Pablo Neruda e Insetti


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L'uva e il vento (4)

1954 - L'UVA E IL VENTO

XX
L’ANGELO DEL COMITATO CENTRALE

I
L’ANGELO CUSTODE

Nella mia casa, di bambino, mi dissero,
“Ascolta. C’è un angelo
che sta con te e ti difende:
un angelo custode”.

Io crebbi, afflitto, nei nascondigli.
E il pianto accumulato fu lasciato
cadere goccia a goccia nella mia scrittura.

Adolescente passai di pericolo in pericolo,
di notte in notte, con la mia propria spada
difendendo il mio pane e la mia poesia,
tagliando il posto della strada oscura
che dovevo attraversare, accumulando
la mia solitaria forza nel vuoto.

Chi non arrivò alla mia porta a rompere qualcosa?
Chi non mi vesti di corrosiva lava?
Chi non portò una pietra velenosa
alla velocità della mia esistenza?

Il proprietario mi espulse iracondo.
L’elegante disdegnò il mio volto.
E dalla sua letterina messicana,
o da cenerini sillabari,
malevoli barbuti, mercanti
di rose morte, poeti
senza poesia, fecero scivolare inchiostro
conto la mia combattente capigliatura.
Aprirono pozzi di anima paludosa
perché io cadessi nei loro denti,
incoronarono il mio canto con coltelli,
ma non volli fuggire, né difendermi:
cantai, cantai riempiendomi di stelle,
cantai senza nessuno che mi difendesse,
fuorchè all’acciaio azzurro del mio canto.

II
ALLORA TI NASCONDEVI

E dove stavi, angelo custode?
Eri tu l’abitazione con spine
in cui dovetti dormire? Eri la tavola
della povertà che mi preparavano?
Eri l’odio, fil di ferro interminabile
che ebbi da tagliare, o forse eri
la miseria delle esseri sfortunati,
quello che io incontrai nelle strade,
nelle città, nelle buche
degli abbandonati? Ah, fosti invisibile,
dal momento che soltanto a colpi di sfortuna,
soltanto rompendo porte inumane,
vidi crescere nella mia voce tutte le voci,
e uscii tra le vite al combattimento.

III
IO USCII DALLA MIA PATRIA

Attraversai le cordigliere a cavallo.

Un tirannello, un ballerino vendette
la mia patria con metalli e minatori,
e riempiva di muri e prigioni
il recinto occupato dall’alba.
Uscii per le gole graffiate
dalla natura, galoppando
sotto un silenzio di boschi oscuri.
Improvvisamente le gelate colombaie
del ghiacciaio gettavano forza,
piume glaciali, puro potere:
improvvisamente terra e alberi si fecero
aspra avversità e cicatrici,
dighe d’improvviso legno,
impenetrabile densità tessuta
come una cattedrale, tra le foglie,
o titanico sale scivoloso,
o sdentata cintura di pietra.

Ancor più, scesi improvvisamente
la terra verticale, e i cavalieri
aprivano con le loro scuri il cammino
dove attendeva il dio vertiginoso
di un nuovo fiume straripando spade,
gettando la sua musica segreta
sopra l’ostilità dei folti alberi.

IV
PRIMA APPARIZIONE DELL’ANGELO

Lì attraversando il fiume,
quando le acque sottomettevano
l’azione delle cavalcature,
e improvvisamente una raffica entrava
come una freccia nella mia gola,
quando inciampava la bestia
ed erano le acque al mio fianco
un torrenziale colpo di aghi,
e la cataratta attendeva
come un lampo nelle pietre,
li guardai dietro di me,
e senza radermi, grinzoso,
con una pistola ed un
lazo
vidi per la prima volta l’angelo.
Andava a prendendosi cura di me l’angelo,
andava senza ali vicino a me
l’angelo del Comitato Centrale.

V
L’ANGELO SOLIDALE

Continuava a difendersi dunque
dall’aria indomabile, dal fiume,
dalle pietre uraganate
e dall’asprezza spinosa.
Continuava a difendermi, l’angelo,
dalla muta di cani che mi odiava,
da quelli che aspettavano ululando
il mio sangue nelle strade del crimine.

VI
L’ANGELO DELLA
PAMPAS

Oh luna smisurata, nelle praterie,
oh sole azzurro sopra tutto lo spazio,
pampa di solitudine, stella diritta
estesa in enormi dimensioni.

Erba argentina, terra interminabile,
odore di cielo cerale, cammino
fatto di tutti i cammini, ampia
primavera senza palpebre, pianura.

Io stetti da cima a fondo, trepidando
nella velocità, attraversando il giorno
e la notte nuda del pianeta.

E lì perduto nella distanza, quando
lo struzzo errante o la colomba
della terra selvaggia apparvero,
quando fatica e solitudine riempirono
la coppa trasparente della
pampa,
quando potei sentirmi abbandonato e ultimo,
quando fui soltanto assenza, sonno, sudore e polvere,
verso la libertà con gli occhi aperti,
con altro volto,
legate le mani al volante,
senza sonno e sorridente attraverso la notte,
lì stava nuovamente, lì
stava difendendo la mia fatica:
non so come si chiama, talvolta López,
talvolta Ibieta, l’angelo
del Comitato Centrale.

VII
L’ANGELO DEI FIUMI

Saprai forse che tra i fiumi ferrei
d’America passai. Lo sviluppo
del Paranà mi ricevette tremando.
Era la sua lentezza come la luna
che straripa sopra le praterie
ed era popolato da segrete labbra
che baciavano la sua attitudine selvaggia.

Fiumi territoriali, figli rossi
delle tenebre umide d’America,
io venni alle vostre acque, al sangue
che notte e giorno a combattere sabbie
trasporta il vostro nome numeroso,
io fui un ramo equatoriale, un pezzo
della tua terra, di fluviale fogliame.

Le antiche acque mi raccontarono tutta
la loro cantata di sangue paraguaiano
e di Asunción la torre del martirio:
come cambia di tigre lo spessore,
come il petrolio macchia lo stendardo
e come olio e fango si distribuiscono
sopra i poveri morti della patria.

E il fiume mi raccontò quello che i morti
dicono parlando dalle radici,
chiedendo aiuto ancora dalla morte,
sostenendo bandiere seppellite
mentre gli stranieri del petrolio
devono con il carnefice nel palazzo.

L’ tra fiumi ti incontrai, le acque
ancora andavano dentro il mio proprio sangue
enumerando pagine del bosco,
e lì, angelo nuovo, stavi nel fondo
dell’America
e senza riconoscerti, “Compagno
angelo, sei tu?” ti dissi,
e larghe terre, frumenti, minacce,
onde e pini camminavamo insieme
finché anch’io sopra i mari
chiusi gli occhi e volai addormentato.

VIII
L’ANGELO DELLA POESIA

Unione Sovietica, fiorisci
con altri fiori che nella terra
non hanno ancora nome.

La tua fermezza è il fiore dell’alba dell’acciaio.

È la tua fratellanza il fiore del pane fragrante.
È il tuo invero il fiore in cui la neve
illumina l’amore senza minaccia.
Io percorsi la terra in cui Pushkin ritornava
per elevare nel suo canto la luce dei cristalli,
e vidi come il suo popolo sollevava
questa costellazione sopra le mani
abituate a alzare il frumento.

Pushkin, tu fosti l’angelo
del Comitato Centrale!
Con te visitai rovine sacre
in cui i soldati del tuo popolo
difesero le sillabe della tua anima.

Con te vidi crescere dalle macerie
il gigantesco volo della vita,
le ruote del trattore verso l’autunno,
nuove città piene di suoni,
aeroplani gialli come api.

E quando entrai nel museo o nella casa,
nella fabbrica, nel fiume che ti segue cantando,
o quando nella città di Lenin vidi cancellate
le cicatrici del martirio venerabile,
oh compagno trasparente, eri
arrivato al mio cuore dandomi tutta
la orgogliosa statura della tua patria.

Lì, infine, un angelo non portava altra arma
che un ramo cristallino di lampi
e lui e tutta la terra difendevano
le sillabe erranti del mio canto.

Lì perfino la pace mi proteggeva.

E Pushkin mi diceva: “Vieni con me
fino a Novosibirsk, là nelle terre
desertiche, abitate
un tempo da solitudine e da dolori,
oggi la bandiera della mia voce passeggia
sopra le costruzioni orgogliose”.

Angelo, volevi che tutta la tua terra,
fosse visitata, toccando le spighe,
enumerando fabbriche e scuole,
conversando con bambini e soldati.

IXANGELO VYKA

Angelo irsuto della Polonia, Vyka,
desidero farti queste domande:
attraversando tutta la vita
del tuo paese, lo splendore ardente
del ferro domato in Katowicz,
i campi di grano che estendono la loro ondulata allegria
sopra tutta la terra, le processioni
del medioevale cattolicesimo, il fumo
del territorio del carbone, l’aria
di Cracovia, aria di libro secco,
il Baltico un’altra volta spingendo le sue bianche
ali e onde tra nuove gru,
il mattone impastato con la polvere
della infinita distruzione salendo
un’altra volta nel cielo di Varsavia,
e il metallico odore dei pini sopra
i laghi masuri, testimoni trasparenti
della carneficina,
e di villaggio in villaggio
sopra la distrutta architettura
l’uomo ha recuperato la bellezza
della tua terra, riempiendo con semi
della sua resurrezione tutto il silenzio.
Questa fecondità insperata
fino a ieri, questo latte trasmesso
di bocca in bocca come un nuovo segno,
e questa terra che canta e si ripartisce
senza fuggire come l’acqua, bensì
concedendo metalli e granai,
dimmi, angelo Vyka, tu che accompagnasti
con distratto cuore i miei passi,
che cosa hai, che cosa abbiamo da nascondere,
perché vogliamo rinnegare queste regioni,
questi raccolti, questo miele semplice,
perché vogliamo cancellare questa grandezza
e rifiutare questa vittoria umana?
Tu fosti ogni giorno il silenzioso
angelo amico di stirpe oscura,
solo perché il bosco proteggesse
i minimi piccioli delle sue fragole
per te compagno di altri mari,
o la rotonda chiocciola entrasse
nella mia tenerezza di naturalista,
e così tra sabbie e pini o tra
marittimi di Gdansk o tra motori
tutta la patria aperta mi mostrasti
illuminata come un sorriso.

X
ANGELO OH COMPAGNO

Guerriero solitario, angelo di tutte
le latitudini, appari
forse nelle ombrose cavità
della miniera, quando la repressione e la fatica
vanno a piegare le tue braccia, e alzi
le tue ali minerali come scudo.

È in quella ombra tra i paesi
quando il tuo volo organizzato incrocia
le difficili terre della spina,
le metalliche ali della morte.
Compagno, tu aspetti quello che soccombe,
tu aspetti quello che prenota
la sua energia, quello che fugge dal pericolo
e quello che volge al pericolo. Stai in mezzo
al tempo tempestoso, alla collera
con cappello logoro, rassomigliate
a tutto il mondo, con le falde pronte
sotto la luce comune di una povera giacchetta.
Eri tu l’unità di questi destini.

Sopra tutta le terra stai volando.
Nessuno ti riconosce tranne quelli
che anche leggono nella notte oscura
la raggiante scrittura di domani.
Senza vederti molti uomini
vicino a te passeranno, vicino allo spigolo
in cui appoggiato a un muro sarai strada
o albero senza nome nel bosco umano.

Ma quello che viene a te sa che esisti.
E quello, dietro ai tuoi comuni occhi,
indovina la spada dei popoli.

Ebbene in piena luce nelle regioni
liberate dell’Est ci accogli tutti,
non come esiliati, ma sorridente
per darci
la pace, e il pane, le chiavi
della terra.


XVI
MEMORIALE DI QUESTI ANNI

I
VENNE LA MORTE DI PAUL

In questi giorni ricevetti la morte
di Paul Eluard.
Ahi, la piccola busta
del telegramma.
Sbarrai gli occhi, era
la sua morte, alcune lettere,
e un gran vuoto bianco.

Così è la morte. Così
venne attraverso l’aria
la freccia della sua morte
a trapassare le mia dita
e ferirmi come spina
di una rosa terribile.

Eroe o pane, non ricordo
se la sua pazza dolcezza
fu quella dell’incoronato vincitore
o fu soltanto il miele che si divide.
Io ricordo
i suoi occhi,
gocce di quell’oceano celeste,
fiori di azzurro ciliegio,
antica primavera.

Quante cose
camminano per la terra e per il tempo,
fino a formare un uomo.
Pioggia,
uccelli litoranei il cui grido
rauco risuona nella schiuma,
torri,
giardini e battaglie.

Questo
era Eluard: un uomo
verso il quale erano andati
camminando
linee di piogge, verticali fili
di intemperie,
e specchi di acqua classica
in cui si rifletteva e fioriva
la torre della pace e della bellezza.

II
ADESSO SAPPIAMO

Sappiamo tutto del giorno,
della notte,
tutto del mese sappiamo,
tutto dell’anno sappiamo.

In altri tempo l’uomo
stava isolato,
il piacere gli tappava le orecchie,
lo reclamava il cielo,
lo chiamava
l’inferno,
e inoltre
era oscura
la geografia umana.
Non poteva affermare con precisione
se erano uomini
gli altri,
gli uomini delle isole,
i lontani,
quelli che improvvisamente
mostravano in un dente di elefante
tanta saggezza
come la porta di una cattedrale.

Ma
là lontano
tra nubi e fumo,
le colonie,
i vegetali stessi
si confondevano
con la pelle dei sauri.

Adesso
tutto
è differente.
Povero amico,
sai,
sai che l’uomo esiste.
Ciascun giorno
ti chiedono una firma
per estrarre un essere vivente
da un carcere vivente,
e oppresso
continui a conoscere
i sotterranei della geografia.

Sai, sappiamo,
ogni giorno sappiamo,
dormendo conosciamo:
ormai è impossibile
coprirci le orecchie
con il cielo.
La terra ci visita
nella mattina
e ci da la colazione:
sangue e aurora,
tenebre o edificio,
guerra o agricoltura,
e devi scegliere, amico,
ogni giorno,
sapendo adesso,
sapendo bene adesso
dove sono collocati
tanto la nuova vita
che la vecchia morte.

III
QUI VIENE NAZIM HIKMET

Nazim, dalle prigioni
appena uscito,
mi regalò la sua camicia ricamata
con fili d’oro rosso
come la sua poesia.

Fili di sangue turco
sono i suoi versi,
favole sincere
con antica inflessione, curve o rette,
come scimitarre o spade,
i suoi clandestini versi
fatti per confrontarsi
con tutto il mezzogiorno della luce,
oggi sono come le armi nascoste,
brillano sotto i pavimenti,
attendono nei pozzi,
sotto l’oscurità impenetrabile
degli occhi oscuri
del suo paese.
Dalle sue prigioni venne
ad essere mio fratello
e percorremmo insieme
le nevi delle steppe
e la notte incendiata
con le nostre proprie lampade.
Qui sta il suo ritratto
perché non si dimentichi la sua figura.

È alto
come una torre
alzata sulla pace delle praterie
e sopra
due finestre:
i suoi occhi
con la luce della Turchia.

Erranti
incontriamo
la terra ferma sotto i nostri piedi,
la terra conquistata
da eroi e poeti,
le strade di Mosca, la luna piena
che fiorisce sui muri,
le ragazze
che amiamo,
l’amore che adoriamo,
l’allegria,
nostra unica setta,
la speranza totale che condividiamo,
e soprattutto
una lotta
di popoli
dove sono una goccia e un’altra goccia,
gocce del mare umano,
i suoi versi e i miei versi.

Ma
dietro l’allegria di Nazim
ci sono fatti,
fatti come tronchi
o come fondazioni di edifici.

Anni
di silenzio e carcere.
Anni
che non riuscirono
a mordere, mangiare, ingoiarsi
la sua eroica gioventù.

Mi raccontava
che per più di dieci anni
lo lasciarono
alla luce della lampadina elettrica
tutta la notte e oggi
dimentica ogni notte,
lascia nella libertà
ancora la luce accesa.
La sua allegria
possiede radici negre
affondate nella sua patria
come fiori di palude.
Per questo
quando ride,
quando ride Nazim,
Nazim Hikmet,
non è come quando ridi:
è più bianca la sua risata,
in lui ride la luna,
la stella,
il vino,
la terra che non muore,
tutto il riso saluta con la sua risata,
tutto il suo popolo canta per la sua bocca.

IV
ALBANIA

Mai in Albania
stetti,
aspra terra amata,
pietrosa
patria dei pastori.
Oggi
spero
avvicinarmi a te come a una festa,
una nuova
festa terrestre: il sole
sopra la muscolosa impugnatura
delle tue montagne
e vedere tra i macigni
come cresce
il nuovo giglio tenero,
la cultura,
le lettere che si espandono,
il rispetto all’antico contadino,
la culla dell’operaio,
il monumento insigne
della fratellanza, la crescita
della bontà come una giovane pianta
che fiorisce nelle vecchie terre povere.

Albania, piccolina,
forte, ferma e sonora,
la tua corda della chitarra
- filo di acqua e acciaio –
si riunisce al suono della storia,
al canto del tempo invincibile,
con una voce di boschi
e edifici,
aromi e bianchezza,
canto di tutto l’uomo e di tutto il bosco,
uccelli e meli,
venti e onde.

Forza, fermezza e fiore sono il tuo regalo
nella edificazione di ciò che è terrestre.

V
INDIA, 1951

Nell’India
di nuovo,
nuovamente
l’aroma
di frutti morti, il
gracchio
dei corvi.
Sentii che si opprimeva
dentro un vaso rotto
il mio cuore, udii
passi,
passi che sono morti,
passi.
Pergolato
di razze e di tuniche,
India,
materna, intrecciata,
augusta, crudele, remota,
eri la stessa.
I grandi fiumi seppellivano corpi,
il colore di zafferano nelle colline,
ma adesso
non era la mia gioventù, la mia solitaria
adolescenza errante.
Adesso
i fiori mi aspettavano,
caddero sul mio collo,
e un numero,
una lettera,
una semplice sillaba
veniva
dal carcere a riconoscermi.

Terre di Telenghana,
martiri, creature
raccolte tra
due fuochi,
le mitragliatrici del governo,
i carceri
del Nizam di Hyderabad.
Contadini caduti
in quelle che ormai credevano
terre proprie,
adesso
con un Parlamento proprio,
senza inglesi,
e la vecchia miseria,
la fame
ululava nei villaggi.
Sperando,
sperando
sempre visse l’India,
seduta
vicino al fiume del tempo,
sperando.

Passavano i guerrieri
dai piedi insanguinati,
i principi
sale da pranzo di perle,
gli inglesi
impassibili,
i sacerdoti freddi
come sauri,
studiando l’ombellico
della terra e del cielo,
tutti
divorandoti un poco,
passeggeri, pirati, mercenari,
e tu, madre del mondo,
seduta vicino al fiume
del tempo,
filando e sperando.
Adesso
i poeti,
Sirdart Jaffris o un altro,
il magro o il barbuto,
uscivano dal carcere.
La poesia
nell’India
entrava in prigione,
usciva e ritornava,
imparando
la libertà tra i prigionieri,
conoscendo
le pene,
i dialetti, i dolori,
le parole segrete
degli assorti contadini,
il lamento doloroso,
le aperte ferite,
la dolcezza ribelle
che avanza alzando il suo stendardo
di stelle e colombe.

Utero della terra, territorio
chiuso in cui fermentano
le uve della storia.
Antica sorella
dei vecchi pianeti,
io seppi ora,
ascoltando i canti nei paesi,
le ire sgranate,
i pugni nel vento,
seppi
che si solleveranno le tue stature,
che si accumulerà la tua ricchezza,
che darai al tuo popolo
il pane che gli negavi,
e che ora non vedremo
passare dietro all’oro,
incrociare dietro al rito
abbagliatore della teogonia, (*)
la fame con la sua scopa
che spazza povere ossa e immondizie
a fianco della strada.

India, solleva
la tua gioventù, invita
il tuo orologio a segnare l’ora che viene.
Avanza e prendi
nell’orario l’alto mezzogiorno.

Sono antiche le tue frecce.

Solleva la tua fronte
e fissa l’ora del tuo destino.

(*) Il racconto mitico dell’origine e della genealogia degli dei.

VI
IN DOBRIS L’AURORA

In Dobris, arrivato a Praga,
conversando con
Jorge Amado,
mio collega da anni e di lotta:
- Da dove viene tu ora?

Io, dagli antichi fiumi
del Guatemale e Messico,
dal fulgore verde
del fiume Dolce, dentro.
Portavo
fuoco di uccelli selvatici,
rugiada
di foce.

Gli raccontai dei miei viaggi.
Lui ritornava
dalla Bulgaria, indossava
luce di rosaio rosso
sul petto,
e mi raccontò le cose,
gli uomini, le imprese,
il socialismo in marcia
in quella
terra irta, adesso costruttrice.

Era tardi, le braci
bruciavano
nel focolare di pietra.
Fuori
in vento rimuoveva sussurrando
le foglie dei faggi.

Vicini viaggiamo,
perseguitati,
e è qui che la pace
ci riuniva.

Avevamo
pane,
luce,
fuoco,
terra,
castello.
Non era soltanto nostri,
erano di tutti,

Non vogliamo
parlare. Il vento
parlava per noi.
Si estendeva
nel bosco,
volava
con le foglie staccate.
Il vento
andava insegnando,
cantando
quello che noi eravamo,
eravamo e avevamo.

La chiarezza terrestre
ci circondava.

Solenne era il silenzio.

Lunghi erano stati i viaggi.

E l’aurora colpiva le finestre
nuovamente
per andarsene con noi per il mondo.


Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 61 del 24 agosto 2009 | postmaster@antoniogiannotti.it

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