Pablo Neruda e Insetti


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Terzo libro delle lido (1957) - 2^ parte

1957 - TERZO LIBRO DELLE LODI

ODE ALLA STRADA

Nell’inverno azzurro
col mio cavallo
al passo al passo
senza sapere
perlustro
la curva del pianeta,
le sabbie
ricamate
da una cintura magica
di schiuma,
strade
protette
dal acacie, da boldi (*)
polverosi,
colline, rocce ostili,
boscaglie
avvolte
dal nome dell’inverno.

Ahi viaggiatore!
non vai e non ritorni:
sei
nelle strade,
esisti
nella nebbia.

Viaggiatore
diretto
non a un punto, non a un appuntamento,
bensì solamente
all’aroma
della terra,
bensì solamente all’inverno
nelle strade.
Per questo
lentamente
vado
attraversando il silenzio
e sembra
che nessuno
mi accompagni.

Non è vero.

Le solitudini chiudono
i suoi occhi
e le sue bocche
solamente
al transitorio, al fugace, all’addormentato.
Io sono sveglio.
E
come
una nave in mare
apro
le acque
e esseri invisibili
accorrono e si separano,
così,
dietro all’aria,
si muovono
e si riuniscono
le invisibili vite
della terra, le foglie
sospirano nella nebbia,
il vento
nasconde
il suo sfortunato volto
e piange
sopra
la punta dei pini.
Piove,
e ogni goccia cade
sopra un piccolo
vaso di terra:
è una coppa di vetro che aspetta
ogni goccia di pioggia.

Andare qualche volta
solamente
per questo! Vivere
la tremante
pulsazione del cammino
con le respirazioni sommerse
del campo nell’inverno:
camminare per essere, senza altra
rotta
che la propria vita,
e come, vicino all’albero,
la moltitudine
del vento
portò pruni, semenze,
liane, rampicanti.
così, vicino ai tuoi passi,
continua a crescere la terra.

Ah viandante,
non è nebbia,
né silenzio,
né morte,
quello che viaggia con te,
ma
tu stesso con le tue molte vite.

Così è come, a cavallo,
superando
colline e praterie,
in inverno,
una volta di più mi sbagliai:
credevo
di camminare per le strade:
non era vero,
perché
attraverso la mia anima
fui viaggiatore
e ritornai
quando non ebbi
più segreti
per la terra
e
essa
li ripeteva colla suo lingua.

In ciascuna foglia c’è il mio nome scritto.

La pietra è la mia famiglia.

In un modo o nell’altro
parliamo o taciamo
con la terra.
1956

(*) BOLDO: albero semprevedere delle maminiacee; ha foglie coriacee ed ellittiche, con peli stellari nel fascio e numerose ghiandole aromatiche; la sua infuzione si usa per curare il mal di stomaco e di fegato (Peumus boldus)



ODE A UN CAMION COLORATO CARICO DI BOTTI

In impreciso
vapore, aroma o acqua,
sommerse
i capelli del giorno:
errante dolore,
campana
o cuore di fumo,
tutto
fu avvolto
in questo disabitato hangar,
tutto
confuse i suoi colori.
Amico, non si spaventi.

Era solamente
l’autunno
vicino a Melipilla,
nelle strade,
e le foglie
ultime,
come un brivido
di violini,
si lanciavano
dagli alti alberi.

Non succede niente. Aspetta.

Le case, i tetti,
i muri
di calce e fango, il cielo,
erano
una sola minaccia:
erano un libro
grande
con personaggi
sommamente tristi.

Aspettiamo. Aspetta.

Allora
come un toro
attraversò l’autunno
un camion colorato
carico di botti.
Uscì da tanta nebbia
e tanto vago cielo,
rosso, pieno
come una
granata,
allegro come il fuoco,
gettando il suo volto
di incendio, la sua testa
di leone fuggitivo.

Istantaneo, iracondo,
preciso e turbolento,
trepidante e ardente
passò
come una stella colorata.
Io a fatica
potei
vedere
questa anguria
di acciaio, fuoco e oro,
il coro
musicale
delle botti:
tutta questa
simmetria
colorata
fu
solamente
un
grido,
un
brivido
nell’autunno
ma
tutto cambiò:
gli alberi, l’immobile
solitudine, il cielo
e i suoi metalli moribondi
ritornarono a esistere.

Così fu come il fuoco
di un veicolo
che correva ansimante
col suo carico
fu
per me
come se dal freddo della morte
una meteora
sorgesse e mi colpisse
mostrandomi
nel suo splendore collerico
la vita.

Solamente
un camion
carico
di botti,
sfrenato, attraversando
le strade,
vicino a Melipilla, in una
mattina,
accumulò
nel mio petto
straripante
allegria
e energia:
mi tornò l’amore e il movimento.
E sconfisse
come una fiammata
lo scoraggiamento del mondo
1956


ODE ALLA SCATOLA DA TÈ

Casa da Tè
di quel
paese degli elefanti,
adesso tavolo da lavoro
invecchiato,
piccolo planetario di germogli,
come da un altro pianeta
alla casa
portasti
un aroma sacro,
indefinibile.
Così arrivò da lontano
ritornando
dalle isole
il mio cuore di giovane stanco.
La febbre mi faceva
sudare
vicino al mare, e un
ramo di palme
sopra di me si muoveva
rinfrescando
con aria verde e canto
le mie passioni.

Cassa
di ottone, delicata,
ahi
mi ricordi
le onde di altri mari,
l’annuncio
del
monsone sopra l’Asia,
quando si dondolavano
come
navi
i paesi
nella mano del vento
e Ceylon spargeva
i suoi odori
come una
combattuta
chioma.

Scatola da tè,
come il mio
cuore
portasti
lettere,
brividi,
occhi
che contemplarono
petali favolosi
e anche ahi!
quell’
odore perduto
di tè, di gelsomini, di suoni,
di primavera errante.
1955


ODE AL CARRO DELLA LEGNA

Il carro della legna
dei boschi.

Fragrante fardello
di legname puro!

Nessuna
mano
su questo
cuore
si fermò,
solamente
l’acciaio
delle asce, il
volo repentino
degli uccelli e, con
la morte,
il bacio
oscuro della terra!

Carri dal monte,
legna
appena ferita,
scontrosi
pali
tagliati
e sanguinanti,
muti,
in ordine, belli
come eroi morti,
appoggiati
nell’ultimo
viaggio
verso
il falò.

Quebracho (*), carrubi,
roveri, pini, rovi,
tronchi bruniti
dalla
crescita
della vita sulla terra,
induriti come minerali
e tuttavia
teneri
padri delle foglie,
del sussurro, del nido,
crollaste
distrutti
da minuscoli
uomini
che sembravano
larve e che
improvvisamente
alzarono le loro asce
come pungiglioni:
poi
cadde l’albero, la terra
suonò
come se la colpissero nelle ossa
e si levò un’onda
di polvere e di profumo
di polveroso aroma.

Anche me
colpisti nella tua caduta:
sopra
il mio cuore
educato nella fredda
ombra
delle montagne
il filo
delle asce
cadde tagliando rami
e alzando voli e suoni!

Ahi! chi
potrà
fermare
il corso
del fiume della legna,
retrocedere il cammino,
restituirlo alla selva:
raddrizzare
di nuovo
la maestà
antica
sopra
la terra assassinata
e attendere
che ritornino
gli uccelli incendiati,
il canto pieno e puro
delle foglie,
la fragrante
salute
del legname!

(*) QUEBRACHO O JABÍ: albero leguminose dal legno rossiccio noto per la sua durezza molto apprezzato nelle costruzioni navali (
Copaifera himenaefolia)


ODE ALLA CASA ABBANDONATA

Casa, arrivederci!
Non
posso dirti
quando
ritorneremo:
domani o non domani,
tardi o molto più tardi.

Un viaggio di più, ma
questa volta
io voglio
dirti
quanto
amiamo
il tuo cuore di pietra:
che generosa sei
col tuo fuoco
fervido
nella cucina
e il tuo tetto
su cui cade
sgranata
la pioggia
come se scivolasse
la musica del cielo!

Adesso
chiudiamo
le tue finestre
e una oppressiva
notte prematura
lasciamo che si insedi
nelle stanze.

Oscurata
tu stai vivendo
mentre
il tempo ti percorre
e l’umidità guasta poco a poco la tua anima.
A volte un
topo
rode, alzano le carte
un
mormorio
soffocato,
un insetto
perduto
si colpisce,
cieco, contro i muri,
e quando
piove nella solitudine
talvolta
una goccia
suona
con voce umana,
come se lì stesse
qualcuno pregando.

Solamente l’ombra
conosce
i segreti
delle case chiuse,
solamente
il vento respinto
e sul tetto la luna che fiorisce.

Adesso,
arrivederci, finestra,
porta, fuoco,
acqua che bolle, muro!
Arrivederci, arrivederci,
cucina,
fino a quando
ritorneremo
e l’orologio
sopra la porta
ancora continuerà a palpitare
col suo vecchio
cuore e le sue due
frecce inutili
fisse
nel tempo.
1956

ODE ALLA CASA ADDORMENTATA

Verso l’interno, in Brasile, per alte
sierre
e disboscati fiumi,
di notte, la luna piena…
Le cicale
riempivano
cielo e terra
con la loro telegrafia
crepitante.
La notte è occupata
dalla rotonda
statua
della luna
e la terra
cova
cose cieche,
riempiendosi
di boschi,
di acqua scura,
di insetti vittoriosi.

Oh spazio
della notte
in cui noi siamo:
praterie
in cui solamente
fummo un movimento nel cammino,
qualcosa che corre
e corre
per l’ombra.

Entriamo
Nel-
la
casa notturna,
ampia, bianca, socchiusa,
circondata
come un’isola,
per la profondità del fogliame
e per le onde
chiare
della luna.
Le nostre scarpe per le scale
richiamano
altri antichi
passi,
l’acqua
colpendo
il catino
voleva
dire qualcosa.

Appena
si spensero le luci
le lenzuola
si unirono palpitando
ai nostri sonni.
Tutto
girò
nel centro
della casa in tenebre
svegliata all’improvviso
da brutali
viaggiatori.

Intorno
cicale,
estesa luna,
ombra,
spazio, solitudine
piena di esseri,
e silenzio
sonoro…

sonoro…

spense i suoi occhi,
chiuse tutte
le sue ali
e dormiamo.

ODE AL UN CINEMA DI PAESE

Amore mio,
andiamo
al cinema del paesello.

La notte trasparente
gira
come un mulino
muto, elaborando
stelle.
Tu ed io entriamo
al cinema
del paese, pieno di bambini
e aroma di mele.
Sono le antiche pellicole,
i
sogni già consumati.
Lo schermo è
colore di pietra o piogge.
La bella prigioniera
del villano
ha occhi di laguna
e voce di cigno,
corrono
i più vertiginosi
cavalli
della terra.

I cow boys
perforano
con i loro spari
la pericolosa luna
dell’Arizona.
Con l’anima
di un filo
attraversiamo
questi
cicloni
di violenza,
la formidabile
lotta
degli spadaccini sulla torre,
abili come vespe,
la valanga piumata
degli indiani
apre il suo ventaglio nella prateria.
Molti
dei ragazzi
del paese
si sono addormentati,
stanchi del giorno nella farmacia,
stanchi di pulire nelle cucine.

Noi,
no, amore mio.
Non andiamo a perderci
neanche
questo sogno:
mentre
siamo
vivi
faremo nostra
tutta
la vita vera,
ma anche
i sogni:
tutti
i sogni
sogneremo.
1956

ODE ALLA SUSINA

Verso la cordigliera
Le strade
vecchie
erano circondate
da susini,
e fra
lo sfarzo
del fogliame,
la verde, la violacea
popolazione dei frutti
rivelava
le sue agate ovali,
i suoi crescenti
piccioli.
Sul suolo
le pozzanghere
riflettevano
l’intensità
del duro
firmamento:
l’aria
era un
fiore
totale e aperto.

Io, piccolo
poeta,
con i primi
occhi
della vita,
andavo sopra
il cavallo
equilibrato
sotto l’alberatura
dei susini.

Così nell’infanzia
potei
aspirare
su
un ramo,
su un ramo,
l’aroma del mondo,
il suo garofano
cristallino.

Da allora
la terra, il sole, la neve,
le raffiche
della pioggia, in ottobre,
sulle strade,
tutto,
la luce, l’acqua,
il sole nudo,
lasciarono
nella mia memoria
odore
e trasparenza
di susina:
la vita
ovalizzò in una coppa
la sua chiarezza, la sua ombra,
la sua freschezza.
Oh bacio
della bocca
sulla susina,
denti
e labbra
pieni
dell’ambra odorosa,
della liquida
luce della susina!

Rami
di alti alberi
severi
e ombrosi
la cui
scura
corteccia
arrampicammo
verso il nido
mordendo
susine verdi,
acide stelle!
Talvolta variai, non sono
quel bambino
a cavallo
per
i
cammini della cordigliera.
Talvolta
più
di una
cicatrice
o bruciatura
dell’età o la vita
mi cambiarono
la fronte,
il petto,
l’anima!

Ma, un’altra volta,
un’altra volta
torno
a essere
quel bambino silvestre
quando
nella mano alzo
una susina:
con la luce
mi sembra
di alzare
la luce del primo giorno
della terra,
la crescita
del frutto e dell’amore
nella sua delizia.

Si,
in questo momento,
sia
come sia, piena
come pane o colomba
o amara
come
slealtà di amico,
io per te alzo una susina
e in essa, nella sua piccola
coppa
di ambra violacea e spessore fragrante
bevo e brindo alla vita
in onore tuo,
sia chi sia, vada dove vada:

Non so chi sei, ma
lascio sul tuo cuore
una susina.
1956

ODE AL COLOR VERDE

Quando la terra
fu
pelata e silenziosa,
silenzio e cicatrici,
estensioni
di lava secca
e pietra congelata,
apparve
il verde,
il colore verde,
trifoglio,
acacia,
fiume
di acqua verde.

Si sparpagliò il cristallo
insperato
e crebbero
e si moltiplicarono
i numerosi
verdi,
verdi di pascoli e occhi,
verdi di amore marino,
verdi
di campanile,
verdi
sottili, per
la rete, per le alghe, per il cielo,
per la selva
il verde tremante,
per le uve
un acino verde.

Vestito
della terra,
popolazione del fogliame,
non soltanto
uno
ma
la moltiplicazione
dell’ampio verde,
scurito come
notte verde,
chiaro e acuto
come
violino verde,
spesso nello spessore,
metallico, solforico
nella miniera
di rame, velenoso
sulle lance
ossidate,
umido nell’abbraccio
della palude,
virtù della bellezza.
Finestra della luna in movimento,
violacei, morti verdi
che arrossano
alla luce dell’autunno
nei pugnali dell’eucalipto, freddo
come pelle di pesce pescato,
infermità verdi,
neon saturniani
che ti affliggono
con opprimente luce,
verde volante
della nuziale lucciola,
e tenero
verde
soave
della lattuga quando
riceve sole in gocce
dai casti limoni
spremuti
da una mano verde.

Il verde
che non ebbi,
non ho
né avrei,
il fulgore sottomarino e sotterraneo,
la luce
dello smeraldo,
aquila verde tra le pietre, occhio
dell’abisso, farfalla gelata,
stella che non poté
incontrare il cielo
e seppellì
la sua onda verde
nella
più profonda
camera terrestre,
e lì
come rosario
dell’inferno,
fuoco del mare o cuore di tigre,
splendida dormisti, pietra verde,
unghia delle montagne,
fiume fatuo,
statua ostile, indurito verde.
1956

ODE AL CUCCHIAIO

Cucchiaio,
scodella
del-
la più antica
mano dell’uomo,
ancora
si vede nella tua forma
di metallo o legno
lo stampo
del palmo
primitivo,
da cui
l’acqua
trasferì
freschezza
e il sangue
selvatico
palpitazioni
di fuoco e caccia.

Cucchiaio
piccolino,
nella
mano
del bambino
alzi
alla sua bocca
il più
antico
bacio
della terra,
l’eredità silenziosa
delle prime acque che cantarono
sulle labbra che poi
coprì la sabbia.

L’uomo
aggregò
al vuoto separato
dalla sua mano
un braccio immaginario
di legno
e
uscì
il cucchiaio
per il mondo
ogni
volta
più
perfetto,
abituato
a passare
dal piatto alle labbra boccocini
o a volare
dal-
la povera zuppa
alla dimenticata bocca dell’affamato.

Sì,
cucchiaio,
ti arrampicasti
con l’uomo
sulle montagne,
discendesti i fiumi,
riempisti
imbarcazioni e città,
castelli e cucine,
ma
il difficile cammino
della tua vita
è unirti
col piatto del povero
e con la sua bocca.

Per questo il tempo
della nuova vita
che
lottando e cantando
proponiamo
che sia un arrivo di zuppiere,
una panoplia pura
di cucchiai,
e nel mondo
senza fame
illuminando tutti gli angoli
tutti i piatti posti sulla tavola,
felici fiori,
un vapore oceanico di zuppa
e un totale movimento di cucchiai.

ODE AL PRIMO GIORNO DELL’ANNO

Lo onoriamo
come
se fosse
un cavallino
differente da tutti
i cavalli.
Adorniamo
la sua fronte
con un nastro,
gli poniamo
al collo sonagli colorati,
e a mezzanotte
andiamo a riceverlo
come se fosse
esploratore che scende da una stella.

Come il pane si assomiglia
al pane di ieri,
come un anello a tutti gli anelli:
i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggitivi,
e si riaccostano nella notte oscura.

Vedo l’ultimo
giorno
di questo
anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violaceo,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
chinando gli occhi
alla infinita
guida dei binari,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.

Oh conduttore di treni
che si gettano
verso stazioni
nere nella notte,
questo finale
dell’anno
senza moglie e senza figli,
non è uguale ad ieri, a domani?
Dalle rotaie
e dalle maestranze
il primo giorno, la prima aurora
de un anno che comincia,
ha il medesimo ossidato
colore del treno di ferro:
e salutano
le sere del viaggio,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere
che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno
scosso
da campane,
adornato con piume e garofani.

La terra
non lo
sa:
riceverà
questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo estenderà alla colline,
lo bagnerà con
frecce
di
trasparente
pioggia,
e poi
lo arrotolerà
su un tubo,
lo guarderà nell’ombra.
Così è, ma
piccola
porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene sia uguale
come i pani
a tutto il pane,
ti viviamo in un altro modo,
ti mangiamo, per fiorire,
per sperare.
Ti porremo
come una torta
nella nostra vita,
ti incendieremo
come candelabro,
ti berremo
come
se fossi un topazio.

Giorno
dell’anno
nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte
le foglie spuntano verdi
dal
tronco del tuo tempo.

Incoronaci
con
acqua,
con gelsomini
aperti,
con tutti gli aromi
dispiegati,
sì,
sebbene
solamente
sia
un giorno,
un povero
giorno umano,
la tua aureola
palpita
sopra tanti
affaticati
cuori,
e sei,
oh giorno
nuovo,
oh nube che verrai,
pane mai visto,
torre
permanente!

ODE AL DENTE DI CAPODOGLIO

Dal mare venne qualche giorno
trasudando
esistenza,
sangue, sale, ombra verde,
onda che insanguinò la caccia,
schiuma accoltellata
dall’erotica forma
del suo padrone:
ballo
degli
oscuri,
densi,
monasteriali
capodogli
nel sud dell’oceano
del Cile.
Alto
mare
e marea,
latitudini
del più lontano
freddo:
l’aria
è una
coppa
di
chiarezza gelata
da
dove
corrono
le ali
dell’albatros
come sci del cielo.

Sotto
il mare
è una
torre
sgretolata e costruita,
un tegame in cui bollono
grandi onde di piombo,
alghe che sopra
il lombo delle acque
scivolano
come brividi.
Improvvisamente sopraggiungono
la bocca
della vita
e della morte:
la volta
del semisommerso
capodoglio,
il cranio
delle profondità,
la cupola
che
sopra
l’onda alza
il suo morso,
tutta
la sua
segheria sottomarina.

Si incidono, scintillano
le braci di avorio,
l’acqua
inonda
quell’atroce sorriso,
mare e morte navigano
vicini
alla nave scura che socchiude
come una cattedrale la sua dentatura.
E quando la coda
inferocita
cadde come palma
sopra l’acqua,
l’animale
uscito dall’abisso
ricevette
la scintilla
dell’uomo piccolino
(l’arpione
diretto
dalla mano bagnata
del cileno).

Quando
ritornò
dai
mari,
del suo sanguinoso giorno,
il marinaio
su uno
dei denti
della bestia
incise col suo coltello
due ritratti: una
donna e un uomo
che si congedano,
un navigante
dall’amore
ferito,
una sposa sulla prua
dell’assenza.

Quante
Volte toccò il mio cuore, la mia mano,
quella
luna
di miele
marina
disegnata
sul dente.
Come amai
la corolla
del
doloroso
amore
scritta
sull’avorio
della balena
carnivora,
di capodoglio pazzo.

Soave
linea
del
bacio
fuggitivo,
pennello
di fiore marino
tatuato
sul muso
dell’onda,
sulla fauce terribile
dell’oceano,
sulla scimitarra
scatenata
dal-
le tenebre:

stampato
il canto
del-
l’amore errante,
l’addio
delle
zagare,
la nebbia,
la luce
di quella
alba
bagnata
dalle tempestose lacrime
di aurora baleniera.

Oh amore,

alle labbra
del mare,
condizionato
da
un
dente
dell’onda,
col
rumore
di
un
petalo
generico
(sussurro di ala rotta
tra l’intenso
odore
dei gelsomini)
(amore
di hotel
socchiuso, oscuro,
con edere legate
al tramonto),
(e un bacio
duro come
pietra che assale),
poi
tra bocca e bocca
il mare
eterno,
l’arcipelago,
il collare delle
isole
e le navi
circondate
dal freddo,
attendendo
l’animale azzurro
dalle profondità
australiane
dell’oceano,
l’animale nato
dal diluvio
con la sua ferramenta
di zaffiri.

Ora qui riposa
sopra la mia tavola e davanti
alle acque di marzo.
Già ritorna
al grembo sabbioso della costa,
il vapore dell’autunno, la lampada
perduta,
il cuore di nebbia.
E il dente della bestia,
tatuato dalle dita delicate
dell’amore,
è la più piccola nave
di avorio che ritorna.
Già le vite
dell’uomo ei suoi amori,
il suo arpione sanguinante, tutto
che fu carne e sale, aroma e oro,
per lo sconosciuto marinaio
nel mare della morte si fece polvere.
E solamente della sua vita
rimase il disegno
fatto
dall’amore
sul dente terribile
e il mare, il mare
palpitante,
uguale a ieri, che apre
il suo ventaglio di ferro,
che scioglie e lega
la rosa sommersa
della sua schiuma,
la sfida
del suo va e vieni eterno
1956

ODE ALL’ETÀ

Io non credo all’età.

Tutti i vecchi
portano
negli occhi
un bambino,
e i bambini
invece
ci osservano
come anziani profondi.

Misureremo
la vita
in metri o chilometri
e mesi?
Tanto da quando nasci?
Quando
devi andare
finché
come tutti
invece di camminare verso l’alto
ci riposiamo, sotto la terra?

All’uomo, alla donna
che consumarono
azioni, bontà, forza,
collera, amore, tenerezza,
a quelli che veramente
vivi
fiorirono
e nella sua naturalezza maturarono,
non avvicineremo noi
la misura
del tempo
che forse
è altra cosa, un mantello
minerale, un uccello
planetario, un fiore,
altra cosa forse,
ma non una misura.

Tempo, metallo
o uccello, fiore
dal grande picciolo,
estendetevi
lungo
gli uomini,
fateli fiorire
e lavateli
con
acqua
aperta
o con sole nascosto.
Ti proclamo
strada
e non sudario,
scala
pura
con scalini
d’aria,
vestito sinceramente
rinnovato
da longitudinali
primavere.

Adesso,
tempo, ti arrotolo,
ti deposito nella mia
cassa silvestre,
e me ne vado a pescare
col tuo filo lungo
i pesci dell’aurora!

ODE ALLA VECCHIA STAZIONE
MAPOCHO,
A SANTIAGO DEL CILE

Antico hangar messo
vicino al fiume,
porta del mare,
vecchia Stazione rosa,
sotto le cui
ferruginose cavità
sogni e treni
scendendo sfrenati
trepidarono
verso le onde e le città.
Il fumo, il sogno, l’uomo
fuggitivo,
il movimento,
il pianto,
il fumo, l’allegria
e l’inverno
consumarono i tuoi muri,
corrosero i tuoi archi,
e sei oggi una povera
cattedrale che agonizza.

Fuggirono gli dei
e entrano come cicloni
i treni scacciando le distanze.
Di un altro tempo gentile
e miserabile
sei
e la tua nave di ferro
alimentò le crinoline
e i sombreri alti,
mentre
sordida era la vita dei poveri
che come un mare amaro
ti circondava.
Era il passato, il paese
senza bandiere,
e tu risplendevi
luminosa
come una gabbia nuova:
con la sua striscia di fango
il fiume Mapocho
grattava le tue
pareti,
e i bambini dormivano
nelle ali della fame.

Vecchia Stazione, non solamente
scorrevano
le acque del Mapocho
verso l’oceano,
ma anche
il tempo.
Le eleganti
uccelli
che
partivano
invecchiarono o
morirono a Parigi, di alcolismo.
Altra gente
arrivò,
riempì i treni,
mal vestiti viaggiatori,
con cesti,
bandiere
sopra minacciose moltitudini,
e la vecchia Stazione
reazionaria
si appassì. La vita
crebbe e moltiplicò il suo potere
intorno a tutti i viaggiatori,
e essa, immobile, sacra,
invecchiò, addormentata,
vicino al fiume.

Oh antica
Stazione,
fresca come un tunnel,
furono
con te
verso i sette oceani
i miei sogni,
verso Valparaíso,
verso le isole
pure,
verso il brivido della schiuma
sotto
la rettitudine
delle palme!

Sulle tue banchine
non solamente
i viaggiatori dimenticarono
fazzoletti,
rami
di rose spente,
chiavi,
ma
segreti, vite,
speranze.
Ahi, Stazione
non sa
il tuo silenzio
che fosti
le punte di una stella
sparsa
verso la grandezza
delle maree,
verso
la lontananza
nelle strade!

Ti abituò
la notte
al suo vestito
e il giorno
fu
terribile
per il tuo vecchio volto

dipinto falsamente
per una festa,
mentre il tuo sotterraneo
cuore
si nutriva
di distanti addii
e radici.

Ti amo
vecchia Stazione
che vicino
al fiume scuro,
alla corrente torbida
del Mapocho,
fondasti
con ombre passeggere,
il tuo proprio fiume
di amore intermittente, interminabile.

ODE A UNA STELLA

Affacciato di notte
sulla terrazza
di un grattacielo altissimo e amaro
potei toccare la volta notturna
e in un atto di amore straordinario
mi impadronii di una celeste stella.

Scura era la notte
e io mi facevo scivolare
per la strada
con la stella rubata in una tasca.
Di cristallo tremolante
sembrava
ed era
improvvisamente
come se portasse
un pacchetto di ghiaccio
o una spada di arcangelo nella cintura.

La riposi
timoroso
sotto il letto
perché non la scoprisse nessuno,
ma la luce
attraversò
per primo
la lana del materasso,
poi
le tegole,
il tetto della mia casa.

Scomode
si fecero
per me
le più private attività.

Sempre con questa luce
di astrale acetilene
che palpitava come se volesse
ritornare alla notte,
io non potevo
preoccuparmi di tutti
i miei doveri
e così fu che dimenticai di pagare i miei conti
e restai senza pane né provviste.

Nel frattempo, nella strada,
si ammutinavano
passanti, mondani
venditori
attratti senza dubbio
dal fulgore insolito
che vedevano uscire dalla mia finestra.

Allora
presi
un’altra volta la mia stella,
con attenzione
la avvolsi nel mio fazzoletto
e mascherato tra l’affollamento
potei passare senza essere riconosciuto.
Mi diressi all’ovest,
al fiume Verde,
che lì sotto i salici
è tranquillo.

Presi la stella della notte fredda
e soavemente
la misi sopra le acque.

E non mi sorpresi
che si allontanasse
come un pesce insolubile
muovendo
nella notte del fiume
il suo corpo di diamante.

ODE A DEI FIORI GIALLI

Contro l’azzurro muoveva i suoi azzurri,
il mare, e contro il cielo,
dei fiori gialli.

Ottobre arriva.

E benché sia
tanto importante il mare sviluppando
il suo mito, la sua missione, il suo lievito,
esplode
sopra la sabbia l’oro
di una sola
pianta gialla
e si legano
i tuoi occhi
alla terra,
fuggono dal grande mare e dai suoi battiti.

Polvere siamo, saremo.

Né aria, né fuoco, né acqua
ma
terra,
solo terra
saremo
e forse
dei fiori gialli.

ODE AI FIORI DI
DATITLA

Sotto i pini la terra prepara
piccole cose pure:
erbe sottili
dai cui fili
si impennano minuscoli fanali,
capsule misteriose
piene di aria perduta,
ed è diversa lì
l’ombra,
filtrata
e fiorita,
lunghi aghi verdi sparsi
dal vento che attacca e mette in disordine
i capelli dei pini.
Sulla sabbia
capitano
petali frammentari,
calcinate cortecce,
pezzi azzurri
di legno morto,
foglie che la pazienza
degli scarabei
boscaioli
cambia di posto, migliaia
di coppe minime
l’eucaliptus lascia
cadere
sopra
la sua
fresca e fragrante
ombra
e ci sono
erbe
simili a flanella
e argentate
con morbidezza
di guanti,
bastoni
di orgogliose spine,
irsuti padiglioni
di acacia scura
e fiori colore di vino,
stiance, spighe,
cespugli,
ruvidi steli riuniti come
ciuffi nella sabbia,
foglie
rotonde
di ombroso verde
tagliato con forbici,
e tra l’alto giallo
che improvvisamente
alza
una silvestre
circonferenza d’oro
fiorisce la tigridia
con tre
lingue di amore
ultravioletto.

Sabbie di
Datitla
vicino
all’aperto estuario
de La Plata, nelle prime
onde del grigio Atlantico,
solitudini amate,
non solamente
al penetrante
odore e movimento
di pinete marittime
mi riportaste,
non solamente
al miele dell’amore e alla sua delizia,
ma alle circostanze
più pure della terra:
alla secca e scontrosa
Flora del Mare, dell’Aria,
del Silenzio.

ODE AL GALLO

Vidi un gallo
dal piumaggio
castigliano:
da tela nera e bianca
tagliarono
la sua camicia,
i suoi pantaloni corti
e le piume arcuate
della sua coda.
Le sue zampe affondate
in stivali gialli
facevano
brillare gli speroni
provocatori
e
la superba
testa
incoronata
di sangue
si sosteneva
su tutta quella eleganza:
la statua
dell’orgoglio.

Mai
sulla
terra
vidi tale sicurezza,
tale leggiadria:
era
come se il fuoco
inalberasse
la precisione finale
della sua bellezza:
due scuri
scintillii
neri corvini
erano
appena
gli sdegnosi occhi
del gallo
che camminava come
se danzasse
pestando quasi senza toccare la terra.

Ma appena
un chicco
di mais, un frammento
di pane videro i suoi occhi,
li prese nel becco
come un gioielliere
alza
con dita delicate un diamante,
poi
chiamò con gutturali oratorie
le sue galline
e dall’alto lasciò loro cadere
l’alimento.

Presidente non ho visto
con galloni e stelle
adornato
come questo
gallo
che spartiva
frumento,
né ho visto
inaccessibile
tenore
come questo puro
protagonista d’oro
che dal
trono
centrale del suo universo
protesse le donne
della sua tribù
senza vantarsi
ma orgoglioso,
guardando in tutti i lati,
prendendo
l’alimento
dalla terra
solamente
per la sua avida
famiglia,
dirigendo i passi
al sole, ai pendii,
a altro chicco
di frumento.

La tua dignità di torre,
di guerriero
benigno,
il tuo inno
verso le alture
indirizzato,
il tuo rapido
amore, rapimento
si ombre piumate,
celebro,
galla
nero
e bianco,
eretto,
riassunto
della virile integrità campestre,
padre
dell’uovo fragile, paladino
dell’aurora,
uccello della superbia,
uccello senza nido,
che all’uomo
destinò il suo sacrificio
senza sottomettere
la sua stirpe,
né demolire il suo canto.

Non ha bisogno di volo
la tua eleganza,
maresciallo dell’amore
e meteora
a tante eccellenze
dedito,
che sì
questa
ode
cada
nel pollaio
la spiluccherai con disprezzo sommo
e la ripartirai fra le tue galline.



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