Pablo Neruda e Insetti


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Tra Michoacán e Punitaqui (1939-1947) - 2^ parte

NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1939 a 1952

IV
VIAGGI 2
(1942-1943)

Viaggi per le coste del mondo
VIAJES 2. VIAJE POR LAS COSTAS DEL MUNDO. (Pagine 498-522.) "Nel marzo del 1942 Pablo Neruda visitò per la prima volta L'Avana, invitato da José María Chacón e Calvo, direttore allora della Direzione di Cultura del Ministero di Educazione. Nel locale di quella che fu l'Accademia Nazionale di Arti e Lettere, in Acosta y Compostela, offrì varie conferenze, due di esse su Quevedo; quella che qui si riproduce figurò in quell'interessante ciclo. "[...] Il testo della conferenza mi fu consegnato dallo stesso Pablo finendo la sua lettura e non ho idea che si sia pubblicato prima di ora". (Ángel Augier, presentazione di "Una conferenza inedita di Pablo Neruda", in Gaceta de Cuba, num. 180, L'Avana, Luglio del 1979.) - Si tratta di "Viaje por las costas del mundo" nella prima versione e senza il titolo che più tardi gli mise Neruda. La fortunata circostanza che Augier non conoscesse le anteriori pubblicazioni del testo ci permette l'accesso a quella prima versione che, tra le altre varianti minori, non portava il frammento da "En estos últimos años vagué por México (In questi ultimi anni vagai per il Messico)" fino a "y voló frente a mis ojos hasta perderse en el cielo (e volò di fronte ai miei occhi fino a perdersi nel cielo)", pp. 513-516, - scritto nel 1943 per la lettura in Colombia (ottobre del 1943) o più tardi in Cile -, e che alla chiusura portava naturalmente il poema dedicato al capitano Alberto Sánchez, eroe cubano della guerra civile spagnola che si estendeva fino ai versi "[...] sonriendo un poco junto a la tumba / de nuestros hermanos caídos (sorridendo un po' vicino alla tomba / dei nostri fratelli caduti)". che nella versione Augier diceva: "[...] sonriendo un poco junto a la tumba / de nuestros valientes hermanos (sorridendo un po' vicino alla tomba / dei nostri coraggiosi fratelli)". Neanche il testo letto a Cuba portava il poema che più tardi Neruda introdusse così: "Mi avvicinai allora alla Colombia e dissi ai colombiani", e che lesse a Bogotà nell'ottobre del 1943, ma finiva invece con la seguente versione embrionale del poema "El fin del viaje":

Qui finisce oggi questo viaggio in cui mi avete accompagnato la notte ed il giorno ed il mare e l'uomo. quanto vi ho detto ma molto più è la vita. ci ha fatto scegliere tra il combattimento ed il riposo, il pane e la statua?tutto, il visibile ed il segreto, il piccolo ed il grandioso, ci appartiene quanto raccolga la verità o la bellezza o sconquassate perché dalle rovine e dai frammenti di nuovo la vita, dalla sconfitta ricostruisce con lacrime e con spade la speranza.
saluto, alla vostra isolariempie di profumo e di dolcezze la terra.
È recente ancora l'ecovostre battaglie per la libertà, ancora mi sembra sentirevostro Martí parlare con la voce dell'America interatutti gli uditi dell'America raggrupparsi vicino alla sua voce.'altra volta le campane della tirannia portano attraverso il mareloro suono di ombra e la nostra Americariempie di un silenzio angosciato.oggi siamo più stretti ed insieme, più fortificati,ù uniti per dire ai nuovi barbari: NON PASSERANNO,passeranno ad occupare il cuore sacro della nostra America libera.

Questa prima versione fu rielaborata e aumentata per la lettura culminante della conferenza che fece Neruda ritornando in Cile (dicembre 1943). Probabilmente fu ritoccata ancora per la sua pubblicazione in (1947) e - come poema indipendente e con titolo proprio - nel quotidiano Siglo, Santiago, 18.9.1947. Di lì la prese Matilde Urrutia per includerla tra i testi dispersi di Neruda che redasse proprio sotto il titolo fin del viaje(FDV) nel 1982, ma senza indicare la sua connessione col nostro "Viaje por las costas del mundo". - [...] de 1914 comencé a escribir allí [en el Sur] mispoesías(prima del 1914 cominciai a scrivere lì [nel Sud] le mie prime poesie). Neruda normalmente insisteva nei suoi versi anteriori al 1915, ma non conosco documentazione al riguardo. - é a Calcuta en el mes de diciembre de 1928(Arrivai da Calcutta nel mese di dicembre di 1928). Tutte le pubblicazioni del testo, includendo la versione Augier e quella di OC 1973, portano "dicembre del 1919", ma il Congresso di Calcutta ebbe luogo nel dicembre del 1928. E Neruda, come si sa, stava lì col suo amico Álvaro Hinojosa. Nel dicembre del 1929 ebbe un altro Congresso panindio, più importante ancora, ma nella città di Lahore, oggi appartenente al Pakistan, a 2.000 km da Calcutta. Inoltre, la corrispondenza con Eandi, con Laura e soprattutto con Albertina (di cui nervosamente sperava, giusto in quello periodo, la sua accettazione a viaggiare dall'Europa per riunirsi) mi dicono o suggeriscono che nel dicembre di 1929 Neruda non si mosse della Ceylon. Non conosco nessun indizio di un viaggio da Colombo a Calcutta in quello periodo né alcuno ragione per farlo (Álvaro Hinojosa era andato via da tempo), anche i mezzi, per cui preferisco pensare che si tratta di una nuova distrazione cronologica del poeta. Aggiungo, per maggiore precisione, che non arrivò Neruda in dicembre a Calcutta bensì nel novembre del 1928, secondo l'attestazione molto più fresca della lettera ad Eandi scritta sulla imbarcazione e datata "Bengala Bay, 16 gennaio, 1928", Aguirre * *, p. 42, dove la distrazione cronologica del poeta, niente infrequente, successe alla rovescia, la traversa Calcutta-Colombo fu all'inizio del 1929, non del 1928. In quella lettera leggiamo: "Ora, tra tre ore arriverà la barca da Colombo. Vengo da Calcutta, mesi di vita" Ciò ci retrodata a novembre del 1928, quando Neruda scrisse "Tango del viudo" e "Ars poética" di

Ho cominciato a vivere in tanti luoghi e in tante ore differenti della nostra epoca, che non so da dove iniziare: se dal grande o dal piccolo, dal dentro o dal fuori, se dalla giacca o dal cuore. Tutto è fuso dentro di noi, fuori da noi, le vite e le nascite, facendo un cerchio di foglie, di lacrime. di fuoco, di conoscenza, di ricordi. E la vita di un uomo è come l'esistenza di un giorno: la polvere trema al passaggio della luce centrale, la vegetazione accumula il suo misterioso alimento fatto di atmosfera e di profondità, passano canti di ragazzi, di ubriachi, di becchini, suonano le cucine del mondo, trasportano i feriti sul mare, con interminabili treni, le macchine da scrivere, le presse, i motori si stanno udendo nel crepuscolo da dove il giorno sta scomparendo, come un piccolo ciclista in una lunga strada, e non mi fermo fino alla notte permanente, alle stelle infinite, alla solitudine immensa.
Per lungo tempo mi accompagnarono solitari nomi di regioni sconosciute e lontane, dove trovai una casa, dei libri, talvolta una donna. Questi nomi mai interessarono a nessuno, la loro ortografia stessa era sconosciuta e difficile, e per me erano punti segreti del mio pensiero, di quelli che a nessuno posso parlare, di quelli che a nessuno posso far tacere, con una parola o silenzio che li avessi abbracciati. Che avesse significato per nessuno un mese, mille giorni, molte mie settimane, molte stagioni, nel golfo di Martabán, vagando per le rive del fiume Irrawadhy, nella cui bocca sta Rangoon, guardando la crescita, sudicia e turbolenta, del fiume Salween, o un pomeriggio, un giorno, una notte nel remoto Sandokan, o un giorno di pioggia in treno, in terza classe, attraverso la Tailandia, nella selva, o una mattina di freddo nello Stretto di Magellano, tremando, infermo e senza lavoro, guardando al bordo dell'acqua il muso di un impreciso bue marino con grandi baffi di brina?
Tutto questo è stato privatamente mio, senza nostalgia, senza disgrazia, senza felicità: è stato la mia porzione, la mia riserva, la mia proprietà solitaria. Oggi per molte di queste ragioni marcia la guerra inseguita da corvi e sciacalli, da formiche e granchi: la selva divora con artigli e con fiori, tutto torna al silenzio, a una luce dura e verde, ma già tutti questi nomi, queste latitudini entrano nel pane di ogni giorno, nel pianoforte di ogni giorno, nel sangue di ogni mattina, perché la vita ci abitua in questa ora ad alzare ogni mattina la coppa di sangue di ogni giorno e non soltanto la tigre e non soltanto il lupo sono gli animali sanguinosi, invasosi della selva o della steppa.
Poco tempo fa, raspando per le spiagge del golfo della California, cercando nell'acqua, nella sabbia e il fango talvolta l'argonauta, o le innumerevoli “” o il “bicolor”, chiamato cinese, chiocciola doppia, nel suo guscio di gesso o di spine, nel suo interno, rosa come un palato, ritirai sorpreso da dentro la schiuma una gigantesca stella di mare, sì, sì, la “occidentalis” o forse la “armata”. Era una massa di cinabro fosforescente e le sue cinque grandi punte si alzavano verso il centro, come un astro incendiato.
Raccolsi e guardai da tutti gli angoli la piccola montagna viva sottomarina, tanto feroce e combattiva, vorace e sanguinaria. Tutto l'oceano interiore arrivava alle mie mani, la vita violenta e bianca delle scogliere, l'esplorazione notturna del capitano Nemo, la visione e l'avventura del nordamericano contemporaneo William Beebe. Sopra il divano di fango sottile e delicato, le spugne posano i loro volumi remotamente vivi. La silice si sviluppa in grandi abeti traslucidi, gli armati ricci di azzurro ardente viaggiano con gran pigrizia nello splendore di cristallo. Granchi dalle sottili e larghissime mani, crostacei ciechi, pesci come lampade cristalline, , brachipodi, oloturie, crinoidi, costruiscono nel fondo la statua fosforescente del vecchio oceano: le sue lunghe barbe distrutte dalla marea che arriva con l'alga immensa dei mari del Cile e con gli occhi pieni di gorgonie, di alcionarie, di piume del mare che si accendono di verde e di violetto, illuminano il cammino dei mostri che difendono la casa sommersa del Dio del Mare.
Il fondo delle acque cambia con la vita del tempo. Fu oscuro nelle epoche del terrore preistorico e le grandi masse brune dei cetacei uscirono da esso con lentezza verso una superficie di cuoio e di silenzio. Nell'età dell'oro il poeta andaluso Pedro de Espinosa illumina con un raggio di amaranto la latitudine bagnata e brilla il suo splendore con tutte le pietre preziose da poco uscite dall'America:


Vedo entrando nel Genil un vergine coro
di belle ninfe dai nudi petti,
sopra cristallo setacciando grandi d'oro
con verdi cribri di smeraldi fatti;
vedo, ricchi di lucentezza e di tesoro,
fogliame di ghiacciolo sui tetti,
che stavano per le punte adornati
di grappoli di perle di fiume gelate.

E continua la favola fluviale del Genil, forse il più perfetto poema della nostra lingua:


Benché sono argento liscio le soglie;
chiari diamanti le lucenti porte;
ricche di chiodi di corali
e di piccole madreperle coperte;
bene che raggi di luce immortale
danno, e che stanno spalancati,
e i quirales d’oro molto robusti,
che mostrano il potere di chi li fece.

Colonne più belle che utili
sostengono il gran tetto cristallino;
le pareti sono pietre trasparenti,
il cui valore dall’Occidente venne;
spuntano dalle fondamenta chiare fontane,
e con pelle bianca, in liquido cammino,
corrono coprendo con la loro chiara linfa
le carni bianche delle belle ninfe.

La divisione del mare è, quindi, sempre differente. Le mie lunghe camminate, presso le scogliere, le mie navigazioni verso gli angoli gelati, dove meritai di portare appeso al collo l'albatros morto dell'antico marinaio, mi fecero cercare più sotto delle onde, impregnarmi della sua zoologia fantasmatica, tremare nello stesso luogo del naufragio. E già dopo molti anni, ritornai alla mia vita verso il mare solitario della mia infanzia, verso un pezzo di mare della frontiera che è la regione del Cile da cui vengo, e verso questo deserto mare che sempre colpisce il mio sogno e apre per me le porte del tempo, scrissi alcune volte “Sud dell'Oceano”.

Di consumato sale e gola in pericolo
son fatte le rose dell'oceano solo,'acqua rotta tuttavia
[…]


Quasi all'epoca di Pedro de Espinosa, il poeta Andaluso che pose più smalto, più zaffiro e più pietre preziose sotto l'acqua che nessuno fino a questa data, visse alla Corte casigliana un gran signore della poesia e della vita, un gran poeta assassinato, il Corriere Maggiore di Sua Maestà, don Juan de Tarsis, conte di Villamediana.

Non possiamo dimenticare i fantasmi. E quando questi, come Juan de Tarsis, incrociarono come un lampo di ametista un minuto della storia poetica, lasciando un fulgore di fosforo che attraversa e rompe le pagine dei libri e le diffonde in un piccolo vento oscuro, dobbiamo ricordare il fantasma.
È l'innamorato della Regina. Va tutto vestito di broccato di color argento cenerino. Una rosa azzurra circonda il posto della sua spada. Per rendere più evidente la sua patetica passione, si è riempito le spalle di monete dei reali: “I miei amori sono reali”. La bella Regina guarda. Né un tremore delle sue labbra la tradisce. Se il Re non guarda, ha molti occhi che fotografano con gli stessi sguardi che tessero gli antichi intrighi dei vecchi libri. Un giorno, di sua propria mano, il conte incendia i tendaggi dello scenario in cui si inaugura la piccola “operetta” in cui la Regina è stella e tra il fumo e le grida, corre Villamediana con la Regina fra le sue braccia. Ma Madrid osserva.

Il resto lo racconta don Luis de Góngora nella lettera del 23 agosto 1622.

La mia disgrazia è arrivata al massimo con la sfortunata morte del nostro conte di Villamediana, di cui do a Vostra Grazia le condoglianze per l'amico che era di Vostra Grazia e le volte che interrogava per il cavallo del Palio.

Successe la domenica scorsa sul far della notte, 21 del mese, venendo al palazzo con la sua carrozza con il signor don Luis de Haro, figlio maggiore del Marchese del Carpio; e nella strada Mayor uscì dagli androni che stanno sul marciapiede di San Ginés un uomo che si avvicinò al lato sinistro, dove stava il Conte, e con arma terribile di coltello, secondo la ferita, lo passò dal costato sinistro al muscolo del braccio destro, lasciando tal squarcio, che anche in un toro darebbe orrore. Il Conte rapidamente, senza aprire il predellino, si lanciò verso la testa dell'uomo e pose mano alla spada, ma vedendo che non poteva governarla, disse: «Questo è fatto! Confessione, signori!» e cadde. Arrivò a questo punto un chierico che gli dette l'assoluzione, perché dette segni due o tre volte di contrizione, stringendo la mano al chierico che gli chiedeva questi segni; e portandolo alla sua casa prima che spirasse, ebbe il tempo di dargli l'unzione e di assolverlo un'altra volta, per i segni che dette di abbassare la testa due volte. L'uccisore […] seguito dai lacchè e dal cavallerizzo don Luis, che andava su un cavallo, perché favorito da alcuni uomini che uscivano dagli stessi androni, ostacolarono cavallo e lacchè all'inseguimento, si misero al riparo senza essersi resi conto di cosa accadesse. Parlo con riservatezza della causa, e la giustizia sta procedendo con esteriorità: però tenga Dio nel cielo il disgraziato, che dubito procedano a più indagini. Sono ugualmente rammaricato e disilluso di quello che è sfarzo e vanità nella vita, posto che abbia dissipato tanto questo cavaliere, lo sotterrarono quella notte in una bara da impiccati che portarono da San Ginés per la fretta che dette il Duca del Infantado, senza permettere che gli dessero una cassa.


Così, quindi, cadde assassinato alcuni secoli fa il litigioso, baro, collezionista di gioielli, di cavalli, di quadri, conte di Villamediana. La tristezza di Góngora non lo ha salvato dall'oblio. Spero che prima di voi lo salverà questo drammatico, questo meraviglioso sonetto cortigiano:



Chi sarà felice sarà amato,
e io in amore non voglio essere felice,
avendo la mia dedizione generosa,
una felicità essere per voi tanto sfortunato.

Soltanto è servire, servire senza essere premiato;
vicino sta al maleducato il felice;
rincorrere il bene di tutti è inevitabile.
Io solo rincorro il bene senza essere forzato.

Non c'è bisogno di felicità per amarci;
amo di voi ciò che di voi capisco;
non quello che spero, perché niente spero.

Portami il conoscerci a amarci;
servire più per servire soltanto pretendo
da voi non voglio più di quello che vi chiedo.

In quello stesso tempo uno dei più grandi drammi della libertà umana si sviluppava nel mondo: la lotta dell'Araucania contro l'Impero spagnolo nella regione remota, crudele, inclemente che i conquistatori chiamarono il regno del Cile. Cile, come sembra, vuol dire paese freddo in una delle lingue incaiche, e il primo europeo che arrivò nella mia patria, arrivò a questa per la sua parte più gelata e fu don Hernando de Magallanes. Soltanto a questo grande titano, a questo formidabile capitano terrestre, poteva riservargli il destino quella regione. Dopo alcuni anni, di ritorno dall'India, dove mi portò la mia adolescenza, incrociai con raccoglimento quelle regioni lunari in cui la desolazione planetaria distrugge ogni possibilità che non sia l'angoscia. A lato delle acque strette e profonde, spuntano pezzi scuri e pelati della crosta terrestre, pezzi di guscio di un vecchio e abbandonato pianeta. Al nostro lato gli animali marini di altre epoche si affacciamo ancora sopra l'acqua ridendo con dentatura tetra, i pini antartici diritti come chiodi rimarranno per sempre piegati dalla tempesta, l'arcobaleno si alza sopra il firmamento tempestoso come l'unico immenso fiore, come la delirante bandiera che unisce i desolati ghiacciai.
Arauco non era quella di Araucanaprima dell'arrivo spagnolo. Arauco era moltitudine di tribù disperse che non si conoscevano tra loro, senza uno Stato, senza una religione, senza una struttura artistica. Ma la sua lotta formidabile, il miracolo di trecento anni di battaglia, si fa più trasparente in questi ultimi anni di chiassoso sangue. Mentre le oligarchie azteche e incaiche davano la mano all'invasore, dopo una breve lotta, mentre i conquistatori rimpiazzavano i vaghi sentimenti di poesia e di terrore che scuotevano la nostra America, dominata da sacerdoti e aristocratici e, calando la croce, facevano dell'oro un nuovo circolo mistico e mitologico, fondendo nel metallo drammatico tutte le idee di un'epoca palpitante e temibile, la nostra patria scrisse una lezione disordinata allora, ma vivente oggi più che mai. Arance si fece unità davanti all'invasore: i barbari individualisti addormentati sotto l'ombra della cannella silvestre, guidati dal tamburo o dal fuoco, dimenticarono i loro progetti da dei, uccisero i primi traditori, terminarono tutte le loro stupide dispute per una donna o per una freccia e, riuniti in un primo fronte nazionale davanti a un invasore, sostennero vittoriosi una campagna di sangue che durò trecento anni e che è stata portata nella storia e nella poesia dal meraviglioso cavaliere, dal grandioso poeta, dal nobile don Alonso de Ercilla.
Alla fine del secolo passato la Araucania non era ancora stata conquistata. Gli orgogliosi eroi antichi rifiutarono il nostro sangue spagnolo e il gran fiume, il padre dei fiumi del Cile, il Bío Bío, continuò a indicare la frontiera, cioè, il luogo che il cileno, come prima lo spagnolo, non poteva attraversare.
L'agonia dei guerrieri, la fine di una razza che sembrava immortale, rese possibile che i miei antenati, dopo un patto in cui il Governo del Cile riconobbe gli araucani come cittadini liberi della Repubblica del Cile, con tutti i suoi diritti e prerogative, potessero arrivare con i loro primi “” su una vecchia carrozza a noleggio, attraverso varie leghe di territorio sconosciuto fino ad allora, verso la nuova capitale della frontiera popolata dai cileni. Questa si chiamò Temuco e essa è la storia della mia famiglia e della mia poesia. I miei padri videro la prima locomotiva, i primi granai, i primi legumi in quella regione verginale di freddo e tempesta.

Io nacqui nell'anno 1904 e prima del 1914 cominciai a scrivere lì le mie prime poesie. I lunghi inverni del sud entrarono fino al midollo della mia anima, e mi hanno accompagnato per la terra. Per scrivere avevo bisogno del volo della pioggia sopra i tetti, le ali d'uragano che vengono dalla costa e colpiscono i paesi e le montagne, e questo rinascere di ogni mattina, quando l'uomo e i suoi animali, la sua casa e i suoi sogni, sono stati sottomessi durante la notte a una potenza estranea, fischiatrice e terribile. Per scrivere ancora ebbi bisogno nel mondo delle infiltrazioni. Le infiltrazioni sono il pianoforte della mia infanzia. Mi padre sempre diceva di comprare un pianoforte che, oltre a consentire a mia zia di suonare il mio adorato valzer le onde,potrebbe per la nostra famiglia essere titolo chiaramente esprimibile dalla frase “hanno un pianoforte”. Mio padre, nei momenti in cui lo lasciava libero la sua vita di mobilità perpetua, perché era conduttore di treni, arrivava fino a misurare le porte da dove doveva passare quel pianoforte che mai arrivò. Ma il gran pianoforte delle infiltrazioni durava tutto l'inverno. Alla prima pioggia si scoprivano nuove infiltrazioni dalla voce dolce che si accompagnavano alle vecchie infiltrazioni, Mia madre divideva i suoi vasi di terracotta, lavamani, brocche del latte e altre cose. Ognuno dava un suono diverso, a ciascuno arrivava dal cielo tempestoso un messaggio differente ed io distinguevo il suono chiaro di un lavamani di ferro smaltato, da quello opaco a amaro di un secchio ammaccato. Questa è quasi tutta la musica, il pianoforte della mia infanzia, e le sue note, diciamo le sue infiltrazioni, mi hanno accompagnato dove mi è toccato vivere, cadendo sopra il mio cuore e sopra la mia poesia.
Così, dunque, sono un poeta naturale della guerra e delle città, delle macchine e delle abitazioni, dell'amore, del vino, della morte e della libertà. Ma sono anche un poeta naturale di quei boschi ombrosi, che ricordo adesso con impregnata forza. Ho cominciato a scrivere per un impulso vegetale ed il mio primo contatto con la grandiosità dell'esistenza sono stati il mio sonni con il muschio, le mie lunghe insonnie sopra l'humus.
Una grande coltre di humus di più di un metro di spessore copre tutti i boschi del mio territorio nativo. In quella regione fredde e piovosa, le foglie dei vecchi alberi sono andate cadendo in un immemorabile autunno. Gli alberi, allora, i vecchi tronchi del ín, della , del cipresso, del “Winterey”, i giganti dell'altura cadono sopra l'umidità della vecchia terra silenziosa da cui nasce l'unica voce vegetale della selva, l'orazione dei rampicanti immensi e bagnati, i tentacoli della felce boreale. La di un vecchio cavaliere geografico, il signor Amado Pissis, ci descrive così questa regione:

Gli alberi che formano le selve del Cile, appartengono a un numero abbastanza grande di famiglie differenti, comprendendo 69 specie che si sostituiscono l'una all'altra secondo le diverse latitudini. Verso l'estremità australe il antartica, il betuloides, il wintereii, alcune proteacee e conifere formano l'essenza dei boschi: il numero delle specie aumenta sempre più man mano che si avanza verso il nord, essendo nelle provincie di Valdivia e di Llanquihue dove i boschi arrivano a un maggiore splendore e i vegetali al loro maggiore sviluppo, favoriti da una temperatura dolce e dalle continue piogge; gli alberi, stretti lì, gli uni con gli altri, si elevano verticalmente e estendono i loro rami a una grande altezza, fin dove possono ricevere la luce necessaria per il loro sviluppo. Sotto a questo vasto tetto di foglie, dove mai penetrano i raggi del sole, regna una temperatura uguale ed una umidità costante; lì è anche dove crescono le piante più delicate, piante che non potrebbero resistere all'azion e diretta del sole. In questo suolo, interamente formato da depositi vegetali, si estendono i muschi, i licopodi, le epatiche, e il repensallaccia con i suoi steli carnosi gli alberi caduti di vecchiaia sopra i quali ostenta i suoi brillanti i fiori scarlatti. Nel mezzo di questi stessi alberi abbattuti, escono ancora le felci più belle, la pruinata, specie arborescente le cui foglie arrivano a volte a tre metri di lunghezza. Alcune piante più desiderose di luce, allacciano i loro steli sciolti al tronco dei grandi alberi e si estendono per i loro rami dai quali fanno cadere i loro bei fiori di colore di porpora: tale è il copihue o la lapageria.
Infine, ai bordi delle spaziose radure dei boschi, una bambusacea rampicante occupa tutto lo spazio libero e forma una boscaglia impenetrabile come se fosse destinata a preservare il bosco dagli attacchi dei venti e degli animali.

Questa citazione giallastra dalla ía fisica de la República de Chile, del Cavaliere della Legion d'Onore, membro dell'Università e Capo della Commissioni Topografica, estratta da quella che credo la sua unica edizione, quella del 1875, non è vero che ha qualcosa di tenerezza, qualcosa più divinatorio del nostro paesaggio australe che molte descrizioni letterarie? Sembra a momenti un frammento del grande poeta Juvencio Valle, che ha dato alla nostra geografia vegetale una nuova dimensione mitologica e raggiante. Ma il signor Pissis non indovina soltanto lì, vediamo come nel capitolo di geologia ci dice: “Da questa epoca appare il suolo del Cile come uno di questi antichi sfiatatoi che pongono in relazione l'interno del globo con la sua superficie”. Non c'è anche una equivalenza misteriosa di qualità e difetti nostri in questa osservazione scientifica? Lungo le lunghe coste del nostro territorio, apparizioni, fantasmi, spiriti e chimere si depositano in antichi pozzi, in grandi sfiatatoi che vengono dalle profondità. Maghi e spiritisti, tanto abbondanti tra noi, solamente colgono questa palpitazione tellurica, riconoscono questi eventi indeterminati e li riportano alla misura della dimensione umana, in forma di vaticini o incensamenti. Ma nelle nostre imprese marittime, intellettuali e musicali, anche nella nostra storia, sembra avvertirsi la corrente continua di trepidazione di quelli che chiama Pissis sfiatatoi. C'è qualcosa di vulcanico, raschiato e geologico, nella poesia della nostra Gabriela Mistral, c'è una esplosione siderale in Ángel Cruchaga, scosse, ascensione, ambizioni cotiche, risultato di questo continuo tremore vulcanico.

Passando ad altre cose, nell'anno 1930, alle undici del mattino, un giovane con faccia di spedizioniere entrava con gesto stanco in una camera di un hotel nella città di Giava. Giovane ancora, il suo volto denotava lunghi tragitti passati alle intemperie. Il suo cappello bianco non sembrava comprato di recente. Già aveva conoscenza questa copertura di altri climi e di altre latitudini.
Comincio così questa narrazione, nel linguaggio del 1900, ma, come mi annoio, vi racconterò il terribile segreto e l'enigma: questo viaggiatore ero io, e siamo a Giacarta, nell'isola di Giava.
Tremando per la febbre, mi stesi sul letto, sotto la zanzariera. Avevo già consumato tutti i miei fazzoletti a causa di una emorragia nasale e mi sentivo morire di stanchezza e di febbre, disorientato e solo.
Volevo scrivere un telegramma al mio paese, un telegramma urgente e suonai il campanello per chiedere l'inchiostro. Venne rapidamente un sorridente javanese. Non conosceva l'inglese. Io non conoscevo l'olandese e il malese. Feci tutti i gesti necessari poi in un momento tornò con un lapis. Feci altri gesti, accompagnati dalla parola ,che neppure comprese. Tornò allora con altri malesi sorridenti, tutti con il loro turbante e con il loro vestito immacolato e tutti questi facevano congetture, talvolta sulla medicina di cui avevo bisogno. Ma io chiesi inchiostro per scrivere il mio telegramma e al massimo dell'eccitazione mi alzai dal letto come potei e, correndo verso il balcone dove un signore leggeva il suo giornale vicino a un calamaio e a una penna, li presi e li mostrai al coro di servitori oceanici e, indicandogli il calamaio, gli ripetei con furia: , this
Allora essi, con un sorriso angelico e guardandosi l'uno con l'altro, esclamarono: “Ah!… ”. Da allora appresi che a Giava e nell'idioma malese, la “” (inchiostro) si chiama “” (inchiostro).

In quegli stessi anni mi toccò vivere a Ceilán, vicino a Colombo. Vissi per lungo tempo solo in una costa spopolata, vicino alla foce di un fiume, in cui ogni giorno venivano a bagnarsi dalla mattina alla sera i belli elefanti dell'isola. A volte solo la punta estrema della proboscide usciva dall'acqua come il periscopio di una strano sottomarino animale. Altre volte, semisdraiati e brandendo la proboscide, si versavano con diletto grandi quantità di acqua. Col mio cane passavamo lunghe ore per la costa, ma lo spettacolo degli elefanti sommersi mai lasciò tranquillo il mio cane, che protestò sonoramente ogni volta che li incontrò. Il mio cane si chiamava , che è il nome di ogni cane che ho avuto, perché in una di queste città in cui mi toccò venire a vivere, a me, da poco arrivato e straniero, in una casa grande, improvvisamente disabitata per malattia della padrona di casa. E avevo in quella casa cinque orribili cani di Pomerania, orgoglio della loro proprietaria. Io non sapevo come né dove mangiare io stesso, ero uno straniero e sperduto in quelle regioni e povero solitario, e gli infami cagnolini rifiutavano di mangiare le banane, l'unica cosa che io gli portavo, e poco a poco la loro magrezza e il loro appetito si facevano più formidabili e temibili. Io notai che, per molti giorni e settimane, a un'ora determinata, sempre la stessa, si apriva come per incanto una porta nel fondo della casa e un gigantesco indù della casta dei paria, con un gran turbante bianco e un gran sorriso bianco, alzando le due mani alla fronte e inchinandosi con decisa riverenza mi diceva una sola parola: “sahib”. Io mi inchinavo leggermente e chiudevo la porta, perché in quella terra di tante strane cose e mitologie non mi stupiva che un servitore misterioso venisse ogni giorno a fare davanti a me un atto rituale. Solamente molto tempo dopo venni a sapere che “sahib” voleva dire nella lingua indù semplicemente: “Le porto il mangiare dei cani, signore?”.
Da allora, tutti i miei cani devono chiamarsi , in omaggio a quelle vittime della mia ignoranza, ma sempre era felice quel quando alla riva del mare non vedeva una proboscide di elefante, finché, bruscamente, senza che avessi una foce, in piena costa e avendo come saltato per miracolo la cintura di scogliere che circonda l'isola, un grande veliero arrivò all'alba quasi conficcato alla mia porta di casa. Quasi tutto il giorno guardavamo incantati la forma fine dell'imbarcazione misteriosa. Navigando diritto dalla mia casa solitaria della costa, un gruppo di migliaia di isole ignorate che incontrerete nelle mappe vicino al bel nome di Isole Maldive, si comunicava una sola volta con il mondo con questa barca che arrivava tanto vicino alla mia vita, gonfiando le sue vele bianche attraverso quello strano mare e riportando tuttavia al re che non esisteva, un montone, rami di corallo e un immenso pesce tricolore. Il viaggiatore Pyrar de Laval nel 1608 lasciò scritto di queste isole:

Tutto quello che si incontra sulla riva del mare appartiene al re, affinché nessuno possa appropriarselo: tutti sono obbligati a raccoglierlo e portarlo al re, provenga da dove provenga; chi mette da parte qualche cosa, gli si tagli la mano. Ordinariamente si raccolgono le spoglie di ogni naufragio marino o ambra grigia, che chiamano o , , quando è preparato, materia più abbondante in quelle spiagge che in nessuna altra parte delle Indie Orientali. Si raccoglie anche una noce che espelle il mare qualche volta, grande come la testa di un uomo, simile a due grandi meloni uniti. La chiamano ée dicono che provenga da degli alberi che stanno sotto il mare. I portoghesi lo chiamano cocco delle Maldive; è una sostanza medica di gran pregio. Accade molte volte che gli ufficiali del re e altri agenti, maltrattino la povera gente, quando sospettano che si sono appropriati di qualche éo ambra grigia, o li accusano di aver commesso sottrazione di queste cose per farli indagare e prendere. Se qualcuno diventa ricco in poco tempo, si dice, generalmente, che ha trovato e si è appropriato di éo ambra grigia, come se fosse un tesoro. Si pesca anche corallo nero in gran quantità, che è ugualmente proprietà del re, e gli uomini che lo raccolgono sono pagati per questo…

Poco dopo mezzogiorno ballavano i misteriosi equipaggi e tra musica e profumo bruciato, avanzavano per le strade di Colombo verso la casa del governatore inglese a depositare ancora la loro antica offerta di sottomissione.
Isole Maldive, veliero bianco giunto alla mia dimora, quante volte chiesi di andare verso un altro luogo sconosciuto, verso la fine dello sconosciuto, come se mi sentissi legato, attratto e disprezzato da questi messaggeri delle isole e come, quando chiudo gli occhi, di notte, negli alberghi, nei treni, penso che quando viene la mattina arriverà sempre da dove la sto aspettando, con le vele piene di vento, la nave bianca che dall'oceano remoto porta al mio cuore una offerta di carne, un pesce palpitante e un ramo di corallo!
Tornando a quella casa vuota, la casa dei cani affamati, mi toccò vedere o leggere un dramma lungo, un dramma di nascondigli, di gente nascosta e sola. Nel disordine di quella casa, grande e oscura, con decine di letti e che solo io ed i cani abitavamo, incontrai disseminati in ogni parte piccoli pacchetti di carte chiusi con nastrini. La curiosità mi vinse e aprii uno ad uno i pacchetti. Era qualcosa di grottesco e terribile.
La donna della casa era una vecchietta insignificante, di circa settanta anni, curva, rugosa e di un colore prodotto dall'incrocio di quelle razze d'Oriente. Quelle carte erano risposte di uomini, di soldati, di piantatori inglesi. Essa pubblicava permanentemente sui quotidiani un annuncio di più o meno questo tenore: “Giovanetta recentemente arrivata dalla Scozia, delusa dalla vita, vorrebbe iniziare corrispondenza con piantatore o gentiluomo solo”. Essa conservava copia delle sue lettere, in cui si dipingeva, mai lo dimenticherò, come una giovane “amante degli uccelli e della musica”, “ferita da profonde delusioni”, “di bellezza singolare”. La corrispondenza dei piantatori era primitiva, goffa e ardente. Nella solitudine del whisky e delle piantagioni di Assam, le lettere della giovane sconosciuta recavano un romanzo indescrivibile e il cuore di questi esseri induriti viveva per la prima volta la primavera in questi anni torbidi di solitudine e di sudore.
Gli idilli duravano finché i piantatori arricchiti arrivavano in città, alla stazione dei treni delle ferrovie in cui dovevano incontrare la sconosciuta e delusa bellezza. E lì si interrompevano le carte perché, come penserete, i ricchi piantatori sbarcati con le loro valigie, cercavano nel chiasso della stazione suburbana con gli occhi angosciati la bionda sconosciuta e passavano, senza guardarla, vicino a una vecchietta curva, immensamente piccola, che nessuno aspettava. Tornata nuovamente alla sua casa, una nuova corrispondenza cominciava, dalla stessa fine del triste idillio terminato.

Arrivai a Calcutta nel mese di dicembre del 1929. Si celebrava lì il Congresso di tutta l'India. Una immensa quantità di delegati, più di ventimila, si riunivano vicino a Gandhi e al Nehru in un sobborgo di Calcutta. Tutto il pomeriggio e la metà della notte, il popolo indù portava lì le sue dedizioni, le sue umiliazioni, la sua povertà e la sua speranza. Già si differenziavano le correnti politiche che stanno cambiando il volto martirizzato del mondo. Si poneva all'orizzonte Gandhi, come un magro e vecchio dio cristiano, e spuntava come una nuova stella di speranza il cuore e la coscienza umana del nuovo leader, Jawaharlal Nehru. Talvolta Gandhi, stanco, dormiva lì, alle intemperie, come se dicessimo nella strada, posando il vecchio capo sopra un piccolo guanciale. Qualcuno sosteneva un ombrello sopra il suo sonno leggero, qualcuno con un ventaglio rinfrescava il suo riposo, e da questo sonno corto, di alcuni minuti, tornava a uscire questa immensa energia mistica che ha affrontato il grande Impero. Nehru, del nord dell'India, era in quel tempo molto giovane e molto garbato e molto ben vestito, con queste vesti ampie di color del frumento che usa la gente in Kashmir. E nei suoi occhi profondi, nella tenacità e nella coscienza della sua nuova politica, si vedeva già il novo sangue che andava a riempire il letto millenario.
Io vidi la lotta vinta da Gandhi in un momento drammatico. La corrente di Nehru lottava per la libertà assoluta dell'India. Gandhi voleva soltanto il Status, come passo progressivo per arrivare alla liberazione. Tutto il Congresso era per l'indipendenza. E, all'approssimarsi della votazione un mormorio percorre il Congresso: Gandhi vuole rompere il suo silenzio che dura da tre giorni, che pratica come un digiuno, e vuole dire qualcosa.
Si alza, il corpo leggero, la veste bianca, gli occhiali, la narice appuntita. Vuole soltanto dire che, se si approva la mozione contraria, lui, Gandhi, il Gandhiji, smetterà di mangiare fino a morire. E non c'è più discussione. Viene approvata la sua tesi, la sua tesi timida e vegetariana, e l'India pregherà per il santo, e la sua voce, il suo silenzio si libererà nelle strade, nelle città, nelle selve, nei canneti, ai paria, al bazar: “il Gandhi vuole la nostra salvezza, egli ci guida”.
Quel Congresso, come aspetti dell'India, mi lasciavano un retrogusto salmastro, miscela di disgusto e di incertezza. Mi produce lo stesso rigetto il santo e il vizioso, e tremo per il futuro che si appoggia sopra una sola testa umana.

In questi ultimi anni vagai per il Messico, percorsi tutte le sue coste, le sue alte coste scoscese, incendiate dal perpetuo lampo fosforico. Da Topolomambo in Sinaloa, scesi per questi nomi emisferici, aspri nomi che gli dei lasciarono in eredità al Messico quando in esso si misero a comandare gli uomini, meno crudeli degli dei. Andavo per tutte queste sillabe di mistero e di splendore, per questi suoni dell'aurora. Sonora e Yucatán, Anahuac che si alza come un braciere freddo da dove arrivano tutti i confusi aromi da Nayarit fino a Michoacán, da dove si percepisce il fumo della piccola isola di Janitzio, e l'odore di mais e ubriachezza che sale da Jalisco, lo zolfo del nuovo vulcano di Pararicutín unendosi all'umidità fragrante della pesca del lago di Pátzcuaro. Il Messico è l'ultimo dei paesi magici, magico di antichità e di storia, magico di musica e di geografia. Facendo il mio cammino di vagabondo per queste pietre sferzate dalla pioggia perenne, intrecciate da un antico filo di sangue e di muschio, mi sentii immenso e antico, degno di andare fra tante creazioni immemorabili. Valli scoscese, tagliate da immense pareti di roccia, di quando in quando colline elevate raccordate al piano come da un coltello, immense selve tropicali, ferventi di legno, di serpenti, di uccelli e di leggende, in quel vasto paese abitato fino ai suoi ultimi confini per la lotta dell'uomo nel tempo, nei suoi grandi spazi giudicai che eravamo i paesi antipodi dell'America. Niente è d'accordo con la convenzionale frase diplomatica che fa che l'ambasciatore del Giappone si ritrovi nelle ciliegie del Cile, come gli inglesi nella nostra nebbia della costa, come un tedesco nella nostra neve circondante, che siamo simili, molto simili, dopo tanti discorsi a tutti i paesi. Mi piace la diversità terrena, la frutta terreste differenziata a tutte le latitudini. Non sottraggo niente al Messico, il paese amato, mettendolo nel posto più lontano rispetto al nostro paese oceanico e cereale, persino se elevo le sue differenze, perché la nostra America possiede tutte le sue cappe, le sue alture e le sue profondità. E non c'è in America, né forse nel pianeta, un paese di maggior profondità umana del Messico e dei suoi uomini. Attraverso i suoi deserti luminosi, come attraverso i suoi sbagli giganteschi, si vede la medesima catena di grandiosa generosità, di vitalità profonda, di inesauribile storia, di germinazione interminabile.
Per i popoli pescatori dove la rete si fa tanto diafana che sembra una grande farfalla che torna alle acque per acquisire le squame di argento che le mancano, per i suoi centri minerari in cui, appena uscito, il metallo diventa duro lingotto dalla geometria splendente, per i percorsi da cui appaiono i conventi cattolici robusti e spinosi come cactus colossali, per i mercati dove il legume è presentato come un fiore e dove la ricchezza dei colori e sapori arriva al parossismo, noi deviamo un giorno finché, attraversando il Messico, arriviamo a Yucatán, terra sommersa della più vecchia razza del mondo, l'idolatra Maya. Lì la terra è scossa dalla storia e l'origine e vicino alla fibre del agave crescono ancora le rovine piene di intelligenza e di sacrifici.
Quando si incrociano le ultime strade ed arriviamo all'immenso territorio da cui quegli antichi messicani lasciarono la loro ricamata storia sepolta dalla selva, incontriamo una nuova specie di acqua, la più misteriosa delle acque terrestri. Non è il mare, non è il ruscello né il fiume, né nessuna delle acque conosciute. Nello Yucatán non c'è acqua, persino sotto la terra, e questa si screpola improvvisamente, producendo dei pozzi enormi e scoscesi, i cui pendii pieni di vegetazione tropicale lasciano vedere nel fondo un'acqua profondissima verde e zenitale. I maya trovarono queste aperture terrestri chiamate cenoti e le divinizzarono con i loro strani riti. Come in tutte le religioni, in principio consacrarono la necessità e la fecondità e in quella terra l'aridità fu vinta da queste acque nascoste, dalle quali la terra si staccava.
Allora, sopra i cenoti sacri, per migliaia di anni le religioni primitive e invasive aumentarono il mistero dell'acqua misteriosa. Sulle rive del cenote, centinaia di vergini decorate di fiori e d'oro, dopo le cerimonie nuziali, furono caricate di gioielli e gettate dall'altura nelle acque correnti e profonde. Dalla grande profondità salivano verso la superficie i fiori e le corone delle vergini, ma esse rimanevano nel fango del suolo remoto, sottomesse dalle loro catene d'oro.
Le gioie sono state messe in salvo in minima parte dopo più di mille anni e sono sotto le vetrine dei musei del Messico e del Nordamerica. Ma io, entrando in queste solitudini, non cercai l'oro ma il grido delle ragazze annegate. Mi sembrava udire negli strani gridi degli uccelli la rauca agonia delle vergini, e nel veloce volo con cui incrociavano la tenebrosa grandezza dell'acqua antichissima, mi sembrava di vedere le mani gialle delle giovani morte.
Improvvisamente, sopra la statua che allungava la sua mano di pietra chiara sopra l'acqua e l'aria eterna, vidi una volta posarsi una colomba. Non so quale aquila la perseguitasse, niente c'era da vedere in quel recinto in cui gli unici uccelli, l'dalla voce balbuziente, il dal piumaggio favoloso, il colibrì di turchese e gli uccelli rapaci possedevano la selva per la loro macelleria e il loro splendore. La colomba di posò sulla mano della statua, bianca come un fiocco di neve sopra le pietre tropicali. La guardai perché veniva da un altro mondo, da un mondo misurato e armonico, da una colonna pitagorica e da un numero mediterraneo. Si fermò al margine delle tenebre, mi guardò negli occhi dal momento che io stesso appartenevo a questo mondo originale, americano, sanguinoso e antico, e volò davanti ai miei occhi fino a perdersi nel cielo.

La solidarietà degli uomini soltanto la appresi all'improvviso. Nell'impresa eroica, nella vita eroica, nella resistenza, nella vittoria e nella sconfitta di un popolo.
Vado a raccontarvi la storia di due uomini, ma non di due uomini solitari. Dietro di essi c'è notte e cielo e terra, ma soprattutto un cuore grande di popoli e di storia.
Questa è la storia del generale Herrera, aviatore della Repubblica Spagnola, che alcuni anni fa ci fece visita in una ambasciata straordinaria. Pochi giorni dopo che suo figlio Juan era stato abbattuto ed ucciso dall'aviazione nemica, l'esercito nemico divise il territorio della Repubblica ed arrivava al Mar Mediterraneo.
Il generale Herrera fu incaricato di mantenere un collegamento tra le due zone fedeli, volando ogni notte sopra il territorio nemico. Volava il generale spagnolo con il suo pilota, in un aereo rigorosamente oscurato, nell'oscurità delle noti più oscure. Né la recente morte di suo figlio, né la catastrofe che di avvicinava, preoccuparono il generale Herrera nella sua missione tra le pallottole e il fuoco notturno. Niente più finché - mi raccontava -, annoiato da tanta traversie, in cui avremmo visto colare a picco il cuore più forte, il generale Herrera apprese la scrittura dei ciechi e in questi lunghi, oscuri, tempestosi tragitti sopra le file del nemico mortale, potè l'austero, il nobile generale Herrera, nell'oscurità dell'aereo spento, leggersi nella scrittura in rilievo tutti “tre moschettieri”. Sembrava come se in realtà D'Artagnan stesse accompagnando attraverso la notte quel cavaliere valoroso.
E ora vi parlerò di uno dei nostri, di un sudamericano, di un cubano che giace nel cimitero di Brunete. Alle porte di Castiglia, nel polveroso cimitero di Brunete.

Lì giace per sempre un nome che tra tutti evidenzio come un fiore insanguinato, come un fiore dai violenti petali brucianti.
Questo è Alberto Sánchez, taciturno, forte e piccolo di statura,
capitano di 20 anni dell’Esercito miliziano,
Teruel, Garabitas, Sur del Tajo, Guadalajara,
videro passare il suo chiaro cuore silenzioso.

Ferito a Brunete, dissanguandosi, fugge dalla barella e corre di nuovo
al fonte dalla sua brigata. Il fumo e il sangue lo hanno accecato.
Da tutto il suo corpo esce a fiotti il nostro sangue, e sul suolo di Brunete il suo corpo cade come una bandiera.
Fatta di tutte le nostre libere bandiere.
E lì cade e lì sua moglie, la comandante Luna.
difende al tramonto con la sua mitragliatrice il luogo dove riposa il suo amato.

Era tutta piena di crepuscolo e di sangue la terra
ed essa nel luogo del suo amore difese il suo popolo
finché anche il suo cuore rotolò distrutto e allora la notte arrivò in modo poderoso.
Oggi, qui, tra noi, dopo
averci portato attraverso il mare e la terra,
attraverso uomini e notti solitarie, attraverso la guerra e il tempo,
lasciami, lasciami con questi preferiti dalla mia anima e da voi tutti,
in questo pomeriggio inumidito da rampicante e nuvola, da petrolio e fiamma,
in questo nuovo pomeriggio terrestre, dissanguato dalla ruota del martirio umano,
dissanguandosi tutta la terra, con la libertà dissanguandosi,

ricordiamo chi dorme in Brunete, in Spagna,
dorme perché noi siamo dispersi, perché la terra non albeggi addormentata,
e perché sopra il suo povero cuore dissanguato,
un giorno si oda il vostro passo, il vostro canto, il mio canto,
che canteremo piangendo un poco, sorridendo un poco vicino alla tomba
dei nostri fratelli caduti.

Mi avvicinai allora alla Colombia e dissi ai colombiani:

La vita dei nostri popoli si fa a volte
secca e sterile e dolorosa come un’estensione senza acqua:
la libertà si estingue in qualche luogo, e con essa
agonizza e si estingue la luce delle lampade vitali.
Vediamo nella mappa dell’America
il cielo oscurato, un’ombra che copre anche le stesse ali della sventura,
un paese, una regione, un luogo
per anni e per anni.
Oggi è l’Argentina. Ieri il Perù o domani, sarà possibile?
Dalle frontiere di questi luoghi esce solo il silenzio,
un silenzio mescolato di lacrime sotterrate e oscure,
un silenzio che dorme con una frusta
roteata per le selve.
Tu, Columbia, da mare a mare, da terra a terra,
ospiti il sonoro cuore americano,
bagni l’albero alto dei libri d’America
con il tuo profondo fiume
e vicino all’aquila del Messico e alla nostra stella del Sud,
come una vena di argento e di gelsomino, attraversi
il cuore castigato del nostro continente.

[LA FINE DEL VIAGGIO]

Qui terminano oggi questi viaggi in cui mi avete accompagnato
attraverso la notte e il giorno e il mare e l’uomo.
Tutto quanto vi ho detto, ma molto più è la vita.
A chi di noi è dato di scegliere tra il combattimento e il riposo, tra il pane e la statua?
Chi mi mandò per le strade a raccogliere l’invisibile?
Raccogliamo tutto il visibile e il segreto, il piccolo e il grandioso,
e ci appartiene quanto fu l’esistenza, quanto della bellezza
o della verità potemmo cantare e difendere.

Sì, della bellezza e della verità
intere o rotte perché dalle rovine e dai frammenti
esce nuovamente la vita, come dalla sconfitta
si ricostruisce con lacrime e con spade, la speranza.
Dal vecchio fondo, dal fondo del vecchio mare mai consumato
vi ho mostrato lo smeraldo ed il vortice insanguinato,
e il profondo tappeto che i poeti tessono
attraverso i secoli e l’acqua, nel fondo, più basso delle navigazioni.

Dai vecchi idoli sacri vi porto la colomba,
dalla mano del conte assassinato vi raccolgo la rosa,
e dalla selva del Sud nacqui pieno i pioggia
per mostrarvi vite oscure cadute sulle coste del mondo
e vite che davano un lampo verso una nuova aurora.

Così, dal petto dell’eroina e del suo amato
e da tante lotte amare dell’uomo e di questo tempo
esce come un fiore amaro e orgoglioso irrigato dal sangue
una nuova aurora di petali e profumo, un fiore come il sole o come il pane.
Io ho scelto, io ho preso parte a questa lotta, a questa vittoria, a questa nascita,
ho posto i piedi e il cuore nei nuovi territori straripanti
sorti dalle grandi onde della sofferenza umana.

Lasciai molte volte a lato la clamide che come un rampicante
mi riempì di fulgore innumerevole, ruppi i cristalli ella mia poesia
per prendere parte nel mondo che ci hanno trasmesso,
abbandonai le coste dove si infrange la schiuma
e mi addentrai nei deserti e nelle cordigliere
fino a vedere le valli verdi dove la semenza socchiusa sorride.

E alla fine di questo viaggio impregnato di splendore e miseria,
amici di questo minuto, compatrioti della mia patria e delle altre patrie,
vi invito a combattere con noi stessi e con il nemico.
Con noi fino a terminare con il pregiudizio degli occhi di ragno
la cui tela trattiene i migliori frutti e li fa marcire nel vuoto.
Riuniamoci, lottiamo contro la solitudine condivisa,
e stringiamo con le stesse mani lo stesso stendardo.

Se ho detto molto, non esca dalla tua casa, dal tuo orto, né dalla tua poesia.
È falso, la tempesta non si cura dei piccoli limiti dell’uomo,
finché li distrugge, ma anche distrugge l’uomo.
Mai fummo tanto minacciati, la terra e la famiglia,
il cristallo e il miele, la rondine e il neonato,
e le case immense si abbattono come una coppa di polvere.

Si preparò da molto tempo, con calore di tradimenti,
la caldaia del veleno e delle vaste amarezze
finché per la terra a milioni
gli scorpioni nazisti si trascinarono e adesso, nel naufragio
dal mare escono i capi immondi, appaiono alla nostra frontiera,
e si muovono verso la nostra terra, volendola segnare con linee di bava sanguinosa.
Bella è la nostra terra, che bella è in questo tempo!
Vaporosa, gialla, miscela di autunno e piuma,
miscela di neve e oro.

Patria dolce, ancora ti incontro, dolce patria,
ancora il tuo inverno, il preferito
mi tocca le guance con le stesse dita di brina
che toccarono le foglie fino a lasciare gli alberi nudi.
Già la neve ascese al suo piedistallo scuro,
già si fecero zucchero gli ultimi grappoli.
Già si scopre il legno
dei pinoli e delle castagne:
sono la nostra frutta: come la noce guardata
dentro il suo piccolo baule: il Cile è una mandorla
dentro la sua delicata nave di neve e territorio.

Viva la mia patria, viva il Cile dalla lunga chioma,
ho visto come pettinano nell’estate antartica
i suoi fili cereali di gelsomino e di orzo,
ho udito commentare la cipolla e l’uovo,
ho visto il detrimento di miele della mela,
ma sotto la nostra terra
non solamente le radici preparano la dolcezza,
ma anche il ferro, anche il rame, anche gli acciai
studiano la disciplina della terra e della pietra.

Fratelli, alziamo questa pianta,
difendiamo la pietra, curiamo le radici,
vicini sotto la terra stiamo tutti vicini,
vicini al mais, vicini al fagiolo nasciamo,
vicini al salnitro, vicini al rovere e alla vite rampicante stendiamo
la stessa mano giovane che il nitrato rovescia,
la stessa vecchia mano che il metallo fissa.

Benedetto sia quando fosti creato
nell’aria magnifica del Cile:
qui la pietra si trasforma in dea
e la dea ha sparso la sua semenza
di scrittori, minatori, avvocati e musicisti,
meccanici, maestri, marinai, presidenti, poeti.

Chi è contro la patria? Chi osa

toccare questa effigie di ricordo e di bosco?
Chi disse che il cileno è sudicio e debole?
Che la sua lingua sia tagliata.
Sono andato per il mondo senza climi come l’aspro
vento di Magellano, come i deserti del rame e della sabbia,
e non c’è patria come la nostra,
non c’è dolce patria come la nostra patria,
non c’è terra né zolle come questa fertile forza,
non ci sono uomini né donne come quelli che abbiamo.
Il brandello non è attaccato alla pelle del popolo.
La fame non può essere abitante della nostra bella terra.
Con le nostre proprie mani puliremo l’effigie del popolo,
perché brandello e fame cadano nel passato,
tornino alle tenebre e la statua di bronzo
del popolo brilli nel mezzo del nostro territorio.

Stiamo uniti oggi per sempre, cileni.
Come mi piace il bacio di questo nome sulla mia bocca:
cileni: questo nome degno, dolce e sicuro,
è arrivato alla mia bocca, come il pane impastato
dalle mani cilene arriva fino al forno,
terra e fuoco finale della nostra propria stirpe.

Lodata e difesa sia la patria.
Riuniamoci, fratelli, dalla profonda origine
del frumento fino al nostro pane di ogni giorno.
Uniamo le nostre mani con le mani del mondo

perché così si veda il nostro sangue nell’aurora.


Testo elaborato per strati: in Messico e Cuba (1942)
la versione di base, in Colombia (1943) ed in Cile
(1943 - 1947) i ritocchi ed integrazioni. Raccolto in
Viajes, 1947 e 1955. Propongo la versione
OC II, pp. 556-579 con lievi correzioni.


V
RITORNO E DECISIONE
(1944-1945)

Sangue in El Salvador!


Ci sono Americhe. C'è il Messico. C'è la radiante America del Costa Rica, la piccola e dolce e silvestre repubblica che conosce la libertà. C'è l'America colombiana in cui le eredità lampeggiano e dando uno schiocco non si sa se di finale o di principio si imprigiona il nuovo Gómez, il Laureano, chiudendo le porte di smeraldo alla tirannia.
Esiste l'Uruguay come un acceso raggio marinaio separato per le sue immense acque fluviali dell'inquinamento terribile.
Esiste il Cile, la fresca e libera fronte della patria, ed esistiamo per difendere le sue libertà e la sua libertà.

Ma per quelli che in Costa Rica, in Colombia, in Uruguay, in Messico, ed in Cile non abbiano conosciuto altro che i minerali della statua, bensì l'aria dei liberi, bensì la coscienza, è molto difficile oltrepassare questa America oscura, miscuglio di sterco e leopardo che si alza come una tenebra maggiore, come un Polo sinistro nel nostro nord.
E nell'immensa fatalità dell'America Centrale governata dai nemici di Morazán, incatenata dagli oscuri istinti di un'altra epoca, assoggettata dal più sanguinario ed amaro del nostro continente, oggi voglio dare una voce, alcune parole, alcune lacrime al castigato popolo di El Salvador.
Già da molti anni soffre una piccola, ipocrita, dispotica, crudele e fatidica dittatura. Il tiranno Martínez che fa leggere
Il libro egiziano dei morti e molto della dotrina teosofica ai suoi ministri, fece assassinare solo a sangue freddo in una repressione uguagliata dai nazisti in Polonia e Russia 19.000 (diciannovemila) dei suoi compatrioti.
Questo solo dieci anni fa. Non ci furono cimiteri per le vittime. La peste e la piaga si alzò dal marciume. I villaggi furono bruciati nella loro totalità per evitare più cadaveri.
Da quel forte odore di fumo e sangue bruciati rimase solo un ricordo pallido perché gli uomini dimenticano con la morte i nomi del boia. Sulle ossa crescono le piante tropicali e su esse il servile ed il velenoso servitore del despota.
Ma oggi come se al bicchiere delle torture dell'America fossero necessarie alcune gocce più di aloe orrendo, vediamo che il sangue si alza un'altra volta in El Salvador. Gli uomini liberi che si sollevarono contro il dominio spaventoso, i coraggiosi che invocarono la nuova era delle libertà americane, sono massacrati a sangue freddo in queste stesse ore, sono perseguiti nei cortili di quartiere e nella selva, cacciati come bestie.
Onore agli eroi morti! Onore a quanti in terre di endemica tirannia lottano la nostra lotta, muoiono perché l'America sia intero un continente pulito.
Ma chiamiamo anche, prima che sia inutile, affinché il primo accordo del Giorno Americano fermi l'ascia del boia inmolatore delle libertà di El Salvador. Ricordiamo ai suoi rappresentanti che ancora è tempo di fermare il sangue, il nostro sangue.

Isla Negra, aprile 1944

El Siglo, Santiago, 15.4.1944


Argentina: ascolta quello che la mia patria ti dice

I

Altre volte sono venuto a parlare con voi
di qualche associazione, di qualche posto, di qualche paese dell'America.

In questo 4 di giugno (anniversario popolare del Cile) non vi parlo a nome di nessuna parte, di nessun angolo,

vi parlo in nome di tutta l'America, a nome della libertà della nostra America.

II

Per fare questo, per nominare questo nome, affinché questo si chiamasse l'America,

non bastava un nome, bensì un cognome, e questo cognome è Libertà. L'America si chiama l'América Libertà.

Primo fu la scoperta delle sue selve inesauribili, dei suoi fiumi misteriosi:

l'America era un favo il cui miele traboccava,
fino a che degli oceani arrivarono gli uomini e gli apprendistati del mondo.

III

Ma fino ad allora la tana del bufalo vicino all’Alaska
ed i templi sepolti sotto i rampicanti dei nostri fratelli del Messico,

ed il tronco di Caupolicán, partabandiera della nostra geografia,
erano il velo misterioso della nuova fidanzata del mondo.

IV

Arrivarono i mercanti, arrivarono gli sfruttatori da tutte le regioni dell'Europa,

attratti per l'aroma di rame e zucchero che esalava
la fidanzata piena d’oro, la nuova fidanzata del mondo.

Fino a che si fece matura la nostra terra,
fino a che si sposò con Washington ed O'Higgins,
con San Martin, con Morelos, con Sucre e con Bolivar,
fino a che si chiamò Signora Libertà.

V

Così la conosciamo noi cileni.
L'America è, per noi, libera.

In questa mattina libera della nostra patria pestiamo i gradini
di questo teatro che si chiama Caupolicán,

per nostro padre araucano padre della libertà
del Cile. Ma non solo questo teatro e questo posto,
né questo giorno,

bensì tutti i posti sono liberi per il cileno, tutti i giorni,
e tutta l'aria e tutta la terra del mondo.

Nascemmo per essere liberi e quando vi parlo a nome del cognome dell'America,
i cileni vogliamo che tutta la la grande e confusa America, che tutto il continente

viva l'aria sacra che respiriamo nascendo: non vogliamo schiavi in questa patria né in nessuna.

VI

Costò sangue di uomini, militari e civili,
affinché ondulasse la nostra bandiera in La Moneda e nell'Università,
in Sangra, in Rancagua, nel Nord, nel Sud.
Si chiamavano Carrera, si chiamavano Freire e Mackenna, Camilo Henríquez si chiamavano.
E si chiamavano, popolo senza nome e senza cognome, quelli che lottavano

affinché la stella sacra brillasse sull'azzurro sacro
sopra alla frangia di sangue sacro che ci copre.

VII

Non ricordate? Fratelli, Manuel Rodríguez giurò che al fascista franchista Marcó del Pont
gli avrebbe dato l'opportunità di conoscerlo. Si mascherò da mendicante e gli aprì,
la porta della carrozza: dal fondo di essa,
il povero tiranno gli tirò alcuni centesimi,

ma il mendicante gli rispose con occhi
in cui brillava lo sguardo del puma del Cile.

VIII

Ci sono oggi lacchè che ricevono quei centesimi.
Fino a ci sono oggi schiavi che credono in Marcó del Pont e Franco.

Ma il popolo del Cile apre la carrozza per riconoscere il nemico
ed il pretendente a tiranno non trova in fondo il viso di un schiavo
bensì gli occhi freddi ed abbaglianti di Manuel Rodríguez.

IX

América Rodríguez: America della libertà e del sangue, oggi ti saluto,
perché vedo minacciato il patrimonio che ci trasmettesti
come madre impeccabile.

Perché crediamo arrivato il giorno amaro di riconquistare
quello che alcuni dei tuoi figli rivelatori dimenticarono.

Che cosa hanno fatto i tuoi figli in America Centrale? Hanno fuso la catena affinché il despota sanguinante ti martirizzasse.

Che cosa hanno fatto i tuoi figli in Guayaquil? Oggi, ieri svegliarono
America Sucre, America Bolívar, quelli che erano addormentati,

ed in El Salvador da poco risuonano le catene rotte.

X

Che cosa fanno i tuoi figli quando la libertà del mondo
come nei vecchi tempi è rinchiusa?

Stanno tutti uniti per difendere il tuo cognome?

XI

So solo che la mia patria, so solo che Cile, l'Antartide
di remote nazioni rispettata per libero
né a straniero dominio sottomessa per libero
sta vigilando di giorno e di notte, per dovere e per libero.

XII

Per questo oggi l'Argentina, nostra sorella abbondante, ci riunisce.

Parliamo lentamente, ascoltiamo.
Che succede? Non si sente niente, fratelli.

Non sentiamo, non ascoltiamo, non si sente!
Che cosa vi è successo? Perché tacete? Vi hanno rubato le vostre bandiere?

Ma le vostre bandiere, fratelli argentini, sono le nostre,
rispondete.

O è che le lacrime non vi lasciano parlare? Che succede?

Abbiate fiducia! raccontateci tutto!
Qualche usurpatore, qualche traditore sta rubando la patria

e vi sta mentendo?

Rosas si è alzato della sua tomba sinistra?

Parlate, tutta questa lunga patria vi sta guardando.

XIII

Quando arriva la notte ci addormentiamo sotto lo stesso lenzuolo di neve,
per questo noi esigiamo libertà: per questo non dormiamo, sorella,
fino a che possiamo alzarci allo stesso sole dei libero.

XIV

Sorella l'Argentina, qui speriamo e lottiamo per la tua vita
e sappiamo quello che lotta il tuo paese per risollevarsi.

Non credano i falsi consiglieri che si prendono il nome del Cile
per indurire le tue catene, sorella.
Non credere che un certo minuscolo personaggio rappresenti la terra
perchè Sarmiento accettò come palazzo per il suo pensiero.

Il Cile aspetta la libertà del giorno di domani, e non si sbaglia il Cile
né Franco né Bolivia né tiranno alcuno
hanno ingannato questo popolo che conosce la libertà.

XV

Argentina Sarmiento, Argentina, Argentina,
non si sente niente. Senti, ci ascolti?
Non vogliamo comprarti niente, non vogliamo
venderti niente: Senti, sorella?
Argentina, Argentina,
Argentina:

ascolta quello che ti diciamo all'orecchio:

XVI

Rosas è un verme che non vale la tua polvere.

Franco Marcó del Pont è morto tempo fa,
Hitler ha rovesciato tutto il sangue invano.
Le tirannie le porta via la pioggia
verso i cimiteri, e se la buona pioggia
non arriva,
il tuo popolo scoperà con le sue bandiere
l'altare abbagliante della patria.

XVII

Argentina: all'orecchio ti diciamo: Alzati.
Sorella, guarda la nuova neve

che cade, non ti seppellire, non morire, alzati

perché mano nella mano lottiamo e vinciamo.

Perché il Cile non vive con una sorella morta.

Ed oggi ti tende la mano che ieri tu gli tendesti

quando dell'altro lato arrivarono i tuoi giganti
a rovesciare il sangue che ci diede la tua nascita.

XVIII

Chiamaci Argentina: i tuoi fratelli crebbero,
e possono restituirti il sangue versato
affinché stiamo insieme sulla neve libera!

El Siglo, Santiago, 11.6.1944.


Sonetto per Angelo Cruchaga Santa María,
inviandogli una farfalla di Muzo

La farfalla il tuo sguardo spera
Il gabbiano le tue acque illumina:
Sono le due unità della sfera:
Il fuoco azzurro e la metà marina.

L'aria delle ali ti venera
Ed il sotterraneo del sale più fine
Insignisce le tue tempie profetiche
Con alta neve e professione di miniera.

Al tuo chiaro stendardo di legno,
Di puro sonno, di matura cera
Aggrega queste due ali mattutine

Che sperano, Angelo, vederti nei marciapiedi
Delle città e le primavere
Circondato di bandiere albertine.

Santiago, casa Michoacán, 6 Luglio di 1944


Parole per Alejandro Lipschütz

L'Alianza de Intelectuales mi incarica dire le ultime parole di questa notte, ultime in suono ed in udito, perché subito ritorneremo ai circostanziali compiti delle nostre vite, e perché tanto alte e tanto profonde parole come difficilmente quelle che qui si sono dette troverebbero continuazione in me.
Quello che devo dire, si è detto, ma i fatti e le cose non sono solo scarna sostanza bensì portate e correnti che nella sua propria velocità si stanno trovando in aumento. Ed in questa ora continuano a trovare aumento i nostri fatti e le nostre forze - le forze della dignità e la cultura - per il solo fatto di essere e per il transitorio fatto di essere negate. Il fatto di essere ed essere combattuto, il fatto di esistere e lottare, l'avvenimento innumerabile di circolare nella vena più profonda del pianeta, della vita di questa mela terrea, di portare ed aumentare il sangue più profondo e più scosso, la corrente della conoscenza, della creazione e della rivoluzione, cioè, dell'avvenimento mai immutabile, della crescita storica, fare parte per diritto e per battaglia di questo divenire universale, ci mantiene orgogliosi difendendo le posizioni che veneriamo per essere l’unico fertile e l’unico vivo dell'esistenza.
Questo è il caso dell'eminente amico, dell'eminente fratello maggiore che oggi celebriamo.
Il professore Lipschütz è condottiero venerato di quello che siamo e saremo perché vogliamo esserlo. Non raggiungeremo forse la permanente magione a cui i suoi frutti sono destinati, perché in tutti gli ordini, anche in quello della gioventù, ci sorpassò di tale maniera che la sua forza e la sua sicurezza, i suoi risultati e la sua grandezza si estesero già per tutte le terre, dalle gelate aree del Baltico dove nacque e che oggi sono liberate da soldati coperti di neve e di gloria, fino a queste terre, gli ultimi austral che gli hanno dato un poco di tranquillità, dove possa continuare ad ardere la sua lampada che investiga la verità dell'uomo nel suo interiore segreto e nel suo interiore amaro.
Nel burrascoso e nel rassicurato di questi giorni, abbiamo visto Alejandro Lipschütz vincere ostacoli innumerabili per avvicinarsi e sillabare le frasi della verità, e comporre la pagina ammirabile, la formula terminante che ci va tirando fuori delle tenebre e che costituisce un'altra volta le eredità del Cile, perché egli, per noi, come Sarmiento e come Hansen, come Lenz, come Gay, come Bello, come Filkenstein, come Rubén Darío, come Hostos, portò da terre lontane la materia che ci ha fatto costruire la patria, lasciandoci l'eredità sacra che difenderemo.
Non c’è niente di strano che improvvisamente nella nostra propria terra, qualche pietra si lanci contro l'edificio che ci appassiona. È condizione dell'uomo produrre il gigante ed il nano, il signore dallo sguardo abbagliante e scrutatore, e la talpa delle regioni oscure alimentata con l'oscurità del passato, orgogliosa dei suoi piccoli tunnel meschini. Non è necessario discriminare in questa casa aperta ai combattimenti del mondo da quale lato stiamo, il fatto di unirci oggi vicino a Lipschütz, come ieri ci unimmo vicino ad altri uomini rivelatori dello spazio culturale della conoscenza umana, rivela che in Cile, siamo attenti, intelligenti per fortificare, soddisfare e definire quello che ci spetta e ci appartiene.
Il nuovo libro del professore Lipschütz è uno delle più significative e serie attestazioni della nostra realtà americana. È un libro di profondità e di dettaglio in cui il nostro continente, coi suoi problemi razziali, i suoi drammi e le sue ipocrisie, è elevato per virtù della verità ad essere parte pertinente del mondo senza zone razziali oscurate dallo stupido disprezzo o dall'ignoranza servile di chi si crede ombra di conquistatori.
Qui finirono i conquistatori. Tutti siamo esseri umani, equivalenti nella vitalità americana, neri, mulatti, americani e meticcii, nuovi ed antichi abitanti di queste praterie che chiamiamo America, nei quelle che da poco tempo con le prime case costruiamo il primo rispetto per la saggezza e l'intelligenza. Per questo anche speriamo di rompere quello che le piccole talpe uscendo dalle loro tane tramano per incatenarci perché l'America è più che ogni aria, e soprattutto aria libera, aria libera sulla terra libera. Abbiamo una bandiera di aria, una bandiera di aria libera, di aria azzurra che protegge il mais ed il grano dalle Americhe, la spada di Bolivar ed i lavori di Alejandro Lipschütz.
Non vogliamo minacciare nessuno. Vogliamo che nelle nostre terre nessuno prepari il coltello dell'odio razziale, vogliamo che in questa fortezza dei liberi viva e decida quello che più sappia e quello che più canti, quello che più lavori e quello che più voli, e neghiamo diritto a chi oggi, nascosto da una tribuna che non merita, voglia avvelenare i fiumi torrenziali e verginali dell'America india e ispanica, e negra, aizzandoci contro l'indio o il bianco o il nero o l'ebreo. Qui vivremo in pace, come lo statuirono quelli che rovesciarono la vita per questo pianeta libero: qui non tollereremo l'odio né il veleno che i falsi intelligenti ed i decrepiti negrieri volessero spargere affinché non cresca in questo fresco spessore la tigre razzista la stessa che adesso sgozza nei pantani della Polonia e vicino alle cattedrali gialle della Francia la Dolce.
Non vogliamo minacciare, ma che lo sappiano: come oggi parliamo soavemente in questa riunione fraterna, decisiva e solenne per l'altezza e la bontà che ci conferisce l'investitura eminente del nostro amato e venerato maestro Alejandro Lipschütz, siamo disposti domani, affinché lavori tranquillo a montare la guardia con un fucile nelle porte della sua casa. Non mancherà un minatore né un contadino né un soldato che c'accompagni.
Ma speriamo che mai tale estremo sia necessario. La nostra vita legale, la nostra tradizione immacolata garantisce che non può essere altro che così. Il nostro eminente compatriota lavorerà tranquillo, investigherà come fece durante tutta la sua feconda vita i misteri dagli esseri e le sue relazioni speciali. Le talpe continueranno sotto la terra nelle loro piccole caverne ed i grandi alberi dorati per il largo sole dell'America si alzeranno ogni giorno fino al maggiore splendore, fino a spargere per il mondo intero i frutti che sapemmo difendere.

El Siglo, Santiago, 19.8.1944.


Versi alla maniera di López Velarde
per il pittore Waldo Vila

Nella tua pittura australe bagno le mani
come sotto la pioggia o in un piano.

Waldo Vila, il tuo viso è un prugno
con due piccoli petali di cielo.

Nella tua pittura la bandiera sale
dalla primavera fino alla nuvola.

Waldo Vila, la tua anima è di legno
come una buona casa nella frontiera.

Nella tua pittura la chitarra prega
sulle trecce della natura.

Waldo Vila, il tuo cuore
dà grappoli di zucchero e pace come una vigna.

Nella tua pittura colonizzatrice
la patria è rosata ed azzurro come nell'aurora.

Dipingimi, Waldo Vila, da oggi tutto il futuro
con la festa che vola dalle tue dita pure.

Prestaci il tuo legno di ciliegio fecondo
per nascere di nuovo e vedere come te il mondo.

El Siglo, Santiago, 16.9.1944.


Su "Teheran" di Browder
SOBRE "TEHERAN" DE BROWDER. (Pagine 537-540.) Questo lodevole commento del volume Teheran, di Earl Browder, è uno dei pochi testi che forse Neruda vorrebbe non avere pubblicato, a parte i suoi poemi adolescenti, come si sa. Il titolo del libro di Browder alludeva alla conferenza dei Tre Grandi, Churchill, Roosevelt e Stalin, nella città di Teheran alla fine di novembre del 1943. "Quando il risultato del conflitto bellico era già visibile ed era naturale e conveniente pensare al dopoguerra, il Segretario Generale del Partito Comunista degli Stati Uniti, Earl Browder, cominciò a far circolare per il mondo e specialmente in America Latina una concezione idealistica del futuro. Secondo lui, ci sarebbe un punto di fusione tra gli interessi del capitalismo e dei paesi dipendenti. [...] Il "browderismo" ebbe influenza sui partiti comunisti del continente, alcuni dei quali perfino cambiarono il loro nome e persero di vista la sua carta di avanguardia. Il Partito Comunista del Cile fu uno dei meno colpiti da questa deviazione, benché non smettesse di pensarci". (Luis Corvalán, De lo vivido y lo peleado. Memorias, Santiago, LOM Ediciones, 1997, p. 46.)

Leggere Browder è venire a sapere con chiarezza certa delle cose. È capire quello che ci sono in esse e dietro esse. Pochi o nessun scrittore politico possiedono come Browder la scienza di scrutinare nei fatti ed ordinarli in grande sintesi. Quello che per molti è attualità caotica, fenomeno incomprensibile, perfino magia del destino, si trasforma in Browder in eloquente geometria, in architettura convincente, in quello che tutti devono capire.
Dopo il suo
Victory and After, eloquente trattato dell'angoscia del mondo in guerra, analisi chirurgica di verità amare e trascendenti orgenze del paese nordamericano, è qui che Browder ci consegna, alla sua Teheran, Our Path in War and Peace, l'esatta misura di quello che succede: la misura della speranza che albeggia per il mondo in crisi ed anche il tracciato lineare della pace che sarà fatta per sicurezza e beneficio di tutti gli uomini.
Da quello discorso giustamente celebre, "Teheran and America", lanciato nel gennaio 1944 alla faccia delle due Americhe come una fotografia anticipata del mondo nella sua aurora di fiamme, Earl Browder, presidente oggi dell'Associazione Politica Comunista Nordamericana, ex capo e per tanti anni conduttore indimenticabile del Partito Comunista degli USA e delle avanguardie democratiche del Nordamerica, non aveva consegnato un documento di tanta importanza politica e morale come questa altra chiamata austera alla coscienza del mondo e specialmente del nostro emisfero.
Perché Browder ci illumina con la sua propria luce dialettica, col suo poderoso riflettore di penetrante marxismo, tutto il vasto campo universale a che diede accesso Teheran, l'accordo dei tre grandi per finire la guerra in comune e forgiare tra tutti il ferro collettivo della pace che viene. Qui, in queste pagine tenaci, di dura analisi e categorico stile, rimane in chiaro come Teheran è l'uscita di luce dopo il tunnel nero di Monaco e come non c'è guerra senza politica e come i paesi avevano bisogno di una garanzia per continuare a lottare e questa stessa garanzia per sapere che non lo facevano invano.
Tutta quell'immensa proiezione, quella di una guerra totale liberata finalmente con un criterio integrale ed unico per i guerrieri della democrazia e di una pace che si elabora come metallo fuso dentro il forno della propria guerra, è quello che Browder lascia magistralmente in evidenza. Tutto ciò, e la certezza che a questa conflagrazione non potrà seguire il caos, né la lotta intestina, né l'avidità imperialista, né la guerra di mercati, né la sottomisione dei paesi ritardati al giogo ignominioso di economie generatrici di nuovi fratricidi, è quello che emerge, come una predica irresistibile di grandi fatti universali allineati come basi su una mappa, di questo libro che è più che una tesi e più che una visione o una predizione.
Il contenuto e limiti dell'alleanza dell'URSS con l'USA e la Gran Bretagna, la ricostruzione mattone per mattone dell'Europa lacerata, la liberazione dell'Asia miracolosa dagli artigli economici che l'incatenavano e la consegnavano al fascismo, il risveglio dell'Africa nera e la stabilizzazione del turbolento Vicino Oriente ed infine il nostro destino, il destino dell'America Latina minacciata dal fascismo del dopoguerra, tutti ed ognuno degli angoli del mondo guardati dal prisma di questa guerra che costruisce per sé stessa la solenne struttura del dopoguerra, tutti essi stanno concepiti matematicamente, con una severa sicurezza, in questo nuovo libro di Earl Browder.
Il destino immediato del nostro continente, il suo sbocco a quello che viene per l'umanità, rimane fisso per tutto un periodo storico nelle parole di Browder:

Deve dichiararsi con ogni franchezza che la responsabilità di cambiare oggi le relazioni esistenti ricade, per equità, sugli Stati Uniti. Questa è la necessaria conseguenza del principio che la responsabilità si accompagna al potere. E non solo sono gli Stati Uniti il più poderoso fattore, come entità separata, nell'emisfero occidentale: è anche l'UNICO che può stabilire un PROGRAMMA COMUNE di scala e portata sufficiente a sommergere nella sua immensità tutti gli interessi creati speciali.
Quello che evidentemente esige la situazione è che gli Stati Uniti diano il primo passo, proponendo un programma comune di sviluppo economico dei paesi latinoamericani. Questo dovrebbe essere pianificato ora e posto in movimento immediatamente dopo la guerra: nell'amplísima scala proporzionata alle immense riserve latinoamericane di terre, materie prime e manodopera, ed alla capacità angloamericana di apportare capitali e creare mercati per i prodotti dell'industria pesante.
Affinché simile programma sia davvero realizzato in comune, bisognerà riconciliare gli interessi di ogni vertice del triangolo. Per i paesi dell'America Latina dovrà garantire la più scrupolosa salvaguardia della loro indipendenza nazionale, insieme ad elevare rapidamente il loro livello di sviluppo e benessere economico e tenda a stabilire un'economia equilibrata dentro ogni paese, evitando i mali del vecchio sistema coloniale della monocoltura, di eccessiva specializzazione. Al capitale angloamericano gli offrirà un enorme e sicuro mercato, dove si assicuri l'utilità ragionevole e l'ammortamento entro il periodo prefissato. Gli inglesi e gli americani daranno per finita la loro rivalità senza freno, assegnandosi ad ognuno la sua parte dentro il progetto comune, dentro un accordo proporzionato alle loro passate attese e le loro capacità presenti (pagine 82 e 83 di Teheran).


E dopo, desideroso come patriota nordamericano di fissare i contorni del suo proprio paese in questa opprimente responsabilità del mondo immediato, con la sua responsabile scrupolosità di sempre, Earl Browder ci consegna il segreto della situazione vera in Nordamerica: le caratteristiche dell'economia smisurata, le possibilità di una nipote economica comune, la carta delle
unions nella composizione dell'unità interna degli USA, e soprattutto, più in là di tutto lo specificamente americano, la tradizione jeffersoniana che assicura non solo il diritto delle maggioranze a governare il paese a beneficio non solo di esse bensì in rispetto delle minoranze, polverizzando una volta per tutte la discriminazione razziale, l'anticatolicismo e le mille forme in cui Hitler volle combattere l'Unione Sovietica dentro il proprio USA.
Ancora qualcosa più: la trasformazione del Partito Comunista degli USA in un'associazione politica per la diffusione di una dottrina scientifica, invece di una collettività dedicata alla cosa parziale, alla cosa elettorale, all'esclusivamente politico. Questo ultimo, la dottrina studiata e propagata con fervore di catecumeno e la libertà di ogni comunista per affiliarsi al partito che migliore gli quadri e scegliere o essere scelto nella lista o combinazione che meglio rappresenti lo spirito della nazione nordamericana partorendo il futuro del mondo, questo ultimo, è quello che non capiscono alcuni tardi, quello che non possono capire i "di sinistra" o i trotskisti deplorevoli, i demagoghi ed avventurosi della parola e la falsa azione di masse, questo ultima circonda questo libro di Browder come una bandiera di colori su una grande montagna.
Teheran, entrata alla luce; Europa, Asia, Africa, le Americhe, in ricostruzione o edificazione; gli Stati Uniti cristallizzando questo forzato laboratorio del mondo; il Partito Comunista nordamericano integrandosi al corpo politico della Nordamerica e fortificandosi come magistero dello spirito ed indice della volontà. Questa è
Teheran. Il nostro sentiero nella guerra e nella pace, libro di un direttore per suoi diretti, di un maestro per i suoi alunni, di un politico, interprete del tempo, per i pochi che, in Cile come nel mondo, fanno la politica senza capire il mondo in cui vivono.
Per tutti insegnamento, ammonizione, avvertenza, canone da seguire, strada dove è segnalato il mondo che albeggia, è
Teheran.

Principios, organo del Partito Comunista del Cile,
num. 43, Santiago, gennaio 1945.


Saluto al Nord

Nord, arrivo finalmente al tuo selvaggio
silenzio minerale di ieri e di oggi,
vengo a cercare la tua voce ed a conoscere il mio,
e non ti porto un cuore vuoto:
ti porto tutto quello che sono.

Perché la Patria porta nella cintura
forse un ramo di copihue in fiore
ma nello splendore della sua figura
porta brillando nella sua testa oscura
una corona di sudore.

Nord, fino nelle lontane allegrie
delle umide terre coltivabili
brillano le gocce che gli desti:
tutta la Patria è insignita
col sudore della tua giornata:
perché tu lavori la Patria esiste.

Graffiando il metallo delle tue radici
l'uomo ti riempì di cicatrici
e caddero in un alveo di schiuma
i silenziosi sali di salnitri
arrivando alle tue città marine
dalla pampa di colore di puma.

Affinché arrivi fino al tavolo il grano
nella più dura viscera sta la tua mano.

Sta sempre in lotta il tuo metallo umano
con tutti i metalli nemici.

Voglio lottare con te, fratello.

Voglio nel tuo territorio riarso
passare il mio cuore come un aratro
così seppellendo il seme ardente.

Voglio cantare tra la tua forte gente.

Voglio anche sentire la voce rassegnata,
la canzone della pampa rimossa
come il cuore del pampino,
vecchia canzone che stringe la gola
con un nodo di lacrime che canta
le amarezze del destino.

Vecchia canzone di dolore e disubbidienza
uscita del sangue e l'agonia
come una lacrima che esplode,
e che porta nelle sue sillabe sanguinanti
i semi del vento ed il temporale
nate sotto la mitraglia.

Voglio che stia la mia voce negli angoli
della pampa, toccando le zolle,
e si elabori con il nitrato il canto,
ed un'altra volta si sollevi trapanando il risentimento,
e voglio che il sangue mi spruzzi
quando sulla pampa piove pianto.

Quando rodi al fondo, fratello duro,
bruciato, infossato, abbattuto, ferito,
ed in una cassa le tue ossa torneranno al posto oscuro
dove il tuo cuore battè il primo battito
come il tuo primo colpo di pala sul muro.

Io voglio stare con te nel giorno giallo
di Sierra Overa e di María Polvillo,
quando mette la polvere cenerina
di notte, di pomeriggio e di giorno
coprendo col suo manto lento
il sonno, il pane e l'allegria.

Come una campana di argento
la mia voce più alta e più sicura
che il tuono di Chuquicamata,
per la pampa, terra dura,
per la mano del minatore,
per gli occhi spianati,
per i polmoni rotti,
per i bambini compassionevoli.

E per gli avvallamenti di mistero
come sgretolati monasteri,
i soffitti rotti, le vuote porte,
rimangono come domande demolite,
vicino ad un mucchio di tombe sparse,
i solitari uffici morti.

Voglio che stia il mio canto dove anticamente
col suo sguardo grigio ed i suoi capelli di stagno,
Recabarren, il padre, cominciò la sua giornata,
da bordo a bordo del deserto,
con la stessa bandiera che porto alzata.
Perché Recabarren non è morto.

La Pampa egli è. Il suo viso è la piana,
il suo viso è la rugosa superficie
della Pampa, come egli aspra e fine,
la sua voce ci parla ancora per la bocca del vento,
il suo vecchio abito sta nell'accampamento:
il suo cuore sta nella miniera.

E qui viene Lafertte. Lafertte viene ora
passo a passo, lottando, decifrando l'aurora
sulla pampa tutelare
che sudore, sangue e lacrime nella notte silenziosa
accumulò aspettando l'alba
che ci vedrà trionfare.

Arde una stella nell'ombra pampinea
come una lancia azzurra, come una spina
sotto la notte capitale.
Arde nelle solitudini nemiche
come una rosa azzurra, come una spiga
sul nitrato ed il metallo.

Sull'infortunato nella sua agonia,
sull'alba e l'allegria
che come il mare ti lavi.
Nord, lascia che canti sul tuo petto amico.
Io voglio che la Patria stia con te.
Voglio che il Cile ti accompagni.

Autorizza la mia voce nei tuoi deserti
tra la tua valorosa gente, tra i tuoi morti,
vicino alle rocce del tuo litorale
affinché si sparga nelle tue ginocchia
come un fiume di spighe gialle
il nostro canto di pampa e di campo di grano.

Il nostro canto di terra e di promessa,
il nostro canto di pane sul tavolo,
il nostro canto di nuovo minerale,
la nostra canzone di imbarcazioni e di fabbriche,
il nostro canto di solchi e di miniere,
la nostra parola di UNIONE NAZIONALE.

Io voglio vicino al mare dei tuoi metalli
celebrare le tue città litoranee
che germogliano della sabbia desolata,
Iquique azzurro, Tocopilla fiorito,
Antofagasta di luce costruita,
Taltal, colomba abbandonata.

Arica, fiore di zucchero e bianchezza,
della nostra dolce Patria fronte pura,
rosa di sabbia, fiore distante,
tocca il Perù il tuo testa pampinea
e come una lucciola marina
anticipi la Patria al figlio errante.

Cile, quando si fece la tua figura,
cagliata tra l'oceano e l'altezza
rimanesti come torcia illuminata.
Il Sud forma la tua verde impugnatura.
Il Nord costruì la tua forma dura.
E sei, Tarapacá, la fiammata.

Patria, la libertà è la tua bellezza.
E per difendere il tuo fuoco puro
qui stiamo i tuoi figli attorniati,
quello che uscì dalla caverna oscura
e quello che è per i mari rovesciato,
il costruttore sulla sua architettura
fino all'agricoltore dal suo aratro:
insieme attorno alla tua figura
perché la Libertà ci ha chiamati.

El Siglo, Santiago, 27.2.1945.


Sonetti punitivi a "S"
SONETOS PUNITIVOS A "S." (Pagine 545-547.) Probabilmente scritti durante il furore della battaglia elettorale di Tarapacá ed Antofagasta, questi sonetti potrebbero alludere a qualche oscuro giornalista che si distingueva per il particolare fervore anticomunista dei suoi scritti editi in qualche quotidiano del nord, influenzato dalle compagnie del rame e del salnitro. Potrebbe trattarsi di Rene Silva Espejo, più tardi vicedirettore di El Mercurio. La menzione di un certo Osvaldo potrebbe corrispondere ad Osvaldo de Castro, magnate del salnitro e del rame, proprietario del quotidiano El Tarapacá di Iquique le cui astuzie e manovre di arrogante impresario gli valsero il motto di La volpe del deserto, parodiando quello che fu applicato - con molto altri meriti - a Rommel.

I
9 A. M

All'editorialista di un
quotidiano mercenario


Serpente, hai preparato il tuo veleno?

Ofidio editrore, ti sei preparato
per mordere la mano del cileno,
del cileno nella pampa seppellito?

Bagna la piuma in marciume e fango,
rimescolala in quello che hai escrementato,
sommergila nel tuo fetido duodeno:
tutto il tuo sterco ti sarà pagato!

Tutto il tuo accanimento, il tuo veleno oscuro,
trasformalo in righe di impostura,
in tonnellate di calunnia fredda.

Tutto il tuo pus, il tuo reuma, la tua amarezza,
la tua carta, il tuo rancore, il tuo morso,
tutto lo pagherà la Compagnia!

II
12. M.

Ad un editorialista
mercenario


Bestiolina, se il fegato ti duole,
bestiolina, se il colon ti deprime,
se la milza ti fustiga e ti demolisce
e la vescicola ti si comprime;

se il tuo addome in acido ardente
ed il tuo intestino in bile si converte,
e nelle tue viscere vedi, minacciante,
il giallo volto della morte,

non ti lamentare delle tue afflizioni:
la tua ispirazione sta nelle tue secrezioni,
le tue ulcere ti danno più che un terreno!

Non soffrire! Non decadere! Non ti affliggere!
perché tu solo tra le bestioline
hai industrializzato il tuo veleno!


III
5 P. M.

All'anima "pulita" di un
editorialista mercenario


Bestiolina, una casa di approvvigionamento,
una grotta di topi ed informatori,
un bacio per Osvaldo nel posteriore:
quella è l'anima pulita che comporti.

L'anima che sporcasti per denaro
e vendesti con tutti i tuoi angoli,
anima di sagrestano e di montone,
miscuglio di marciume e discorsi.

Anima che si offrì agli interessi
di negrieri, di yankee, di scozzesi
di chi ti paghi più per il veleno

che la tua sinistra bocca di serpente
lascia cadere dai suoi neri denti
sulla pampa dell'onore cileno.

Tres hojas volantes, Santiago, s.p. de i., 1945.


Il giro di Sarmiento

Chi batte la porta, chi tocca le soglie?
Che severo passo si sente, che ombra si avecina?
Di chi è il severo sguardo che si avvicina?
Chi viene solitario sulla neve andina?
È il vecchio Sarmiento che ritorna.
La notte un'altra volta cade sull'Argentina.

Aprite senza ostacoli le porte della Patria
Affinché la sua testa stanca riposi
nell'aria e la luce di Cile che egli amava,
sulla terra libera che conosce.

La frusta di Rosas si alza di nuovo:
le tigri di Facundo corrono per le steppe
dove maturava la vita del suo paese.
Sarmiento non poteva riposare nella sua terra.

Dalla Germania il seme malvagio
volò per crescere nel campo argentino.
E la notte di Rosas, la notte carceraria
riempì di oscurità e dolore le strade.
Per questo alzò l'orgogliosa testa
come un antico dio del suolo americano,
come un albero ombroso di arroganza e tristezza,
e contemplò la notte di una volta, la notte del tiranno.

Ed un'altra volta intraprese la marcia alla frontiera
dove potesse stare il suo pensiero,
ed un'altra volta le nostre porte di altezza e cordigliera
videro passare l'ombra severa di Sarmiento.

Il suo cuore palpita un'altra volta nella casa
che amò, nell'asilo contro gli oppressori,
il suo vecchio cuore è come un seme
che venne a germinare tra le nostre zolle,
per questo lo aspettavamo ora come prima,
fino a che esca il sole oltre i monti.

Gran rifugiato, sei la tua patria esiliata,
riposa e lotta: è questo il tuo solo comandamento.
Siediti e mangia il nostro pane di nuovo,
ritorna a noi un'altra volta il tuo pensiero.
E non restituiremo la tua ombra peregrina
fino a che da tutta l'estensione argentina
venga la Libertà a trovarti, Sarmiento.

El Siglo, Santiago, 25.5-1945.


Discorso (con interruzioni) ringraziando
un omaggio per il premio Nazionale
di Letteratura 1945
DISCURSO (CON INTERRUPCIONES) AGRADECIENDO UN HOMENAJE POR EL PREMIO NACIONAL DE LITERATURA 1945. (Pagine 549-555.) Il testo fu pubblicato così, con le interruzioni ostili di una o più persone che il quotidiano non identifica.

Un'altra volta mi vedo obbligato a ringraziare per la vostra generosa amicizia che edifica un circolo tanto alto e fraterno attorno alle mie parole, come una riunione di grandi alberi oltre i quali la tempesta si trattenne.
State circondando con sollecitudine esagerata, come per preservarla della grandezza notturna, la mia espressione, la mia poesia, che si alimenta e palpita in questa notte centrale come un piccolo braciere americano che la vita ed i suoi doveri mi ordinarono di accendere. Volete che non finiscano questi carboni oscuri che accumulai nel fondo di me stesso e che arsero con le tappe della primavera incendiata di questo tempo. Ed avete avuto, con singolarità che reclamano orgogliosamente i figli della nostra bandiera australe, uomini di diversa formazione e radice, di diversa opinione e di ideale diverso, l'idea di riunirvi vicino ad un poeta al quale conoscete non solo per la sua opera ma anche per i suoi combattimenti.
Devo dire che la lotta di questi anni strazianti è stata tanto profonda in me come la mia propria ed organica poesia. Ho cantato con l'anima ed il corpo, in maniera confusa e chiara, scoscesa o stellata, e posso dire che il più profondo posto del mio canto, da dove anticamente germogliavano i roseti, apparve irrigato per me ogni giorno di questo tempo con una goccia inesauribile del martirio umano.
La mia creazione fu per quel motivo forse persa per molti, e per essi fu meglio quando camminai per i litorali dell'anima che quando entrai alla tempesta del mondo. Valutando quanto volete preferire nella mia poesia, mi fate conoscere mio propria varietà, e quando venite ad accompagnarmi non vi chiedo di abbandonare niente del vostro poiché avete rispettato ed incoraggiato il mio condizione combattente.

UNA VOCE:
Sì, ma Lei tradì la poesia, i poeti, un sistema di pensiero umanista e disinteressato, Lei abbandonò le sue scoperte segrete, non ci parla Lei della magia, né di André Bretone, è Lei un pompiere, un propagandista, Lei è troppo comprensibile, troppo chiaro dove sta il mito, dove sta la magia?, io ho letto Kafka, Apollinaire, il marchese di Sade, e Picasso e Paul Éluard mi sembrano sublimi.

A me sembra sublime ogni contribuzione profonda devota alla cultura umana, venero il misterioso segreto musicale della tribù totemica, dalle nascite abbaglianti delle grandi lingue poetiche con Chaucer, con Villon, con Berceo, con Alighieri, passando per il piano galante di Ronsard, per la furia e la pietra preziosa di Shakespeare, per la forza forestale di Bach o di Tolstói, fino a Stravinsky e Shostakóvich, fino anche a Picasso e Paul Éluard. La magia e la costruzione sono le due ali del volo permanente della cultura, ma credo traditore della poesia quello che si allontana dal falò in cui la cultura si sta bruciando, invece di riscattarla, benché stia bruciandosi le mani. Credo di essere stato fedele difensore del più segreto e misterioso e della più popolare dell'eredità culturale quando ho alzato la mia voce per difendere quella continuità, e non ho chinato la testa per sognare sonni vuoti in mezzo all'artiglieria o delle rovine, e credo di difendere il futuro integrale dell'umanesimo quando la mia azione tende a che la cultura si estenda fino ai più vasti settori che domani consumeranno quello che produrranno i nuovi creatori. In quanto ad Apollinaire ed a Kafka, mi sembra che siano più i miei amici che suoi, e molte volte ascolto nel silenzio imponderabile qualcosa di profondo e vivo di essi che si comunica con me. A volte, il mondo prende quel silenzio di cattedrale o di riva oceanica, prima o dopo grandi avvenimenti, ed in quel momento ascolto le sue parole silenziose e mi dico: prepariamo il mondo affinché domani tutti possano ascoltare le grandi voci morte nel silenzio che soltanto può concedere la dignità uguale di tutti gli uomini.

UNA VOCE:
Lei è un demagogo. Inoltre, Lei è un poeta oscuro che nessuno capisce. Io ho appena letto questo nel mio quotidiano favorito. Lei scrive in geroglifici. Nel nostro quotidiano abbiamo un gran scrittore con barba che ride di Lei tutti i giorni. I comunisti del nord lo scelsero senatore.
Lei ci portò i rossi spagnoli. Lei sta contro la patria, la famiglia e la casa. Lei obbedisce alle consegne di Mosca. Lei è nemico dell'ordine. Lei ha due case. Le avrà rubate, perché questo è un paese di ladri. Rubano ad uno nel tram, per strada, da tutte le parti. Per il resto, io leggo il quotidiano più rispettabile, e lì non lo nominano. Quando lo nominano lo chiamano Neftalí Reyes... Quello mi piace. Ed inoltre, che cosa gli ha dato per parlare dei nazisti? I film, quelle che stanno dando dei campi di concentramento sono propaganda. Che gran paese Germania. Bisogna trattarla con considerazione. È il paese di Beethoven. Niente odio. Una pace giusta, questo è quello che dico. Ed attenzione con l'imperialismo...

Lei, cavaliere verde, parla come molti uomini di questo tempo, conservatori di quello che non crearono, distruttori in nome del più permanente, patrioti che rodono e spezzano la patria ciascuno giorno, stretti e sterili egoisti della gran internazionale umana che ancora sussiste: quella della cieca brama e quella dello sterile egoismo.
Ho due case pagate, una dalla mia poesia, direttamente dalla casa editrice al proprietario, ed un'altra dalla nostra Cassa di Impiegati Pubblici. Sono due belle case che sono arrivato ad avere con orgoglio e che mi ricordano ogni giorno i miei doveri ed i miei diritti. Non ho tolto niente a nessuno. Ho dato quanto ho potuto.
Per il resto il Cile non è un paese di ladri. È un piccolo paese, ma pieno di onestà e di coscienza. Il suo popolo è dei migliori popoli, se ci sono migliori o peggiori popoli. Per me non ce nè uno meglio di questo, perché è il mio e perché arriverà ad essere come lo vogliamo noi che lottiamo affinché ogni giorno esista con maggiore dignità. Quando diciamo patria diciamo anche popolo. Quando diciamo carbone per l'inverno, c'è popolo dietro il carbone, che lo tira fuori da miniere infernali nel freddo del Sud. Quando diciamo pane, c'è grano sulle alture dorate dell'estate, ma ci sono mani del popolo che lo seminarono e lo portarono di posto in posto fino alla tua bocca. Quando diciamo salnitro io ricordo un pale che vidi nel nord. Sono delle pale per rimescolare il salnitro nelle sporte: queste pale vengono dagli Stati Uniti, dal legno più duro affinché resistano il caldo terribile della sporta. Tuttavia non durano più di un mese. E guardando le pale, usate per un mese, vidi che in ognuna le orme delle mani erano entrate, profondamente, e le dita erano marcate fino ad un centimetro nel legno duro. E pensai che il Cile sta tutto segnato, ancora nella sua maggiore durezza, da queste mani oscure del popolo che hanno lasciato la vita nella sua impugnatura.
Popolo, famiglia, patria, casa, Cile, patria marina, patria di pietra e neve, patria dolce e desolata, implacabile nel temporale di sabbia del deserto, implacabile nella tormenta di neve antartica, dolce fino alla delizia nelle tue frutta e nel tuo vino, nella qualità delle tue donne e dei tuoi uomini: chi mi dica o mi pensi antipatriota, che gli cada la lingua, marcia di vergogna. Di notte e di giorno, assente nelle più lontane solitudini, presente, dormendo o pensando alla tua aria meravigliosa, ti ho percorso mille volte col mio pensiero come ad un corpo sacro ed adorato. La tua fronte misteriosa di rame ed arenili, le tue valli strette di delizia, le tue montagne bagnate che mi insegnarono a sognare, la tua costa di argento selvaggio, il tuo fine oceanico, quando i tuoi piedi nudi si immergono nelle ultime solitudini del mare del mondo. E per me fino ai piccoli angoli di mattone celeste con la sua insegna che dice "Magazzino Il Ramo", o il grandioso macchinario di Chuquicamata, o i crisantemi di questo autunno o un rimorchiatore entrando in Valparaíso, sono quello che io più voglio, quello che più difendo, quello che questa notte e giorno mi dicono di cantare. Però voglio vederlo tutto popolato da gente felice, non alcuni, bensì tutti, da genti senza stracci, da cileni che portino con orgoglio questo nome orgoglioso.
Questo non si chiama odio, lo chiamiamo amore, amore, dovere di amore.
Io voglio un ordine di amore per il mio popolo e per tutti i popoli. Perciò accompagnai gli spagnoli, affinché qui potessero costruire il loro amore, quando furono espulsi dall’odio. Perciò troviamo che nell'orizzonte del mondo c’è una gran nazione che superi le basi morali del vero cristianesimo ed appoggiata nella scienza costruisca un gran sogno di amore sulla terra. E questo sogno della vecchia umanità è definito da un gran potere, da una scienza, da una storia, da una rivelazione senza termine. Non ci sono più consegne che quelle della ragione. Ogni volta è più chiaro il panorama del mondo, il piano di cooperazione universale per una pace di giustizia, ma di punizione, per una pace permanente e feconda. Io sono anche un soldato di quella pace, di quella giustizia e di quello futuro. Io ho lottato in questo tempo per quelle realizzazioni. Non sono pentito. Vicino a me sono stati i migliori della mia patria, molti dei quali siete presenti, ed i migliori del mondo. Domani, ci sarà tutto il mondo.

UNA VOCE:
Lei non è un poeta, è un cattivo poeta. Io sono grande. Io sono grandioso. Io vengo da Maometto e da Confucio, e dagli inni runici, passando per l'Ecclesiaste. Lei è l'autore di un poema chiamato "Farewell." Ha, ha, ha.
Mi metto in viaggio per sparlare di Lei e di tutti, e la terra intera trema con le mie creazioni. Io si che sono rivoluzionario. Lei è un subpoeta, Lei non esiste. Nessuno esiste. Io esisto.

È lei la voce dell'invidia. Non ho niente da dirgli.
Ho abusato forse questa notte portando a questo tavolo fraterne ombre e problemi che arrivano alla mia strada. Se si trattasse di ombre personali non le avrei invitate. Sono ombre corrosive che spiano nel mondo che sorge.
Ma sarebbe invalida questo veglione al quale sono venuto coi miei spettri se non sottolineassi la fraternità e l'altezza della vostra presenza. Voi avete incoraggiato in un senso isolato, in altri senso opposto, o in alcuna delle sue linee totali il fuoco che il destino mi portò ad accendere. In tutta la mia strada c'è incontrado i vostri sguardi di amicizia positiva o le vostre forze, molte volte sconosciute, per restaurare in esse la mia fatica passeggera. Credo come nessuno nella lealtà e l'amicizia, credo nella bontà e nella verità collettive, perché esse sono i pani che si dividono tra tutti gli uomini. Ed il fatto che personalità tanto decisive nel nostro cultura corno D'Halmar, Àngel Cruchaga ed Alfonso Bulnes che non solo rappresentano le loro istituzioni ma tanto poderosamente definiscono la qualità della nostra letteratura, significano più che un omaggio personale, un esempio di unità creativa. E quelli che come Jan Havlassa, scrittore illustre e ministro della sua nazione eroica e drammatica, l'associato culturale della Francia, e mister Reginald Close del British Council, portano anche un'eco del largo mondo che nasce, di un'unità che nasce dal suolo trapanato dal sangue.
Ed a voi, rifugiati di tutti i paesi che portate l'alito dello spirito salvato della tempesta, salute! Specialmente fratelli rifugiati politici dell'Argentina e Bolivia, siate tranquilli mentre riconquistate la libertà, le stelle che illuminarono la testa argentata di Sarmineto brillano ancora nel cielo libero del Cile. Ed a tutti voi, amici, compagni di sempre o compagni da oggi, voglio dirvi: ci è toccato vivere un'epoca che riempì di crudeltà ed abominio la terra. Ma vicino alle pustole di Buchenwald, attorno all'inferno di Dachau, dietro le prigioni e le esecuzioni che scuotono ancora l'anima severa della Spagna, l'uomo si è alzato da tutte le parti all'altezza dall'eroismo, alla conquista delle dignità sepolte. I poeti ed i combattenti dell'URSS e delle nazioni unite, i morti e quelli che soffrirono l’esilio, hanno creduto che l'odio passeggero sarà sostituito da un progresso appassionato. Io ho quella stessa fede. Ma quella fede me l'avete data anche voi. E questo silenzio di voi è come il silenzio carico di semi della nostra terra, della nostra patria. Seguito dalla vostra fiducia hanno continuato a cadermi al cuore i pesanti semi di pianto o di allegria, di angoscia o di speranza, che formano lettera a lettera le sillabe della mia poesia. Se quelle sillabe caddero nelle vostre mani amiche, nelle mani del mio popolo, per crescere domani nel silenzio della patria sono contento. Nessun poeta potè ambire a maggiore grandezza.
Molte grazie.

El Siglo, Santiago, 24.6.1945. Discorso letto
nell’atto di omaggio offerto al nuovo premio
Nazionale di Letteratura per il PEN Club,
Sociedad di Escritores de Chile ed Alianza
de Intelectuales.


[Pro museo Vicuña Mackenna]

Nessuna figura nella storia del Cile è più profondamente radicata di quella di Vicuña Mackenna. L'ansietà collettiva che si sente respirare nei momenti più critici della nostra cronaca civile riconosce in lui al padre dei suoi sentimenti: vive nel paese il patriota puro che era Vicuña Mackenna, il paladino della libertà e del progresso. Perciò la sua immagine la troviamo tante volte - scolorita dagli anni - nelle povere officine degli artigiani dei paesi come una protezione tutelare.
L'acquisizione della casa che abitava nelle tappe fondamentali della sua vita, per stabilire in essa un museo nazionale dedicato alla sua memoria, è un debito col paese. Credo che il disegno di legge che presento il governo per soddisfare questa aspirazione generale dei cileni, sarà approvato dal Congresso in forma unanime.

El Siglo, Santiago, 17.10.1945.


[Alberti in Temuco]

Come sapete la mia poesia uscì da queste praterie e di questi boschi, delle vecchie case con infiltrazioni del quartiere della Stazione, dove il fischio dei treni nelle notti di pioggia e di freddo mi annunciava il ritorno o la partenza di mio padre nel suo infaticabile treno di zavorra. Nella mia strada per le terre ed i mari trovai amori e dolori, il tesoro sacro della vita, la visita ai fuori porta ed ai confini, alle capitali bordate d'oro, ed alle steppe lontane delle terre perse.
Avrei voluto portarvi quanto trovai nella vasta estensione, perché quanto brillò nella mia strada, lucciola notturna, stella, fiore o libro, la relazionai con la mia terra lontana, la unii nel humus del mio cuore a queste grandi selve australi di dove uscivano ricordi indivisibili. Ed oggi la fortuna mi ha dato il privilegio di portarvi il tesoro vivente di quello che più amai: la fraternità e la grazia, la profondità e la prodezza, in questi due miei fratelli che camminano senza terra e senza patria, parlando lo stesso linguaggio che noi, ed esaltandolo raramente con grandezza raggiunta. Li conobbi nella Spagna felice di prima della guerra scatenata in lei e dopo in altri paesi per l'oggi sconfitto fascismo, sconfitto ahi! da tutte le parti, meno in Spagna. Essi compirono il loro dovere, e la poesia del primo poeta della Spagna, Rafael Alberti, come la testa dorata di sua moglie, María Teresa León, stettero vicino al loro paese fino all'ultimo minuto della resistenza.
Poi arrivò la notte tenebrosa sulla Spagna ed a questa notte che non è finita dobbiamo quelli che arrivano oggi alle porte della frontiera, a comunicarci un po' del loro accumulato fulgore. Essi mi sentirono parlare per strade di Madrid di questa regione originaria del mio canto, ma mai immaginai che la storia li avrebbe condotti un giorno ad essi tanto fraternamente amati, e tanto rispettati dentro la fraternità, fino alle stesse porte delle selve australi, fino ai fiumi e gli uomini dell'Araucanía australe.

MARÍA TERESA, RAFAEL, queste terre non hanno più tradizione che quella del vento selvaggio che batte la cima delle montagne, e non ebbe più frutto che l'aspro grappolo dell'araucaria della cordigliera.
La vecchia razza di Arauco lasciò le sue lance e le sue frecce per le strade, vicino ai suoi morti innumerabili, e ritornò ai suoi telai ed i suoi sonni pastorali. Tu che li hai appena visti, Rafael, sai anche la distanza ed il tempo che sono passati tra le strofe reali di Don Alonso de Ercilla e questi occhi di terra solitaria che ti hanno guardato oggi dalla sua profondità misteriosa. Poi vennero i treni e le macchine ed il grano estendendosi come un'immensa piastra d’oro per tutto il territorio del sud, e le città che crescono come giovani agguerrite cantando vicino al mare. Dopo queste terre comincia già l'immenso arcipelago, le acque magellaniche e la notte bianca dell'Antartide.
Molto conoscete già e molto vi rimarrà da conoscere nella nostra patria comune americana, dal Messico sacro fino all'oceano fluviale che taglia al Brasile come una coltellata gigantesca. Ma state in questo momento nelle terre che più amai, circondati da cuori estesi e semplici, e da una natura che non potrete mai dimenticare.
Ora vi tocca lasciar cadere in questa silenziosa terra il seme che in voi veneriamo, quella dall'alta intelligenza perseguita, quella dell'amore castigato, quella della luce errante.
La profonda notte australe si alza dalle montagne. È ora di ascoltare.
Raccontaci questa notte, Rafael, le strade, le feste e le battaglie della tua poesia, ci siederemo come ad ascoltare un fratello che ritorna da un lungo viaggio. E tardate molto, quanto volete, perché gli esseri di queste latitudini guardano molto, ascoltano largamente, e conservano il ricordo di quello che abbiamo amato per più di un inverno, per tutta la vita.
Ti lascio la parola per questa notte, aspettando la voce di María Teresa, col giorno di Natale tra voi, perché sia per Temuco un doppio regalo che c'invia attraverso i mari, la Spagna repubblicana, la Spagna che amiamo e che riconquisteremo.

El Diario Austral, Temuco, 25.12.1945. Introduzione
ad una conferenza di Rafael Alberti nel Café Central.


Rafael Alberti e María Teresa León

Da questo posto cominciai anni fa a parlare della Spagna per tutti i paesi e profondità dell'America, di quella Spagna ieri spianata e ferita ed oggi di nuovo dimenticata e tradita.
Oggi, sono orgoglioso di presentarvi questo doppio fulgore, questa coppia spagnola sulle cui fronte dorate sono agganciate l'aurora e l'agonia, che la loro patria ci mostrò e che rimasero scritte con fuochi indelebili nella terra del Cile.
Rafael Alberti, primo poeta della Spagna, combattente esemplare, fratello mio:
Mai immaginai, tra i fiori e la polvere da sparo della pace e della guerra a Madrid, tra le verbene e le esplosioni, nell'aria di acciaio della piana castigliana che un giorno ti avrei dato in questo posto le chiavi della nostra capitale accerchiata dalla neve, e ti avrei aperto le porte oceaniche ed andine di questo territorio, che, secoli fa, Don Alonso de Ercilla avrebbe lasciato fecondato e seminato e stellato con la sua violenta ed ultramarina poesia.
María Teresa, non immaginai mai che quando tante volte condividemmo il pane ed il vino nella tua casa generosa, avrei avuto la fortuna di offrirti nella mia patria il pane, il vino e l'amicizia di tutti i cileni.
Perché qui vi aspettavamo tutti, Rafael, María Teresa. Vi distingueva il mio paese, non solo come altezzose e solitarie figure dell'intelligenza, bensì come pellegrini della patria chiusa dal sangue e l'odio.
Nessun paese in America sentì le sventure della Spagna come il nostro paese, e nessuno è rimasto tanto leale come noi alla vostra lotta e la vostra speranza. Non pensiate, María Teresa, Rafael, ai governi che si associano superficialmente ai compromessi universali della vigliaccheria, ma entrando in Cile toccate la porta o il petto di qualunque cileno e vi presenterete a ricevere il cuore di un paese che non ha riconosciuto mai Franco. Questo ve lo diranno gli uomini e le donne, i bambini ed i vecchi della mia patria, e perfino le pietre delle strade in cui la mano del paese scrisse con brutta ortografia, ma con più coscienza che un ministro laburista, la sua maledizione a Franco, ed il suo amore appassionato per la Repubblica popolare, della quale siete figli erranti ed ambasciatori risplendenti.
In questa terra di poesia e di libertà, siamo contenti di ricevervi, giovani creatori della poesia e la libertà che difendeste a fianco del vostro paese. E poiché arrivate alla fine del Pacifico, la più lunga strada del pianeta dato al mondo da altri spagnoli pellegrini, che sia anche questo il punto di ritorno, perché quando in tutta la terra germina la libertà, avete più diritti di ciascuno di reclamarla per gli spagnoli, poiché foste i primi a combattere per lei.
Cari fratelli: vi amavamo da tanto tempo che quasi non necessitavamo ascoltarvi. La vostra poesia e la vostra condizione di valorosi illuminavano da qualunque angolo le numerose terre americane. Avete voluto attraversare le più alte nevi del pianeta affinché guardassimo in questo minuto vertiginoso del mondo i vostri due nobili visi che rappresentano per noi la dignità del pensiero universale. Guardate voi anche il viso innumerabile del paese che vi accoglie, entrate cantando, perché così lo vogliamo, nella nostra primavera marina, toccate tutti gli angoli minerali del largo cuore del Cile: perché lo sapete già, Rafael, María Teresa, ve l'avranno raccontato già le chitarre: quando il paese del Cile dà il cuore, lo dà intero e per sempre ai quali come voi, in modo tanto alto, seppero cantare e combattere.
Qui li avete: per la loro bocca parlerà la Spagna.

1945

Santiago, dicembre. Testo edito
in PNN, pp. 87-89.



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