Pablo Neruda e Insetti


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Per Matilde e per la pace (1962-1963) - 2^ parte

NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1952 a 1963

1° di maggio in autunno

Qui escono le bandiere nella strada, in autunno.
Sono vecchie e nuove bandiere, alcune furono ricamate
con l'amore antico, hanno emblemi, allori, mani
che si incrociano,
rose, locomotive, timoni, ruote di telaio.
Furono fatte con oro sul fondo oscuro del velluto rosso.
Sono gli stendardi di vecchi sindacati, i suoi dirigenti morirono
nella prigione, nell'ospedale, per strada, di uno o di molti colpi
o semplicemente nei loro letti, circondati dalle sue famiglie operaio.
Amai sempre queste bandiere, hanno ricami squisiti,
sono stati rammendati con una delicatezza che ora non esiste.

Ma esiste ora un altro mondo e la lotta non ha velluto,
e dove stette la rosa c'è una fiamma scoppiettante.
Sono appena cucite le bandiere del partito.
Sono di tessuto economico, le sue lettere bianche indicano
il comune, edificio il, la miniera, le corporazioni di pescatori,
di operai di tutti i mestieri, dalla cordigliera
fino alla costa, dal Polo fino al deserto caldo.
È il seme dell'azione, la geografia del paese,
la stella che si ruppe mille volte, cadde spruzzata di sangue,
e tornò a nascere, a palpitare ed a dominare le tenebre.
Avanza la moltitudine nell'aria dell'autunno.
Io, tra le bandiere, sono molto piccolo, ho alcuni pochi anni, e so che marcio alla mano di un gigante che ha molto da camminare ancora.

C'è nell'aria di autunno una nuova bandiera.
È la bandiera della piccola isola del ballo,
dello zucchero che come neve torrida riempiva i suoi porti,
del ritmo ripetuto dei tamburi alla luce della luna.
All'improvviso questa bandiera saltò dal paradiso fotografico
e si mise a camminare da tutte le parti con le bandiere rosse.
A noi argentini, cileni, fluviali,
patagonici, ai nostri uomini del rame terribile
e del salnitro amaro,
a tutti ci sorprese vedere questa stella bianca tra noi,
stavamo tanto lontano, vivevamo tanto separati.
I paesi dell'America vissero chinati guardando il solco,
guardando il carbone, guardando sempre la terra,
c'era appena tempo per guardare verso il Nord e verso il Sud,
di tutte parti arrivava il vento crudele e la notte terrificante.

C'era appena tempo per guardarsi le mani spaccate,
per asciugarsi il sudore, per guardare i fiori.
fino a che una gran rivoluzione nelle terre distanti,
in ottobre,
fermò tutti gli uomini e questi si guardarono tra loro.
Alcuni corsero a nascondere i loro patromoni. Altri sorrisero.
E cominciarono ad apparire infinite bandiere rosse.
Il primo di maggio si andò popolando con moltitudini e bandiere.
E quando si unì la bandiera di Cuba a tutte le sfilate
comprendemmo che la separazione era finita,
che potevamo guardarci da popolo a popolo
e che più dura e più alta delle Ande è la volontà della lotta.

1° di maggio 1963

Santiago, 30.4.15163.


La Spagna canta Cuba

Parigi 13 (P.L). I giornali parigini commentano le notizie su un nuovo crimine commesso dai boia fascisti. L'assassinio del giovane poeta Manuel Moreno Barranco.
Detenuto nel febbraio di questo anno, Barranco è deceduto dopo 10 giorni dal suo arresto
nell'ospedale della prigione. Le autorità franchiste comunicarono ai suoi parenti un pretesto
simile a quello utilizzato quando vollero assassinare per la prima volta Julián Grimau, dicendoli
che "cercò di suicidarsi gettandosi dalla finestra dalla prigione", ma questa versione rimase
smentita quando i boia franchisti, per occultare i segni delle torture a cui avevano sottomesso
Moreno Barranco, negarono il permesso alla madre del giovane poeta affinché visitasse suo
figlio agonizzante.

Della stampa di Santiago del 14 di giugno


Albeggiò malato in questo giorno 14 di giugno dell'anno 1963. Pensai, dapprima, nella mattina: questo è il giorno affinché io scriva il prologo ai poeti spagnoli che cantano a Cuba. Dal mio letto, oltre il finestrone, vedo la rada di Valparaíso. Alcune di queste barche che si staccano nere sull'acqua di inverno verranno forse dalla Spagna, passeranno dalla Spagna nel suo ritorno. Anche i miei pensieri andavano e venivano dal libro ai porti, da Cuba alla nuova poesia. Aprii nel frattempo il giornale e lessi la triste notizia che ho lasciato qui per segnalare questo giorno della Spagna.
Allora, tutto prosegue allo stesso modo?
Mi sembra di si. Mi sembra di no.
Mi sembra di si perché i crudeli continuano ad ammazzare.
Mi sembra di no perché i poeti cantano di nuovo.
Questo è un libro di quelli che graffiano il muro, di quelli che cantano sul muro, di quelli che raggiungono con la loro voce il grande oceano, di quelli che interpretano il profondo sotterraneo mormorio della terra spagnola.
Quando noi, poeti di tutti i mondi, corremmo verso la Spagna con la nostra poesia, si vide che quelli che più sentirono e soffrirono, che quelli che più cantarono in quell'abbondanza delle gesta, furono i miei compagni, i poeti americani. Eravamo di qui e di là, ci separavano cime ferruginose, praterie planetarie, ma lo spazio non ci divise. Non ci conoscevamo, ma cantammo con una sola voce. Amavamo la Spagna ed il suo popolo, le nostre parole erano per combattere e proteggere. Una grande speranza c'insegnò l'unità cristallina. Qui costruiamo quella torre.
Ora questi poeti da tutti i paesi della Spagna ci danno la meravigliosa sorpresa di ripetere per il bene nostro quel canto interrotto, di inventarlo di nuovo, di dargli nuova vita, nuovo senso, nuovo spazio.
Quante ombre si dissolvono leggendo queste dolorose poesie. Sono fatte tanto vicino all'azione che si confondono con essa. Si alzano dalla resistenza spagnola, pensando a Cuba e combattendo per la propria liberazione.

Ci dice Pere Quart:

La libertà giustamente ha scoperto l'America,
vi ha piantato finalmente l'aspra bandiera...

Ci canta Gonzalo Abad:

voglio tornare a vivere di nuovo
sotto il sole di L'Avana

Ed Ángel Santiago:

Io tolgo il mare che sta in mezzo
dall'Europa fino all'America,
perché mi disturba, e lo faccio
per portare più secchi i miei stivali di soldato

Ed Antonio Pérez:

Il rosso romanziere della guerra
disse il suo stile,
ma non tutto finì.

E Carlos Álvarez:

che stringendo di Cuba la speranza
contro il mio petto di spagnolo nascente
dissanguato nella ferita della mia patria

E Santiago Puga:

Voglio morire a L'Avana

E Julián Marcos:

e se arriva il momento di abbandonare la piuma,
il mio braccio è pronto

Ed Antonio Rodríguez:

E quel qualcosa, che tu hai ravvivato,
quel qualcosa è la speranza

E Francesc Vallverdú:

La notte americana
vede milioni di sguardi blandendo l'ora cubana

E Gabino Carriedo:

Spagna, morde il cuore. Il giovane
- bianco e verde scarlatto - dalle Antille arriva

Ed Ángel Crespo:

Non ti invento. Ti ho
davanti ai miei occhi, Cuba.
Io anche taglio canne coi tuoi,
attacco cartelli grandi
in porte e pareti
e metto questo poema
vicino al mare

Ed Aquilino Duque:

Il tagliatore di canna sguaina il machete
e taglia gli ormeggi della sua isola marina

E López Pacheco:

quella pace delle mani
di Cuba

Ed Ángelo González:

Antilla - sul suolo,
temporale cieco o cielo abbattuto
- alzata Cuba, come una bandiera -,
chiama implacabile o luce definitrice

E Carlos Barral:

Perché un'altra volta succede qualcosa che ci contagia,
sta succedendo qualcosa che ci chiama
da estranee rive, al di sopra
di mari sordi e città sorde

E Jaime Ibarra:

Io sono la Spagna. Vedi. Guarda la mia vita
- la mia morte a sangue e prigione -. Vedi le mie mani.
Guarda le mie strade. Non vanno in nessun posto
e c’è bisogno che vadano da qualche parte

E Leopoldo de Luis:

Perché un gregge azzurro d’ombra
passa tra olivi, pini, roveri,
per le pianure della vecchia
geografia, sui suoi monti,
canto a Cuba ora che ha sciolto
le sue colombe contro la notte

E José Ángel Valente:

Da lontano ci chiamano, da lontano
si sente una voce. Pronuncia
parole della mia stirpe e del mio sangue.

E Jaime Gil:

Io penso che a queste ore albeggia nella Ciénaga,
che tutto è indeciso, e che continua il combattimento,
e cerco nelle notizie un po' di speranza
che non venga da Miami

E Juan Rejano:

È ritornato. Non lo vedete? È ritornato

E Ángela Figuera:

Che il popolo di Cuba è
già libero da piedi e mani,
aprendosi a petto pulito
strade speranzose,
mentre il popolo spagnolo,
spacciato ed imbavagliato,
sopporta con rassegnazione e morde il freno
per mille ferite sanguinando

E Blas de Otero, Rafael Alberti, ed i tanto altri, e quelli che non poterono cantare, e quelli che già furono assassinati, e quelli che non raggiunsero questo libro. E quelli che stanno nascendo, quelli che stanno aprendo gli occhi e la bocca. A tutti appartiene questo coro unanime. La poesia degli spagnoli ci accompagna a difendere Cuba dandoci la sua forza solidale, la sua luce dolorosa, la sua tenerezza indomabile.

Valparaíso, 14 giugno 1963

Prologo al volume
España canta a Cuba,
Santiago, Editorial Universitaria, 1963.


"In memoriam" Javier Heraud

Ho letto con gran emozione le parole di Alejandro Romualdo su Javier Heraud. Anche il doloroso esame di Washington Delgado, le proteste di César Calvo, di Reinaldo Naranjo, di Arturo Corcuera, di Gustavo Valcárcel. Lessi anche la straziante relazione di Jorge A. Heraud, padre del poeta Javier.
Mi rendo conto che una gran ferita è rimasta aperta nel cuore del Perù e che la poesia ed il sangue del giovane caduto proseguono risplendenti, indimenticabili.
Morire a venti anni crivellato da colpi "nudo e senza armi in mezzo al fiume Madre de Dios, quando andava alla deriva, senza remi!...." Il giovane poeta morto lì, schiacciato lì in quelle solitudini dalle forze oscure! Dalla nostra America oscura, dalla nostra età oscura!
Non ebbi la fortuna di conoscerlo. Per quanto voi lo cantiate, lo piangiate, lo ricordiate, la sua breve vita fu un abbagliante lampo di energia e di allegria.
Onore alla sua memoria luminosa. Conserveremo il suo nome ben scritto, ben incisione nel più alto e nel più profondo affinché continui a risplendere. Tutti lo vedranno, tutti l'ameranno domani, nell'ora della luce.

Isla Negra, Luglio di 1963

Incluso in Javier Heraud,
Poesías completas y
Homenaje
, Lima, Perù, Ediciones de La Rama Florida, 1964.


Ritratto del gladiatore


Ora che i moscoviti hanno visto e sentito, percepito e vissuto, Fidel Castro, racconterò che anche io lo conosco, l'ho visto poche volte e ho parlato con lui, così, passando, uscendo da un posto o arrivando ad un altro. Mi piacque questa maniera di conoscerlo perché dietro una scrivania sta quasi tutto il mondo, meno Fidel Castro. Bisogna vederlo in piedi, e siccome è molto alto, lo è guarda da sotto, ed quello anche succede con gli edifici e coi monti innevati del mio paese.
È anche una maniera logica che noi americani guardiamo verso l'alto, perché al’improvviso crebbe molto questo uomo e fece crescere anche il suo paese. La piccola isola cubana occupò più posto nei linguaggi umani ed anche nelle acque dei Caraibi.
Crebbero anche queste acque, si parla più dei Caraibi che del gran oceano Pacifico. Si riempirono quelle acque di avvenimenti e lì lottarono le antiche ideologie che sono sempre le nuove: la moltitudine di quelli che vogliono liberarsi, fecondare la vita e la terra e, d'altra parte, quelli che sono disposti a difendere i sistemi immobili.
Dirò che quando vidi per la prima volta questo uomo, compresi che al nord la sua barba confinava col pensiero universale, con la chiarezza della nostra epoca, col celestiale che continuiamo a conquistare al futuro. Più su della sua barba, guardando all'est e l'ovest, ha due occhi acuti neri che non lasciano passare uccello senza annotarlo nel suo lungo libro. Più al nord ancora, ha una fronte capace di ricevere il vento contrario. E tra questi ha un naso da conquistatore antico, di quelli quali sbarcarono nelle nostre coste. È un naso come prua di vascello, ben diretta verso il combattimento.
All'est del suo lungo corpo confina Fidel Castro con la trasmutazione del mondo, col senso socialista-leninista delle masse umane. Verso quello lato, con la sua mano sinistra, fa ogni tanto segni che muovono l'aria di tutto il continente in cui vivo. Quello sta bene.
All'ovest confina Fidel col Nemico. È difficile descrivere questo Nemico, ha viso di giornale, voce di radio poderosa, denti atomici, forma di Pentagono e gambe che finiscono in artigli di tigre. Questa tigre, al contrario di quello che pensano alcuni sognatore buddisti, non è di carta. Lo diciamo per esperienza noi latinoamericani. Qualunque sia il materiale di questo felino, è provato che Fidel non ne ha paura.
Al sud confina Fidel con la terra, non solo con la sua isola zuccheriera, bensì con tutta la terra. È quello che chiamiamo un uomo ben piantato, e benché si muova molto, come gli antichi cavalieri erranti, mette immediatamente radici dove sta e dove passa.
Ma nel centro del suo corpo, nel preciso posto dove tutto il mondo ha il cuore, Fidel Castro ha un'isola. Questa isola si chiama Cuba e non pulsava fino a quando non arrivò al petto di Fidel. Da allora grandi ondate di vita, di emozione, di agonia e di resurrezione, hanno fatto di lei una viscere vera, generosa ed attiva. Per questo miracolo questo cuore si popolò di fatti valorosi, di costruzioni audaci, di evidenti trasformazioni, e tutto cominciò ad essere fecondo. E tutto il continente latinoamericano sentì nuovo sangue nelle vene, un'onda di freschezza, ardore e valore si estese per tutte le arterie della colossale agglomerazione che è il nostro corpo planetario. Così l'isola arrivò ad essere cuore del continente. E tutto questo battendo nel petto di Fidel.
Vedo già che voi ora a prima vista lo amate, lo riempite di fiori, di belle parole e di grandioso appoggio. Vedete già che noi avevamo più ragioni per ammirarlo come l'ammiriamo, per difenderlo ed amarlo.
Perciò i miei versi lo proclamarono nella lingua spagnola, lingua che suona a volte come chitarra ed a volte come tuono. Perciò, quando gli feci visita e ci troviamo uscendo o entrando da qualche luogo, da alcuno dei suoi grandi doveri, o semplicemente da un ristorante dove mangiava nella cucina, tirai fuori una bottiglia di vino, riempii un bicchiere e gli lanciai questi versi della mia
Canción de gesta:

Fidel, Fidel, i popoli ti ringraziano
parole in azione e fatti che cantano,
perciò da lontano ti ho portato
un bicchiere del vino della mia patria:
è il sangue di un paese sotterraneo
che arriva dall'ombra alla tua gola,
sono minatori che vivono da secoli
tirando fuori fuoco dalla terra gelata.
Vanno sotto il mare per il carbone
e quando ritornano sono come fantasmi:
si abituarono alla notte eterna,
gli rubarono la luce della giornata
e tuttavia qui hai il bicchiere
di tante sofferenze e distanze:
l'allegria dell'uomo imprigionato,
popolato da tenebre e speranze
che dentro alla miniera sa quando
arrivò la primavera e la sua fragranza
perché sa che l'uomo sta lottando
fino a raggiungere la chiarezza più larga.
Ed a Cuba vedono i minatori australi,
i figli solitari della pampa,
i pastori del freddo in Patagonia,
i genitori dello stagno e dell'argento,
quelli che sposandosi con la cordigliera
tirano fuori il rame da Chuquicamata,
gli uomini di autobus nascosti
in popolazioni pure di nostalgia,
le donne di campi ed officine,
i bambini che piansero le loro infanzie:
questo è il bicchiere, prendilo, Fidel.
È pieno di tante speranze
che a berlo saprai che la tua vittoria
è come il vecchio vino dalla mia patria:
non lo fa un uomo bensì molti uomini
e non una uva bensì molte piante:
non è una goccia bensì molti fiumi:
non un capitano bensì molte battaglie.
E stanno con te perché rappresenti
tutto l'onore della nostra lunga lotta
e se cadesse Cuba cadremmo,
e verreremmo per rialzarla,
e se fiorisce con tutti i suoi fiori
fiorirà con la nostra propria linfa.
E se osano toccare la fronte
di Cuba dalle tue mani liberata
troveranno i pugni dei popoli,
tireremo fuori le armi sepolte:
il sangue e l'orgoglio accorreranno
a difendere Cuba benamata.

Io vi ho descritto la mia maniera di vedere Fidel. Voi con dieci milioni di occhi lo guarderete in altro modo per strade di Mosca. Quando già se ne sia andato alzandosi nell'aria e volando di nuovo verso Cuba fragrante, lo seguirete voi vedendolo. È incancellabile non solo per quello che ha fatto, non solo per l'amicizia e la verità che rappresenta, bensì per la sua figura di indiscutibile lottatore.
Vi racconto qualcosa. Un pomeriggio che guardavo con un certa noia i tesori romani, greci ed etruschi del museo Pushkin, a Mosca, mi fermai all'improvviso, attonito. Non credevo quello che i miei occhi vedevano. C’era lì, intagliata in bella pietra millenaria, una statua di Fidel Castro. La somiglianza era tanto sorprendente che quasi poteva conversarsi con lui. Ma, la statua di pietra non poteva uscire dal suo raccoglimento. Il naso aquilino, la barba arricciata, gli occhi di Fidel non prendevano in considerazione quelli che per di lì passavano. Sembrava assorta in un grave problema. È il problema della lotta.
Si tratta della statua del gladiatore romano, scultura anonima in cui un uomo si prepara ad un gran combattimento.
Compagni, vi consiglio di andare a vedere questo ritratto di Fidel Castro e dire a quel gladiatore pensoso che si prepara alla lotta, buona fortuna nel gran combattimento che dura ancora.

Alla vigilia del viaggio di Fidel Castro nell'Unione
Sovietica, il giornale Pravda di Mosca chiese a
Pablo Neruda di scrivere sul gran dirigente cubano.
Neruda inviò questo "Retrato del gladiador" il cui
testo originale in spagnolo fu pubblicato in
Santiago dal quotidiano
El Siglo, 28.7.1963.


Sotto la maschera anticomunista
BAJO LA MÁSCARA ANTICOMUNISTA. (Pagine 1159-1169.) Alcuni paragrafi di questo testo, lievemente modificati, saranno ritradotti più tardi in spagnolo (probabilmente dal russo) nell'articolo "Cierta flor de loto", edito in Principios num. 102, Santiago, luglio-agosto 1964.

Le distanze spariscono, le comunicazioni sono istantanee, il mondo è più piccolo. Quanto accade in altri continenti, ogni movimento di oppressione, di confusione, di intendimento, di liberazione, producono una piccola o vasta o elettrica onda, circola fino ad arrivare a toccare il corpo in Cile.
Ci rendiamo conto, noi cileni, ogni giorno, che benché siamo un distante paese condividiamo in qualche modo gli avvenimenti, fallimenti o speranze di altri popoli. Da questo immenso mondo esterno ci rrivano notizie e viaggiatori.

NOTIZIE BRUTTE

I colonialisti vogliono utilizzare il nuovo Stato malese contro l'Indonesia. L'Indonesia si è distinta per la sua politica indipendente e la sua decisione di difendere la sua nazionalità, le sue abitudini e la sua rivoluzione. Varie volte gli stranieri di altri paesi hanno cercato di assassinare il presidente Sukarno, gran figura e promotore del patto neutralista di Bandung. Ora, con la complicità di altre nazioni, si preparano nuove minacce contro l'indipendenza dell'Indonesia.

BUONE NOTIZIE

Il Congresso nordamericano ha ratificato il Trattato di proscrizione parziale delle prove atomiche. Anni fa gli infuriati imperialisti si credevano padroni del mondo. Basavano tutta la loro speranza sul proprio potere di distruzione. Si impegnavano ad ignorare ed a far ignorare ai suoi popoli il gigantesco e tranquillo potere dell'Unione Sovietica. Ma hanno dovuto senza rimedio accettare davanti al mondo un patto che davanti alla storia significa, per lo meno, l'uguaglianza di forze. Ma sappiamo che ha un significato più esteso e più profondo.
La Guerra Fredda arrivò oltre tutte le previsioni: si trasformò in un mostro che ha avvelenato allo stesso modo la vita dell’Oriente e dell’Occidente, del socialismo e del capitalismo. Si arrivò ad estremi che sorpassano i limiti economici e politici dei due sistemi. Per questa strada correremo il rischio di cessare di esseri uomini gli uni e gli altri. A Mosca si stimava pericolosa la musica jazz. Negli Stati Uniti si combattevano le leggi di prevenzione, medicina sociale ed aiuta gli anziani, tacciandoli di pericolosamente comuniste. La Guerra Fredda ha ricevuto il suo primo colpo di morte lenta. Speriamo di seppellirla qualche volta. Né la minaccia perpetua, la bomba sulle nostre teste, né la ridicolaggine extraideologica, possono aiutare la maturità morale dell'uomo, né la lotta per il cambiamento rivoluzionario dell'umanità.

BENVENUTO MARCOS ANA!

I comunisti sono arrivati ad un'età responsabile. Potranno ululare, mentire, adulterare, falsificare. Tutto questo può farlo il nemico di classe col suo poderoso denaro, ma, non c’è rimedio, non c’è rimedio! Devono prenderci in considerazione! Siamo il pensiero ossessionante dei reazionari, degli imperialisti, degli sfruttatori, precisamente perché siamo arrivati alla serenità dell'azione e della coscienza rivoluzionaria.
Molti anni fa combattevo in Spagna e dopo nei crocevia e nelle montagne yugoslave un guerrigliero conosciuto solo da alcuni uomini. Abbiamo visto come in questi giorni il governo del Cile, esponente della nostra arretrata borghesia, interpretando tuttavia, il sentimento nazionale, lo ha aspettato, lo ha festeggiato, e gli ha dato le chiavi della nostra ospitalità.
Anni fa giaceva tra migliaia di carcerati politici spagnoli un ragazzo raggiante, un adolescente che crebbe tormentato e condannato. Franco voleva sterminarlo. Voleva continuare la sua tragica lista. Antonio Machado, García Lorca, Miguel Hernández, poeti martirizzati ed assassinati. Ai tiranni spaventa più un poeta che una tigre. Tuttavia, qui in Cile, nel Salone d’Onore dell'Università o al tavolo direttivo dei sindacati nazionali, abbiamo ricevuto il poeta che usciva col cuore intatto dopo 23 anni di prigione: Marcos Ana è ospite del Cile. È ospite del Cile, malgrado l'ambasciata della Spagna ragliasse ufficialmente e malgrado
El Mercurio raccomandasse ad uno dei suoi migliori asinelli un raglio mercantile che non ha impedito al nostro compagno poeta di dormire con calma tra la montagna innevata e l'oceano del Cile.
Benvenuto, compagno poeta, testimone della "cultura franchista!" Benvenuto, condannato a morte e che si sappia che contiamo sulla tua vita e sulla tua poesia per la liberazione della Spagna!

L'ASSENZA STRAZIANTE DI NAZIM

Già mi conoscono i miei compatrioti e sanno che mi allontano da tutti i temi. A queste presenze che sono arrivate nella nostra patria confermando l'importanza crescente dei comunisti nell'ordine politico e morale del nostro tempo, chiedo loro di permettermo di aggiungere un'assenza, un'assenza straziante per la poesia in generale e per il mio cuore in particolare. Appena alcune settimane fa è morto a Mosca NAZIM HIKMET, grandioso poeta ed uno dei miei più cari compagni.
Con lui è morto uno dei più grandi comunisti del nostro tempo, lontano dalla sua patria, la Turchia, dove passò moltissimi anni in prigione. Lo accolse l'Unione Sovietica, madre generosa di tutti i perseguitati.
Uno dei suoi poemi diceva:

La maggioranza umana
di Nazim Hikmet

La maggioranza dell'umanità
viaggia sulla coperta dei vascelli
nei treni viaggia in terza classe
per le strade va camminando a piedi
la maggioranza umana.
La maggioranza umana va al lavoro alle otto
si sposa a venti anni
muore ai quaranta
la maggioranza umana.
Grazie alla maggioranza umana
c'è pane per tutto il mondo
con il riso accade la stessa cosa
con lo zucchero accade ugualmente
accade la stessa cosa coi vestiti
coi libri accade la stessa cosa
tutti ottengono tutto
tranne per la maggioranza umana
non c'è ombra sulla terra
della maggioranza umana
né luci per strade
né vetri nelle sue finestre
ma ha la speranza
la maggioranza umana
non si può vivere senza speranza.

SIGNORINI FURFANTI E SINISTREGGIANTI VESTITI DA RIVOLUZIONARIO

Sapete già voi che mi ascoltate che l'anticomunismo è una maschera avvilita per l'uso di quelli che la usarono. Questa maschera ha la particolarità di svilire immediatamente l'anima di quelli che la mettono al viso. Che nasconde questa maschera anticomunista? In Germania occultò il terrore dell'Europa. Sotto di essa ardevano i forni crematori. Sotto questa maschera si nascondevano il saccheggio, la distruzione di città intere che cadevano ridotte a polvere in alcuni minuti. Sotto la maschera anticomunista c'erano milioni di uomini deportati, montagne di denti d’oro estratti ai cadaveri degli assassinati, fiumi di chiome tagliate alle donne morte, piramidi colossali di giocattoli rubati ai bambini prima di bruciarli, e schermi di lampade foderate di pelle umana.
Sotto la maschera dell'anticomunismo i grandi imperialisti attaccano dall'aria le industrie pacifiche ed i villaggi indifesi di Cuba. Sotto quella maschera si sostengono le prigioni del Paraguay, si chiudono università in Ecuador ed alzano la testa in Santo Domingo ed in Nicaragua i velenosi scorpioni di Trujillo e di Somoza.
Sotto la maschera dell'anticomunismo i signorini furfanti di "Cile-libero" vogliono giustificare i loro stipendi di mercenari, scrivendo libelli ed attaccando bugie nelle pareti.
A questi signorini furfanti e nostalgici del fascismo si sono venuti ad aggregare alcuni chiamate di sinistra che contribuiscono a sporcare le pareti con insulti verso l'Unione Sovietica e verso il nostro Partito Comunista.

SOLO I FRENETICI

Sempre questi sinistreggianti, vestiti da rivoluzionario, vollero mangiarsi i bambini crudi per impressionare. Ma adottarono sempre nell'attività politica, le bandiere macchiate della reazione.
Quanto alla controrivoluzione ungherese molti di essi avrebbero desiderato che non intervenisse l'Unione Sovietica che aiutò al paese ungherese a schiacciare una cospirazione imperialista e fascista.
Che cosa sarebbe accaduto se avessero vinto lì le forze dell'insurrezione? L'Ungheria sarebbe il centro della controrivoluzione mondiale nel cuore del mondo socialista.
Più tardi stettero contro il ritiro dei proiettili nucleari installati a Cuba in un momento determinato della sua accelerata storia. Che cosa sarebbe accaduto se non si ritiravano quelli proiettili? Della rivoluzione cubana non rimarrebbe che cenere. Rimarrebbero solo i rottami delle città e le ossa bruciate degli uomini. Le esplosioni nucleari avrebbero raggiunto anche la maggior parte del pianeta portando la distruzione e la morte totale.
La guerra nucleare non è uno spaventapasseri. In un solo giorno può quasi sterminarsi l'umanità. Chi può desiderare questa guerra? Solo i frenetici, solo i malati mentali, solo i perversi.

LA CAUSA DELLA PACE NON SIGNIFICA TREGUA

La causa della pace non significa tregua né un passo indietro nella lotta contro lo sfruttamento umano. La coesistenza pacifica significa il riconoscimento della stabilità raggiunta dal mondo socialista. La coesistenza pacifica significa il rispetto e la crescita del movimento popolare in tutti i paesi. Significa che si riconosce l'esistenza delle poderose forze vitali del socialismo e che queste continuano il suo cammino di lotta, di trasformazioni e di vittorie.
All'ombra degli attuali errori di alcuni comunisti cinesi, gli anticomunisti, gli estremisti di sinistra, fanno il gioco alle forze reazionarie interne ed esterne. Attaccando l'Unione Sovietica aiutano al Dipartimento di Stato. Attaccando i comunisti cileni aiutano la barcollante candidatura di Julio Durán.
Ho detto gli errori di alcuni comunisti cinesi. I comunisti cinesi che non sono d’accordo non possono parlare, perché sono impediti di esprimere le loro opinioni.
Non mi sarebbe piaciuto parlare di questi fatti, di queste cose che transitoriamente ci separano attraversando in mezzo le nostre anime. Ma non c'è più rimedio. Tutti gli elementi dell'ultradestra celebrano le straniere manifestazioni cinesi. Sono felici dell'apparente divisione di opinioni. Perfino il nostro prestigioso critico Hernán Díaz Arrieta,
Alone, molto conosciuto per le sue idee politiche coloniali, esclamò in una delle sue ineffabili audizioni di radio: "Magari per questa breccia entra la libertà." La libertà la concepisce Alone come lo schiacciamento del movimento operaio e degli avanzamenti della rivoluzione mondiale. Hernán Díaz Arrieta divise il mondo tra divisi e Díaz Arrieta. È perso perché noi divisi siamo più numerosi e migliori dei Díaz Arrieta.

IL CULTO A LA PERSONALITÀ IN CINESE

A me sembra che la Cina derivi i suoi errori e la sua politica violenta, interna ed esterna, da una sola fonte: del culto della personalità, interna ed esterna. Noi che che abbiamo visitato la Cina vedemmo ripetere lì il caso di Stalin. Ogni taccia, ogni porta, ha un ritratto di Mao Tse-tung. Mao Tse-tung si trasformò in un Buddha vivente, separato del popolo da una corte di bonzi che interpretano alla sua maniera il marxismo e la storia contemporanea. I contadini si vedevano obbligati a dare un consenso, una genuflessione davanti al ritratto del leader. Recentemente il camerata Chou En Lai, si congratulò pubblicamente con un giovane cinese perché si era sterilizzato volontariamente per servire alla Repubblica cinese.
Dice il cablogramma di Pechino:

Un contadino cinese che si era fatto sterilizzare per potere consacrare tutte le sue energie alla costruzione del socialismo in Cina, fu calorosamente congratulato in pubblico da Chou En Lai, narra il quindicinale
Gioventù Comunista, organo della Lega di Giovani Comunisti nel suo numero del 10 settembre.
Questo evento ha dato a tutto il mondo un eccellente esempio in quanto fu il marito che prese l'iniziativa. Questo esempio dovrebbe suscitare un gran esempio di emulazione, dichiarò Chou En Lai.

Se pensiamo al pensiero naturale che se il padre del camerata Chou En Lai avesse avuto questa idea, Chou En Lai non esisterebbe. È questo comunismo? È piuttosto un'adorazione religiosa, ridicola, superstiziosa, inaccettabile.
Compagni: ogni ferrovia, ogni ponte, edificio ogni, ogni aeroplano, ogni carabina, ogni strada moderna, ogni cooperativa agricola, fu strutturata nella Cina Popolare dagli ingegneri e dai tecnici sovietici. Quando stetti lì e passai alcuni giorni in un stabilimento balneare sul mare Giallo, in un solo hotel di quello stabilimento balneare riposavano due mila tecnici sovietici, generosamente prestati dallo Stato socialista.
Questo Stato i dirigenti cinesi accusano di non aiutare le crescenti forze del socialismo. Quelli che tutto devono accusano chi gli diede tutto.
Questi dirigenti inviano lettere a tutti gli intellettuali dell'America Latina incitandoli a collaborare nella divisione del mondo socialista. Questo incitamento può indurre a molti equivoci e può contribuire a debilitare i fronti nazionali di liberazione.

CINA E DUE CASI TRAGICI

Ma il culto della personalità arriva in Cina agli stessi tragici passi del passato. Solo parlando di quelli che conosco tra i miei compagni scrittori cinesi vado a raccontare che la prima figura del romanzo cinese, premio Lenin, ex presidente dell'Unione di Scrittori Cinesi, Tieng Lin è scomparso. Primo fu condannata a lavare piatti e dormire per terra in una comune popolare di lontani contadini. Quindi non sapemmo più nulla di lei. Io la conobbi moltissimo, dato che ella fu presidentessa della commissione designata dal Ministero della Cultura per ricevermi quando viaggiai a Pechino a consegnare il premio della Pace a Sun Chi Lin, Mme. Sun Yat Sen. Perché la condannarono? Trovarono che 25 anni fa aveva avuto amori con un sostenitore di Chiang Kai-shek. Sì, era la verità, ma non dicevano che la grande scrittrice, col suo bambino in braccio, scalza e con una carabina alla spalla, fece tutta la gran marcia da Yenán fino a Nankin coi guerriglieri del Partito Comunista cinese.
Ed al poeta Al Chin, quello che tutti i cileni conobbero, il migliore poeta della Cina, vecchio comunista, che visitò il Cile con occasione dei miei 50 anni, dove sta? Accusato di conservatorimo perché conosce la lingua francese, e per altre accuse ridicole, è stato confinato nel deserto di Gobi, ad un'altezza inumana, ed è stato obbligato a firmare i suoi poemi con un altro nome. Cioè, è stato fucilato moralmente.
Il dirigente cinese che mi dava questa informazione sorrideva con sorriso gelato.
Io non sorrido, compagni. Credo che il Partito Comunista della Cina riparerà questi errori nel futuro. Credo che la causa mondiale del socialismo conterà domani sull'efficacia, l'intelligenza, il dinamismo e la bontà che le tornerà a dare la Repubblica Popolare della Cina. Ma, perché attraversare questa tappa di disorientamento, di divisione, di persecuzione?
Se è verità che questi avvenimenti ci feriscono nel più profondo, abbiamo il dovere di rivelarli affinché non si diffonda negli intellettuali e nel paese la menzogna, condotta da una propaganda che piace ai nostri nemici.
I comunisti non accettiamo il terrore. Sotto il governo oppressivo del culto alla personalità si deformano tutte le idee e la dura oppressione fa confuse e tenebrose le idee che nacquero specificatamente per porre termine con la confusione e con le tenebre.

NON COMPRENDERANNO LA LEZIONE DELLA STORIA

Nel terreno internazionale il nostro partito, con l'immensa maggioranza dei partiti comunisti del mondo, sta al fianco dell'Unione Sovietica, della sua sorprendente missione di pace, che è riuscito ad ammanettare gli imperialisti che ci guidavano verso la guerra atomica. Sta al fianco dell'Unione Sovietica i cui successi, il cui dinamismo, la cui energia, la cui libertà, la cui serenità, sono la fonte inesauribile di tutti i movimenti popolari. Quelli che non vogliano imparare gli insegnamenti dati per 45 anni dalla Rivoluzione più grandiosa, non comprenderanno la lezione stessa della storia.
Solo tre mesi fa un gruppo di giovani mi chiese una pagina in omaggio ad un guerrigliero morto in un paese vicino. Questo ragazzo di 21 anni, luminosa personalità della poesia e della gioventù politica del suo paese, si lanciò alle montagne a fare solo la sua rivoluzione. Dopo due mesi di solitario eroismo la polizia spietata di quel paese lo trovò seminudo ed affamato, che conduceva da solo una piroga in mezzo alla corrente del fiume tropicale. Benché non portasse oramai nessuna arma lo crivellarono lungamente, con raffiche di mitragliatrice, anche dopo che il cadavere del valoroso ragazzo si era già dissanguato e andava l'imbarcazione alla deriva.
Io inviai il mio omaggio che si lesse senza dubbio davanti ai suoi amici, davanti alla gioventù di quel paese che perdeva con lui un giovane capitano del futuro. Ma io scrissi il mio omaggio con dolore e con ira. Dolore per quello che noi tutti perdiamo. Ira per quelli che lo assassinarono e anche contro quelli che non incanalarono in tempo la sua azione, affinché dirigesse la sua disubbidienza per la strada giusta.
Il partito di Luis Emilio Recabarren sostiene una lotta, una delle più eroiche lotte. Né la repressione infame, né i tentativi divisionisti, né l'aventurerismo senza principi né il destrismo conciliatorio, sono riusciti a diminuire la grandezza del nostro partito. Ma non siamo sperperatori del sangue del paese. In tutti i terreni ci troverà il nemico. Ci troverà organizzati, uniti e conoscitori della portata e l'opportunità della nostra azione. In questo momento segnaliamo come giusto il cammino di riunire tutte le volontà intorno alla vittoria popolare del 1964. Chi non sta con Allende non sta col paese. Chi tenti di dividerci e di separarci in questo momento cruciale dalla storia è perché vuole ostacolare la liberazione del Cile.

CONTRO I REAZIONARI INTERNI E GLI IMPERIALISTI ESTERNI

Noi comunisti alziamo la bandiera dell'unità, della liberazione, contro i nostri veri nemici: i reazionari interni e gli imperialisti esterni.
Coscienti, attivi ed organizzati, appoggiandoci alle chiare lezioni del passato e nello splendore futuro dell'umanità, daremo al Cile la vittoria che si merita il nostro paese maltrattato e meraviglioso. In nome di tali possibilità, delle lotte antiche, prossime e future, a nome della gloriosa e poderosa primavera del mondo, finisco chiedendo a quelli che non appartengano alle nostre file che entrino nel Partito Comunista del Cile. Vogliamo nuovi compagni, saremo ogni giorno più grandi, saremo grandi come grande è il destino dell'uomo: vivere pienamente nella pienezza della giustizia, della pace e della creazione.
Ho finito, cari compagni di ieri, di oggi, di sempre.

Discorso nel Parque Bustamante di Santiago, 29.9.1963,
edito in
El Siglo, Santiago, 30.9.1963,


Chi ammazzò Kennedy?

La moltitudine precipitandosi e spingendosi da qui a là, la notte, gli ululati, i pallidi visi, molta gente spaventata che tentava invano di uscire di lì, l'uomo attaccato, ancora non liberato delle mandibole della morte, già somigliante ad un cadavere, tutto questo, faceva da scenario alla grande tragedia dell'assassinio. Booth, l'assassino, vestito di nero, senza cappello, dai capelli nerissimi ed occhi di animale impazzito, lampeggianti risoluzione ha in una mano un largo coltello, si volge verso l'assemblea mostrando il suo viso di bellezza statuaria, illuminato da quegli occhi di basilisco che brillavano con disperazione e pazzia. Allora, con ferma e forte voce dice le parole SIC SEMPER TYRANNIS e poi sparisce con passi né rapidi né lenti. Non sembra che tutta questa scena terribile fosse stata provata prima dall'assassino?

Con queste parole Walt Whitman descrisse il 14 di aprile del 1879 a Filadelfia la morte violenta del grande presidente Abraham Lincoln. Il gran poeta era giornalista e stava lì, nel teatro, quando per la prima volta fu assassinato un presidente nordamericano. John Kennedy è il quarto presidente che cade distrutto quasi dalle stesse oscure correnti della storia, da furiose forze regressive.
Ma è corsa molta acqua sotto i ponti, da allora, e si vedono chiaramente le differenze in queste azioni sinistre. Si notano anche alcune somiglianze. La differenza è che il nemico di Lincoln si dirige verso la moltitudine e l'affronta, dicendo quello che crede la sua ragione. Adesso fu tutto premeditatamente confuso.
Si potrebbe dire che la stessa mano fece cadere insanguinati i due presidenti attraverso il tempo. Ma nel caso di Lincoln la mano si vide e nel caso di Kennedy la mano fu occultata.
Ma c'è anche somiglianza. Come dice Walt Whitman, in quello storico magnicidio c'è qualcosa di artificiale: egli lo dice "come se fosse stato provato il dramma terribile."
Non c’è oramai dubbio per nessuno. L'assassinio del presidente Kennedy che ha ferito l'umanità intera, fu pensato, progettato e provato. Dallas ha la triste specialità della violenza. Lì si fabbricano e prefabbricano crimini. Il giornalista Juan Ehrmann ci dice, nell'ultimo numero della rivista
Ercilla che nella città di Dallas, nel 1959, furono assassinate 1.094 persone e nel 1960, 1.080. Di quelle 1.080, solo circa 5 furono giustiziati per la via legale. Nella città di Dallas, con approssimativamente mezzo milione di abitanti, si assassina annualmente più gente che in Inghilterra, con 45 milioni. Fino a qui il giornalista.
Dallas è, inoltre, notoria per il suo razzismo, per la feroce persecuzione antioperaia, per il suo spirito reazionario e per la sua corrotta polizia.
In questo mattatoio portarono il giovane, sorridente e luminoso ragazzo, che, benché suprema autorità del suo paese, era negato ed apostrofato nella città dove lo portarono a morire. Affinché non sbagliassero le pallottole degli assassini, gli addetti di custodirlo non collocarono la copertura plastica protettrice dell'automobile in cui viaggiava. Perché fu dimenticata, in questa unica città, questa elementare precauzione?
Il maggiore dell'esercito in pensione, Eugene Lee, che vive a San Francisco, ricevè una lettera prima dell'attentato, scritta per un parente di lui che risiede a Dallas il cui nome non vuole rivelare, naturalmente, per non mettere la sua vita in pericolo. La lettera, pubblicata dalla stampa nordamericana, dice la cosa seguente:
"Siamo preoccupati per il presidente Kennedy, quando arriverà qui domani. Lo odiano alcuni estremisti che sono capaci di tutto". La lettera aggiungeva, riferendosi alla propaganda contro Kennedy: "Ci sono cartelli nella città che lo qualificano traditore. Subiamo lavaggio del cervello dai nostri giornali che attaccano giornalmente Washington, come se si trattasse di una sinistra potenza straniera. Credo che Kennedy sta qui in maggiore pericolo che quando viaggiava per tutta l'Europa".
Un altro documento: "L'odio degli estremisti di destra di Dallas contro il presidente Kennedy era tanto grande che il 20 di novembre - due giorni prima dell'assassinio - un studente di diciotto anni, di Dallas, scrisse a sua madre che temeva che Kennedy fosse assassinato se veniva a Dallas". La lettera dallo studente la pubblicò il
Quote Registers Unquote, giornale di New Haven, Connecticut, il 23 di quel mese.
Leggevamo solo ieri nella stampa il seguente dispaccio: "Il pastore protestante di Dallas, William Holmes, rivelò per televisione che gli alunni di una scuola pubblica applaudirono quando fu data loro la notizia dell'assassinio di Kennedy. La polizia protegge ora la residenza del pastore perché immediatamente ricevè anonime minacce di morte. Le dichiarazioni di Holmes furono confermate dalla maestra elementare Joanna Morgan, che disse che anche i suoi alunni avevano applaudito la notizia. Holmes, parlando alla televisione, delimitò con sensatezza: "Gli alunni che applaudirono erano troppo giovani per odiare in tale forma e riflettevano solo i punti di vista dei loro genitori".
Questo vuol dire che il seme dell'odio continua a germinare a Dallas. Non è bastato il crimine, né il dolore universale. Non è bastato che le forze tenebrose continuino ad occultare i veri autori. Non è bastato neanche l'assassinio di un presunto colpevole o di un presunto innocente. Quello, oltre a responsabilizzarlo, trovandosi a 6 chilometri di distanza dell'evento, gli furono aggiunte attività politiche. La mascherata sanguinante comprendeva di attribuire l'assassinio ad un castrista, ad un comunista, ad uno di sinistra, insomma.
I veri colpevole acquistarono, preventivamente, un fucile per corrispondenza, attribuendo l'acquisto a quello che avrebbero designato come assassino. Dopo, in qualche modo, lo ritrassero con un fucile simile. Ma, questo uomo mai si riconobbe colpevole. Quelli che fabbricarono le prove, non poterono fabbricare l'uomo.
Hitler, quando incendiò il Reichstag, victimizó al debole mentale Van der Lubbe. Lo drogarono ed in stato di annichilimento totale lo condannarono nei tribunali dove i nazisti furono sconfitti per il gigante Dimitrov. Tutto il mondo ricorda come i reazionari tedeschi forgiarono pezzo a pezzo quell'incendio per scatenare la crudeltà e la guerra sull’Europa ed il mondo.
I veri colpevole della morte del presidente Kennedy non sono stati ancora smascherati. Ma hanno camminato più di fretta che i nazisti. Eliminarono con velocità il presunto colpevole, prima che arrivasse ad essere sottoposto al giudizio. Questo giudizio risultava pericoloso perché sicuramente questo uomo non era quello che conveniva loro per mantenere la farsa.
Il mondo intero ha visto, stupefatto ed indignato, l'atroce fotografia del nuovo assassinio. Due poliziotti, imperterriti, sottomettono fermamente l'accusato affinché l'amico della polizia gli spari. Si vede la smorfia di dolore di chi non potrà mai più parlare e si vede la rivoltella di chi, fino ad ieri, riceveva le autorità del Texas nel suo cabaret di
strip-tease.
Nel frattempo, il cablogramma ci porta opinioni, come quella dell'esperto di Vienna, campione balistico di tiro con carabina, Huber Hammerer, che dicono che "è inverosimile che un tiratore equipaggiato con una carabina a ripetizione con teleobiettivo possa fare centro tre volte di seguito quando spara contro un obiettivo che si muove ad una distanza di 180 metri ed una velocità di 15 chilometri all’ora".
Volodia Teitelboim, nel suo discorso del 28 di novembre, nella Camera di Deputati del Cile, disse, tra altre verità meravigliosamente espresse: "Kennedy ebbe una vita chiara ed una morte oscura".
Ma, la morte oscura di un uomo eminente tra tutti, non può essere inaccettabile in questa ora del mondo.
Il vero omaggio alla vita di Kennedy sarà il chiarimento di questa oscurità che ha avvolto la sua morte.
Non può accettare la coscienza del mondo attuale fatti tanto deliberatamente tenebrosi.
Il signor Kennedy cercò di vincere i furibondi segregazionisti del sud degli Stati Uniti. Il signor Kennedy cercò di diminuire i giganteschi presupposti di guerra. Egli è caduto, senza dubbio, in quella battaglia. E benché fosse solo per quel motivo, meriterebbe la medaglia del gran ricordo, la medaglia del soldato che difese l'integrità e la verità.
Ma, questo giovane governante comprese molto presto, per i colpi che gli assestò la storia contemporanea, che esiste un mondo che produce, crede e si moltiplica sotto altre leggi che quelle del capitalismo che egli difese come capo del suo gran paese. Egli giunse alla conclusione che la comprensione umana è fondamentale. Sostenendo tesi completamente contrarie al marxismo, imparò a rispettare l'immensa umanità socialista. I suoi nemici interni, che riconobbero prima che nessuno i cambiamenti a cui la sua esperienza portava, compresero che il presidente Kennedy camminava direttamente nel senso della comprensione e della pace, e non sopportarono questo cambiamento. Essi avrebbero sostenuto un aggressivo capitalista, sempre di più dipendente del Pentagono, sempre di più lontano della necessaria coesistenza dei paesi.
Per questo motivo fu eliminato. Il senatore Luis Corvalán lo disse in una sola frase: "Kennedy fu ucciso dai discendenti degli assassini di Lincoln".
Ma questi discendenti feroci devono essere cercati e confrontati con la verità. Ci rifiutiamo di credere che una confabulazione di politici reazionari, di poliziotti e di gangsters, possa cancellare tutte le tracce, possa ostacolare il chiarimento di un fatto che tormenta e svergogna tutta l'umanità. Ci rifiutiamo di credere che la polizia di Dallas sia più forte della coscienza universale che chiede la punizione per i colpevoli.
È stato costante nella lunga storia del pensiero e del progresso che quelli che vogliono fermare la marcia del pensiero e del progresso, cerchino di attribuire i loro propri delitti a quelli che rappresentano e difendono lo sviluppo storico e lottano per il rinnovamento dei sistemi che invecchiano. Molte volte la falsificazione dei fatti è passata come verità: chi la perpetrava ha gettato la colpa sulla spalla delle sue vittime e le vittime, non i criminali, arrivarono al calvario. Così accadde nei tribunali nordamericani con Sacco ed Vanzetti.
Ma, questa volta, il mondo non si è divorato la menzogna, né sembra avere accettato la menzogna. Solo alcuni uomini mediocri e rancorosi, nel nostro paese, hanno preteso di ottenere vantaggi politici basati sulla confabulazione e sul sangue di Dallas. Tali ricorsi subalterne sono un insultoi per la grande tragedia che ha commosso il mondo e rivelano solo la meschinità di certi insensati.
L’importante è che questo crimine non fermi il corso delle migliori cause dell'umanità. Che continui il governo degli Stati Uniti a sostenere l'integrazione razziale, che finiscano le minacce contro la rivoluzione e l'indipendenza di Cuba, che progredisca l'accordo di sospensione degli esperimenti nucleari, fino ad eliminare totalmente il pericolo di una guerra atomica, che non si protegga la violenza e l'illegalità esistenti in Paraguay, Ecuador, Nicaragua, Honduras, Santo Domingo.
E che la convivenza pacifica tra i popoli che è favorita dall'Unione Sovietica e dalle nazioni socialiste sia tenuta di conto come l'unica strada per la fecondità e felicità del mondo in cui viviamo.

Testo di una dichiarazione diffusa per radio
e pubblicata in
El Siglo, Santiago, 1.12.1963.


II
TESTI DI AMORE E DI AMICIZIA

Un globo per Matilde

Un anno in più per la razza umana,
per la strada Prat, per mia zia,
un anno in più per La Sebastiana,
per dire "addio" o "ancora".

Un anno in più, picchiato per settimane
da Dio, il cardinale e la compagnia,
un anno in più, Patoja sovrana,
per la tua deficiente ortografia.

Ma non pe te, mio ben amata:
mi dai la luce e sei illuminata:
non ha un giorno in più il tuo mezzogiorno.

E benché perfino le stelle impallidiscono
con questo amore, gli anni non invecchiano;
hai un anno meno, anima mia.

Sonetto scritto in La Sebastiana. Valparaíso, 3.5.1963
(51° compleanno di Matilde) e stampato in fogli volanti da una
anonima stamperia di Valparaíso. Raccolto in FDV.p.58.


Prologo per Manuel Balbontín

Manuel Balbontín si dedica in questo libro, con amore e pazienza, a ricostruire un lampo. Il gran fulgore di corsa attraversò la notte coloniale, il suo passo lasciò la patria costellata per sempre.
L'autore di questo racconto ci rivela con passione minuziosa gli avvenimenti, la composizione, lo sviluppo e lo spazio del dramma che continua a commuovere. Onore a quelli che come lui, lavorano ristabilendo la luce!

Maggio, 1963

Prologo a Manuel G. Balbontín M,
Epopeya
de los hússares
, Santiago, Orbe, 1963.


Corona di inverno per Nazim Hikmet

Perché sei morto, Nazim? Ed ora che cosa faremo senza i tuoi canti? Dove troveremo la fonte? Dove starà il tuo gran sorriso, aspettandoci?
Che cosa facciamo senza la tua posizione, senza la tua tenerezza inflessibile?
Dove
trovare altri occhi che come quelli tuoi contengano il fuoco e l'acqua
della verità che esige, dell'angoscia che piange e dell'allegria coraggiosa?
Fratello, mi insegnasti tante cose che se le sfogliassi
nell'amaro vento del mare, a piene mani,
forse andrebbero via e cadrebbero come la neve là lontano,
nella terra che scegliesti nella vita, che ora ti accoglie
anche nella morte.
Un ramo di crisantemi dell'inverno del Cile,
la luna fredda del mese di giugno dei Mari del Sud
e qualcosa più: il combattimento dei popoli, del mio,
ed il raddoppio spento di un tamburo di lutto nella tua patria.
Fratello mio, soldato, quanto solitaria è la terra
per me d'ora in poi
senza il tuo viso che fioriva come un ciliegio
d’oro,
senza la tua amicizia che fu pane della mia bocca,
acqua della mia sete, forza per il mio sangue!
Dalle tue prigioni che furono come pozzi ombrosi,
pozzi della crudeltà, dell'errore e del dolore
ti vidi arrivare e spiai nelle tue mani l'orma
della punizione, nei tuoi occhi cercai la spina dell'odio,
ma quello che portavi era il tuo cuore raggiante,
il tuo cuore ferito portava solo luce.
Ed ora?, mi domando. Lasciami vedere, pensare,
immaginare il mondo senza il fiore che gli davi.
Immaginare la lotta senza che tu mi dimostri
la chiarezza del popolo e l'onore del poeta.
Grazie per quello che fosti e per il fuoco
che la tua canzone lasciò sempre per acceso.

Poema datato 8.5.1963, scritto in
memoria del poeta turco ed amico,
pubblicato in
El Siglo, Santiago, 9.6.1963


Addio a Zoilo Escobar
DESPEDIDA A ZOILO ESCOBAR. (Pagine 1178-1179.) Sullo stesso poeta, rimando alle pagine che Neruda gli dedica nelle sue memorie: "El vagabundo de Valparaíso", in CHV *, capitolo 3, pp. 81-92.

Ha smesso di battere il cuore più puro di Valparaíso. Come a tutti gli uomini, apriremo la terra che conserverà il suo corpo, ma questa terra sarà la terra che egli amò, terra delle colline del porto che egli cantò. Riposerà di fronte all'oceano le cui onde e venti fecero palpitare la sua poesia, come le vele di un vecchio vascello. Nessuna parola potrà coprire la sua assenza e, forse, qui non dovrei parlare io in questa ora per dirgli addio e rendergli omaggio, bensì la voce del mare, del mare di Valparaíso.
Zoilo fu un poeta del popolo, uscito del popolo stesso, e conservò sempre quella stampa di cantore antico, di uccello marino. Quella picaresca allegria che brillava nei suoi occhi era una birichinata di minatore, di pescatore. Le rughe del suo viso erano solchi della terra cilena, la sua poesia era una chitarra del Cile.
Due parole torneranno sempre quando si tenta di ricordare questa vita. Queste parole sono la
purezza e la povertà. Zoilo Escobar fu puro di solennità e povero con allegria. Ma in questo luogo dell'abbraccio finale dobbiamo lasciare stabilito che non accetteremo i poeti che vogliano giocare con queste due parole, tergiversando la sua vita di sognatore. Molti vorranno confondere la sua purezza con la sua povertà per giustificare l'abbandono del popolo. Non vogliamo la povertà né nei poeti né nei popoli, ed in questo Zoilo Escobar fu come come ogni vero poeta, un rivoluzionario. Fratello di Pezoa Véliz, la sua poesia si tinge di rosso al principio del secolo. Erano tempi anarchici in cui Baldomero Lillo creava il primo romanzo realista sociale del continente. Zoilo Escobar accompagnò l'evoluzione del mondo e cantò col suo stile fiorito le vittorie del socialismo nel mondo nascente.
Che posto occuperà Zoilo Escobar nella vita letteraria del nostro paese? Inutile domanda a cui nessuno può rispondere, né nessuno deve rispondere, ee non il vento dell'oceano. Non passò la sua vita difendendo a morsi il suo nome nel Parnaso. Invece, ci diede a tutti, da quando molto giovani lo conoscemmo, una lezione giornaliera di fraternità, di amicizia, di amore verso la vita, ci diede, dunque, una lunga lezione di poesia.
Questa insigne tenerezza sarà per me un perpetuo ricordo. Molti poeti che sparirono già godettero della bontà di nostro fratello maggiore, più antico nella bontà e nella poesia che noi. Sarebbe molto onore per me se quelli che già tacquero per sempre parlassero per la mia voce accomiatansosi da lui, ora che anche egli ha taciuto.
Io gli porto da Isla Negra questi rami di
aromo. Esse fiorirono di fronte al vento del mare, come i suoi sogni e la sua poesia.

Valparaíso, 1963

PNN,pp. 111-112.


RLV

Quasi negli stessi giorni dell'anno 1921 in cui io arrivavo a Santiago del Cile dal mio popolo, moriva in Messico il poeta Ramón López Velarde, poeta essenziale e supremo delle nostre ampie Americhe. Ovviamente io non seppi né che moriva né che fosse esistito. Allora ed adesso ci riempivamo la testa con l’ultimo che arrivava da oltre atlantico: molto di quello che leggevamo passò come fumo o vapore per il nostro carnivoro appetito, altre rivelazioni ci abbagliarono e col tempo sostennero la loro fermezza. Ma non si pensò di domandare niente al Messico. Niente più che l'eco delle sue rivoluzioni ci svegliava ancora con la sua esplosione. Non conoscevamo il singolare, il fiorito di quella terra sanguinante,
Moltissimi anni dopo mi toccò affittare la vecchia villa dei López Velarde, in Coyoacán, sulle rive del Distretto Federale del Messico. Qualcuno dei miei amici ricorderà quell'immensa casa, complesso in cui tutti i saloni erano invasi da scorpioni, si staccavano le travi attaccate da efficaci insetti ed affondavano le tavole dei piani come se si camminasse per una selva inumidita. Riuscii a rendere abitabili due o tre stanze e lì mi misi a vivere in piena atmosfera di López Velarde, la cui poesia cominciò ad trapassarmi.
La casa spettrale conservava ancora un retaggio dell'antico parco, colossali palme ed
ahuehuete, una piscina barocca, i cui resti fracassati non permettevano più acqua che quella della luna, e dappertutto statue di naiadi dell'anno 1910. Vagando per il giardino ci si trovava in posti inaspettati, guardando da dentro ad un chiosco che i rampicanti invadevano, o, semplicemente, come se andassimo con elegante passo verso la vecchia piscina senza acqua, a prendere il sole sulle sue rocce di muratura.
Allora sentii con ansietà non essere arrivato in tempo nella vita per avere conosciuto il poeta. Non so perchè mi sembra che l'avessi aiutato io a vivere, non so quando mai, quell'ombra che impregnava ancora gli ahuehuete. E andai anche decifrando la sua breve scrittura, le scarse pagine che scriveve nella sua breve vita e che fino ad ora,come molto poche, risplendono.
Non c'è poesia più distillata che la sua poesia. È andato di alambicco in alambicco distillando la goccia giusta di alcool di zagara, si è riposato in minuti matracci fino ad arrivare ad essere la perfezione della fragranza. È tale la sua indipendenza che rimane lì addormentata, come in un fiasco azzurro di farmacia, avvolta nella sua tranquillità e nel suo oblio. Ma al minore contatto sentiamo che continua intatta, attraverso gli anni, questa energia voltaica. E sentiamo che ci attraversò il bersaglio del cuore l'ineffabile mira di una freccia che portava nel suo volo l'aroma dei gelsomini che anche attraversò.
Deve sapersi, ugualmente, che questa poesia è commestibile, come torrone o marzapane, o dolci di villaggio, preparati con misteriosa accuratezza e la cui delizia scricchiola nei nostri denti golosi. Nessuna poesia ebbe prima o dopo tanta dolcezza, né fu tanto impastata con farine celestiali.
Ma sotto questa fragilità ci sono acqua e pietra eterna. Attenzione a non sbagliarsi. Attenzione a non supervalutare questo adornamento e questa squisita esattezza. Pochi poeti con tanto brevi parole ci hanno detto tanto, e tanto eternamente, della loro propria terra. Anche López Velarde fa storia.
Per quel tempo, quando Ramón López Velarde cantava e moriva, trepidava la vecchia terra. Galoppavano i centauri per imporre il pane agli affamati. Il petrolio attraeva i freddi filibustieri del Nord. Il Messico fu rubato e mozzato. Ma non fu vinto.
Il poeta lasciò queste attestazioni. Si vedranno nella sua opera come si vedono controluce le vene della pelle, senza tratti eccessivi: ma lì stanno. Sono la protesta del patriota che volle solo cantare. Ma questo poeta civile, quasi surrettizio, con le sue due o tre note del piano, con le sue due o tre lacrime vere, col suo purissimo patriottismo, completa così la statua dal cantore incancellabile.
È anche il più provinciale dei poeti, e conserva fino a nell'ultimo dei suoi versi incompiuti il silenzio, la patina di giardino nascosto di quelle case con muri bianchi di mattone crudo dalle quali emergono solo appuntite cime di albero. Da lì viene anche il liquido erotismo dalla sua poesia che circola in tutta la sua opera come sotterrata, avvolta dalla lunga estate, dalla castità diretta al peccato, per i letargici abbandoni di alcove dal soffitto alto in cui qualche insetto sonoro interrompe con le sue elitre il riposo del sognatore.
Seppi che dieci secoli fa, tra una guerra ed un'altra, i custodi della Corona Reale di una monarchia ora defunta, lasciarono cadere l'Oggetto Prezioso e rimase per sempre storta l'antica croce della Corona. Molto saggi, i vecchi re conservarono la croce storta sulla Corona folgorante di pietre preziose. E così non solo proseguì custodita, ma la croce storta passò ai blasoni e le bandiere: cioè, si fece stile.
In qualche modo mi ricorda questo antico episodio il modo poetico di López Velarde. Come se qualche volta avesse visto la scena di sbieco ed avesse conservato fedelmente una visione obliqua, una luce storta che dà a tutta la sua creazione tale inaspettata chiarezza.
Nella gran trilogia del modernismo è Ramón López Velarde il maestro finale, quello che mette il punto senza virgola. Un'epoca rumorosa è finita. I suoi grandi fratelli, l'abbondante Rubén Darío ed il lunatico Herrera y Reissig, hanno aperto le porte di un’America antiquata, hanno fatto circolare l'aria aperta, hanno riempito di cigni i parchi municipali, e di impaziente saggezza, tristezza, rimorso, pazzia ed intelligenza gli album delle signorine, album che da allora esplosero con quel carico pericoloso nei saloni.
Ma questa rivoluzione non è completa, se non consideriamo questo arcangelo finale che diede alla poesia americana un sapore ed una fragranza che durerà per sempre. Le sue brevi pagine raggiungono, in qualche modo sottile, l'eternità della poesia.

Isla Negra, agosto 1963

Prologo alla volume
Presencia de Ramón López
Velarde in Cile
, che include poesie e prose dello
scrittore messicano selezionate da Pablo Neriida,
Santiago, Prensas de la Editorial Universitaria, 1963.


Alberto Sánchez ossuto e ferreo
ALBERTO SÁNCHEZ HUESUDO Y FÉRREO. (Pagine 1183-1187.) Allo scultore spagnolo Neruda dedicò anche altri testi compresi in questo stesso volume: "El escultor Alberto" del 1936 (pp. 385-386) e "Soneto a Alberto Sánchez de Toledo" del 1960 (pp. 1050-1051). Ed inoltre il poema IX ("Alberto el Toledano") del libro postumo Elegía (nel nostro OCGC, vol. III, p. 761).

La morte di Alberto Sánchez a Mosca non solo mi portò il subitaneo dolore di perdere un grande fratello, ma mi causò perplessità. Tutto il mondo, pensai, meno Alberto.
Questo si spiega per l'opera e la persona che è stata per me il più straordinario scultore del nostro tempo.
Poco dopo degli anni venti, i primi venti del nostro secolo, comincia Alberto a produrre la sua scultura ferruginosa con pietra e ferro. Ma anche egli stesso, col suo lungo corpo debole ed il suo viso secco in cui appariva lo scheletro audace e poderoso, era una scultura naturale della Castiglia. Era esternamente questo grande Alberto Sánchez intero e pietroso, ossuto e ferreo, come uno di quelli scheletri forgiati dalle intemperie castigliane, intagliatp al sole e freddo.
Perciò la sua morte mi sembrò contraria alle leggi naturali. Era uno di quei prodotti duri della terra, un uomo minerale, conciato dalla sua nascita dalla natura. Mi sembrò sempre uno di quegli alberi altissimi della mia terra che si differenziano molto poco dal minerale andino. Era un albero Alberto Sánchez, e nell’alto aveva uccelli e parafulmini, ali per volare e magnetismo tempestuoso.
Questo non voleva dire che il nostro gigantesco scultore fosse un uomo monolitico, lastricato all'interno. Nella sua gioventù fu, per mestiere, operaio panettiere e, in realtà, aveva un cuore di pane, di farina di grano rumoroso. Certamente in molte delle sue sculture, come fece notare Picasso, si vedeva il panettiere: allungava le masse e le torceva, dando loro un movimento, una forma, un ritmo di pane. Popolare, come quelle figure che si fanno nei paesi della Spagna con forme di animali ed uccelli. Ma non solo la panetteria si mostrava nella sua opera. Quando vidi per la prima volta in casa di Rafael Alberti, l'anno 1934, le sue sculture, compresi che lì stava un gran rivelatore della Spagna. Quelle opere di forma ardentemente libera avevano incrostati pezzi di ferro, rugosi ciottoli, ossa e chiodi che spuntavano nell'epidermide dei suoi strani animali.
Pájaro de mi invención, ricordo che si chiamava uno dei suoi lavori. Lì brillavano questi frammenti strani, come se fossero parte della pelle irsuta della pianura. L'argilla o il cemento che formavano l'opera era rigata ed incrociata da linee e solchi come di seminagioni o visi campagnoli. E così, alla sua propria maniera, col suo stile singolare e grandioso ci dava l'immagine della sua terra che egli amò, comprese ed espresse come nessuno.
Alberto veniva molte volte a casa mia a Madrid, prima che si sposasse con l'ammirevole e caro Clara Sancha. Questo castigliano doveva sposarsi con una donna chiara e sanchesca. E così succedè fino ad ora in che Clarita è rimasta senza Alberto e senza la Spagna.
A quei tempi ed a Madrid, Alberto fece la sua prima esposizione. Solo un articolo compassionevole della critica ufficiale lo metteva nel retrobottega dell'incomprensione spagnola, nella quale, come in una cantina, si ammucchiavano tanti peccati. Per fortuna, Alberto aveva ferro e legno per sopportare quel disprezzo. Ma lo vidi impallidire e lo vidi anche piangere quando la borghesia di Madrid schernì la sua opera ed arrivò fino a sputare le sue sculture.
Venne quel pomeriggio al mio domicilio nella Casa dai Fiori e mi trovò a letto, malato. Mi raccontò gli oltraggi che giornalmente facevano alla sua esposizione. Il suo realismo fondamentale, che va oltre le forme, la violenza della sua rivoluzione plastica, alla quale sembravano incorporarsi tutti gli elementi, cominciando dalla terra ed il fuoco, il colossale potere, il sorprendente volo della sua concezione monumentale, tutto questo lo portava verso una forma apparentemente astratta, ma che era fermamente reale. Le sue donne erano altre donne, le sue stelle, stelle differenti, i suoi uccelli erano uccelli che egli inventava. Ognuna delle sue opere era un piccolo pianeta che cercava la sua orbita nello spazio illimitato del nostro pensiero e del nostro sentimento e che entrava in essi svegliando presenze sconosciute.
Creatore di favolosi oggetti che venivano formati misteriosamente, come le natura forma le vite, Alberto stava consegnandoci un mondo fatto dalle sue mani, mondo naturale e soprannaturale che io non solo compresi, ma mi aiutò a decifrare gli enigmi che ci circondano. Era naturale che la borghesia di Madrid reagisse violentemente contro di lui. Quelle genti indietro avevano codificato il realismo. La ripetizione di una forma, la brutta fotografia del sorriso e dei fiori, la limitazione ottusa che copia il tutto ed i dettagli, la morte dell'interpretazione, dell'immaginazione e della creazione erano la cima a cui era arrivata la cultura ufficiale dalla Spagna in quegli anni. Era naturale che il fascismo sorgesse lì vicino, inalberando anche le sue oscure limitazioni e le sue cornici di ferro per sottomettere l'uomo.
Quella volta mi alzai del mio letto di malato e corremmo alla sala deserta dell'esposizione. Solo noi due, Alberto ed io. La smontiamo molti giorni prima che dovesse terminare. Di lì andammo in una taverna a bere aspro vino di Valdepeñas. Già girava la guerra per le strade. Quel vino amaro fu interrotto per alcuni esplosioni lontane. Presto arrivò la guerra intera, e tutto fu esplosione.
Come contadino di Toledo, come panettiere e scultore, a fatica arrivò la guerra, Alberto diede tutto il suo sforzo e la sua passione alla battaglia antifascista. Chiamato dal suo grande amico, l'architetto Luis Lacasa, lo scultore Alberto con Picasso e con Miró fanno la trinità che decorò il padiglione della Spagna repubblicana del 1937 a Parigi. In quell'occasione vedemmo arrivare dalle mani di Picasso, appena uscita del suo forno incessante, un'opera maestra della pittura universale, il
Guernica. Ma Picasso rimaneva lungo tempo distratto guardando all'entrata dell'esposizione una specie di obelisco, una presenza allungatissima, striata e rigata come un cactus della California e che nella sua verticalità mostrava il centrale tema che perseguì sempre il nostro gran Alberto: il viso rugoso e lunario della Castiglia. Quel Chisciotte senza braccia e senza occhi era il ritratto della Spagna. Alzato verticalmente verso il combattimento con tutto il suo secco potere.
Giocandosi la fortuna con la sua patria, Alberto fu esiliato ed accolto a Mosca, e fino a questi giorni in che ci ha lasciato, lavorò lì con silenziosa profondità.
Primo si immerse, durante l'acerbo ultimo tempo di Stalin, nel realismo. Non era il realismo della moda sovietica, di quelli giorni tormentati. Ma egli fece splendide scenografie. La sua presentazione del Balletto degli Uccelli è una gran opera, ineguagliata, trovando egli la magica bellezza vestimentale degli uccelli che tanto amò. Riuscì anche a consegnare al Teatro Gitano splendide visioni per le opere del teatro spagnolo. E quella voce che sorge nel film Don Chisciotte, cantando alcuni vecchie canzoni che danno gran nobiltà a questo film straordinario, è la voce di Alberto, che continuerà a cantare lì per noi, è voce della nostra Chisciotte che se ne è andato.
Dipinse anche numerose opere. Non aveva mai dipinto all'olio in Spagna ed imparò a Mosca a farlo per completare il suo realismo. Si tratta di nature morte di gran purezza plastica, belle ed asciutte di materia, tenere nel suo apprezzamento degli umilissimi oggetti.
Questo realismo zurbaranesco in cui invece di monaci pallidi lasciò Alberto dipinti con esaltazione mistiche reste di agli, bicchieri di legno, bottiglioni che brillano nella nostalgia della luce spagnola. Queste nature morte sono l’apice della pittura reale, e qualche volta il Museo del Prato li ambirà.
Ma ho detto che quell'epoca trovò Alberto appena arrivato di Mosca e ricevuto in pieno confraternita ed affetto. Da allora, amò appassionatamente l'Unione Sovietica. Lì visse gli infortuni della guerra e la felicità della vittoria. Tuttavia, come quei fiumi che si seppelliscono nella sabbia di un grande deserto per sorgere di nuovo e sboccare nell'oceano, solo dopo il XX Congresso, Alberto ritornò a suo vera, alla sua trascendente creazione.
Lì rimangono nella sua officina del quartiere dell'Università di Mosca, dove viveva felice questi ultimi anni, lavorando e cantando, molte opere e molti progetti. Costituiscono il suo reincontro con la sua propria verità e col mondo che questo gran artista universale contribuì a creare. Un mondo in cui le più aspre materie si alzano verso l'altezza infinita per l’arte di uno straordinario spirito inventore. Le opere di Alberto Sánchez, severo e grandioso, nate dell'intensa comunicazione tra un uomo e la sua patria, creature dell'amore straordinario tra un grande essere umano ed una terra poderosa, rimarranno nella storia della cultura come monumenti eretti da una vita che si consumò cercando l'espressione più alta e più vera del nostro tempo.

Testo scritto in omaggio all'artista spagnolo
deceduto a Mosca il 12 ottobre 1963. Pubblicato
in
Realidad, organo dei comunisti spagnoli
nell'esilio, num. 1, Roma, settembre-ottobre 1963.


L'uomo più importante del mio paese
EL HOMBRE MÁS IMPORTANTE DE MI PAÍS. (Pagine 1187-1190.) L'affetto e l'ammirazione di Neruda verso il professore Lipschütz erano state già espresse in un articolo del 1944 compreso in questo volume (pp. 532-535).

L'uomo più importante del mio paese vive in una vecchia casa che affronta la grande cordigliera. Dal fondo del suo giardino normalmente siede a contemplare gli immensi muri di pietra innevata che c'isolano, facendo danno, e ci preservano, facendoci bene. Si vede molto fragile il mio amico, con lo sguardo sistemato nella colossale bianchezza, e la sua testa e la sua barba bianca sembrano un piccolo petalo caduto dalla grandezza della neve.
Ma, benché nordico originario, ha poco o niente a che vedere questo grande uomo fragile con la neve. Piuttosto potrebbe cercarsi parentela col fuoco. Questo paragone sembrerebbe semplicista e, naturalmente, è solo la parziale somiglianza di un'anima tanto abbondante. Egli ha, in realtà, la condizione del fuoco quando distrugge e fa cenerini pregiudizi, ingiustizie e confabulazioni, per più antiche di esse siano. La ricerca, la punisce, la brucia, ne fa cener. In questo somiglia al fuoco, ha quella scoppiettante energia.
Il fuoco è impaziente, divora senza continuità. Si allontana, ballando, della sua propria opera. Ma il nostro amico, nella sua vecchia casa di Los Guindos, non solo riduce a cenere la sciocchezza e la menzogna, ma stabilisce anche la verità cristallina costruendola con tutti i materiali della conoscenza. Sebbene è un impaziente nemico della falsità è anche il più testardo investigatore della ragione.
Per me, il suo umile vicino delle prossimità della montagna innevata, paraggio nel quale conviviamo da molti anni, fu sempre la mia sorprendente ammirazione e la rivelazione successiva della grandezza e la bellezza. Pensiamo sempre noi bambini provinciali che i saggi avevano scarpe di bronzo, guanti di marmo, e pesante contesto di statue. I saggi, per noi i bambini tonti, avevano pensieri di pietra. E come tonti che eravamo crescemmo ammirando falsi saggi di pietra che accumularono pesanti e ripetuti pensieri. Il mio vicino mi diede la sorpresa dell'eterna scoperta, del continuo fiorire, dell'incessante curiosità, della giustiziera passione, della perpetua allegria della conoscenza.
Ricordo una volta, ed era tardi, e dalle alte Ande erano cadute coprendo le nostre vicine stanze le tenebre fredde dell'inverno del Cile. Quello giorno io avevo visto il mio amico nel suo laboratorio ed avevo sopportato il tormento che mi mostrasse uno ad uno tumori e provette, cifre ormonali, lavagne piene di numeri: tutti gli elementi della sua lotta fruttifera col cancro che è, nei nostri giorni, la lotta contro il demonio. Non c'è dubbio che là stava come un arcangelo bianco combattendo con la sua spada incomprensibile contro le tenebre dell'organismo umano.
All'improvviso suonò il telefono, nella notte. Era la sua voce che mi diceva, scusandosi con l'estrema cortesia che è lo scudo della sua nobile audacia: "Non posso, Pablo, resistere. Devo trasmettere questa meravigliosa poesia" e per quindici minuti, faticosamente, mi tradusse verso per verso, pagine e pagine di Lucrecio. La sua voce si alzava con l'entusiasmo. In realtà, la splendida essenza materialista mi sembrò flagrante, istantanea, come se dalla casa di Los Guindos la più antica saggezza e poesia illuminassero, nell'ombra della mia ignoranza, l'alba nucleare, il risveglio dell'atomo.
Per poi mandarmi, poco dopo, versi burleschi e fiori del suo giardino che io retribuii anche con poesia e fiori, si appassionò per la recondita storia dell'America. Questo lottatore inespugnabile si preoccupa prontamente di Gonzalo Guerriero, marinaio di Palos, che si appassionò alla vita dei maya in piena guerra imperiale, come delle vecchie tribù araucane, della sua condizione e precarie protezioni legali. Ognuno dei suoi lavori non solo difende, accusa, è dundamento, ma propone tutte le norme della futura considerazione degli incrociati problemi indigeni e delle sue derivazioni filosofiche, razziali, sociali e politiche.
E poetiche io direi. C'è tale intensità nel minuzioso progetto di tutte le sue tesi, proposte, schiarimenti e verità che ci comunica la sua generosità, che trema la terra, nonostante le sue misurate parole. Perché ognuna delle sue azioni ha radici indistruttibili. È il gran illuminatore marxista di regioni oscurate della nostra storia, oscurate dalla loquacità senza sostanza o dall'interessata viltà. Pertanto, le sue parole svegliano, come le rivelazioni poetiche, la contro onda del furore, la sterile schiuma reazionaria. Su quelle ondosità del passato, il nostro inestinguibile amico lavora a piena coscienza dandoci tanta luce che siamo ancora incapaci di misurarla.
L'uomo più importante del Cile non comandò mai reggimenti, non esercitò mai un ministero, non comandò, ma fu comandato in un'università di provincia. Tuttavia, per la nostra coscienza, egli è un generale del pensiero, un ministro della creazione nazionale, il rettore dell'università del futuro.
Il più universale dei cileni nacque lontano da queste terre, da queste genti, da queste cordigliere. Ma ci ha insegnato più che milioni di quelli che qui nacquero: ci ha insegnato non solo scienza universale, metodo sistematico, disciplina dell'intelligenza, devozione per la pace. Ci ha insegnato la verità della nostra origine mostrandoci la strada nazionale della coscienza. E la sua saggezza ci rivela che l'esattezza, la pienezza e la passione possono convivere con la giustizia e l'allegria.
L'uomo più importante del mio paese in questi anni in cui scrivo è Don Alejandro Lipschütz, vicino de Los Guindos, sobborgo di Santiago del Cile. In questi giorni compie ottanta anni di vita e mi sento orgoglioso di lasciare qui questo debole ritratto scritto di un'anima ardente, di un saggio vero. Il mio orgoglio è, inoltre, dire qui che benché non ci vediamo quasi mai da quando io venni a vivere alla mia Isla Negra, continuiamo ad essere i semplici amici che si scambiano da casa a casa ritrovamenti nuovi, fiori e poesia.

Prologo ad Alejandro Lipschülz, El
problema racial en la conquista de
América y el mestizaje
, Santiago, Ed. Austral, 1963


Saluuuuuto! Diego Muñoz
SALUUUUUD! A DIEGO MUÑOZ. (Pagine 1190-1191.) Informazioni di gran interesse su alcuni aspetti della vita santiaghena del giovane Neruda nel libro postumo del suo amico Diego Muñoz: Memorias. Recuerdos de la bohemia nerudiana, Santiago, Mosquito Editores, 1999.

I due piccoli libri più affascinanti della nostra letteratura sono, sicuramente, La amortajada di María Luisa Bombal e De repente di Diego Muñoz.
Sono lontani uno dell'altro come due poli. L'uno è polarmente sognatore, l'altro è antarticamente reale. Ma in ambedue può viversi e sognare, essere e smettere di essere. I due sono una caduta, una cascata, un abisso nel cui fondo cadremo con gli occhi chiusi per trovarci con noi stessi.
Queste pagine sono la cronologia di settimane, di quartieri della città, di gruppi umani che oramai non esistono. Io comprendo che questo libro magico abbia contribuito a distruggerli. Tanto essenziale mi sembra lo sconquassamento che regna in lui come protagonista profondo. I suoi segni rapidi, i suoi giorni cabalistici, ci sono dimostrati atti inutili, lente dissoluzioni, conversazioni perdute.
Ma io conobbi quell'epoca, quei vicoli e la luce che riverberando dalle mani di Diego illumina queste vite come una lampada sottomarina. Io toccai queste vite, e non diedi loro importanza. Solo l'infinita poesia con cui lo scrittore me li rivelava che mi fece comprendere che non tutti possono vedere il tesoro passivo. Bisogna sviscerarlo e dargli il suo vero colore di cenere. In questa maniera Diego Muñoz produsse questo splendido fiore cresciuto nei sobborghi del mio tempo.
Pubblicato nel mese di ottobre del 1933, questo è stato il più inosservato dei libri. Critici e criticoni della disimpenata letteratura pubblicano con efficienza grandi e funesti cataloghi in cui appaiono, bene o male giudicati, quelli che ci raccontano la vita, la terra, il tempo e la morte di quanto ci circonda. Ma nessuno nominò questo piccolissimo libro che a me sembra gigantesco.
Ho la preoccupazione che mi prendano per uomo di parte. In ogni caso non fui dalla parte dell'ingiustizia, né accettai posto alcuno nell'esercito negativo degli invidiosi. Il bello è amare ed ammirare e tanto quanto amo il mio compagno fraterno, Diego Muñoz, per tanta vita e percorsi che facemmo insieme con allegria, ammiro questa opera singolare, singolare anche tra tutto quello che ha fatto.
Che cosa possono importare a queste pagine alcuni anni di proscrizione, alcuni guerre della dimenticanza? Non c'è dubbio che usciranno invincibili dalla loro sepoltura, con tre stelle nella fronte. Ed occuperanno con calma il posto preferito, perché il tempo non farà altro che aggiungere attenzione e lodi alla sua spietata grandezza.
Io compio il mio dovere di riporre nella predilezione di molti quello che fu sempre tranquilla predilezione tra le mie letture. Compiuto questo dovere grido a Diego Muñoz dalla collina: SALUUUUTE! A LUNGOOO! EVVIVA LA VITAAAA! E continuo a camminare fino a perdermi nella sabbia.

Isla Negra, primavera, 1963

Prologo a Diego Muñoz,
De repente,
2.a edizione, Santiago, Orbe, 1964.


Miguel Otero Silva ed i suoi romanzi

Passai per Ortiz in un giorno bruciante. Il sole venezuelano picchiava duro sulla terra. Vicino alla chiesa in rovine, avevano legato con un filo di ferro grosso la vecchia campana, che tante volte ascoltarono i morti ed i vivi, le cui vite e morti ci racconta Miguel Otero Silva. Non so perché figurava ancora nella mappa quello villaggio, quelle case morte. Un gran silenzio ed il duro sole era tutto quello che esisteva. E la vecchia campana sospesa al sole ed al silenzio.
Non passai mai per
Oficina n.° 1, ma sono sicuro che la vita indiavolata, il costante movimento, le forze che credono e quelle che distruggono, la società umana che per la prima volta si riconosce e lotta, tutto questo proseguirà vivo, come nel libro. Perché questo libro contiene, nella sua desolazione e nella sua vitalità, la realtà caotica del continente latinoamericano. E, naturalmente, è una fotografia straziante e poetica dello scheletro e dell'anima del Venezuela.
L'autore appartiene ad una giovane generazione di venezuelani che, da quando nacquero, impararono a vivere inquieti. Una gran ombra tirannica, una graduale e violenta egemonia del terrore scese dalle grandi montagne venezuelane e coprì fino agli ultimi angoli: famiglie intere erano trascinate nella prigione. I campi ed i villaggi erano decimati dalla malaria e dalla miseria. In Ortiz, tra le case morte di quello villaggio che agonizzava, si vedono arrivare catene di carcerati politici che attraversano il silenzio verso un'altra direzione misteriosa, che era anche la direzione della morte.
Quello che non dice Miguel Otero Silva è che egli passò per quelle strade ed attraversò quel silenzio maligno con catene nelle caviglie verso le prigioni di Gómez. Allora aveva l'autore 15 o 16 anni.
Quello che non dice l'autore è che egli, già maggiore di età, imprenditore ed appassionato, visse molti
Oficina n.° 1, molti paesi che sorsero dal petrolio, molti germogli e crescite della nostra sorprendente vita di continente che continua a nascere. Poeta popolare, cuore generoso, integrale patriota venezuelano, non c’è rissa di galli né sindacato che non abbiano visto la sua figura, non c'è assito popolare che non l'abbia sostenuto ballando, meglio che nessuno, il joropo, non è rinnovamento del suo paese né sonno di liberazione della sua patria che non sia stata covato, cresciuto, in Otero Silva.
Per noi americani dell'estremo meridionale dell'America quieta e fredda, solo percossa dalle commozioni telluriche, il Venezuela fu una pietra misteriosa, pietra che pesava sul cuore di tutti gli americani. Dopo quello tiranno che con quaranta anni di regno se ne andò tranquillamente alla tomba, lasciando ancora le prigioni piene, accaddero cose inaspettate. Un nobile poeta, Andrés Eloy Bianco, un tanto ubriaco per la disabituata aria della libertà, propose di raccogliere i grilli e le catene che formavano l'unica legge del Tiranno delle Ande. In effetti, riunirono quei ferri che insieme facevano una montagna, e tra discorsi lirici, li gettarono in mare.
Quei giovani ignari della storia, quando vollero soffocare nella dimenticanza le tonnellate del supplizio, credettero che avrebbero seppellito i dolori del Venezuela. Ma non è stato così.
Col petrolio e gli stabilimenti nordamericani, non solo sorse la vita tumultuosa descritta in questo libro, bensì una nuova casta di governanti: i seguaci di betancour. Questi applicarono per il loro paese i decreti delle compagnie del petrolio, si fecero strumento dell'avidità straniera. Minacciarono, travolsero e spararono sulle masse che reclamavano nuovi diritti. E quando la stella di Cuba brillò come nessuna nel cielo tormentato dei Caraibi, i seguaci di betancour si allearono con gli interessi del petrolio per bloccare e tradire la pulita rivoluzione dell'isola gemella.
Si vede che, invece di gettare nel mare i ceppi, li avrebbero dovuti conservare come montagna dei ricordi, come monumento sempre presente.
L'autore di questo libro è, meglio di niente, un vero ed essenziale poeta. I suoi versi hanno percorso l'estensione della lingua spagnola e li sentii recitare, non solo negli atenei e nelle accademie, ma anche nelle grandi riunioni operaie, in giornate di lotta, in giorni di allegria o in pomeriggi di tenebre. La sua trasparente poesia gli dà un dominio che abbraccia tutto il regno degli esseri umani: nomina e descrive gli strani fiori e piante del territorio venezuelano con la stessa chiarezza con cui definisce gli atti e le inclinazioni della gente semplice e nascosta che ci va scoprendo.
Queste regioni e questi esseri sono divisi implacabilmente tra l'agonia e la salute, tra il passato e speranza, tra il danno e la verità.
Sembrerebbe schematico, sembrerebbe solo tratto di luce ed ombra, ma questa divisione esiste. Questa cicatrice segna crudelmente il viso abbagliante e doloroso della repubblica venezuelana. Ed in questo libro è rivelata l'origine di questi mali, con tenerezza, a volte, e con realtà spietata, in altre occasioni.
Miguel Otero Silva ci sommerge nel suo mondo, mostrandoci la testa o croce della terra drammatica.
INVIO. Abituato ad una vita di compagni ed alla profonda milizia dell'amicizia, rimpiango, all'improvviso, gli assenti. Non nel loro insieme, non in quello che occupano dello spazio. No, bensì un tratto, qualcosa che rimase persistendo nell'aria, nel vuoto dell'assenza.
Di Miguel Otero Silva rimpiango a volte e, violentemente, la sua risata. Le due migliori risate dell'America sono quelle del poeta andaluso Rafael Alberti, divertente esiliato, e quella di Miguel. Rafael continua a covare la risata, continua a suscitarla fino a che, irresistibile, lo scuote tutto il corpo, comprendendo quello che prima fu la sua riccia chioma. Miguel, al contrario, ride in una sola volta, con una risata interiettiva che, salendo molto in alto, non perde la sua larghezza e rauco tono. È una risata che va di dosso in dosso nelle altezze del suo Venezuela natale, e di strada in strada quando insieme percorriamo l'esteso mondo. È una risata che proclama per i passanti il diritto alla grazia, alla libertà dell'allegria, anche nelle circostanze più ingarbugliate.
Su questo libro tanto serio, tanto bello e tanto rivelatore, vedo alzarsi la risata di Miguel Otero Silva, come se dalle sue pagine si alzasse il volo un uccello libero e alto.

Prologo all'edizione ceca di Miguel Otero Silva,
Casas muertas. Oficina n.° 1, Praga, 1963.





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