Pablo Neruda e Insetti


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Canti cerimoniali (1961) - 1^ parte

1961 - CANTI CERIMONIALI

1961 - CANTI CERIMONIALI


IL NIPOTE DA OCCIDENTE

Quando ebbi compiuto quindici anni arrivò mio zio Manuel
con una valigia pesante, camicie, scarpe e un libro.
Il libro era
Simbad il marinaio e seppi immediatamente
che più in là della pioggia c’era il mondo
chiaro come un melone, scivoloso e florido.
Mi istruii, tuttavia, a cavallo, mentre pioveva.
In quelle province, il frumento
si muoveva l’estate come una bandiera gialla
e la solitudine era pura,
era un libro socchiuso, un armadio con sole dimenticato.

Venti anni! Naufragio!
Delirante battaglia,
la scrittura
e la scrittura,
l’azzurro,
l’amore,
e Simbad senza rive,
e allora
la notte delicata,
la luce crepitante del vino.

Chiedo libro a libro, sono le porte, c’è qualcuno
che si affaccia e risponde e dopo non c’è
risposta, andaron via le foglie,
si colpisce all’ingresso del capitolo,
andò via Pascal, fuggì con i Tre Moschettieri,
Lautréamont cadde dalla sua tela di ragno,
Quevedo, il carcerato profugo, l’apprendista di morte
galoppa con il suo scheletro di cavallo
e, insomma, non rispondono nei libri:
andarono via tutti, la casa è vuota.
E quando apri la porta c’è uno specchio
in cui ti vedi intero e ti fa freddo.

Da Occidente, sì – sì sì sì sì -,
macchiato da tabacco e umidità,
sgangherato come un carro vecchio
che lasciò una per una le sue ruote nella luna.
Sì, sì, dopo tutto, la nascita
non serve, mette in ordine, in disordine
tutto: poi la vita delle strade,
l’acido ufficiale di uffici e impieghi,
la professione logora del povero intellettuale.
Così tra Bach e poker di studenti
l’anima si consuma, sale e scende,
il sangue prende forma di scale,
il termometro comanda e stimola.

La sabbia che perdemmo, la pietra, il fogliame,
quello che fummo, la cintura selvaggia del non nato
rimane indietro e nessuno piange:
la città corrose non soltanto la ragazza
che arrivò da Toltén con un canestro chiaro
di uova e galline, ma anche te adesso,
occidentale, fratello incrociato,
ostile, canaglia della gerarchia,
e poco a poco il mondo dà soddisfazione al verme
e non ha erba, non esiste rugiada nel pianeta.

LA INSEPOLTA DI PAITA

Elegia dedicata alla memoria di Manuela Sáenz,
amante di Simón Bolívar

PROLOGO

Da Valparaiso per il mare.

Il Pacifico, duro cammino di coltelli.

Sole che muore, cielo che naviga.

E la nave, insetto secco, sopra l’acqua.

Ogni giorni è un incendio, una corona.

La notte si placa, si diffonde, si dissemina.

Oh giorno, oh notte,

oh navi

dell’ombra e della luce, navi gemelle!

Oh tempo, stella distrutta della nave!

Lenta, verso Panama, naviga l’aria.

Oh mare, fiore esteso del riposo!

Non andiamo né torniamo né sappiamo.

Con gli occhi chiusi esistiamo.

I
LA COSTA PERUVIANA

Sorse come un pugnale
tra i due azzurri nemici,
catena incolta, silenzio,
e accompagnò alla nave
di notte interrotta dall’ombra,
di giorno lì ancora la stessa,
cambia come una bocca
che chiuse per sempre il suo segreto,
e tenacemente sola
senza altre minacce
se non il silenzio.

Oh lunga
cordigliera
di sabbia e sdentata
solitudine, oh nuda
e addormentata
statua scontrosa,
chi,
chi
proiettasti
verso il mare, verso i mari,
chi
dai mari
adesso
aspetti?

Che fiore uscì,
che imbarcazione fiorita
a fondare nel mare la primavera
e ti lasciò le ossa
dell’ossario,
la caverna
della morte metallica,
il monte consumato
dai sali violenti?
E non ritornò radice né primavera,
tutto si fece nell’onda e nel vento!

Quando attraverso
le lunghe
ore
insegui,
deserto, vicino al mare,
solitudine sabbiosa,
ferruginosa morte,
il viaggiatore
ha consumato
il suo cuore errante:
non gli desti
un solo
ramo
di fogliame e freschezza,
né parete di versante,
né un tetto che ospitasse
uomo e donna nell’amore:
soltanto un volo salato
dell’uccello del mare
che spruzzava
le rocce
con schiuma
e allontanava i suoi addii
dal freddo del pianeta.

Indietro, addio,
ti lascio,
costa
amara.
In ogni uomo
trema
un seme
che cerca
acqua celeste
o fondazione porosa:
quando non vide altro che un bicchiere lunga
di monti minerali
e l’azzurro esteso
contro una inesorabile
cittadina,
cambia l’uomo la sua rotta,
continua il suo viaggio
lasciando indietro la costa del deserto,
lasciando
indietro
l’oblio.

II
L’INSEPOLTA

A Paita preghiamo
per lei, la Defunta:
toccare, toccare la terra
della bella Sepolta.

Non sapevamo.

Le balaustre vecchie,
i balconi celesti,
una vecchia città di rampicanti
con un profumo audace
come un canestro
di manghi invincibili,
di ananas,
di anoni profondi,
le mosche
del mercato
ronzano
sopra l’abbandonata sciatteria,
tra le mozzate
teste di pesce,
e le donne indio sedute
vendono
gli incerti residui
con maestà selvaggia,
- sovrane di un regno
di rame sotterraneo -,
e il giorno era nuvoloso,
il giorno era stanco,
il giorno era un perduto
viandante, in una lunga
strada confusa
e polverosa.

Fermai il bambino, l’uomo,

l’anziano,

e non sapevano dove

morì Manuelita,

né quale era la sua casa,

né dove era adesso

la polvere delle sue ossa.

In alto c’erano le colline gialle
secche come cammelli,
in un viaggio in cui nulla si muoveva,
in un viaggio di morti,
perché è l’acqua
il movimento,
la sorgente sgorga,
il fiume cresce e canta,
e lì i monti duri
continuarono il tempo:
era l’età, il viaggio immobile
delle colline pelate,
ed io gli domandai di Manuelita,
ma essi non sapevano,
non sapevano il nome dei fiori.

Al mare lo domandammo,
al vecchio oceano.
Il mare peruviano
aprì con la schiuma vecchi occhi incas
e parlò la sdentata bocca del turchese.

III
IL MARE E MANUELITA

Qui mi portò lei, la barcaiola,
l’imbarcatrice di Colán, la coraggiosa.
Mi navigò la bella, la ricordo,
la sirena dei fucili,
la vedova delle reti,
la piccola creola trafficante
di miele, colombe, ananas e pistole.
Dormì tra i barilotti,
ormeggiata alla polvere insorta,
ai pesci che da poco alzavano
sopra la barca i loro brividi,
all’oro dei più fugaci giorni,
al fosforico sonno della rada.
Si, ricordo il suo piede di nardo nero,
i suoi occhi duri, le sue ferree mani corte,

ricordo il perduto comandante
e qui visse
sopra queste stesse onde,
ma non so dove andò via,

non so

dove lasciò l’amore il suo ultimo bacio,

né dove la raggiunse l’ultima onda.

IV
NON LA INCONTREREMO

No, ma in mare non giace la terrestre,
non è Manuela senza rotta, senza stella,
senza barca, sola nelle tempeste.

Il suo cuore era di pane ed allora
si trasformò in farina e in sabbia,
si estese per i monti bruciati:
per spazio scambiò la sua solitudine.
E qui non sta ed è la solitaria.

Non riposa la sua mano, non è possibile
incontrare i suoi anelli né i suoi seni,
né la sua bocca che il fulmine
navigò con la sua lunga frusta di zagare.
Non incontrerà il viaggiatore
l’addormentata
di Paita in questa cripta, né circondata
da lance tarlate, per l’inutile
marmo nello scontroso cimitero
che contro polvere e mare guarda i suoi morti,
in questo promontorio, no,
non c’è tomba per Manuelita,
non c’è sepoltura per il fiore,
non c’è tumulo per la distesa,
non c’è il suo nome sul legno
né una pietra feroce del tempio.

Essa andò via, disseminata,
tra le dure cordigliere
e perse tra sale e macigni
i più tristi occhi del mondo,
e le sue trecce si trasformarono
in acqua, in fiumi del Perù,
e i suoi baci si assottigliarono
nell’aria delle colline,
e qui è la terra ed i sogni
e le crepitanti bandiere
e lei è qui, ma nessuno
può riunirsi alla sua bellezza.

V
MANCA L’AMANTE

Amante, perché dire il tuo nome?
Soltanto lei in questi monti
rimane.
Egli è solo silenzio,
è brusca solitudine che continua.

Amore e terra sancirono
la solare amalgama,
e perfino questo sole, l’ultimo,
il sole mortuario
cerca
l’integrità di quella che fu la luce.
Cerca
ed il suo raggio
forse
moribondo
si spezza cercando, si spezza come spada,
si conficca nelle sabbie,
e fa mancare la mano dell’Amante
nella straziata impugnatura.

Manca il tuo nome,
Amante morto,
ma il silenzio sa che il tuo nome
andò a cavallo per la catena montuosa,
andò a cavallo col vento.

VI
RITRATTO

Chi visse? Chi viveva? Chi amava?

Maledette ragnatele spagnole!

Nella notte il falò di occhi equatoriali,
il tuo cuore arse nel vasto vuoto:
così si confuse la tua bocca con l’aurora.

Manuela, brace ed acqua, colonna che sostenne
non una copertura vaga ma una pazza stella.

Perfino oggi respiriamo quell’amore ferito,
quella pugnalata del sole nella distanza.

VII
INVANO TI CERCHIAMO

No, nessuno riunirà la tua stabile forma,
né resusciterà la tua sabbia ardente,
non tornerà la tua bocca ad aprire il doppio petalo,
non si gonfierà sui tuoi seni la bianca veste.
La solitudine possedette sale, silenzio, sargasso,
e la tua sagoma fu corrosa dalla sabbia,
si perse nello spazio la tua silvestre cintura,
sola, senza il contatto del cavaliere imperioso
che galoppò nel fuoco verso la morte.

VIII
MANUELA MATERIALE

Qui nelle desolate colline non riposi,
non scegliesti l’immobile universo della polvere.
Ma non sei spettro dell’anima nel vuoto.
Il tuo ricordo è materia, carne, fuoco, arancia.

Non spaventeranno i tuoi passi il salone del silenzio,
a mezzanotte, né tornerai con la luna,
non entrerai trasparente, senza corpo e senza rumore,
non cercheranno le tue mani la cetra addormentata.

Non trascinerai di torre in torre un nimbo verde
come di abbandonate e morte zagare,
e non tintinneranno nella notte le tue caviglie:
ti liberò soltanto la morte.

No, né spettro, né ombra, né luna sopra il freddo,
né pianto, né lamento, né sfuggente veste,
ma quel corpo, lo stesso che si allacciò all’amore,
quegli occhi che sgranarono la terra.

Le gambe che nidificarono l’imperioso fuoco
dell’Húsar, dell’errante Capitano del cammino,
le gambe che salirono a cavallo nella selva
e scesero volando la scala di alabastro.

Le braccia che abbracciarono, le sue dita, le sue guance,
i suoi seni (due brune metà di magnolia),
il volo dei suoi capelli (due grandi ali nere),
i suoi fianchi rotondi di pane ecuadoriano.

Così forse nuda, passeggi con il vento
che continua ad essere adesso il tuo tempestoso amante.
Così esisti adesso come allora: materia,
verità, vita impossibile da tradurre a morte.

IX
IL GIOCO

La tua piccola mano bruna,
i tuoi delicati piedi spagnoli,
i tuoi fianchi chiari di anfora,
le tue vene dove correvano
vecchi fiumi di fuoco verde:
tutto ponesti sulla tavola
come un tesoro bruciante:
come delle abbandonate e morte zagare,
nel mazzo di carte dell’incendio:
nel gioco della vita e della morte.

X
INDOVINELLO

Chi sta baciandola adesso?
Non è lei, Non è lui. Non sono essi.
È il vento con la bandiera.

XI
EPITAFFIO

Questa fu la donna ferita:
nella notte delle strade
ebbe per sogno una vittoria,
ebbe per abbraccio il dolore.
Ebbe per amante una spada.

XII
LEI

Tu fosti la libertà,
liberatrice innamorata.

Consegnasti doni e dubbi,
idolatrata irrispettosa.

Si spaventava il gufo nell’ombra
quando passava la tua capigliatura.

E rimasero le tegole chiare,
si illuminarono gli ombrelli.

Le case cambiarono di aspetto.
L’inverno fu trasparente.

È Manuelita che attraversò
le strade stanche di Lima,
la notte di Bogotà,
l’oscurità di Guayaquil,
il vestito nero di Caracas.

E da allora è il giorno.

XIII
INTERROGAZIONI

Perché, Perché non ritornasti?
Oh amante senza fine, incoronata
non soltanto dalle zagare,
non soltanto dal grande amore,
non soltanto dalla luce gialla
e dalla seta rossa nel palco,
non solo da letti profondi
di lenzuola e madreselve,
ma anche,
oh incoronata,
dal nostro sangue e della nostra guerra.

XIV
DI TUTTO IL SILENZIO

Adesso restiamocene soli.
Soli, con la orgogliosa.
Soli con quella che si vestì
con un lampo violaceo.
Con la imperatrice tricolore.
Con il rampicante di Quito.

Di tutto il silenzio del mondo
essa scelse questo triste estuario,
l’acqua pallida di Paita.

XV
CHI LO SA

Di quella gloria no, non posso parlarti.
Oggi voglio solamente la rosa
perduta, perduta nella sabbia.
Voglio condividere l’oblio.

Voglio vedere i lunghi minuti
ripiegati come bandiere,
nascosti nel silenzio.

La nascosta voglio vedere.

Voglio sapere.

XVI
ESILI

Ci sono esili che mordono e altri
sono come il fuoco che consuma.

Ci sono dolori di patria morta
che stanno crescendo dal basso,
dai piedi e dalle radici
ed improvvisamente l’uomo si soffoca,
e non conosce le spighe,
e si esaurì la chitarra,
e non c’è parola per questa bocca,
e non può vivere senza terra
e allora cade bocconi,
non nella terra, ma nella morte.

Conobbi l’esilio del canto,
e questo si è medicina,
perché si dissangua nel canto,
il sangue esce e si fa canto.

E quello che perse padre e madre,
che perse anche i suoi figli,
perse la porta della sua casa,
non ha niente, né bandiera,
questo anche va girando
e al suo dolore pongo nome
e lo guardo nella mia cassa oscura.

E l’esilio di chi combatte
fino al sonno, mentre mangia,
mentre non dorme né mangia,
mentre cammina e quando non cammina,
e non è il dolore esiliato
ma la mano che colpisce
finché le pietre del muro
ascoltino e cadano e allora
subentra il sangue e questo passa:
così è la vittoria dell’uomo.

NON COMPRENDO

Ma non comprendo questo esilio.
Questo triste orgoglio, Manuela.

XVII
LA SOLITUDINE

Voglio camminare con te e sapere,
sapere perché, e camminare dentro
al cuore disseminato,
domandare alla polvere perduta,
al gelsomino scontroso e disperso.

Perché? Perché questa terra miserabile?

Perché questa luce abbandonata?

Perché questa ombra senza stelle?

Perché Paita per la morte?

XVIII
IL FIORE

Ahi, amore, cuore di sabbia!

Ahi, seppellita in piena vita,

giacente senza sepoltura,

bambina infernale dei ricordi,

angelo color di spada.

Oh irremovibile vittoriosa

di guerra e sole, di crudele rugiada.

Oh supremo fiore brandito

dalla tenerezza e dalla durezza.

Oh puma dalle dita celesti,

oh palma color di sangue,

dimmi perché rimasero mute
le labbra che il fuoco baciò,
perché le mani che toccarono
il potere del diamante,
le corde del violino del vento,
la scimitarra di Dio,
si sigillarono nella costa oscura,
e quegli occhi che aprirono
e chiusero tutto il fulgore
qui si fermarono guardando
come andava e veniva l’onda,
come andava e veniva l’oblio
e come il tempo non ritornava:
solo solitudine senza uscita
e queste rocce dall’anima terribile
macchiate dai pellicani.

Ahi, compagna, non capisco!

XIX
ADDIO

Addio, sotto la nebbia la tua lenta barca incrocia:
è trasparente come una radiografia,
è muta tra le ombre dell’ombra:
va sola, esce sola, senza rotta e senza barcaiola.

Addio, Manuale Sáenz, contrabbandiera pura,
guerrigliera, forse il tuo amore ha indennizzato
la secca solitudine e la notte vuota.
Il tuo amore disseminò la sua cenere silvestre.

Liberatrice, tu che non hai tomba,
ricevi una corona dissanguata nelle tue ossa,
ricevi un nuovo bacio d’amore sopra l’oblio,
addio, addio, addio, Giulietta forte come un uragano.

Torna alla prua elettrica della tuo peschereccio,
dirigi sopra il mare la rete e i fucili,
e che la tua capigliatura si unisca ai tuoi occhi,
il tuo cuore risalga le acque della morte,
e si veda ancora partendo la marea,
la nave, condotta dal tuo amore valoroso.

XX
LA RISORTA

Nella tomba o mare o terra, battaglione o finestra,
restituiscici il raggio della tua infedele bellezza.
Chiama il tuo corpo, cerca la tua forma sgranata
e torna ad essere la statua guidata dalla prua.

(E l’Amante nella sua cripta tremerà come un fiume.)

XXI
INVOCAZIONE

Addio, addio, addio, insepolta selvaggia,
rosa rossa, rosaio fino alla morte errante,
addio, forma intarsiata dalla polvere di Paita,
corolla distrutta dalla sabbia e dal vento.

Qui ti invoco perché torni ad essere una
antica morta, rosa ancora raggiante,
e che quello che di te sopravvive si unisca
finché abbiano nome le tue ossa adorate.

L’Amante nel suo sonno sentirà che lo chiamano:
qualcuno, finalmente lei, la perduta, si avvicina
e in una sola barca viaggerà la barcaiola
ancora, con il sogno e l’Amante segnando
i due, adesso riuniti nella verità nuda:
crudele cenere di un raggio che non seppellì la morte,
né divorò il sale, né consumò la sabbia.

XXII
CE NE ANDIAMO DA PAITA

Paita, sopra la costa
banchine marce,
scale
rotte,
i pellicani tristi
affaticati,
seduti
sul legno morto,
gli involti di cotone,
i cassetti di Piura.
Sonnolenta e vuota
Paita si muove
al ritmo
delle piccole onde della rada
contro il muro calcareo.

Sembra
che qui
qualche assenza immensa scosse e sgretolò
i tetti e le strade.
Case vuote, muraglioni
rotti,
qualche buganvillea
lancia nella luce il getto
del suo sangue scuro,
e il resto è terra,
l’abbandono secco
del deserto.

E già andò via la nave
distante da lei.

Paita cadde addormentata
nelle sue sabbie.

Manuelita, insepolta,
sgranata
nelle atroci, dure
solitudini.

Ritornarono le barche, scaricarono
in pieno sole scure merci.

I grandi uccelli calvi
si sostengono
immobili
sopra
pietre brucanti.

Se ne va la nave. Già
non ha più
nome la terra.

Tra i due azzurri
del cielo e dell’oceano
una linea di sabbia,
secca, sola, ombrosa.

Poi cade la notte.

E nave e costa e mare
e terra e canto
navigano verso l’oblio.


LA GRANDE ESTATE

I

L’estate è adesso più ampia che nella mia patria.
Mille anni fa, quando in Carahue
aprì le mani, estese la fronte,
e il mare, il mare aprì il suo cavallo,
allora l’estate era una spiga,
durava appena un amore terribile
durava soltanto la vibrazione di un’uva.

E adesso che ritorno al vecchio sole che corrode
le pietre della costa, adesso che torno
allo stendardo d’oro slegato
e vedo il mare nutrire la sua bianchezza,
l’orbita della schiuma in movimento
quando dall’alto lascia cadere tanto azzurro
che non rimane niente fino al cielo,
oh amore di quei poveri giorni, sono
quello che non toccò la felicità
tranne molto più tardi, la campana
che rimase vuota nel granaio
e solo il vento crudele la fece tremare,
tardi, una notte di acqua e terremoto.

Oh giorno, spada splendida! Oh pesce puro
che tagli con la tua acuta direzione
le tenebre, la notte, la sfortuna,
e apri una arancia nello spazio,
le metà azzurre dell’aurora.

Quindi goccia a goccia si fece il cielo
e di spazioso zucchero la bandiera,
tutto sale alla sua asta gialla,
e la frutta tramuta il suo sdegno
in letargico lago di dolcezza.
È un albero violetto di orologi
l’essenziale estate e i suoi grappoli,
la sabbia è la sua prateria ed il suo alimento,
trema il fulgore recondito del vino
e i decapitati cereali
si addormentano nel pane del raccolto.

Antico, iracondo è il tuo vestito adesso,
perfino lontano dal mare tendi la linea
dell’elitra riverberante
ed è sabbiosa la tua sovranità
finché il tuo volume goccia a goccia
muore nelle vene della vita.

II

Salve, onore del porfido, lezione
della mela,
direzione cristallina
della grande estate legata al suo vetro.
Tutto arrivò a essere fine, carato,
verità disposta ad aprirsi e a esaurirsi,
tutto è lamina pura o è ciliegia,
e così sono i minuti della statua
che cadrà esplodendo di rubini,
e il mondo è una pietra
la cui tagliata chiarezza matura
fino a che tutto cade
e torna a essere di nuovo una semenza.

III

Non ho radici,
ho volato
di oro in oro,
da piuma a polline
senza saper volare;
con ali spaziose
lente
sopra
l’impazienza

di quelli che qui o là
spezzavano qualcosa:
legni, frumento, ghiaccio,
e vidi l’estate intera
rotonda, oscura, rossa,
come un fico,
vidi l’estete
correre e navigare
come una freccia,
esaminai i fili
dell’estate,
la sua liquida
ambrosia,
i suoi tenaci
sostegni,
il padiglione del giorno
e quello che scivolava
dalla sua pelle trasparente.

Percorsi
negozi
di acqua
da poco
aperti nell’agricoltura,
mercanzie
pure
di montagna,
splendide api
e ancora non sono ritornato
dall’estate
dal viaggio tra le alghe e la menta
al cuore
più grande
dell’anguria,
alla pelle delle gambe, alla luce
dei corpi incitanti.
Ancora vado per l’estate
come un pesce per il fiume,
non finisce,
si trasforma,
cambia da terra a luna,
cambia da sole,
da acqua,
va il mio cuore nuotando nell’estate
senza vestiti nella freschezza
e non finisce,
continua,
si trasforma in terra
l’anello d’oro
dell’estate,
cinge la terra, cinge la tua vita,
cinge il tuo sangue
e continua,
non finisce
l’estate rotonda,
il fiume puro,
il trasparente
ricciolo del sole
e della terra.

IV

Tutto un giorno dorato
e luminoso come
una cipolla,
un giorno
dal quale appende l’estate
la sua torrida bandiera
dove
si perde
quando
la notte
lo schiacciò come un’uva
e notturno è il vino
dell’ombra,
la coppa della notte si è riempita
di sale che brilla nel cielo
e di vino nero.
Dov’è il giorno che deve tornare?
Dove morì la nave?
Ma torniamo al numero,
fermiamo il diamante.
Nel centro dell’acqua
come un brivido
si muove con discrezione
e verde è il sussurro dell’estate
che fugge dalle città
verso la selva verde
e si arresta
all’improvviso nella sabbia:
ha mani di eclissi,
coda d’oro,
e continua
finché il grande sospiro
della notte lo arrotola
nella sua cantina:
è un tappeto
elettrico
addormentato
per un anno di notti,
per un secolo
di orologi oscuri ,
e cade ogni giorno il giorno
dell’estate
nella notte aperta
e sgorga sangue chiaro
di anguria,
resuscita cantando
nella lingua pazza
finché dimagrisce
e goccia a goccia
si riempie di buchi,
di lenti nebbie con piedi di muschio,
di pomeriggi vaporosi come mucche bagnate,
di cilindri che riempiono la terra di giallo,
di una angoscia come se qualcuno stesse per nascere.
È l’antico autunno caricato con il suo sacco
che prima di entrare bussa alla porta e entra il fumo


TORO

I

Tra le acque del nord e quelle del sud
la Spagna era secca,
assetata, divorata, tesa come un tamburo,
secca come la luna era la Spagna
e bisognava irrigare subito prima che ardesse,
già tutto era giallo,
di un giallo vecchio e calpestato,
e tutto era di terra,
neppure gli occhi senza lacrime piangevano
(già arriverà il tempo del pianto)
dall’eternità né una goccia di tempo,
già erano mille anni senza pioggia,
la terra si sgretolava
e lì nelle crepe i morti:
un morto in ogni crepa
e non pioveva,
ma non pioveva.

II

Allora il toro fu sacrificato.
All’improvviso uscì una luce rossa
come il coltello dell’assassino
e questa luce si estese da Alicante,
si incrudelì a Somosierra.
Le cupole parevano gerani.
Tutto il mondo guardava in alto.
Che succede?, domandavano.
E nel mezzo del tremore
tra sussurro e silenzio
qualcuno che lo sapeva
disse: “Questa è la luce del toro”.

III

Vestirono un contadino pallido
di azzurro con fuoco, con cenere di ambra,
con lingue di argento, con nube e cinabro,
con occhi si smeraldo e code di zaffiro
e avanzò il pallido essere contro l’ira,
avanzò il povero vestito da ricco per uccidere,
vestito di lampo per morire.

IV

Allora cadde la prima goccia di sangue e fiorì,
la terra ricevette sangue e lo consumò
come una terribile bestia nascosta che non può saziarsi,
non volle bere acqua,
cambiò di nome la sua sete,
e tutto si tinse di rosso,
le cattedrali si incendiarono,
a Góngora tremavano i rubini,
nella
Plaza de toros rossa come un garofano
si ripeteva in silenzio e fretta il rito,
e poi la goccia correva prona
verso le sorgenti del sangue,
e così fu e così fu la cerimonia,
l’uomo pallido, l’ombra travolgente
della bestia e il gioco
tra la morte e la vita sotto il giorno insanguinato.

V

Fu scelto fra tutti il compatto,
la purezza increspata dalle onde di freschezza,
la purezza bestiale, il toro verde,
abituato all’aspra roccia,
lo designò la luna nella mandria,
come si sceglie un lento notabile fu scelto.
Sta qui, montagnoso, imponente, e il suo sguardo
sotto la mezza luna delle corna aguzze
non sa, non comprende se questo nuovo silenzio
che lo copre è un manto genitale di delizie
o ombra eterna, imboccatura della catastrofe.
Finché alla fine si apre la luce come una porta,
inizia un fulgore più duro del dolore,
un nuovo rumore come sacchi di pietre che rotolano
e nella piazza infinita di occhi sacerdotali
un condannato a morte che vide in questo appuntamento
il suo proprio brivido di turchese,
un abito di arcobaleno e una piccola spada.

VI

Una piccola spada con il suo abito,
una piccola morte col suo uomo,
un circo pieno, sotto l’arancia implacabile
del sole, di fronte agli occhi che non guardano,
nell’arena, perduto come un neonato,
preparando la sua lunga danza, la sua geometria.
Poi come l’ombra e come il mare
si scatenano i passi iracondi del toro
(già sa, già non è senza la sua forza)
e il pallido manichino si trasforma in ragione,
l’intelligenza cerca sotto i suoi paramenti
d’oro come danzare e come ferire.

Deve danzare morendo il soldato di seta.

E quando fugge è invitato nel Palazzo.

Egli alza una coppa ricordando la sua spada.

Brilla ancora la notte della paura e le sue stelle.

La coppa è vuota come il circo nella notte.

I signori vogliono toccare quello che agonizza.

VII

Liscia è la femminile come una soave mandorla,
di carne e osso e pelo è la struttura,
corallo e miele si uniscono nel suo lungo nudo
e uomo e fame galoppano a divorare la rosa.
Oh fiore! La carne esce in un’onda,
la bianchezza discende la sua cascata
e in un combattimento bianco si scompone il fantino
cadendo infine coperto di castità fiorita.

VIII

Il cavallo sfuggito al fuoco,
il cavallo del fumo,
arrivò alla
Plaza, va come un’ombra,
come un’ombra aspetta il toro,
il fantino è un turpe
insetto oscuro,
alza il suo pungiglione sopra il cavallo nero,
brilla la lancia nera, attacca
e salta
aggrovigliato nell’ombra e nel sangue.

IX

Dall’ombra bestiale suonano le soavi corna
ritornando in un sogno vuoto al pascolo amaro,
soltanto una goccia penetrò nell’arena,
una goccia di toro, una semenza spessa,
e altro sangue, il sangue del pallido soldato:
uno splendore senza seta attraversò il crepuscolo,
la notte, il freddo metallico dell’alba.

Tutto era disposto. Tutto si è consumato.

Rosse come l’incendio sono le torri di Spagna.



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