed accendendosi, comunicarono alla barca che veniva dalla vittoria dal popolo il nostro messaggio, la nostra lotta, la nostra luce invincibile.
È il messaggio che porto dalle tenebre del sud, queste sono le lampade che nessuno può spegnere, questa è la nostra strada.
Oggi i mercanti di armamenti vogliono fare la guerra col sangue dei nostri popoli.
Noi possiamo impedirlo.
Noi lo impediremo. Né una goccia del nostro sangue per i sanguinari, né una goccia della nostra libertà per gli schiavisti. Abbiamo di fronte a noi tutta la pace per costruire e per cantare.
Che la parola dei poeti accompagni le bandiere della pace e della vita. Che non siano soli i nostri popoli nella loro lotta. Così noi poeti non saremo soli.

Testo letto in Città del Guatemala, 1950.
Raccolto in
Viajes, 1955.


V
L'ESILIATO IN EUROPA
(1950-1952)

Parole nel Teatro Polski di Varsavia durante la distribuzione
dei premi Mondiali della Pace 1950

Come le parole, benché si siano consumate molto, conservano impenosamente il loro significato, vi dirò che questo pomeriggio qui a Varsavia, mi sento felice.
Io percorsi la Polonia in primavera, dalle frontiere dell’Est fino alle spume di colore di acciaio del Baltico, fragole pallide e fiori di azzurro violento, fiori e fragole, nelle praterie e nei boschi, uscivano a ricevermi, e mi dicevano: "Straniero, qui sono passate molte cose, siamo state irrigate con sangue e, tuttavia, qui siamo di nuovo, siamo la primavera."
Sì, sono felice questo pomeriggio. Ora l'inverno bianco cammina sulla terra della Polonia. Ma la vostra terra, il vostro paese si risvegliò per sempre, voi date frutti e fiori, ci mostrate bambini raggianti e macchine appena nate, avete scuole e belle strade dove i rottami erano come montagne del mio paese natale, e lavorate cantando sotto il sole o la nebbia. Avete mantenuto la primavera per dividere il sole, la terra ed il pane. Perciò noi uomini che siamo venuti da lontano fino a Varsavia per riunirci nella maggiore giornata della pace, tornando alle nostre terre per estendere il mandato del nostro congresso, porteremo nella stessa mano terra della Polonia, terra sconvolta, ieri, dal martirio, oggi dalle germinazioni della speranza.
Ieri sera sentimmo la gran voce di Paul Robeson. Era come se un gran fiume fosse venuto a salutarci. Era il Mississippi che ci cantava canzoni delle sue rive, canzoni di pace. Chi non sente tenerezza grande ed emozione immensa quando Robeson canta? Egli canta tanto alto che ci sentiamo piccoli e, tuttavia, il suo canto ci dà forza. Egli ha messo il canto della pace tra gli uomini ma anche l'ha lanciato alle grandi altezze affinché l'ascolti tutta l'umanità. Questo uomo umile, per la potenza abbagliante della sua voce, fu lusingato dai nemici della pace, vollero che cantasse per loro nei loro banchetti. Ma il gran fiume canta per i poveri, per i poveri neri delle sue rive, per i poveri bianchi di tutto il mondo. Così è arrivato ad essere, fondendo in un blocco colossale il gran artista e la coscienza, l'uomo più eminente degli Stati Uniti della Nordamerica. Per quel motivo gli proibiscono di uscire da lì e contemporaneamente ostacolano l'entrata di Shostakóvich. Ma questa voce e questa musica sono conservate in materiale più duro che la pietra, resistente perfino alle bombe atomiche; sono conservate dall'amore di tutti i paesi.
Noi scrittori di questa epoca abbiamo una responsabilità che voglio segnalare: viviamo ancora l'epoca che si denominerà domani in letteratura l'epoca di Fucik, l'epoca del semplice eroismo. Non esiste forse nella storia un'opera più semplice e più alta e nessuna si scrisse sotto tanto terribili circostanze. E questo succede perché Fucik è l'uomo nuovo; è lo scrittore di epoca Fucik, epoca in cui per la composizione dell'amalgama umano si deve prendere come materiali permanenti la creazione e lo sviluppo glorioso dell'Unione Sovietica e la coscienza organizzata dei lavoratori del mondo. Fucik non è un romantico, non è un Byron. Non c'è dubbio che in un Byron c'è qualcosa che ci attrae, come in Shelley, come, più che in essi, nel gran Víctor Hugo della libertà. Ma in Fucik c'è un'altra cosa: il sentimento, non solo di un cantore della libertà, bensì di un costruttore della libertà e della pace. Fucik è un comunista. Fucik non è un martire sacrificato a caso, per la bestialità del fascismo, come il mio gran fratello Federico García Lorca, assassinato perché Franco vide in lui lo specchio di una gran cultura tradizionale. Fucik è scelto come una parte elevata di un'organizzazione destinata a portare agli uomini la felicità e la pace. Era condannato a morte da quando lo incontrarono perché egli formava parte vitale, conseguente e viva di un'attività, di una speranza invincibile. Ammazzando García Lorca i fascisti vollero spegnere una luce della Spagna per lasciarla nelle tenebre, ammazzando Fucik avevano il proposito di abbattere un edificio poderoso costruito con gli elementi anticipatori e progressisti di tutta la società umana; volevano ammazzare il futuro. Se ci riuscirono o no, non lo dirò io, bensì voi, perché qui siamo riuniti nella nuova Polonia liberata e costruttrice, non molto lontano dall'Unione Sovietica, più pacifica e più poderosa che mai, intorno al nome di Fucik per onorarlo, perché la sua opera continuerà ad essere per i secoli un monumento alla vita, scritto alla soglia della morte.
Voglio rendere un omaggio al mio fratello nella poesia Nazim Hikmet. Magari fosse stato con noi. La sua poesia è stata per tutti una gran sorgente fatta di nobile acqua che canta e di acciaio che corre verso il combattimento. La sua lunga cattività fece ingigantire la sua parola fino a farla una voce universale. La mia opera di poeta si inorgoglisce di stare vicino alla sua poesia in questa alta ora di lotta per la pace.
La colomba di Picasso ritorna sul mondo. Le sparano dal Dipartimento di Stato frecce avvelenate, i fascisti della Grecia e della Yugoslavia le mostrano il coltello tra i denti insanguinati, MacArthur il crudele aggressore, scatena contro lei, sull'eroica terra della Corea, Cascate di napalm incendiario, i satrapi che governano a Colombia e Cile pretendono di proibirle l'entrata. È inutile. La colomba di Picasso vola sul mondo, bianca e immacolata, portando alle madri una parola dolce, di speranza, svegliando i soldati con lo sfrioramento delle sue ali per ricordar loro che sono uomini, figli del popolo, che non vogliamo che vadano alla morte. E vola sui monumenti e le città, rimane incollata a tutti i muri di tutte le città del mondo col messaggio della pace che il maestro Picasso inviò con lei a tutte le parti. Questa colomba è viva e brilla ancora ogni giorno nell'oscurità delle tenebre fasciste. Quando nacque i nemici dalla pace sorrisero. Oggi la guardano con terrore e mobilitarono tutti i loro carri armati affinché non entri in Sheffield. Questa colomba ha mille vite, volò verso Varsavia e continua ad aprire le ali sul nuovo Chamberlain dell'Inghilterra, Mr. Attlee, e sul popolo britannico. La nostra colomba vola sul mondo.
Tra gli assenti c’è anche il gran pittore del Brasile, Portinari. La sua pittura ha cercato nella vita del paese i suoi materiali imperituri. Come la gran scuola dei pittore muralisti messicani ha lasciato sui muri del Messico la storia delle lotte del paese messicano, Portinari ha trovato nel movimento popolare del Brasile, comandato dal cavaliere della Speranza, Luis Carlos Prestes, un fermo terreno dove la sua opera si costruisce.
Io so che gli scrittori della Polonia e delle sorelle democrazie popolari vivono oggi nuove condizioni di vita e di ambiente che trasformeranno anche la loro opera. Sono stati chiamati a trasformare anche la vita, ad costruire col loro popolo. Noi comprendiamo le difficoltà tecniche o i problemi letterari che dovrete risolvere in ogni opera. In questa tappa, noi scrittori progressisti delle terre lontane vi dobbiamo dire: nei vostri lavori, nella vostra adesione ed unità con le vostre patrie liberate, vi accompagniamo con tutto nostro il rispetto ed il nostro amore. Noi, nella nostra gioventù, non avemmo case editrici che ci cercassero per ordinarci libri, ma ci chiusero le porte o ci sfruttarono. E quando la nostra coscienza c'indicò che dovevamo andare nel gran cammino del progresso di tutta l'umanità, con altri scrittori, specialmente coi grandi scrittori pieni di nuova allegria dell'Unione Sovietica, non avemmo solo le porte chiuse delle case editrici bensì aperte le porte delle prigioni.
Perciò, quanto state facendo, merita la nostra profonda attenzione. Andate veloci nella rotta. Vi guardano molti occhi, perché speriamo per le nostre patrie, spesso spezzate dall'oppressione, rose dall'imperialismo, la liberazione che siete riusciti nella vostra. Ed in quell'ora, le nostre opere andranno vicine ai nostri paesi che saranno uniti.
Questo congresso mi ha permesso di conversare con delegati che sono venuti dalle distanti repubbliche dell'America. Il ragazzo della Bolivia mi raccontò come dodici fortezze volanti, con piloti nordamericani, terminarono uno sciopero nelle alte miniere di stagno, in Oruro. Lasciarono cadere le stesse bombe che massacrano la Corea e finì lo sciopero perché più di mille minatori rimasero lì morti. Ed in Argentina, in Paraguay ed in Porto Ricco, ed in Cile ed in Venezuela... Non continuiamo ad enumerare.
Ma abbiamo fiducia. Questa lotta per la pace la conquisteremo. Ed agli scrittori del vasto continente americano ripeto: conquisteremo la pace, ma non col vostro silenzio bensì con la vostra parola, col vostro aiuto, che necessitiamo. A quelli dell'America del Nord si rivolse con nobili parole il maestro Ehrenburg. Io, scrittore dell'America, vi dico perché non rispondete? Perché non parlate? Hemingway, molte vite di gangster furono dipinte da te col gran stile che ti riconosciamo, ora, non è abbastanza forza di ispirazione per te la distruzione da un'onda di banditi della nostra amata repubblica coreana? McArthur non vi suggerisce un ritratto come quelli dei gangster che lasciasti nei tuoi libri, incisioni con bulino? E perché non parli della pace? Vuoi la guerra?
Steinbeck, gran Steinbeck, autore di grandi libri, che cosa ci dici di Howard Fast? Sei d’accordo che un gran scrittore della patria di Jefferson scriva i suoi romanzi nella prigione? Steinbeck, Steinbeck, che cosa hai fatto a tuo fratello?
Molte volte mi hanno domandato cose sulla mia poesia. Io ho poco da rispondere. Non potrei dire molto più di questo: scrivo i miei poemi perché nacqui per cantare.
Orbene, mi domandano, i tuoi poemi sono per molti una bandiera; credi che così debba essere che devono andare davanti al popolo, guidandolo con la sua strada?
Ed io rispondo: sono contento se la mia poesia rimane accesa nel cuore del popolo ed arriva ad illuminare il cammino della pace che conquisteremo lottando e cantando.

Discorso letto da Neruda nel Teatro Polski di Varsavia
il 22.11.1950. Edito nel
Diario de Centroamérica,
città del Guatemala, 7.12.1950, ed in
Repertorio Americano,
num. 1.123, San José del Costa Rica 1.2.1951.


Andiamo in Paraguay
VÁMONOS AL PARAGUAY. (Pagine 804-807) Uno dei migliori testi dell'esilio.

Vivo dietro Notre Dammi, vicino alla Senna. Le barche cariche di sabbia, i rimorchiatori, i convogli carichi passano, lenti come cetacei fluviali, di fronte alla mia finestra.
La cattedrale è una barca più grande che eleva come un albero la sua freccia di pietra ricamata. E nelle mattine mi affaccio a vedere se sta ancora lì, vicino al fiume, l'imbarcazione cattedrale, se i suoi marini intagli nell'antico granito non hanno dato l'ordine, quando le tenebre coprono il mondo, di salpare, di andare navigando attraverso i mari. Io voglio che mi porti. Mi piacerebbe entrare per le fiume Amazzoni in questa imbarcazione gigante, vagare per gli estuari, investigare gli affluenti, e fermarmi all'improvviso in qualsiasi punto dell'America amata fino a che le liane selvagge facciano un nuovo manto verde sulla vecchia cattedrale e gli uccelli azzurri gli diano una nuova lucentezza di vetrate.
Oppure, lasciarla ancorata negli arenili della costa del sud, vicino ad Antofagasta, vicino alle isole del guano in cui lo sterco dei cormorani ha imbiancato le cime: come la neve lasciò nude le figure di prua di imbarcazione gotica. Che imponente e naturale starebbe la chiesa, come una pietra ma tra le rocce scontrose, spruzzata dalla furiosa schiuma oceanica, solenne e sola sull'interminabile sabbia.
Io non sono di queste terre, di questi viali. Io non appertengo a queste piante, a queste acque. A me non parlano qiesti uccelli.
Io voglio entrare nel fiume Dulce, navigare tutto il giorno tra le frasche, spaventare gli aironi affinché alzino il loro repentino lampo di neve. Io amo questa ora andare a cavallo, fischiando, verso Pueto Natales, nella Patagonia. Al mio fianco sinistro passa un fiume di pecore, ettari di lana cilindrica che avanzano lentamente verso la morte, alla mia destra pali bruciati, prateria, odore di erba libera.
Dove sta Santocristo? Il Venezuela mi chiama, il Venezuela è una fiamma, Venezuela sta ardendo. Io non vedo le nebbie di questo grande autunno, io non vedo le foglie arrossite. Dietro Parigi, come una lanterna di faro, di luce moltiplicata, arde il Venezuela. Nessuno vede questa luce per le strade, tutti vedono edifici, porte e finestre, persone frettolose, sguardi che accecano. Tutti sono sommersi nel gran autunno. Non è il mio caso.
Io dietro tutto vedo il Venezuela come se dietro la mia unica finestra si dibattesse con tutta la forza del fuoco una grande farfalla. Dove mi porti? Voglio entrare in quella tela del mercato del Messico, del mercato senza nome, del mercato numero mille. Voglio avere quel colore bruciato, voglio essere tessuto e strecciato, voglio che la mia poesia penda dagli alberi del paese, come una bandiera, e che ogni verso abbia un peso tessile, difenda i fianchi della madre, copra il crine dell'agrarista.
Io non conosco il Paraguay. Come ci sono uomini che tremano di delizia pensando che non hanno letto un certo libro di Dumas o di Kafka o di Balzac o di Laforgue, perché sanno che qualche giorno l'avranno nelle loro mani, apriranno una ad una le sue pagine e da esse uscirà così la freschezza o la fatica, la tristezza o la dolcezza che cercavano, così io penso con delizia che non conosco il Paraguay, e che la vita mi prenota il Paraguay, un recinto profondo, una cupola incomparabile, una nuova immersione nell’umano.
Quando il Paraguay sia libero, quando la nostra America sia libera, quando i suoi paesi si parlino e si diano la mano attraverso i muri di aria che adesso ci rinchiudono, andiamo in Paraguay. Voglio vedere lì dove soffrirono e vinsero i miei e gli altri. Lì la terra ha cuciture rinsecchite, i rovi selvaggi nello spessore conservano brandelli di soldato. Lì le prigioni hanno trepidato col martirio. Ci sono lì una scuola di eroismo ed una terra irrigata con sangue aspro. Io voglio toccare quelli muri su cui forse mio fratello scrisse il mio nome e voglio leggere lì per la prima volta, con primi occhi, il mio nome, ed impararlo di nuovo, perché quelli che mi chiamarono allora, mi chiamarono in vano e non potei accorrere.
Sono ricco di patria, di terra, di genti che amo e che mi amano. Non sono un patriota sfortunato, né conosco l'esilio. La mia bandiera mi invia baci di stella ogni giorno. Non sono confinato perché sono terra, parte della mia propria terra, indivisibile, spaziosa.
Quando chiudo gli occhi, affinché all'interno di me passi come un fiume la circolazione del sogno, passano boschi e treni, deserti, compagni, villaggi. Passa l'America. Passa dentro di me come se io passassi un tunnel o come se questo fiume di mondi e di cose diminuisse la sua portata ed all'improvviso tutte le sue acque entrassero nel mio cuore.
Il mio cuore ha terra, ed in questa terra ci sono alberi ed in questi alberi un aroma tenace. È a volte l'odore freddo dell'alloro australe che quando cade dalla sua torre di quaranta metri, nella selva, colpisce come un tuono e sposta cento tonnellate di profumo invisibile. O è l'odore di mogano, quella fragranza rossa del Guatemala che vive in ogni casa, che ti aspetta negli uffici e nelle cucine, nei parchi e nei boschi. E anche altri aromi.
- Indelebile profumo. Dove mi porti? Ignori l'oceano?
- No, non ignoro l'oceano. Ma sono la tua chioma, sono il tuo pennacchio, ti seguo e ti circondo, sono la tua coda di cometa e di pianeta, sono il tuo unico anello di unico matrimonio, sono la tua vita.
Sì, sei la mia vita, sei la mia razza, sei la mia stella. Sei la gran conchiglia di sangue e madreperla che suona e risuona nelle mie orecchie. Chi ascoltò il tuo mare non ha un altro mare, chi nacque vicino ai tuoi fiumi starà con essi nascendo ogni giorno, chi crebbe con le araucarie di Lonquimay ha un dovere imposto, canterà nella tempesta.
Ed è così, signori, come quando mi sveglio, e vedo levarsi, ossa e cenere, sulla Senna, la barca di Notre Dame de Paris, attaccato e punita dall'oceano del tempo, augusta, grave, seduta nel suo antico potere, io solo penso, solo sogno.

andare via verso le tue rive, oh la mia America, in questa imbarcazione o in qualche altra,
vivere tra la tua gente che è la mia, tra le sue foglie,
lottare vicino ad ognuno dei miei fratelli, vincere,
affinché la mia vittoria sia estesa e tua, come la nostra larga terra, piena di pace e di aroma,
e lì, qualche giorno, su una nuova barca fluviale, su una macchina, su una biblioteca, su un trattore
(perché le nostre cattedrali saranno quelle, le nostre vittorie saranno quelle larghe vittorie)
anche io possa, dopo avere lottato e vinto, essere anche terra, solo terra, solo terra, solo la tua terra.

Parigi

Pro Arte, num. 117, Santiago, 30.11.1950.


Serenata
SERENATA. (Pagine 807-808) Questo poema scritto a Parigi, 1951, stranamente è stato pubblicato solo sulle due edizioni di Pablo Neruda, Tout l'Amour, antologia bilingue, Parigi, Seghers, 1954 e 1961. Tradotto al francese da Alice Ahrweiler, ed. 1954, = Alice Gascar (ed. 1961) il poema non figura nelle edizioni in spagnole dell'antologia Todo el amor. Sembra destinato a Matilde, benché dimenticato tanto da lei come dall'autore.

Credo che sia più mia che la mia pelle. Quando cerco
dentro me le vene, il sangue, il nascosto
ramo circolatorio della luce che sgrano,
ti incontro come se fossi sangue,
come se fossi pietra o morso.

Io sono esternamente tardo, ragione, delirio, abito,
sono un'antica razza di ombra e di legno,
ma quando mi inclino come in un pozzo ed entro
a tentoni come un cieco sul mio territorio
non trovo l'armatura che dirige i miei passi
bensì la tua crescita di rosa nella mia dimora.

Dentro me, continui, continui a crescere, insondabile
è la tua origine, non posso toccare i tuoi occhi,
bensì sentire il petalo che mi brucia le unghie,
le fiamme della tua forma che nella mia sete si consumano,
le foglie del tuo viso che costruiscono l'assenza.
Io domando, chi è? Chi è? Come se tardi,
tardi, tardi battessero nella mia porta ed in mezzo
del vuoto non trovassi più che l'aria,
l'acqua, l'albereto, il fine del fuoco diurno,
non trovassi nient'altro che tutto quello che esiste,
nient'altro che la terra che suonava alla mia porta.

Così, senza nome, vaga come la vita, torbida
come le crescite di fango e vegetali
nel mio petto ti risvegli quando chiudo gli occhi,
quando ritorno alla terra cominci la tua esistenza.

Forse la polvere, il fiume che accumula il suo alveo
conservano un sviluppo nudo di radici
che crescono come cresce la tua presenza nella mia,
che accompagnano la sua ombra come tu mi accompagni.

E così, sanguini o spiga, terra e fuoco vivono
come una sola pianta che non spiega le sue foglie.

Isola di San Luis, Parigi, I951

In Pablo Neruda,
Tout l'amour, antologia bilingue,
Parigi, Seghers, 1954.


Chiamo gli intellettuali dell'America Latina

Ho percorso negli ultimi tempi gran parte dell'Italia e Francia. Una gran lotta per la pace si sviluppa in quei paesi. Allo stesso tempo in cui gli imperialisti nordamericani sbarcano truppe ed armamenti e fanno dell'ovest europeo un luogo di occupazione, cresce l'azione della pace. Gli orrori delle due grandi guerre mondiali non si sono cancellati nel cuore di quei paesi. Le città mostrano ancora le cicatrici della guerra.
Gli intellettuali dell'Italia e della Francia mantengono una coraggiosa campagna per evitare la guerra. L'opera di molti scrittori e pittori si orienta verso questo gran problema. Poco tempo fa, i migliori pittori, scultori dell'Italia, riunirono le loro opere in un'esposizione dedicata a mostrare le dichiarazioni della guerra. Questa esposizione fu proibita dal governo italiano, ma l'attività e la resistenza degli artisti è molto lontana dal terminare.
Da tutte le parti dell'Europa, la colomba di Picasso occupa qualche posto preferito: sulla coperta di un libro, di una scatola di cerini o in una finestra. Ma non c'è niente di tanto drammatico come vedere questa colomba universale sui muri distrutti di Dresda o su qualche casa bombardata di Berlino orientale. Naturalmente, la colomba della pace non può fermarsi nella Germania Occidentale in maniera pubblica, ma appare anche nonostante le persecuzioni ed intraprende il suo volo negli stessi naricii di Adenauer. Un buon giorno vedremo questa colomba, simbolo della lotta mondiale per la pace, coprire sotto le sue ali tutta la Germania!
Ho percorso anche i paesi del Questo europeo: Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria e l'Unione Sovietica. Io comprendo che la verità è già conosciuta da molti, ma è necessario ripeterla affinché la conosca tutto il mondo, tutti gli uomini.
L'Unione Sovietica non ha solo una politica di pace, ma vive in forma profonda ed estesa una tappa di pace creativa. Non insegna solo il cammino verso la pace nelle riunioni internazionali, ma la pratica dentro le sue frontiere. Non esiste la propaganda di guerra dentro di lei, e, al contrario, ogni giorno sono esaltati gli eroi della pace.
Precisamente sono appena ritornato da Mosca, delle riunioni della giuria dei premi Internazionale Stalin della Pace. E lì, dentro i muri del Cremlino, nella sala delle sessioni del Sovietico Supremo, alcuni uomini venuti di tutti i paesi cercano con pazienza i migliori lottatori della pace del mondo intero. In quegli stessi giorni, i premi Stalin esaltavano le conquiste pacifiche dell'uomo sovietico nella scienza, nel lavoro e nelle arti. E potemmo vedere nei giornali di ogni giorno le serie di ritratti dei laureati, il ritratto dell'operaio meccanico vicino a quello dello scrittore o del saggio. Ogni giorno c'informavamo della costruzione di immensi canali e centrali idroelettriche, delle opere di irrigazione e della lotta per dominare la natura e fare migliore la vita del paese. Come Stalin ha detto, sarebbe questo possibile se l'Unione Sovietica preparasse la guerra? Sarebbe possibile preparare la guerra ribassando sistematicamente il prezzo di tutti i prodotti ed elevando in forma considerevole il livello di vita di tutti i lavoratori?
Lo stesso impeto di pace e di lavoro ho trovato nei paesi di democrazia popolare. Dappertutto in questo mondo si parla con orgoglio delle quantità di grano, di libri o di ospedali che sono riusciti ad ottenere. Da nessuna parte di questo mondo si comunica l'acquisizione di una base militare in terre straniere o il "successo" di un massacro su un villaggio dell'Africa o dell'Asia. I popoli dei paesi di democrazia popolare ci danno una lezione di gioventù e questa lezione è unica nel nostro tempo. Gli imperialisti occidentali hanno paura di questa rinascita della pace, del lavoro e dell'allegria, hanno paura di questa poderosa gioventù. Specialmente, gli imperialisti nordamericani calunniano con impegno tutte le manifestazioni della vita che essi non possono controllare. Se essi non possono vendere tanti prodotti o Coca Cola come vorrebbero alle popolazioni dell'Asia orientale, allora devono affrettarsi a difendere lì con cannoni ed aeroplani la "civiltà di Occidente." Il movimento di liberazione nazionale dei paesi, essi lo battezzano con pittoreschi nomi. Prima era "pericolo giallo." Oggi è "pericolo rosso."
Tutto il mondo si domanda con che diritto le truppe nordamericane di invasione riducono a rottami i villaggi coreani, ed anche, con che diritto rimangono a Taiwan, sbarcano in Francia, stabiliscono basi navali ed aeree in tutto il mondo. Ma noi, i latinoamericani, non possiamo domandarci questo, perché è già da molto tempo che conosciamo la risposta. Truppe nordamericane attaccarono Veracruz molti anni fa ed il Messico perse gran parte del suo territorio che fino ad oggi si chiama territorio nordamericano. In Valparaíso, molti anni fa alcuni marinai nordamericani ubriaci ed insolenti furono puniti dalla popolazione per i loro eccessi verso alcuni ragazze cilene. I nordamericani mandarono in risposta le loro navi da guerra e fecero sì che la marina del Cile ammainasse la bandiera cilena. Ma l’interessante è che poco dopo i nordamericani si impadronirono delle miniere di rame del Cile, considerate le maggiori del mondo. Non parliamo di Porto Ricco, perché anche lì sbarcarono i soldati nordamericani e non andarono via più.
Ma mentre durava questa "difesa della civiltà" che ci ha dato la potenza imperialista yankee, un nuovo periodo coloniale ha coperto come una notte oscura, la vita dell'America Latina. Mentre essi col prodotto del nostro rame, del nostro zucchero, del nostro petrolio, del nostro nitrato, del nostro caffè, che i polipi yankee rivendevano in Europa ed anche in America Latina, alzavano gli edifici di cinquanta piani del Rockefeller Center, noi arrivavamo ai più alti records di tubercolosi, di silicosi, di analfabetismo e di miseria. Il "saggio" nordamericano Vogt ha lasciato scritto nella sua ultima opera "scientifica" la frase seguente: "Può considerarsi come una benedizione per il Cile la sua alta mortalità".
Sa già tutto il mondo quello che è accaduto in Bolivia. Un golpe militare progettato nell'ambasciata nordamericana ha cancellato con un colpo di sciabola le elezioni in cui il candidato antimperialista aveva trionfato con enorme maggioranza. Questo candidato prometteva al suo paese un migliore standard di vita e la nazionalizzazione di alcuni miniere. "Fuori dalla Bolivia i nordamericani!" era un grido popolare durante le elezioni. La Giunta Militare organizzata dall'ambasciatore nordamericano ha cominciato ad imprigionare ed a confinare i cittadini. "Fuori della Bolivia i boliviani": tale è la consegna dei nuovi burattini di Washington.
Il golpe della Bolivia, come molti altri avvenimenti della politica continentale, è intimamente legato al problema della guerra e della pace. La nuova Giunta Militare ha dichiarato che il nuovo periodo di dispotismo in Bolivia e l'intervento militare si devono... ai compromessi boliviani stabiliti nel Patto di Washington. Cioè, immediatamente, si esibisce l'accordo di Washington nella sua vera essenza: la facoltà di oltraggio delle libertà nazionali in nome degli interessi nordamericani, in nome della politica degli Stati Uniti. Questa politica di guerra sta dando frutti in America Latina.
Non dimentichiamo che già tre anni fa quando [...]1 González Videla, decise la repressione poliziesca contro il popolo del Cile, si ascoltava: "La guerra comincia. Sto con gli USA. Se è necessario, mitraglierò il popolo per le strade." Così si fece. Le sue parole terroristiche si sono realizzate solo a metà, perché il paese cileno gli ha risposto in tutti i fronti.
Abbiamo il dovere di lottare implacabilmente contro i nemici della pace ed i loro burattini. I reazionari dell'America e del mondo sentono, con gran sensibilità, che il programma di pace che propone il Consiglio Mondiale della Pace è un golpe demolitore dei suoi piani. Si sentono allarmati che milioni di uomini esigano che si firmi un Patto di Pace tra le cinque grandi potenze. Io credo che possiamo chiedere agli intellettuali dell'America Latina la stessa sensibilità, ma in favore della pace. Che si rendano conto del valore positivo per la pace che significa questa proposta. Tutti i trucchi e scaramucce devono schiantarsi davanti alla semplicità della chiamata. In effetti, non è mostruoso che qualcuno si opponga a che le cinque grandi potenze garantiscano la pace del mondo? Non è semplicemente mostruoso che la propaganda della pace sia considerata un delitto da certi governi?
Spetta agli intellettuali dell'America Latina intervenire più decisamente nella lotta per la pace. Questa lotta deve riunire vicino alle speranze del nostro paese, il meglio dei nostri valori culturali. La nostra responsabilità è grande. Gli istigatori della guerra vogliono soffocare il progresso dell'uomo in un immenso oceano di sangue. Per mezzo della guerra vogliono bollare un'epoca di feroce repressione e colonialismo. L'indipendenza ed il futuro dell'America Latina sono in gioco. La lotta per la pace ci dà una nuova opportunità di creazione, difendendo i migliori ideali ed il destino del nostro continente.

[...]1. Qui la pubblicazione originale soppresse una frase per evitare l'applicazione della legge, allora vigente in Cile, di Difesa della Democrazia.

Democracia, Santiago, 24.6.1951.


Alla memoria di Ricardo Fonseca
A LA MEMORIA DE RICARDO FONSECA. (Pagine 813-816.) Dall'Europa Neruda inviò questo poema di omaggio al segretario generale del Partito Comunista del Cile, appena morto: Ricardo Fonseca (1906-1951). Si fece un'edizione clandestina in libretto: Santiago, Imprenta Amistad, 1951, con prologo firmato J.M.V. [José Miguel Varas].

Ricardo, non bisogna cercarti nel passato, non sei
l'immobile ritratto di un capitano addormentato,
qui stai, qui sta il tuo sguardo raggiante
nella bandiera del partito.

Io non ti cerco sotto la terra. I morti
stanno lì, i nomi, le tombe impreviste,
tu non sei morto, sei vivo per sempre, ti chiami
Partito Comunista.

Oggi votasti lo sciopero con quelli di Coronel, i minatori
camminano oggi con te come ieri. Non si consuma
il tuo fuoco combattivo. Arde con lui la pampa
e l'arsenale di Antofagasta.

Noi, i cileni, che indifferenti siamo
apparentemente, ma che venga il nemico!
E troverà le file più dure del diamante
perché la patria sta con te.

Quando volle il Traditore darci il suo morso,
tu, Capitano, lottasti fino alla morte,
e si ruppe la bocca la vipera che comanda:
ora siamo più forti!

Righi ancora le pareti e nell'aria ti perdi,
- come ti trova la polizia?
Che ti cerchi nella forza che ci lasciasti: tu eri
la torre della nostra allegria.

Che ti cerchino, lì continui ad entrare con altri
nella fabbrica, nel giornale,
cinque minuti fa ti ascoltavamo in quel
meeting dei ferrovieri.

Che ti cerchino, non c'è dubbio che persiste
il tuo consiglio d’acciaio: la tua voce ci disciplina.
Ti troveranno, senza cappello, gridando per le strade
o nell'organizzazione clandestina.

Chi non ti vede in lotta per la pace, avanti
a tutti, con quegli occhi puri,
chiari e smisurati perché in essi stava
tutto il futuro.

Qui stai, qui stai, come un baluardo
difendendo la terra, il pane, il rame
della patria e conservando col tuo braccio
la vita dei poveri.

Ti descrivo come sei, non è perché
sia andato via, bensì perché nell'incerta alba,
in una strada oscura, solo per queste righe
possa riconoscerti un camerata.

Eri la gioventù che sfida al vento
ed una sorgente in primavera
era la direzione del tuo sguardo
nel tuo viso di seminagione.

Agile e fermo, ardente, sgranavi
con decisione di luce e con bontà feroce
l'alveare silvestre che ti nutrì nella tua infanzia:
il miele natale di Araucanía.

Così dolce e forte fu per me
la tua amicizia vera:
venivamo noi due dalle abbandonate
regioni della frontiera,

e tra una raffica ed un'altra del tempo tempestoso
ci troviamo sotto lo stesso soffitto
vicino al fuoco che l'uomo ha alzato
tirandoselo fuori dal petto.

Affinché si conoscano queste cose scrivo
questa scrittura semplice, questo verso senza pianto,
per i tuoi figli, per Nena, la tua compagna,
è questo umile canto.

E come tu volevi, per gli abitanti
di Rancagua e di Tocopilla,
del campo e delle miniere, dei mari,
per tutta la gente semplice.

Scrivo nell'Unione Sovietica mentre la pace accorre
a popolare questa terra di primavera pura,
dove onore ed acciaio si riuniscono blindando
al paese e la sua armatura.

Mentre più lontano la Cina di ogni solco tira fuori
i numeri del grano ed il pane dei leoni
con la sua bandiera rossa alzata
su quattrocento milioni.

Quando la Corea riempie di sangue
tutto il bicchiere del valore umano
e ferma lo stivale macellaio
dell'assassino nordamericano.

Ricardo, non il passato bensì il presente è tuo.
Di ogni sofferenza conserveremo memoria.
Che aspettino i nostri morti perché presto
noi scriveremo la storia.

Non dimenticheremo allora quello che fece il nostro popolo,
i martirii non furono scritti nell'acqua.
Neanche il nome del boia dimenticheremo.
Lo giudicheremo a Pisagua.

Ed alla nostra patria consegneremo quanto
abbiamo, con certezza,
per restituirlo quello che gli fu rubato:
il pane e la bellezza.

Ricardo, nella nostra lotta vivi e ti saluta
tutta la patria nella sua lunga sfilata
e promettiamo di continuare la lotta
col partito e per il Cile.

Cancelleremo la fame dalla patria.
Ostacoleremo la guerra.
Riempiremo di spighe il cammino dell'uomo.
Cambieremo la terra.

Ed a chi domanda chi siamo, diremo:
veniamo dalle miniere del rame e del nitrato.
E questo siamo, diremo con orgoglio,
mostrando il tuo ritratto.

Dal fondo del popolo, della patria veniamo.
Niente ci sembra impossibile.
Di O'Higgins, di Bilbao, di Recabarren siamo
i figli invincibili.

Siamo i comunisti, Ricardo. Sorridendo
con te, continuiamo la giornata.
Lunga è la lotta, ma trionferemo.
Te lo giuriamo, camerata.

Democracia, Santiago, 21.7.1951


Nel Sesto Festival Cinematografico di Karlovy Vary

Io sono l'uomo che entra nella sala oscura a cercare il fascino, in qualunque latitudine e ad ogni ora. Sono uno dei milioni di uomini che entrarono ieri al cinema, attratti dalla torcia magica dell'infanzia, a vedere, sentire, sognare, sentire, imparare. Il cinema esige un'attenzione paralizante, totale, come nessuna altra arte. Taglieremo la musica, chiuderemo il libro, c'affaticherà il museo della gran pittura, ma pochi si alzano dalla loro poltrona del cinema prima della fine, benché ci deprima o c'indigni. In quell'attenzione totale c'è sempre una possibilità di una nuova immagine, di una nuova strada, di speranza.
A causa di quel potere assoluto il cinema è stato prostituito con maggiore cinismo. Non si parla quasi di poesia "commerciale", di musica "commerciale", ma si parla di cinema commerciale. I cinematografi occidentali si sono trasformati in pomposi templi senza uomini e senza dei, con un fiume d’oro che passa per la biglietteria e si deposita in certe banche, in certe tasche, in certe strade della grande città. I sogni dello schermo si volatilizzarono, come il carbone, come il petrolio, e non lasciarono nient'altro che un sporco sedimento di denaro.
In questa elaborazione industriale il cinema si macchiò con le mani dei suoi progenitori. Le dita dei monopolisti, dei "grandi commerci" lasciarono la loro impronta digitale nella pellicola, ed il cinema fu vizioso come loro, aggressivo e violento come loro, macchiato di sangue. Noi, gli uomini dell'oscurità, spettatori nella sala oscura, ci sentiamo scontenti. Stavamo inghiottendo veleno.
Mancava anche qualcosa, qualcosa di grande che vedevamo accanto a noi ogni giorno ma che non appariva sullo schermo: il popolo. Vedevamo accanto a noi da bambini la persecuzione e lo sfruttamento, e vedevamo anche l'organizzazione e la lotta del popolo, i movimenti eroici, il cammino dell'uomo verso il futuro. Niente di questo stava nel cinema. Al contrario, lì sembrava che quanto di importante accade nella vita umana accade solamente ad alcune persone vestite di
smoking. Questo era troppo.
Perciò, senza sottovalutare alcune opere maestre del cinema occidentale, ed alcuni grandi maestri, quando i cannoni della corrazzata Potiomkin spararono senza suono ancora dalla tela bianca, quelli spari furono nel cuore di molti uomini le salve di un'aurora. Quell'aurora è cresciuta e è arrivata al suo mezzogiorno. Stiamo qui festeggiando quel mezzogiorno, i prodotti che già germinarono e maturarono. Stiamo qui per vedere il cinema liberato, quello che non si propose di accumulare monete bensì ampliare la creazione, definire la tenerezza, la lotta, l'allegria, la speranza e la pace di tutti gli uomini.
Vogliamo un cinema che accompagni l'avanzamento dell'umanità con realismo e con sogno, profondamente umano. Vogliamo riconoscerci sullo schermo; simili tutti gli uomini nella sicurezza di un destino grandioso per l'umanità. Vogliamo un cinema senza lodi del pistolero né del soldato invasore che distrugge le dimore di lontani paesi che amiamo; vogliamo un cinema che ci segnali il meglio della vita e della terra. Vogliamo un cinema che nella sala oscura illumini la più pura e la più nobile della condizione umana e c'insegni ad essere migliori.
Non vogliamo neanche il cinema disperato, nero, dell'angoscia e del dolore. Sappiamo che il capitalismo predica l'indifferenza politica a tutti gli artisti, o l'angoscia senza uscita, senza speranza. Non vogliamo niente di quello nel cinema. Siamo uomini semplici e maggioranza nell'umanità, non siamo particolarmente scelti, bensì uomini di officine e strade, scuole e miniere, campi e fabbriche. Vogliamo vedere la gran bellezza, la sacra allegria, la lotta più alta, la nuova realtà.
Questo è il cinema che aspettiamo in questa epoca in cui l'Unione Sovietica con tutta la sua forza ed il suo potere costruisce la pace più larga della storia umana. Questo è il cinema che aspettiamo quando le nuove repubbliche popolari c'offrono la loro costruzione e la loro solidarietà, quando la Cina alza finalmente la sua testa antica e meravigliosa, su tutti i paesi coloniali che anche vinceranno. Il mondo nella nostra epoca, dalla Rivoluzione di ottobre, è diventato più largo, ogni giorno più vasto, e tuttavia gli uomini ora stanno più vicini. Ora ci tocchiamo quasi, ci conosciamo come mai prima, ci scopriamo ogni giorno, ogni giorno abbiamo più fratelli.
Bella è la nostra epoca di lotta e di liberazione. La pace che conquisteremo la farà più bella e migliore per tutti gli uomini. Lavoratori del cinema, amici, camerata, le vostre opere saranno degne della nostra epoca liberatrice e degli uomini liberi che entreranno - in maggiore numero ogni giorno - nella sala oscura, a trovare, anche lì, non l'illusione, non la bugia di pochi, bensì la verità per tutti.


Democracia, Santiago, 5.8.1951, ed in Repertorio
Americano, num. 1.130, San José. Costa Rica, 1.9.1951.


Verso Berlino!

Verso Berlino, per il mare Baltico, sulle oscure acque che ricordano battaglie, per le terre della Polonia estiva, popolata di pini, di grano, di papaveri, verso Berlino per aria e per la terra verde e oro della Bohemia, della Moravia, della Slovacchia. E più ancora, attraverso la cordigliera delle Ande con le sue nevi eterne ed i suoi condor, attraverso il mare dei Caraibi azzurri e transpatente che lascia vedere sotto la sua superficie irsuta di arazzi di madrepore, i suoi pesci azzurri, i suoi ombrosi squali.
I giovani che vanno verso Berlino da tutti i punti della terra, come nuovi fiumi di vita, come nuove correnti che appaiono nella nuova geologia del globo, vincendo la povertà, eludendo la polizia repressiva, viaggiando in questo momento in aeroplani rapidi o seduti nei vagoni degli innumerabili treni, cantando, mangiando mele o scrivendo versi. I giovani vanno a Berlino!
Attraverso l'Unione Sovietica vanno i giovani dalla Corea, della Cina, eroi di eroiche terre lontane. Vanno i giovani campagnoli dei lontani kolhoz, giovani sovietici di tutte le repubbliche.
Vanno i giovani polacchi, ungheresi, cechi, albanesi, greci. I ragazzi della montagna e dei fiumi, dei porti e villaggi.
Ieri mi trovavo nell'aeroporto di Praga. Quando atterrò l'aeroplano della Francia, vidi emozionato, nella passerella visi conosciuti. All'improvviso mi circondò un gruppo giovanile. Giovani neri delle isole Caribes, studenti del Venezuela. Che allegria nei suoi visi!
Un mondo si opponeva al loro viaggio, e eccoli qui, a Praga, alle porte del mondo che gli sorride e li aspetta.
Il viso indeciso di un solido ragazzo cubano di bell’aspetto, largo di spalle che camminava con passo vacillante, mi richiamò l'attenzione. Sarà malato? Mi dissero: è cieco! Appena alcune settimane fa, in un meeting di strada a L'Avana, gli lanciarono una bottiglia di acido in pieno viso e l'acido gli bruciò la cornea.
Il meeting per la pace delle strade di L'Avana continua ancora per me, mi disse sorridendo.
Che cosa fanno tutti questi giovani a Berlino? Che cosa fa questo giovane ballerino della Moravia ed il giovane cieco de L'Avana? Il giovane ciclista italiano ed il giovane eroe per l'indipendenza della coraggiosa Corea? Che cosa faranno? Delibereranno su antiche filosofie o discuteranno problemi internazionali complicati? È che questa immensa riunione è una riunione di giovani saggi?
Io non lo credo. Credo che si riuniscano unicamente per coesistere. Si riuniscono per vedersi, per parlarsi, per stringersi la mano. Si riuniscono per dimostrare che i giovani di tutti i punti del pianeta e di tutti i regimi, di tutti i climi e di tutte le opinioni possono vivere in uno stesso posto, riunendo quello che li unisce: l'amore per la vita, per la cultura, per la pace.
Perciò, certi governi occidentali si sono affrettati a dichiarare pericolosa questa concentrazione. Il governo italiano la considera più esplosiva della dinamite. Il signor De Gasperi riunì una volta il suo gabinetto. Non fu per distribuire pane ai bambini affamati della Calabria, né per concedere un premio ad una pittura di Guttuso, né per creare nuove scuole, no. Questa sessione fu dedicata esclusivamente all'elaborazione di un decreto per proibire ai giovani italiani di andare a Berlino per conoscere altri giovani della terra. Questi governanti vogliono che i giovani si incontrino, ma con una mitragliatrice nella mano, dietro i reticolati con un buon casco di acciaio nella testa, o bassa terra, distrutti, nel buco di fango e sangue aperto da un obice. La possibilità che il giovane ciclista di Napoli saluti il giovane sportivo tedesco senza che si lancino una bomba l'un l'altro, sembra molto pericolosa al signor De Gasperi. Il signor De Gasperi ha compreso il suo dovere. Perciò è stato nominato primo ministro. Il suo lavoro principale, dalla mattina alla sera, deve consistere in evitare ogni intendimento, ogni relazione umana tra gli uomini, evitare la pace. E quando, nonostante quei Di Gasperi, Chiang Kai-shek, Sygman Rhee, Trujillo di Santo Domingo, i dittatori dell'America del Sud, dei Franco, Perón, Adenauer e Truman, etc., gli uomini si incontrano per vedersi e per cantare, per conoscersi e comunicare tra loro, per vivere, il signor Di Gasperi o il signor Attlee pronuncierà immediatamente un discorso sulla cortina di ferro.
Se questi piccoli uomini, questi piccoli politicanti rappresentassero la nostra epoca, che triste epoca vivremo! Ma non è così. Siamo nell'epoca del Festival di Berlino, della gioventù del mondo che avanza e vince che si riunisce e canta. Armiamo la gioventù del mondo per la pace, sfidiamo questi nemici! Armiamo di libri e di allegria, di salute e di spighe, di musica e di trattori, di amore e di conoscenze i giovani che vengono a Berlino, i giovani che attraversano mari e terre, cieli e cordigliere, unicamente per vedersi, per conoscersi e per stare insieme! Stare è insieme un delitto per certi governi. La pace, anche la parola
pace è un delitto. Presto la luce sarà anche un delitto per essi.
Riuniamoci a Berlino affinché tutta la luce e tutta la verità, tutta la fraternità e tutta la pace regnino su tutti gli uomini.

Festival, bollettino del Festival della Gioventù, Berlino,
RDA, 6.8.1951, e
Democracia, Santiago, 26.8.1951.


Lo splendore del sangue

Nell'esilio, l'aspra patria prende un colore di luna, la distanza ed i giorni levigano ed ammorbidiscono il suo lungo corpo, le sue pianure, i suoi monti, e le sue isole.
E ricordo un pomeriggio scorso con Elías Lafertte in un paese senza uomini, in una delle miniere abbandonate della pampa.
Si estendeva, arenosa ed infinita, la pampa intorno a noi, e ad ogni cambio la luce solare il suo pallore cambiava come il collo una colomba selvaggia soave, verde e violetta si spolverava sulle cicatrici planetarie, cenere cadeva dal cielo, confusa madreperla irradiava il deserto.
Era nel desolato Nord grande, nelle solitudini di Huantajaya. Da lì si apre questo scritto, le sue pagine sono fatte con quelle sabbie, forte, largo e trepidante è il suo mondo ed in lui le vite sono registrate con fuoco e sudore come nelle pale degli minatori. Un altro colore si unisce alle estensioni della pampa: lo splendore del sangue.
Nessuno potrà dimenticare questo scritto.

I governanti, con poche eccezioni, si sono accaniti col popolo del Cile e hanno represso con ferocia i movimenti popolari. Hanno ubbidito a decreti di casta o mandati di interessi stranieri. Dal massacro Iquique fino al campo di morte eretto in Pisagua da González Videla, è questa una storia lunga e crudele. Contro il popolo, cioè contro la patria, si pratica una guerra permanente. Tortura poliziesca, bastonate e sciabolate, stato di allerta, la marina e l'esercito, navi da guerra, aeroplani e carri armati: questi elementi non li usano i governanti il Cile per difendere il salnitro o il rame contro i pirati dall'esterno, no, questi sono elementi della cruenta battaglia contro il Cile. La prigione, l'esilio o la morte sono misure di "ordine", ed i governanti che compiono azioni di sangue contro i suoi compatrioti sono pagati con un viaggio a Washington, insigniti in qualche università nordamericana. Si tratta semplicemente di una politica coloniale. Non c'è gran differenza tra i massacri del Madagascar, di Tunisi, della Malesia, della Corea, eseguite da invasori armati contro paesi indifesi, francesi, inglesi, nordamericani e la sistematica repressione eseguita nel nostro continente da governanti spietati, agenti degli interessi imperialisti.
Ma durante questa storia, il popolo cileno è risultato vittorioso.
Da ogni colpo tragico è derivato insegnamenti e ha risposto, come forse nessun altro popolo americano, con la sua arma più poderosa: l'organizzazione delle sue lotte.
Questa lotta moltiplicata è il centro della vita nazionale, le sue vertebre, i suoi nervi ed il suo sangue. Infiniti episodi tristi o vittoriosi la infiammano e la continuano. Col risultato che nel vasto dramma del Cile, il protagonista incessante è il popolo. Questo scritto è come un esteso prologo di quel dramma, e ci mostra con purezza e profondità l'alba della coscienza.

Ma
Hijo del salitre non è una desertica dissertazione civile, bensì un prodigioso e multiplo ritratto dell'uomo. All'epica scossa delle sue descrizioni segue la tenerezza imponderabile. L'amore di Volodia Teitelboim per il suo paese lo conduce fino a trovare la fonte nascosta della canzone e delle lacrime, le raffiche di violenta allegria, le vite solitarie della pampa, il viavai che separa e sgrana i destini delle semplici genti che vivono nel suo libro.
Sono molti i problemi del realismo per lo scrittore nel mondo capitalista.
Hijo del salitre compie il mandato creativo, essenziale nei libri che aspettiamo. Non basta tirar per il bordo la balbuzie oscurantista, l'individualismo reazionario, il naturalismo inanimato, il realismo pessimistico. Questo libro compie e sorpassa i canoni usati dal romanzo, saturandoci di grandiosa bellezza. Ma raggiunge anche un altro dei punti inseparabili della creazione contemporanea: quella di fare la cronaca definitiva di un'epoca. Sappiamo già come si impadroniscono della storia i falsificatori ufficiali della borghesia. Di fronte agli scrittori del mondo capitalista dobbiamo preservare la verità del nostro tempo: il generale Silva Renard o il presidente González Videla non possono esulare dal vero giudizio storico. Gli scrittori del Cile dovranno scrivere con sangue - sì, con sangue Iquique o di Pisagua - e così nascerà la nostra letteratura.
In quelle gesta in cui Baldomero Lillo mette la sua prima pietra nera, Volodia Teitelboim alza la prima colonna fondamentale. Perché non solo i dolori, le allegrie e le verità di un paese rimangono qui registrate, ma, come molti sentieri che si uniscono in una rotta grande e sicura, il popolo sbocca nella sua organizzazione liberatrice, nel Partito. Recabarren e Lafertte non sono in questo libro eroi estatici, bensì progenitori della Storia.
Con Volodia Teitelboim, vicino al nostro popolo, abbiamo visto grandi e dure. Dopo anni di esilio arriva alle mie mani questo suo libro, grappolo sorprendente di vite e lotte, carico di semi. Io, da qui, come se stessi nelle altezze abbandonate di Huantajaya, scorgo in queste pagine la vita terribile dell'uomo del salnitro, vedo gli arenili, le colline, la miseria, il sangue e le vittorie del mio popolo. E sono orgoglioso del frutto del mio fratello.

Capri, maggio del 1952

Prologo alla 2". edizione di Volodia Teitelboim,
Hijo del salitre, Santiago, Austral, 1952.


Morti dell'America
MUERTOS DE ÁMERICA. (Pagine 824-830.) Testo scritto nella casa che Erwin Cerio, menzionato nel Prólogo, mise a disposizione di Pablo e Matilde nell'isola di Capri durante la prima metà del 1952.
-
no la de los santacruces, ni truceos, ni validos...: allusione a politici cileni (Hernán Santa Croce, Emilio Trucco) che come Muñoz Meany furono ministri di relazioni esterne od occuparono alte cariche diplomatiche, - el poeta Gerardo Seguel: vedasi in questo volume altri testi su Seguel a pp.324 e 446.

I. PROLOGO DI CAPRI

Sotto la mia casa il giardino italiano, in scalinata che scende al mare, verde ombroso di cipressi di inverno, quanto lontani sono dalla mia precipitosa, maestosa, reticolata e scontrosa
araucaria imbricata: l'araucaria della grande Araucanía, tempestuosa, irsuta e ferrea, coi suoi grappoli immensi di pinoli che alimentarono per tre secoli la resistenza contro gli invasori stanieri.
Il mio giardino di Capri scende al mare con le lance snelle dei cipressi di Cerio. È un piccolo reggimento verde sotto il cielo bianco. Sotto il mare, le onde minime del Tirreno, poi verso l'orizzonte zone di colore solforico, venature larghe di lapislazzuli marino fino a perdersi nell'acciaio orizzontale del soave inverno. Nella mia casa, nel mare, nell'isola, il silenzio riempie tutto, fino alle spiagge anche sotto a gradoni a morire con le schiume.
Poiché non ci sono automobili nelle viuzze, bensì rampicanti e grandi foglie spinose di cactus, il silenzio di Capri è speciale, come una sostanza che può palparsi tra le dita. Lo stesso mare come è differente dal mio oceano del Sud del Mondo. Quando nella mia infanzia arrivavamo al mare di Bajo Imperial, vicino a Temuco, lontano ancora molti chilometri dello sbocco del gran fiume, sentivamo il suo tuono indicibile, la sua offensiva infinita. Ancora nelle mie orecchie, attraverso il silenzioso mare Tirreno sento la sboccata artiglieria che mi faceva tremare di emozione come se in ogni estate della mia infanzia io avessi cambiato pianeta, e nelle porte irsute del mare mi ricevessero le grandi onde di un altro mondo, col suo suono terrificante, di creazione, di movimento e forza che ascolto ancora.
Quindi le moltitudini di uccelli marini delle mie spiagge cilene che qui non trovo. Alcuni giorni fa andai ai rocciosi faraglioni, pietrose figure custodie di questa isola, e nell'aria, vidi un solo uccello, immobile, con un tremore bianco e rosato di piume. Credetti che fosse trattenuto da un filo di ferro invisibile, come un acrobata abbagliante, col fondo di circolo azzurro del mare dolcissimo. Ma pronto continuò a volare, e poi si estese immobile di nuovo nell'aria quieta, e compresi che era la sua abitudine che ubbidiva agli immutabili ordini di armonia di questo mondo marino. Di fronte alla mia casa di Isla Negra, a sud di Valparaíso, quante volte vidi tuffarsi il pellicano grigio artico, che cade come pietra dal cielo, per alzare un ramo di argento vivente nel becco. E le moltitudini di gabbiani, i piccoli paperi marini, i
queltehue dell’intrerno che non parlano la lingua degli uccelli della costa, e che rimangono a meditare su un solo lungo piede sulle rocce bollenti di schiuma!
In questa ora di inverno di Capri, dalla nebbia ed i cipressi si diffonde un nastro di creativa malinconia, e nel mio cuore un ricordo di morti cari.

2.. MEANY DEL GUATEMALA

Strana apparenza! Ho appena ricevuto, 2 mesi dopo la sua morte, una lettera di Enrique Muñoz Meany, l'ultima che scrisse, cinque minuti prima della sua morte. Sotto l'abbraccio finale e prima di
Enrique Muñoz Meany dattilografato, c'è un piccolo pezzo bianco, lo spazio dove non riuscì a scrivere la sua firma, perché le sue fragili dita afferravano in quello minuto l’imprendibile.
Fragile, Meany, l'ero di corpo ma non di tempera, ahi mai! Minuto e pallido, gentiluomo fine, questo aristocratico era la diga in cui si schiantarono imperialisti e commercianti di caffè, i commercianti di bestiame dal sangue centroamericano. Affabile e gentile come la sua terra tiepida, il suo Guatemala verde e oro, era forte e battagliero. E per molti anni l'unico ministro di Relazioni Esterne della nostra povera America che mostra di fronte ai conquistatori nordamericani il viso nascosto della nostra dignità di nazioni. Dopo, ambasciatore unico di tutta l'America latina in Francia, la sua casa fu quella dei perseguiti, non quella degli abitanti di Santa Cruz, né trucchi, né favoriti, non la casa di quelli che non ci rappresentano in Europa, bensì la casa di Aragon e Éluard, la casa di Carlos Mérida e di Cardoza, la casa dei giovani in cammino verso il festival della Pace, la mia casa.
Ahi, che cosa perdita tanto grande, Guatemala mio! Tu, piccola nazione libera sei oggi il nostro stendardo. Una ad una le nostre nazioni hanno lampeggiato per vedere la luce, e hanno chiuso gli occhi! Nella vita dell'America sei il gioiello verde. Arévalo ed Arbenz non hanno chiesto di essere gigantesche guide di un nuovo pensiero, ma sono stati protagonisti di un strano episodio: sono stati i soli americani, eredi della vera tradizione umana del continente, prosecutori del 1810, delle tradizioni di indipendenza e di libertà delle piccole patrie, scosse dopo per l'incessante tirannia! Ma i nostri giorni difficili perseguono fino alla continuità della nostra origine, e il Guatemala, col suo Muñoz Meany, giace nel crocevia tra i canini dei lupi di dentro ed i briganti di fuori!
In questo crocevia violento, perché è la prova continentale che abbatte paesi come il Cile, e li consegna al saccheggio, Muñoz Meany si alza come un spadino di acciaio di combattimento, e questa creatura fragilísima, è il nostro onore, l'onore di milioni di americani, dal Rio Grande fino a Magellano, che mai lo conobbero, e che mai lo conosceranno. Perché questi uomini che misero il loro sangue, la loro vocazione e la loro forza nella malta che costruisce la patria, passano come ombre, perché dettero tutto: arsero una sola volta, ed in Guatemala questa fiamma della patria può avere molti nomi di caduti, contadini indio della grande selva, operai dissanguati ed assassinati per le strade, ma il fuoco che io ricordo, immortale nell'altare, della sua terra meravigliosa, si chiama Meany, Meany del Guatemala. Amalia de Muñoz Meany, sorella, bacio la tua fronte.

3. PANCHO DEL VENEZUELA

Il dottore Francisco Herrera deve essere ricordato, sicuramente, come il gran medico che fu. Io lo ricordo come Venezuela. Per me si chiamava solo Pancho, ed era del Venezuela.
Io passai da lontano sempre per il Venezuela, per l'aria o per il mare, o per alcuni esiliati in Cile, già cilenizzati ed evaporati, o per la Guayra, porta sordida delle larghe e generose regioni. Quando in India ricevei una lettera - da dove era?, da Maracaibo? - di qualcuno che mi leggeva, sentii il brivido di una chiamata a terra, di quello che mi chiamava. Ma non fu mai e non so se sarà.
Nel frattempo conobbi in una barca Pancho Herrera, ed una terra mi fu rivelata. Questo uomo saggio e popolare, era largo, generoso ed allegro, era una geografia intera piena di grandi alberi e bambini, sorgenti e paesi. La sua semplicità era piena di scienza, la sua scienza era disposta a rovesciare su tutti. Sembrava apolitico - quel sigillo del quale hanno goduto tutti i prepotenti dell'America -; ma il suo buonsenso essenziale gli permetteva di vedere più in là e più qua dell'orizzonte, e molto chiaro. Mi parlò con entusiasmo, molte volte, dell'Unione Sovietica. La sua allegria riempiva la barca, si trasmetteva come una forza naturale.
Cadde all'improvviso, come un gran albero abbattuto da un raggio. La sua larga allegria si estese improvvisamente nella terra, e io da molto lontano, ascoltai tremare il suolo americano, col colpo del gran fogliame che cadeva mentre migliaia di foglie ed uccelli volavano nell'aria, accompagnando Pancho del Venezuela.

4. D'HALMAR DI VALPARAÍSO

Al cileno non piace parlare bensì balbettare, ed in quella terra senza parlata che è la mia patria, D'Halmar fu un gran chiacchierone, quello che potè parlare per tutti.
Uscì dalla nebbia, delle stradine di Valparaíso verso altre nebbie e stradine del mondo. Cominciò a giocare al gran cosmopolita, all’espatriato, alla moda scettico-narcisista di una brutta epoca. Egli giocò per anni con eleganza questa carta di gran signore delle navigazioni di disincantato. Una fittizia malinconia riempie quella parte della sua opera di gran scrittore, di gran castigliano del castello della lingua. Dopo, innamorato della Spagna, del popolare della Spagna, comincia a ritornare verso il Cile e la nostra America. E comincia a lasciare i gusci dello sdegno ed ad integrarsi in nostro comune dovere di americani, arriva a partecipare alle lotte del paese, la sua incomparabile parola smette di essere un alimento scelto e si trasforma in pane. Questa conversione di D'Halmar al suo paese, questo recupero nazionale lo va esaltando ogni giorno, come il suo lungo ed anteriore cosmopolitismo l'andava rinchiudendo in un circolo sterile.
In questa maniera vediamo come un antico scrittore orgoglioso e solitario si muove all'impulso del movimento popolare, e così cresce e feconda.
Vediamo nei suoi ultimi anni come la sua celebre vanità era solo parte della maschera cosmopolita, e come continua a mostrare, una svogliatezza in primo luogo, e dopo fortunatamente la sua umanità generosa. Alla fine dei suoi giorni l'uomo alto ed eretto, dal capello innevato, è un saggio popolare e cittadino, pieno di eleganza ed interezza.

5. SEGUEL DELLA ARAUCANÍA

È morto alcuni mesi fa il poeta Gerardo Seguel. Era mio compaesano delle terre boscose e fredde del Sud del Cile. La sua poesia ha sempre quel paesaggio nostro delle nostre infanzie piovose, con un velo che trema su una lacrima. Seguel, bruno e sorridente, attivo, puro, mi portava dandomi la mano, una sensazione di legno selvatico, la fragranza della terra vegetale. Egli apre la strada affinché entri nella poesia cilena il vento del Sud, con cui entrerà a Santiago, a cavallo nella sua grotta trasparente il gran poeta Juvencio Valle.
Seguel è un combattente straordinario, un soldato del popolo, ed un maestro esemplare. A lui deve la nostra America la prima esplorazione alla ricerca dei grandi poeti del passato, sepolti nei grandi libri cimiteri. Così Seguel trova Pedro de Oña, poeta nato anche lui nel Sud dal Cile, nel secolo XVI, dimenticato sotto la gloria di Ercilla, ed a quella vagabonda ombra aggrega col suo amore le sue evidenze, fino a darci la medaglia abbagliante di chi inaugurò la poesia del Chile "… con ammassati muri di diamanti ...".
Gerardo Seguel, buon fratello, non tornerò oramai a vederti, perché le strade dell'esilio mi hanno lontano dal nostro Sud tempestoso. Ma quando ritorni per le strade, vicino ai vasti campi di grano estivi, nell’alto dei noccioli che mi saluteranno coi loro rami verde puro e scarlatto, all'ombra dei roveri dai tremuli rami, all'entrata dei laghi che i nostri vulcani incoronano di neve, nelle foglie gigantesche della "nalca" silvestre, nelle pagine di tanti libri amati, nella notte alta e stellata di cielo freddo, nella massa di uomini a cui abbiamo dato lealtà e giuramento, nello sguardo degli ultimi araucani che difenderemo, in tutta la terra ed nel mio paese, ti ricorderò, Seguel della mia infanzia, camerata poeta, stella dell'Araucanía natale.

Capri, 1952

Democracia, Santiago, 28.6.1952.


Pretendono di fermare col terrore la marcia del pensiero

Voglio dire alcuni brevi parole sullo sviluppo attuale delle relazioni culturali.
La preparazione della guerra ha portato una maggiore stagnazione degli scambi culturali. È diventata più difficile la comunicazione della cultura tra l'Est e l'Ovest. Una vera guerra contro il cinema sovietico, promossa dai magnati del cinema nordamericano e dai loro complici, ha come campo di battaglia tutto il mondo occidentale. Decine di migliaia di sale cinematografiche dipendono direttamente dagli stessi capitalisti che istigano alla guerra, e non sono solo negate per il cinema sovietico bensì per qualunque realizzazione artistica che in qualche modo si opponga ai loro interessi. Non ci sono dubbi che le iniziative del Consiglio Mondiale, specialmente la celebrazione in forma ampia degli anniversari di grandi figure universali, dell'Est e dell'Ovest, hanno suscitato manifestazioni straordinariamente significative sull'unità della cultura. Tuttavia abbiamo visto la reazione immediata di quelli quale vogliono dividere e tacere queste iniziative. Allo stesso tempo in cui si formava in Italia un ammirevole centro di studio sull'opera e la vita di Leonardo dà Vinci, il governo italiano negava l'entrata in Italia agli intellettuali che venivano dalle democrazie popolari, per onorare l'Italia nella memoria di uno dei suoi valori più universali.
La situazione degli intellettuali nordamericani che non sono d’accordo col signor Truman o coi metodi del generale Ridgway per impiantare la "cultura occidentale" in Corea, è davvero tragica, se sono ritirati i loro passaporti e se sono trattati come criminali.
Questa politica dei carcerieri nordamericani si va estendendo a tutto il continente americano. Nei patti che continuano a legare a poco a poco quasi tutti i governi latinoamericani al carro della guerra, ci sono articoli speciali per evitare i viaggi delle persone pericolose, cioè dei rappresentanti delle nostre culture e dei nostri popoli. Così si è arrivati ad ottenere che l'aeroporto di L'Avana, punto centrale di tutte le comunicazioni dell'America del Sud, si sia trasformato in un luogo di prigione per gli intellettuali o personalità a favore della pace che debbano passare in transito per quel punto. Gli scrittori progressisti dell'America Latina possono difficilmente trasferirsi da un paese all’altro; ed ogni volta con maggiore difficoltà ricevono accesso a riviste e case editrici.
Mentre il romanziere Alfredo Varelaa, dell'Argentina, esce dalla prigione, Jorge Amato è processato in Brasile, in questo momento, per il suo libro sulla pace. Juan Marinello, presente in questa sala, eminente saggista, onore del pensiero americano, è minacciato di prigione al suo ritorno, nella sua patria, Cuba.
Ma l'opera dei nemici della cultura si estende in altre direzioni. Corrompe e zittisce, pressa col denaro o col terrore. Scrittori che rimasero silenziosi, come John Steinbeck, davanti ai peggiori crimini commessi nella sua patria contro Paul Robeson, Alvah Bessie o Howard Fast, rompono il loro lungo silenzio per negare unicamente l'azione dei criminali di guerra nordamericani in Corea.
Agli artisti e scrittori dell'America Latina che non hanno mostrato indipendenza verso le aggressioni dell'imperialismo si ostentano in forma tentatrice opportunità di viaggi e borse di studio negli Stati Uniti, mentre l'ingresso è ricusato alla maggior parte e al meglio dei nostri intellettuali. Mentre intanto il continente latinoamericano si inonda di letteratura pornografica, false riviste di divulgazione e romanzi polizieschi importati degli Stati Uniti.
Non ci sono dubbi che tutte questi azioni fanno parte di un piano premeditato.
È deliberato il proposito di negarci tribuna, di isolarci, accantonarci, dividerci.
Quello è il programma di politica intellettuale degli aggressori. A questo piano dobbiamo opporrci.
Perciò, per cominciare, alla fine di questo anno, organizziamo una conferenza di scrittori ed artisti dei venti paesi americani. Lì discuteremo le forme di servire la causa sacra dalla pace. Discuteremo il nostro lavoro di creatori e stabiliremo una maggiore unità di pensiero ed azione.
L'America Latina è la retroguardia degli aggressori, una retroguardia insicura nei suoi piani di conquista. Perché non dovete confondere i nostri governanti satelliti che nell'ONU si riuniscono senza più ideologia né proposito che quello di aprire la bocca per dire affrettatamente le
yes di cui hanno bisogno i loro padroni di Washington coi nostri paesi martirizzati ma indomabili.
È con quei paesi dell’America Latina che stringeremo le file di scrittori ed artisti per difendere la sovranità, la libertà e la pace.
Ai patti sottoscritti dai governi, patti di guerra e di isolamento, di saccheggio e di sangue, opporremo il patto della verità e dell'intelligenza.
Facendolo portiamo a compimento le risoluzioni sugli scambi culturali adottati dal nostro Consiglio della Pace.
Finisco salutando gli scrittori ed artisti perseguiti ed imprigionati in Spagna, Grecia, Turchia, Stati Uniti ed America Latina. Sotto tutti questi regimi fascisti gli istigatori della guerra ed i loro complici pretendono di fermare col terrore la marcia del pensiero. Io saluto la lunga lista di questi perseguiti. Voglio che da questa sala in cui tanti uomini e donne, per tanto diverse strade sono venuti per difendere in comune la pace e la cultura, sappiano che il nostro pensiero e la nostra lotta li accompagnano. Non sono soli. Con essi come con noi in questa sala stanno Ia coscienza e la speranza. Questi giorni sono minaccianti e terribili, con la persecuzione e le fucilazioni di patrioti, con la distruzione della Corea e la nuova guerra maledetta, di atomi e microbi.
Ma l'umanità è passata per tante ore oscure. Sempre la chiarezza si rifugiò in qualche posto per uscire dopo e vincere le tenebre. Qui sta con noi la chiarezza. Sono sicuro che vinceremo.

Intervento nella riunione del Consiglio Mondiale della Pace,
Berlino, pubblicata in
Democracia, Santiago, 23.7.1952.



Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 61 del 24 agosto 2009 | postmaster@antoniogiannotti.it

Torna ai contenuti | Torna al menu