Pablo Neruda e Insetti


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Tra Michoacán e Punitaqui (1939-1947) - 1^ parte

NERUDIANA DISPERSA - vol. I (1915-1964) > da 1939 a 1952

Tra Michoacán e Punitaqui
(1939-1947)
Michoacán significa il poeta-console in Messico, Punitaqui il poeta-senatore dei minatori del nord del Cile. Fu un periodo di missioni e funzioni ufficiali che incorniciarono l'attività letteraria. Del viaggio in Europa per la missione Winnipeg (1939) ne derivarono i testi dedicati a Sara de Ibáñez, (all'andata) ed ad Uriel García (al ritorno). Senza le vicissitudini consolari in Messico non avremmo magari i bellissimi viaggi alla memoria personale ed al cuore di Quevedo, né i sonetti punitivi a Laureano Gómez. Dalle battaglie del senatore sorsero testi maggiori come "Alturas de Macchu Picchu" e "Las flores de Punitaqui" (Canto general) ma anche altre manifestazioni minori di prodigiosa vitalità umana e letteraria.

I
SCOPRENDO L'AMERICA I (I939-I940)

[Prologo a poemi di Sara de Ibáñez]

Montevideo, per ricevere all'Atlantico, vicino ai suoi immensi moli, nelle cui pareti i bambini scrivono la parola
Poesia, ha alzato statue ai suoi grandi poeti, i più gravi, i più notturni e ciclonici della poesia universale.
Colpite dal mare e vicine fino a darsi le mani di pietra oscura, emergono le quattro sculture ardenti: Lautréamont, Laforgue, Herrera y Reissig, Agustini.
Gabbiani ed altri uccelli del Rio de la Plata si accumulano per riposare e dormire sulle doloranti statue cieche, così è che all’alba, quando coi miei camerata Jesualdo, Saralegui, Podestá, Capurro, Ibáñez arrivavamo fino a quel recinto marino, tra la delicata nebbia ascoltavamo un rumore di uccelli selvaggi, un battito di ala innumerabile che alzandosi delle sue spalle e delle sue lire lasciava scoprire, all'improvviso, le presenze silenziose.
In questa atmosfera di aria alata e di venerazione elementare è cresciuto, segretamente, Sara de Ibáñez, grande, eccezionale e crudele poeta. Vicino a quelle ombre di pietra stellare, sotto le gigantesche architravi infernali, tra queste dita di fuoco ed ombra feriti dalla luce abbandonata del litorale, aveva allora un cuore di palpitante ramo, un corallo vivo che cresceva nello splendore sommerso. Struttura e mistero, come due linee irraggiungibili e gemelle, tessevano di nuove la vecchia, temibile e sanguinante rosa della poesia. Ed alcune poderose mani di donna uruguaiana l'alzano oggi, brillando ancora di sostanze originali, in questa chiaroscura ora crepuscolare del mondo.
Magnificata mano, sale misterioso! Essa si forma, nel suo fondo senza tempo, indurendo lì il radice cereale ed l’abbagliante aspetto. Essa aspetta il suo destino, sorpassa le epoche del vapore e del fumo, e caglia il suo sacro minerale in acute frecce che attraversano il sangue.
Chi conosca questi prodotti umani vedrà che questa donna raccoglie da Suor Juana Inés de, la Cruz un deposito fino ad ora perduto: quello dell’estasi sommessa al rigore; quello della commozione convertita in duratura schiuma.
Vederla, vedere la sua dolorosa e straordinaria bellezza, in cui la cute di cera persa circonda gli occhi immensi e bloccati da cui germoglia una luce verde, guardare tutto il suo essere maturo e bruno è comprendere la nostra maiuscola America: ha nella sua bellezza taciturna qualcosa di Gabriela Mistral: è forse un'aria misteriosa e grandiosa, un incatenamento vulcanico che non ci è dato decifrare. È, tuttavia, molto più fine della geologica araucana: tutto il suo viso, ma non il suo cuore, sono stati addolciti: la radice continua ad essere amazzonica e abbondante.
Scrivo queste righe in una barca, vicino alle coste dell'Africa. Comincia già il mare a sostenere cannoni, e l'aria a entrare nella velenosa e moribonda ora della guerra. La forza ha sterminato molta luce in Spagna. Ed anche Austria, Cecoslovacchia, Albania mostrano le loro strazianti pozzanghere di sangue umano. Le tenebre invadono l'autunno bianco dell'Europa.
Ed in questi giorni di oceano, i versi mille volte letti di Sara de Ibáñez sono stati americana acqua dolce nella mia gola, ma arrivati dei ghiacciai della Spagna, delle cime rigate già dalle nevi eterne. Sì, l'indistruttibile neve classica conforma queste nuove età delle nostre praterie, portando un materiale definitivo, un scheletro preciso al quale Sara de Ibáñez attacca il suo alveo incendiario.
Ben ricevuta sia: è della più alta aurora. E per questa accolta furia poetica, come per María Luisa Bombal, meravigliose creature, uscite alla luce non come indecisi fantasmi bensì come medaglie chiare, ardenti e definitive, che restituiscono nel loro metallo duro e duraturo una luce rivolta alla morte, luce di questi agonici e crudeli stati della terra: per lei, per esse, riverisce ed adorazione. Qui agonizza un confine e si determina un nuovo universo raggiante.

S.S. Campana, aprile 1939

Prologo a Sara de Ibáñez, Canto,
Buenos Aires, Losada, 1940.


Saluto ad Uriel García

Signor senatore: Vi saluto con emozione ed angoscia, emozione che significa l'onore di conoscere gli onori che meritatamente vi segnalano ed angoscia perché attorno a quelli che come Uriel García si alzano con tanta dignità e tanta tranquilla forza, attorno ad essi si caricano e si infiammano le disperate animo del nostro destino di americani liberi. Parliamo soli gli americani in un mondo duramente deserto, crediamo e dubitiamo nella solitudine di un territorio misterioso, senza più testimoni che le anziane pietre sacre. E da questa solitudine dobbiamo tirare fuori resistenza e speranza, perché domani qualcuno chiederà di noi, di ognuno di noi, battendo le porte della storia.
Qui stiamo nel Perù, nel remoto cuore dell'America. Ci circonda il vento di tutte le regioni. Il peruviano vive sopra le sue età sepolte, sopra i suoi gioielli sanguinanti, e ha terra poderosa ed ardente per il futuro. Dal silenzio usciranno molte cose ardenti.
Del silenzio e della terra. Conobbi per molti anni ad un peruviano maturo, anche frutto maggiore della nostra patria. Era tutto silenzio e si chiamava César Vallejo. Era mio fratello in poesia e speranza. Ma a quell'uomo lo soffocò l'assenza. Morì non per mancanza di aria, bensì per mancanza di terra.
Sì, questi territori li isolano le grandi assenze. Ritorniamo alla nostra terra, alla nostra grande America. Riempiamola di dicerie, di voci, di silenzio, di fiamme vive. Viviamo un'ora solenne tra tutte e la nostra voce comincia a vivere.

Alla fine del 1939, a Lima di passaggio, Neruda pronunciò
queste parole di omaggio all’appena l'eletto senatore per la
Coalizione Operaio Peruviana, raccolte in Qué Ubo, num. 30,
Santiago, 2.1.1940.


Amicizie ed inimicizie letterarie

NON SOLO DI STELLE...

Forse a nessuno per queste terre gli è toccato in fortuna scatenare tante invidie come alla mia persona letteraria. C'è gente che vive di questa professione, di invidiarmi, di darmi pubblicità strana, per mezzo di opuscoli guarci o tenaci e pittoresche riviste. Ho perduto nei miei viaggi questa collezione singolare. I piccoli libelli mi sono rimasti in stanze lontane, in altri climi. In Cile torno a riempire la mia valigia con questa lebbra endemica e fosforescente, accantono di nuovo gli aggettivi viziosi che vogliono assassinarmi. In altre parti non mi interessano queste cose. E tuttavia, ritorno. È che mi piace ciecamente la mia terra e tutto il sapore verde ed amaro del suo cielo e del suo fango. E l'amore che mi tocca mi piace più qui, e questo odio stravagante e mistico che mi circonda mette nella mia proprietà un fecondo e necessario escremento. Non solo di stelle vive l'uomo.
Spagna, quando pestai il suo suolo, mi diede tutte le mani dei suoi poeti, dei suoi leali poeti, e con essi condivisi il pane ed il vino, nell'amicizia categorica del centro della mia vita. Ho il ricordo vivo di quelle prime ore o anni della Spagna, e molte volte mi manca l'affetto dei miei camerati.

VICENTE ALEIXANDRE

In un quartiere tutto pieno di fiori, tra Cuatro Caminos e la nascente Città Universitaria, per strada Wellingtonia, vive Vicente Aleixandre.
È grande, biondo e rosato. È malato da anni. Non esce mai di casa. Vive quasi immobile.
La sua profonda e meravigliosa poesia è la rivelazione di un mondo dominato per forze misteriose. È il poeta più segreto della Spagna, lo splendore sommerso dei suoi versi l'avvicina forse al nostro Rosamel del Valle.
Tutte le settimane mi aspetta, in un giorno determinato, che per lui, nella sua solitudine, è una festa. Non parliamo altro che di poesia. Aleixandre non può andare al cinema. Non sa niente di politica.
Da tutti i miei amici lo separo, per la qualità infinitamente pura della sua amicizia. Nel recinto isolato dalla sua casa la poesia e la vita acquisiscono una trasparenza sacra.
Io gli porto la vita di Madrid, i vecchi poeti che scopro nelle interminabili librerie di Atocha, i miei viaggi per i mercati di dove estraggo immensi rami di sedano o pezzi di formaggio de La Mancha unto di olio levantino. Si appassiona con le mie lunghe camminate, nelle quali egli non può accompagnarmi, per la strada di Cava Baja, una strada di bottai e cordai stretta e fresca, tutta dorata per il legno e lo spago.
O leggiamo lungamente Pedro de Espinosa, Soto de Rojas, Villamediana. Cercavamo in essi gli elementi magici e materiali che fanno della poesia spagnola, in un'epoca cortigiana, una corrente persistente e vitale di chiarezza e di mistero.

MIGUEL HERNÁNDEZ

Dove starà Miguel Hernández? Adesso curati e carabinieri "sistemano" la cultura in Spagna. Eugenio Montes e Pemán sono grandi figure, e stanno bene di fianco al fuorilegge Millán Astray, che non è un altro che presiedere le nuove società letterarie in Spagna. Nel frattempo, Miguel Hernández, il grande e giovane poeta contadino, starà se non fucilato e sepolto, in prigione o vagando per i monti.
Io avevo letto prima che Miguel arrivasse da Madrid i suoi atti sacramentali, di inaudita costruzione verbale. Miguel era in Orihuela pastore di capre ed il curato gli prestava libri cattolici che egli leggeva ed assimilava poderosamente.
Così come è il più grande dei nuovi costruttori della poesia politica, è il più grande poeta nuovo del cattolicesimo spagnolo. Nella sua seconda visita a Madrid, stava per ritornare quando, nella mia casa, lo convinsi a rimanere. Rimase allora, molto campagnolo a Madrid, molto forestiero, col suo viso di patata e brillanti occhi.
Il mio gran amico, Miguel, quanto ti voglio e quanto rispetto e amo la tua giovane e forte poesia. Dove stia in questo momento, nella prigione, nelle strade, nella morte, è lo stesso: né i carcerieri, né i carabinieri, né gli assassini potranno cancellare la tua voce già ascoltata, la tua voce che era la voce del tuo paese.

RAFAEL ALBERTI

Prima di arrivare in Spagna conobbi Rafael Alberti. A Ceylon ricevei la sua prima lettera, più di dieci anni fa. Voleva pubblicare il mio libro
Residencia en la tierra, lo portò di viaggio in viaggio da Mosca alla Liguria e, soprattutto, lo portò a spasso per tutta Madrid. Dall'originale di Rafael, Gerardo Diego fece tre copie. Rafael fu instancabile. Tutti i poeti di Madrid sentirono i miei versi, letti da lui, nella sua terrazza della via Urquijo.
Tutti, Bergamín, Serrrano Plaja, Petere, tanti altri, mi conoscevano prima di arrivare. Avevo, grazie a Rafael Alberti, amici inseparabili, prima di conoscerli.
Dopo, con Rafael siamo stati semplicemente fratelli. La vita ha intricato molto le nostre vite, rimescolando la nostra poesia ed il nostro destino.
Questo giovane maestro della letteratura spagnola contemporanea, questo rivoluzionario incancellabile della poesia e della politica dovrebbe venire in Cile, portare alla nostra terra la sua forza, la sua allegria e la sua generosità. Dovrebbe venire affinché cantassimo. C'è molto da cantare qui. Con Rafael e Roces faremmo alcuni cori formidabili. Alberti canta meglio che nessuno il "
tamborileiro", il Passo dell'Ebro, ed altre canzoni di allegria e di guerra.
È Rafael Alberti il poeta più appassionato della poesia che mi è toccato conoscere. Come Paul Éluard, non si separa da lei. Può dire a memoria la "Primera soledad" di Góngora ed inoltre lunghi frammenti di Garcilaso e Rubén Darío ed Apollinaire e Mayakovski.
Forse Rafael Alberti scriverà, tra le altre, le pagine della sua vita che ci ha toccato convivere. Si vedrà in esse, come in tutto quello che egli fa, il suo splendido cuore fraterno ed il suo spirito tanto spagnolo di gerarchia, giusti e centrali dentro la costruzione diamantina ed assoluta della sua espressione, già classica.

INVIO: AD ARTURO SERRANO PLAJA E VICENTE SALAS VIÚ

Voi siete gli unici amici della mia vita letteraria in Spagna che siete arrivati dalla mia patria. Avrei voluto portarli a tutti, e non ho desistito da ciò. Tenterò di portarli, dal Messico, da Buenos Aires, da Santo Dominigo, dalla Spagna.
Non solo la guerra ci ha uniti, bensì la poesia. Vi aveva portati a Madrid il mio buon cuore americano ed un ramo di rime che avete conservato con voi.
Voi, quanti! tutti, avete chiarito tanto il mio pensiero, mi avete dato tanta singolare e tanta trasparente amicizia. Molti di voi ho aiutato in problemi reconditi, prima, durante e dopo la guerra.
Voi mi avete aiutato di più.
Mi avete mostrato un'amicizia allegra e curata, ed il vostro decoro intellettuale mi sorprese all'inizio: io arrivavo dell'invidia cruda del mio paese, dal tormento. Da quando mi accoglieste come vostro, deste tale sicurezza alla mia ragione di essere, ed alla mia poesia che potei passare tranquillo a lottare nelle file del popolo. La vostra amicizia e la vostra nobiltà mi aiutarono più che i trattati. E fino ad ora, questo semplice cammino che scopro è l'unico per tutti gli intellettuali. Che non passino a lottare col paese gli invidiosi, i risentiti quegli avvelenati, i maligno, i megalomani.
Quelli, all'altro lato.
Con noi, amici e fratelli spagnoli, solamente i puri, i fraterni, gli onesti, i nostri.

Qué Ubo, num. 44, Santiago, 20.4.1940


Pedro de Oña e Seguel

Dei boschi di Angol ai pietrosi fiumi di Boroa e Ranquilco, la terra e gli uomini sono uniti da un forte contesto di radici ed ombre, da una rete imperiale di arroganti vegetali.
Gerardo Seguel e Don Pedro de Oña nacquero ed appartengono a quella regione, e tra il cuore antecedente di Angol e la combattente fronte di Seguel c’è qualcosa più che sangue: una propaganda di monti sonori ed una terra accumulata di foglie remote e silenzio.
Per quel motivo Gerardo, il nostro generoso e combattivo compagno, nel suo compito ricostruttore del tesoro segreto del Cile, comincia col forte e fiorito Pedro de Oña, questo fiume cileno di diamanti coperti dalle ombre australi.
Seguel vive la vita illuminando l'opera e la vita degli altri, pulendo e facendo folgorare la flora collettiva, infiammando le anime antiche col suo coraggioso cuore patriota e comunista.
Egli ci aiuta a recuperare il nostro con senza eguale tenacia, ritornando alla vita quello che fu nel suo tempo fertile e palpitante, perché ai poeti del passato non può tornare con occhi secchi a rimuoverli e classificarli di nuovo nelle loro gelate nicchie, bensì con un ramo rosso che faccia saltare la polvere e l'acqua del tempo.
Seguel affonda la mano in questa lira incatenata dall’oblio e tocca i suoi archi d’oro acuto, di infinito e metallico rumore, perchè persistano, e continuino a brillare, e continuino il suo oro.

Santiago, giugno 1940

Prologo a Gerardo Seguel,
Pedro de Oña,
Santiago, Ercilla, 1940.



II
Viaggio I (1939-1943)

Quevedo dentro
(1939)

In questo punto litoraneo e germinale dell'America, in questa bocca di fiume dalle cui acque germogliano imprecise stelle, è buono ricordare le ombre che ci hanno condotti fino a questa data, e soprattutto estendiamo questa ombra e riposiamo sotto di lei, per l'ombra di questo studente sfortunato, di questo lunatico spagnolo chiamato Don Francisco de Quevedo: è ombra sifficiente affinché in lei riposi un nido ed una razza.
È l'ombra dell'albero della razza, l'ombra dura, compatta e gigantesca del padre delle nostre parole e del nostro silenzio, è l'ispanico strumento di patimento e di conquista il cui tremore scuote l'aria dalle radici fino alle stelle, ed è, per i quali immaginiamo la poesia come esploratore dell'essere, la più audace lezione di crescita e di ritorno.
Leggiamo sotto a questo dolce titolo: "Amore costante ma là della morte":

Chiudere potrà i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno,
e potrà slegare questa anima mia
ora al suo affanno ansiosa adulatrice;

ma no, da quest’altra parte, nella riva,
lascerà la memoria, dove ardeva:
nuotare sa la mia fiamma l'acqua fredda,
e perdere il rispetto a legge severa.

Anima a chi tutto un dio prigione è stata,
vene che umore a tanto fuoco hanno dato,
midolla che hanno gloriosamente arso,

il suo corpo lascerà, non la sua attenzione;
saranno cenere, ma avrà senso;
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Sotto questa alzata architettura, chi non riconoscerà con emozione e panico la nostra propria sillaba di sangue, la risposta di tutto un passato di passione, e davanti alla negativa circostante, davanti agli occhi ciechi e agli uditi che non ascoltano, non vedete come questo traboccato cuore spagnolo si repliega su sé stesso e sfida tutta la notte ventura, tutta l'inumana sostanza del destino?

Chiudere potrà i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno.

Contemplate l'eroe: vicino a Cuenca, in Castiglia, nel limite panoramico di un mondo tutto pietra e stella, tutto fatalità, concedendo, tuttavia, la sua parte alla morte:

Chiudere potra i miei occhi l'ultima
ombra che mi porti il bianco giorno,
e potrà slegare questa anima mia
ora al suo affanno ansiosa adulatrice;

Un passo in più in quella consegna smisurata, una concessione in più alla sconfitta, ma

ma no, da quest’altra parte, nella riva,
lascerà la memoria, dove ardeva:

così sorge la tempestuosa vitalità da questo capitano del sangue. No, non lascerà nella riva altro che la circostanza dolorante della morte, non lascerà in lei altro che alcuni fiori fisici, ma la luce immacolata, oltre le parole e la lingua, il suo destino spagnolo di indipendenza, di separazione e di protesta, non lascerà, no, la memoria dove ardeva, questa fede imperitura che alza al popolo spagnolo invaso da un'orda di villana oltre i limiti dell'eroismo dentro questo circolo chiuso di codardi che rinchiude il mondo come schifoso anello:

Anima a chi tutto un dio prigione è stata,
vene che umore a tanto fuoco hanno dato,
midolla che hanno gloriosamente arso,

Sì, anima e paese che hai albergato tutta questa divina aspirazione degli uomini attraverso il ferro e l'incendio ed attraverso il martirio, vene che avete riempito tutta la terra con la vostra magnanima ed infinita sostanza, midolla che hanno arso affinché la libertà sorgesse dalla notte, che grande corpo fisico, oltrepassato da dardi, corpo quevedesco, invincibile della Spagna popolare e tenera, perchè grande è la tua corona di spine e la tua resistenza di celestiale presenza dura:

il suo corpo lascerà, non la sua attenzione;
saranno cenere, ma avrà sentito;
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Ascoltate la voce dell'eroe spagnolo, la voce della speranza sulle rovine, la voce dell'essere assoluto, la voce che viene invocando dalla nascita del paese, e che dovrà essere ascoltata, perché si erge come minacciante campana oltre la lotta finale, oltre la sconfitta ed il deserto fumante distrutto dalla mitraglia, oltre i campi di concentramento, dove gli spagnoli espulsi della loro patria da forestieri sanguinari, saranno

saranno cenere, ma avrà senso;

saranno cenere, saranno materia sparsa dala crudeltà e dalla vigliaccheria del mondo, ma avrà senso, ma avrà significato, avrà combattimento, avrà ritorno,

polvere saranno, ma polvere innamorata.

Si Quevedo, saranno disfatti i tuoi familiari sintomi dell'amore e della morte spagnoli, saranno sterminati quanto diede al mondo più generosità con un pugno di uomini che tutto il resto della storia,

polvere saranno, ma polvere innamorata,

polvere innamorata che da dove giace mostra una rosa profonda, una fede immortale che non si dissangua né può morire.
Spagnolo Quevedo, spagnolo della stessa stirpe che Cervantes e la Pasionaria, perché nella tua razza si confondono il paese e la cultura, abbiamo letto questo sonetto alzandolo sulle nostre deboli teste perché le sue brevi sillabe danno ombra e vento di bandiere, e rompono sorgendo lì dove non esiste altro che pietra implacabile.

Montevideo, marzo 1939

In Emilio Oribe,] uan Marinello e Pablo Neruda,
Neruda entre nosotros, Montevideo, Edizioni
AIAPE, 1939, ed in
Aurora de Chile, num. 19,
Santiago, 4.5.1940.


Viaggio al cuore di Quevedo
[1942]
VIAJES I. VIAJE AL CORAZÓN DE QUEVEDO. (Pagine 451-469.) Il governo messicano aveva approvato il progetto solidale di costruire una scuola nella città di Chilla, Cile, distrutta dallo spaventoso terremoto del 24 gennaio 1939. La scuola avrebbe portato murali degli artisti messicani David Alfaro Siqueiros e Xavier Guerrero. Il nuovo console Pablo Neruda estese i visti a Siqueiros e sua moglie, Angélica Arenal, senza pensarci due volte. Ma senza la protocollare autorizzazione del Ministero di Relazioni Esterne che punì il console per il suo "atto di indisciplina" con la sospensione delle sue funzioni per un mese. Senza godere di stipendio, naturalmente. All'indisciplina di Neruda deve Chillan una Scuola Messico con il murale Morte all'invasore. Ed i lettori del poeta devono alla stessa indisciplina le conferenze che il console castigato approfittò per scrivere e leggere in Guatemala ed a Cuba. Una di esse fu questo "Viaje al corazón de Quevedo", sviluppo dell'embrionale "Quevedo adentro" del 1939. L'altra fu il " Viaje por las costas del mundo". Neruda li riunì nei volume Viajes (Santiago, Ediciones de la Sociedad des Escritores de Chile, autunno 1947, 73 pp. In una posteriore edizione di Viajes (Santiago, Nascimento, 1955, 2I5 pp.) incorporerà altri tre testi: " Viaje al Norte", "Viaje de vuelta" e "El esplendor de la tierra". Inserendo Viajes nella quarta edizione OC * (Buenos Aires, 1973), Neruda operò ancora una nuova riduzione escludendo "Viaggio de vuelta" e "El esplendor de la tierra". È chiaro che non ebbe mai di Viajes un'idea unitaria e strutturata, non potè pensarlo mai davvero come uno dei suoi libri. Inoltre i cinque testi - ed in particolare i due primi che sono semplicemente splendidi - si leggono e si godono meglio a parte, per cui li ho disposti in questo volume sotto il lemma comuni VIAJES e secondo la sequenza cronologica in cui furono scritti. Sperando che il lettore approvi alla fine dei viaggi.

Nel fondo del pozzo della storia, come in acqua più sonora e brillante, brillano gli occhi dei poeti morti. Terra, popolo e poesia sono una stessa entità incatenata da sotterranei misteriosi. Quando la terra fiorisce, il popolo respira la libertà, i poeti cantano e mostrano la strada. Quando la tirannia oscura la terra e punisce le spalle del popolo, per primo si cerca la voce più alta, e cade la testa di un poeta nel fondo del pozzo della storia. La tirannia taglia la testa che canta, ma la voce nel fondo del pozzo ritorna alle sorgenti segrete della terra e dall’oscurità sale alla bocca del popolo.
Questo è un viaggio al fondo del pozzo della storia. Ci dirigiamo a un territorio oscurato, a una strada in cui le foglie degli alberi rimangono bruciate da secoli, e in cui le interrogazioni si riferiscono ad un inferno terrestre, raso al suolo dall’angoscia umana.
Vado a parlarvi di un poeta e del suo prolungamento in altri, vado a parlarvi di un uomo e delle sue domande, dei suoi martiri e della sua lotta, e vedrete come appaiono nel tempo, altri dolori, altre lotte, altra poesia e altre affermazioni. Gli uomini di cui parlerò passarono la vita invocando la terra, abbassando lo sguardo alle profondità dell’uomo e della vita, cercando disperatamente un cielo più possibile, bruciandosi gli occhi nella contemplazione umana, nella disperazione celestiale.
Questo è un viaggio al fondo nascosto che domani si desterà vivente. Questo è un viaggio alla polvere. Alla polvere innamorata che domani ritornerà a vivere.
E vi porto con me in questo viaggio a un uomo turbolento e temibile come don Francisco de Quevedo y Villegas, che anche considero come il più grande dei poeti spirituali di tutti i tempi. È evidente in lui, come in tanti altri grandi uomini, questo fatto mai troppo evidenziato. Quevedo è fustigato dalla fase critica del suo tempo: è fustigato e percosso come una canna, ma la canna non si rompe. È una canna che canta. La mantiene alta come una freccia e china come una zappa tutta la vita materiale del suo tempo. Ci sono in Quevedo, come in una cantina immensa, come nel deposito di un immenso spogliatoio di teatro, tutti i costumi abbandonati di un’epoca. È lì il costume del nobile duca e del buffone miserabile, il costume del re patetico, del ricco abusatore e il volto innumerevole della folla affamata che più tardi si chiamerà “il popolo”. Le casacche bordate dei principi giacciono vicino ai vestiti sgualciti delle meretrici, le scarpe del ficcanaso, dell’avaro, del pretenzioso, del picaro, si confondono con le reliquie dei più ingenui contadini.
Ma, da una finestra entra il colore azzurro della conoscenza ed è qui che tutta questa moltitudine maleducata e lussuosa, palpitante e bestiale, riceve il raggio che sta germogliando ancora dal cuore del cavaliere.
Tutto rimane vivo quindi in questo secco recinto, tutto, tutte le idee materiali della sia epoca. La critica esplode da tutte le parti come un metallo bollente. Il cavaliere della conoscenza, il terribile signore della poesia, con la sua mano sinistra ha creato il polveroso museo dei costumi dimenticati e con la sua mano destra sostiene tuttavia il trapano vivente della creazione e della distruzione.

Non devo tacere, se non con il dito
ora toccando la bocca, ora la fronte,
silenzio chiami, o minacci paura.

Non devo tacere, se non con il dito
ora toccando la bocca, ora la fronte,
silenzio chiami, o minacci paura.

Non deve parlare una spirito valoroso?
Sempre si deve sentire quello che dice?
Mai si deve dire quello che si sente?

Oggi, senza paura, libero, scandalizza,
può parlare l’ingegno, assicurato
da quel maggior potere che lo spaventa.

In altri secoli poté essere peccato
severo studio e la verità nuda
e rompere il silenzio il corretto parlare.

Quindi sappia chi lo nega, e chi ha dubbi,
che è linguaggio la verità di Dio severo
e il linguaggio di Dio mai fu muto.

Niente dimenticò di vedere nel suo secolo don Francisco de Quevedo. Mai dimenticò di vedere né la notte né il giorno, né in inverno né in estate, e non accecò i suoi occhi di trapano pigro il poderoso, né lo ingannarono il mercenario e il ciarlatano di mestiere.
Martí ci ha lasciato detto di Quevedo: “Approfondì tanto quello che capitò, che oggi lo viviamo e con la sua lingua parliamo”.
Con la sua lingua parliamo … A cosa si riferisce Martí? A questa sua qualità di padre dell’idioma che, come nel caso di Rubén Darío, che passeremo la metà della vita negando per comprendere poi che senza di lui non parleremmo la nostra propria lingua, cioè, che senza di lui parleremmo ancora un linguaggio indurito, incartapecorito e insipido? Ma non mi sembra essere questo il caso. L’innovazione formale è più grande in un Góngora, la grazia è più infinita in un Juan de la Cruz, la dolcezza è acqua e frutta in Garcilaso. E continuando, l’amarezza è più grande in Baudelaire, la veggenza è più soprannaturale in Rimbaud, ma più che in tutti questi, in Quevedo la grandezza è più grande.
Parlo di una grandezza umana, non della grandezza del sortilegio, né della magia, né del male, né della parola: parlo di una poesia che, nutrita da tutte le sostanze dell’essere, si alza come albero grandioso che la tempesta del tempo non piega e che, al contrario, gli fa spargere intorno il tesoro delle sue sementi ribelli.

La vita mi fece percorrere i più lontani siti del mondo prima di arrivare a quello che dovette essere il mio punto di partenza: la Spagna. E nella vita della mia poesia, nella mia piccola storia di poeta, mi toccò conoscere quasi tutto prima di arrivare a Quevedo.
Così anche, quando calpestai la Spagna, quando posi i piedi sulle pietre polverose dei suoi popoli dispersi, quando mi cadde sulla fronte e sull’anima il sangue delle sue ferite, mi dette conto di una parte originale della mia esistenza, di una base rupestre da cui sta tremando ancora la culla del sangue.
Le nostra praterie, i nostri vulcani, la nostra fronte oppressa da tanto splendore vulcanico e fluviale, poterono molto tempo fa costruire in questa desertica fortezza l’arma da fuoco capace di perforare la notte. Fino a oggi, dei geni poetici nati nella nostra terra verginale, due sono francesi e due sono francesizzati. Parlo degli uruguaiani Julio Laforgue e Isidoro Ducasse, e di Rubén Darío e Julio Herrera y Reissig. I nostri due primi compatrioti, Isidoro Ducasse e Julio Laforgue, abbandonano l’America nella tenera età loro e dell’America. Lasciano abbandonato il vasto territorio vitale che invece di procrearli con vortici di carta e con illusioni canine, li solleva e li riempie del soffio mascolino e terribile che produce il nostro continente, con la stessa irrazionalità e lo stesso disequilibrio, il muso sanguinante del puma, il caimano divoratore e distruttore e la pampa piena di frumento perché l’umanità intera non dimentichi, attraverso noi, il suo inizio, la sua origine.
L’America riempie, attraverso Laforgue e Ducasse, le strade rarefatte dell’Europa con una flora ardente e gelata, con dei fantasmi che da allora la popoleranno per sempre. Il pagliaccio lunatico di Laforgue non ha ricevuto la luna immensa delle pampas invano: il suo bagliore lunare è più grande della vecchia luna di tutti i secoli: la luna apostrofata, virulenta e gialla dell’Europa. Per togliere alla luce della notte una luce tanto lunare, era necessario averla ricevuta in una terra risplendente di astri recentemente creati, di pianeta in formazione, con steppe piene ancora di rugiada selvaggia. Isidoro Ducasse, conte di Lautréamont, è americano, uruguaiano, cileno, colombiano, nostro. Parente dei gauchos, dei cacciatori di teste del Caribe remoto, è un eroe sanguinario della tenebrosa profondità della nostra America. Corrono nella sua desertica letteratura i cavallerizzi maschi, i coloni dell’Uruguay, della Patagonia, della Colombia. C’è in lui un ambiente geografico di esplorazione gigantesca e una fosforescenza marittima che non la da la Senna, ma la flora torrenziale del Rio delle Amazzoni e l’astratto nitrato, il rame longitudinale, l’oro aggressivo e le correnti attive e caotiche che hanno la terra e il mare del nostro pianeta americano.
Ma all’americano non disturba lo spagnolo, perché alla terra non disturba la pietra né la vegetazione. Dalla pietra spagnola, dai dintorni logorati dalle impronte di un mondo tanto nostro come il nostro, tanto puro come la nostra purezza, tanto originale come la nostra origine, doveva uscire il ricco cammino della scoperta e della conquista. Ma, se la Spagna ha dimenticato con eleganza immemorabile la sua epopea di conquista, l’America dimenticò o le insegnarono a dimenticare la sua conquista della Spagna, la conquista della sua eredità culturale. Passarono le settimane, e gli anni indurirono il ghiaccio e chiusero le porte del cammino duro che ci univa alla nostra madre.
E io venivo da una atmosfera carica di aroma, inondata dai nostri spietati fiumi. Fino a allora vissi soggetto al tenebroso potere delle grandi selve: il legno nuovo, di recente tagliato, aveva trapassato il mio vestito: ero abituato alle rive immensamente popolate di uccelli e vapore in cui, alla fine, tra le conflagrazioni di acqua e fango, si udivano sguazzare piccole imbarcazioni selvatiche. Passai per stazioni in cui il legno giovane arrivava dai boschi, precipitato dalle rive dei fiumi rapidi e torrenziali, e nelle province tropicali dell’America, vicino alle banane ammonticchiate ed al loro odore decadente, vidi attraversare la notte le colonne di farfalle, le divisioni di lucciole e il passo trascurato degli uomini.

Quevedo fu per me la roccia tumultuosamente tagliata, la superficie sporgente e tagliente sopra un fondo di color di sabbia, sopra un passaggio storico che recentemente mi incominciava a nutrire. Gli stessi oscuri dolori che volli vanamente formulare, e che talvolta si fecero in me estensione e geografia, confusione d’origine, palpitazione vitale per nascere, li trovai dietro la Spagna, argentata dai secoli, nell’intimo della struttura di Quevedo. Fu quindi mio padre maggiore e mio visitatore di Spagna. Vidi attraverso il suo spettro il grande scheletro, la morte fisica, tanto attecchita in Spagna. Questo grande contemplatore di ossari mi mostrava il sepolcrale, aprendosi il passo tra la materia morta, con un disprezzo imperituro per il falso, perfino nella morte. Lo ostacolava l’apparato del mortale: andava nella morte diretto al nostro compimento, quello che chiamò con parole uniche “l’agricoltura della morte”. Ma quanto lo circondava, la necrologia adorativa, lo sfarzo e il becchino furono i suoi ripugnanti nemici. Tolse indumenti ai vivi, la sua opera fu di ritirare maschere agli alti mascherati, per preparare l’uomo alla morte nuda, dove le apparenze umane saranno più inutili del guscio del frutto caduto. Soltanto il seme ritorna alla terra con il diritto della sua nudità originale.
Per questo per Quevedo la metafisica è immensamente fisica, il più materiale del suo insegnamento. C’è una sola infermità che uccide, e questa è la vita. C’è un solo passo, ed è il cammino verso la morte. C’è una sola maniera di consumo e di sudario, è il passo trascinatore del tempo che ci guida. Ci guida dove? Se alla nascita iniziamo a morire, se ciascun giorno ci avviciniamo a un limite determinato, se la vita stessa è una tappa patetica della morte, se lo stesso minuto che germoglia avanza verso il logoramento ci cui l’ora finale è soltanto il vertice di questo trascorrere, non integriamo la morte nella nostra quotidiana esistenza, non siamo parte perpetua della morte, non siamo il più audace, quello che uscì dalla morte? Non è il più mortale, il più vivente, il suo stesso mistero?
Per questo, in tanta regione incerta, Quevedo mi dette un insegnamento chiaro e biologico. Non è il trascorrere invano, non è l’Ecclesiastico né il Kempis, ornamenti della necrologia, ma la chiave anticipata delle vite. Se già siamo morti, se veniamo dalla profonda crisi, perderemo il timore della morte. Se il passo più grande della morte è il nascere, il passo minore della vita è morire.
Per questo la vita si accresce nella dottrina quevedica come io lo ho sperimentato, perché Quevedo è stato per me non una lettura, ma una esperienza viva, con tutta la rumorosa materia della vita. Così hanno in lui le loro giustificazioni l’ape, la costruzione della talpa, i reconditi misteri floreali. Tutti hanno superato la tappa oscura della morte, tutti si stanno consumando fino alla fine, fino alla distruzione pura della materia. Ha la sua spiegazione l’uomo e la sua burrasca, la lotta del suo pensiero, l’errante stanza degli esseri.

La burrascosa vita di Quevedo, non è un esempio di comprensione della vita e dei suoi doveri di lotta? Non c’è avvenimento della sua epoca che non porti qualcosa del suo fuoco attivo. Lo conoscono tutte le rivendicazioni e lui conosce tutte le miserie. Lo conoscono tutte le prigioni, e lui conosce tutto lo splendore. Non c’è niente che sfugga alla sua eresia in movimento: né le scoperte geografiche né la ricerca della verità. Ma dove attacca con lancia e lanterna è nella grande altezza. Quevedo è il nemico vivente del lignaggio governativo. Quevedo è il più popolare di tutti gli scrittori della Spagna, più popolare di Cervantes, più indiscreto di Mateo Alemán. Cervantes estrae dal limitato umano tutta la sua prospettiva grandiosa, Quevedo proviene dalla interrogazione profetica, dal decifrare i più oscuri stati, e il suo linguaggio popolare è impregnato del suo sapere politico e della sua sapienza dottrinaria. Lontano da me pretendere queste rivalità nell’alveo appagato delle ore. Ma quando attraverso il mio viaggio, da poco illuminato dalla oscura fosforescenza dell’oceano, arrivai a Quevedo, sbarcai in Quevedo, percorsi queste coste sostanziali della Spagna fino a conoscere la sua astrazione e il suo terreno desertico, il suo grappolo e la sua altezza, e scegliere il coraggio che mi aspettava.
Mi fu dato di conoscere attraverso le gallerie sotterranee di morti le nuove germinazioni, lo spontaneo dell’avena, il sotterrato delle nuove uve e le nuove cristalline campane. Cristalline campane di Spagna, che mi chiamavano dall’oltremare, per domare in me l’insaziabile, per spolpare i limiti territoriali dello spirito, per mostrarmi la base segreta e dura della conoscenza.. Campane di Quevedo lievemente tenute per funerali e carnevali da antico tempo, interrogazione essenziale, strade popolari con bovari e mendicanti, con principi assolutisti e con la verità stracciona vicino al mercato. Campane di Spagna vecchia e Quevedo immortale, dove potei riunire la mia scuola di pianto, i miei addii attraverso i fiumi a delle pagine di pietra in cui era già determinato il mio pensiero.
I martiri di Quevedo, le sue prigioni e i suoi duelli non inaugurano, ma bensì continuano la persecuzione all’intelligenza umana a cui l’uomo si è addestrato da secoli e che è culminata nei nostri ultimi laceranti anni. Ma in Quevedo il carcere aumenta lo spazio materiale della sua poesia, elevandola verso l’ambito più immenso, senza spezzare la corrente fluviale del suo pensiero. Il suo potere soprannaturale di resistenza lo fa elevare sopra i suo dolori, e i suoi stessi lamenti sembrano maledizioni, e attuali maledizioni:
Dice in una delle sue ultime lettere, dalla prigione:

Se i miei nemici hanno rancore, io ho pazienza. L’animo, che sta fuori dalla giurisdizione delle serrature e lucchetti, si
distacca dalla terra al cielo e va e viene riposando in giornate immense.

Ma l’orrore della sua vita a volte lo dissangua:

Un anno e dieci mesi fa si eseguì la mia prigionia al 7 dicembre, vigilia della Concezione della Nostra Signora, alle dieci e mezzo di sera. Fui portato nel rigore dell’inverno, e senza una camicia, a sessantun anni, a questo Convento Reale di San Marco di León, dove sono stato tutto questo tempo in rigorosissima prigionia, infermo con tre ferite, che con i freddi e la vicinanza di un fiume che ho al capezzale, mi sono incancrenito, e per la mancanza di un chirurgo, non senza pietà mi hanno visto cauterizzare con le mie proprie mani, tanto povero, che di elemosina mi hanno coperto e trattenuto in vita. L’orrore delle mie fatiche ha spaventato tutti …

“L’orrore delle mie fatiche …” Il poeta, grande tra i grandi, scontava così la sua poesia, la sua immersione nella vita degli uomini, nella politica del tempo. Egli alzò frustate sopra la corruzione dei tirannucoli, cortigiani e principi, e nell’inaffondabile scienza della sua parola metafisica, non dimentica mai i suoi doveri essenziali e contemporanei. Afferra con braccio poderoso le sostanze stellari della notte e del tempo, e con l’altro braccio segna la fronte altezzosa della cattiveria. Per questo l’abbraccio di Quevedo con la terra ci commuove ancora, con le possibilità della sua grandiosa eredità di stelle e spighe torrenziali.

Coloro che più tardi raccolsero le granate azzurre di curiosità, di magnificenza e di castigo che Quevedo aprì per i secoli, toccarono anche, al conquistare il suo lignaggio, le ferite della persecuzione e della morte. Lo splendore degli anelli vitali nelle mani del poeta, il fulgore dei lampi sulla sua testa fece tremare i tiranni e decretare la sofferenza.
Non vediamo in un grande poeta e scrittore quevedesco, in Federico Garcia Lorca, sulla cui grazia del sud marittimo e arabico cadono le gocce mortali dell’anima di Quevedo, non lo vediamo patire e morire per aver raccolto i semi della luce?
Quando scoppia l’insurrezione fascista, Federico vive a Granata, prima di morire, una visione terribile, quevediana, dell’inferno. Suo cognato, il signor Montesinos, era sindaco di Granata. La stessa mattina della sollevazione fu fucilato vicino al municipio, il suo cadavere fu legato per i piedi al posteriore di un’automobile e fu trascinato così per le strade di Granata. Probabilmente, Federico, abbracciato a sua sorella e a sua madre, vide dai balconi della sua casa arrivare il mulinello che trascinava in verità il cadavere della Spagna.
Da allora non sappiamo niente tranne la propria morte, il crimine per cui Granata passa alla storia con una bandiera nera che si scorge da tutti i punti del pianeta.

L’altro quevediano, il pensieroso, il concentrato cantore di Castiglia, incantato nella sua malinconia, nella visione del paesaggio roccioso di Castiglia, il grande don Antonio Machado, ottiene di aprire gli occhi prima di essere sterminato, e al di là delle colline bruciate e l’estensione terrena ottiene di vedere per l’unica volta, ma in maniera profonda, i volti ardenti e i fucili del suo popolo. E prima di morire si converte al sacro di questa epoca, al grande e venerabile albero della poesia spagnola, alla cui ombra canta e combatte e si dissangua la libertà umana.
Ma, come Quevedo, paga col sangue la sua elevazione verso il popolo. Non avevate pensato qualche volta agli ultimi giorni di Machado? Talvolta soltanto nella Bibbia incontriamo tanto dolore accumulato e tanta serenità maestosa. Machado si unisce al suo popolo che abbandona la Spagna sconfitta e fa il terribile cammino verso i Pirenei tra i centomila civili fuggitivi, nel più grande esodo della storia, con freddo e fame, e mitragliati dall’aria dai “difensori della civiltà occidentale”. Sostenendo la sua vecchia madre e i suoi due fratelli, viaggiando a piedi o su camion stretti fino all’asfissia per la quantità di esseri che dovevano accogliere, arriva Machado, senza piegare il suo spirito, fino alla frontiera francese. È sempre il primo a far tacere le voci che protestano, l’ultimo a lamentarsi. Ma, così appena arrivato a un piccolo villaggio, non si alzavano più dal letto né sua madre né lui. Muore prima don Antonio, e nella sua agonia chiede di non comunicare la sua morte a sua madre. Sua madre dura pochi giorni ancora.
La metà della Spagna aveva bisogno della loro anima. La Spagna, l’antica, la dinastica, la sanguinosa, la inquisitoria, copriva con una mano di sangue il territorio. La Spagna splendente scompariva e si apriva di nuovo il carcere di Quevedo.

Guardai il muri della patria mia
[…]

Ma ancora restava un quevedesco, un gran poeta dentro la Spagna incatenata. Vediamo adesso la sua vita, il suo martirio e la sua morte.
In una forte estate secca di Madrid, della Madrid anteriore alla guerra, mi incontrai per la prima volta con Miguel Hernández. Lo vidi immediatamente come parte dura e permanente della nostra grande poesia. Sempre pensai che a lui spettava, qualche volta, dire vicino alle mie ossa alcune delle sue violente e profonde parole.
In quei giorni secchi di Madrid arrivava fino alla mia casa ogni giorno, a conversare con me dei suoi ricordi e del suo futuro, arrivava a mostrami il fuoco costante della sua poesia che lo stava bruciando da dentro fino a far maturare i suoi frutti più segreti, fino a fargli spargere stelle e scintille.
Aveva da poco cessato di essere pastore di capre di Orihuela, e veniva tutto profumato dalle zagare, dalla terra e dallo sterco. Gli si spargeva la poesia come dalle mammelle troppo piene cade a gocce il latte. Mi raccontava che nei lunghi riposi della sua pastorizia metteva l’orecchio sopra il ventre delle capre puerpere e mi diceva come poteva ascoltarsi il rumore del latte che arrivava alle mammelle, e andando, con me per le notti di Madrid, con una agilità incredibile, saliva sugli alberi, passando con rapidità dai tronchi ai rami, per fischiare dalle foglie più alte, imitando per me il canto dell’usignolo. Il canto degli usignoli levantini, le sue torri di suono alzate tra l’oscurità e le zagare, erano ricordo ossessivo, premuto sulle sue orecchie, e erano parte del materiale del suo sangue, della sua anima di fango e di suono, della sua poesia terrena e silvestre, in cui si uniscono tutti gli eccessi del colore, del profumo e del suono del Levante spagnolo, con la sua abbondanza e la sua fragranza di una poderosa mascolina gioventù.
Il suo volto era il volto della Spagna. Tagliato dalla luce, corrugato come una semina, con qualcosa rotondo di pane e di terra. I suoi occhi ardenti erano, dentro questa superficie bruciata e indurita dal vento, come due raggi di forza e di tenerezza.
Non può sfuggire dalla radici del cuore il suo ricordo, che sta attaccato con la stessa fermezza con cui le radici si attaccano ai terreni della nobile terra della profondità. Gli elementi stessi della mia poesia e della mia vita vidi uscire di nuovo nelle sue parole, ma cambiati da una nuova grandezza, da uno splendore selvaggio, dal miracolo del sangue vecchio trasformato in un figlio. Nei miei anni di poeta, e di poeta errante, posso dire che la vita non mi ha dato di contemplare un fenomeno uguale di vocazione e di elettrica saggezza verbale.

Vicino alla cristallina, ferma e aerea struttura di Rafael Alberti, ritengo questi tre poeti assassinati, Antonio Machado, Federico Garcia Lorca e Miguel Hernández, come le tre colonne sopra le quali si appoggiavano la volta materiale e aerea della poesia spagnola peninsulare: Machado, la quercia classica e spaziosa che conservava nella sua atmosfera e nella sua maestosa severità la continuazione e la tradizione del nostro linguaggio nelle sue essenze più intime, Federico era il torrente di acque e colombe che si alza dal linguaggio per portare i semi dello sconosciuto a tutte le frontiere umane, Miguel Hernández, poeta dall’abbondanza incredibile, di forza celestiale e genitale, era il cuore erede di questi due fiumi di ferro: la tradizione e la rivoluzione. Per quegli anni recenti, e tanto lontani, avevo un carattere di bambino, di figlio dei campi. Ricordo che, portato dalla mia esigenza perché non tornasse a Orihuela, feci intervenire appoggi per ottenergli una collocazione a Madrid. Incalzato dalle nostre petizioni, il visconte di Mamblas, Capo delle Relazioni Culturali nel
Ministerio de Estado, poté dirci che sì, che avrebbe dato una collocazione a Miguel Hernández, ma che lui dicesse che cosa desiderava fare. Mai dimenticherò quando arrivò alla mia casa quel giorno e io rallegrato gli comunicai la buona notizia. “Deciditi - gli dissi -, e dimmi subito ciò che vuoi, chiedi perché ti danno la nomina”. Allora, Miguel, molto turbato, mi rispose: “Non mi potrebbero dare un gregge di capre vicino a Madrid?”.
Nel 1939 ritornai al Ministero degli Esteri del mio paese, a Santiago del Cile. Ci arrivavano in America i rumori incredibili di una rivolta militare e della resa di Madrid. Ottenni dal Ministero degli Esteri che fosse offerto asilo nella nostra Ambasciata di Madrid agli intellettuali spagnoli. Così potemmo salvare alcune vite.
Miguel Hernández non volle accettare asilo. Credette di poter seguitare a combattere. Entravano già i fascisti nella capitale spagnola quando egli andava a piedi verso Alicante. Arrivava tardi. Era accerchiato. Ritornò come poteva a Madrid, disperato e straziato.
E l’Ambasciata non volle accoglierlo. La Falange Spagnola vigilava alle porte perché non entrasse nessun spagnolo, perché non si salvasse nessun repubblicano nel luogo che ospitò durante tutta la guerra più di 4000 franchisti.
Miguel Hernández fu arrestato e poco dopo condannato a morte. Io ero di nuovo al mio posto a Parigi, organizzando la prima spedizione di spagnoli in Cile. Riuscì a arrivarmi il suo grido si oppressione. In un pranzo al Pen Club di Francia ebbi la fortuna di incontrarmi con la scrittrice Maria Anna Comnene. Essa ascoltò la storia lacerante di Miguel Hernández che portava come un nodo nel cuore. Facemmo un piano e pensammo di fare appello al vecchio cardinale francese monsignor Baudrillart.
Il cardinale Baudrillart aveva già più di 80 anni ed era completamente cieco. Ma gli facemmo leggere dei frammenti dell’epoca cattolica del poeta che stava per essere fucilato.
Questa lettura ebbe effetti impressionanti sul vecchio cardinale, che scrisse a Franco alcune commuoventi righe.
Si produsse il miracolo e Miguel Hernández fu posto in libertà.
Così ricevetti la sua ultima lettera. Me la scrisse dall’Ambasciata del mio paese per ringraziarmi. “Vado in Cile - mi diceva -. Vado a prendere mia moglie a Orihuela”. Lì lo arrestarono di nuovo e questa volta non lo liberarono. Non potemmo intervenire per lui.
Lì morì dopo pochi mesi, lì rimase spento il nuovo raggio della poesia spagnola. Ma non cessa di spargere dolcezza la sua raggiante poesia, e la sua morte non lascia seccare gli occhi di quelli che lo conobbero.

Attraverso i secoli si mette la luna e la morte sulle terre di Spagna. Una piccola fossa vicino ad un’altra si premono sotto la terra e la induriscono. Il tempo ha levigato le colline fino a trasformarle in soppalchi di ossa, e la luna porta a spasso sopra le alte pietre antiche il suo sguardo giallo.

Allora si allontanano porte segrete, e dove una luce di stella è caduta, in mezzo al più infinito rumore dell’ortica, dei cardi caduti, come se si sgretolasse un’ala di colombo torraiolo, si apre il recinto dei poeti sotterrati nelle infinite tombe di Spagna.
Stanno tutti nel medesimo luogo, perché attraverso la terra sono caduti al più fondo, al precipizio interno da dove esce la fertilità, al profondo burrone dove rotolò tutto il sangue.
Quevedo è lì l’immenso gufo, quello che conosce le ultime notizie del disastro, quello che ode le profonde campane peninsulari, quello che toccò attraverso le radici i cuori più minerali, il cuori induriti dalla sofferenza. Sempre fu Quevedo il saggio sotterraneo, l’esploratore di tanto labirinto che si impregnò di luce fino a darla per sempre alle tenebre. Vicino a lui, al padre profondo, Machado e Federico sono come figli essenziali ciononostante rivestiti di silenzio. Miguel recentemente è arrivato alla profondità dai suoi combattimenti.
Sono svegli perché la loro parola non muoia. Aprono la porta terrestre verso le intemperie. Nessuno può vederli nella oscura notte spagnola, nel luogo più remoto della zagara che cantarono, lontani dall’usignolo che hanno adorato, fuori dai fiumi e dalle sue rive che guardano ancora l’orma delle ninfe. Essi soltanto ascoltano la tenebra, essi soltanto avanzano sopra le rovine, essi guardano le più nascoste lacrime d’Europa.
Essi agitano non soltanto il cardo e l’ortica che li circondano, essi preservano non soltanto la pietra che li opprime, ma un materiale purissimo, le ali fantasmatiche di quello che deve rivivere. Essi annotano nel loro libro irresistibile quanto di malefico e maledetto si va compiendo, come si stiracchiano le lunghe ore della disgrazia, come si avvicina la campana che deve infrangere il cielo.
Essi vengono attraverso il silenzio e essi continuano la vita. Ancora i più crudeli e scatenati, quelli che versarono il sangue per arrivare al luogo del potere, saranno fantasmi, saranno morti abominevoli oscurati dall’orrore. Ma i poeti sono in tal modo materiali, più dell’alluminio e dell’uva, più della propria terra, che attraversano gli anni della paura e sono per il loro popolo fonte nascosta di speranza e tenerezza. Vivono più in basso di tutte le pagine, più in alto delle biblioteche, meno ermetici attraverso la morte, soltanto ogni volta più essenziali radici nella profondità, radici che stanno salendo verso la superficie e ascendendo attraverso gli uomini per sostenere le lotte e la continuità dell’essere.
Così, quindi, materia, sostanza materiale della Spagna, dell’eternità della Spagna, è Francisco de Quevedo.
Voglio che vediate, con il rispetto che io ho per la sua insigne ombra, il duello interminabile, il suo combattimento d’amore e di passione con la vita e la sua resistenza verso la seduzione della morte. A volte la sua passione lo affonda nella terra, lo fa più poderoso della morte stessa e a volte la morte di tutte le cose invade il suo pazzo territorio di passioni carnali. Soltanto un poeta tanto carnale può arrivare a tale visione spettrale della fine della vita. Non c’è nella storia del nostro idioma un dibattito lirico di tanta esasperata grandezza tra la terra e il cielo.

Se figlia del mio amore la mia morte fosse,
che parto tanto felice che sarebbe
quello del mio amore contro la vita mia!
Che gloria, che il morir da amar nascesse!

Porterei io nell’anima dove fosse
il fuoco in cui mi brucio, e guarderei
la sua fiamma fedele con la cenere fredda
nello stesso sepolcro in cui dormissi.

Dall’altra parte della morte dura,
vivranno nella mia ombra le mie attenzioni.

“Dall’altra parte della morte dura/ […]”
Ma è possibile? Chi può in verità tentare una simile impresa? A chi può la morte concedere dopo la partenza tutta la potenza dell’amore? Soltanto a Quevedo. E questo sonetto è l’unica freccia, l’unico trapano che fino ad oggi ha onorato la morte, lanciando una spirale di fuoco alle tenebre:

Chiudere potrà i miei occhi l’ultima
ombra, che mi porta il bianco giorno;
e potrà sciogliere questa anima mia
ora al suo impegno ansioso lusingherà:

ma non, dall’altra parte, sulla riva
lascerà la memoria, nella quale bruciava:
nuotare sa la mia anima l’acqua fredda,
e perdere il rispetto a legge severa.

Anima a cui tutto un Dio prigione è stato:
vene che umore a tanto fuoco hanno dato;
midolli che hanno gloriosamente bruciato;

dal suo corpo si separeranno, non dalla sua attenzione:
saranno cenere, ma avrà sentito:
polvere saranno, ma polvere innamorata.

“Polvere saranno, ma polvere innamorata.”
Mai il grido dell’uomo raggiunse più altezzosa insurrezione: mai nel nostro idioma riuscì la parola a accumulare polvere tanto straripante.
“Polvere saranno, ma polvere innamorata.“ È in questo verso l’eterno ritorno, la perpetua resurrezione dell’amore.

Polvere saranno, ma polvere innamorata … Non sono Lucifero né Prometeo, né gli arcangeli dalle ali sterminate. È la materia umana che, basandosi sulla sua propria composizione mortale, si sovrappone per la prima volta alla distruzione finale dell’essere e delle cose.
Questo è il Quevedo terrificante delle forze naturali. Ma c’è anche il Quevedo della contrizione, della amarezza e della stanchezza.
Questa è l’amara fotografia non soltanto dello stato di un uomo, ma dello stato di una nazione sventurata.
È morto il fuoco dei camini, i contadini dormono per le strade, perseguitati dal freddo e dalla fame. Le chiese si riempiono di armi, i chierici accompagnano i guerrieri, le ossa della guerra biancheggiano sopra la terra bruna.

Guardai i muri della patria mia,
si un tempo forti, ora crollati
[…]

Ma dalla sua debolezza esce un’altra volta la sua forza di vedente e questa Spagna abbattuta e distrutta del suo tempo, torna ad essere il ritratto di una Spagna di adesso. La terra si imbianca di nuovo con ossa di soldati e di poeti, i muri carcerari marciscono ancora per il pianto dell’uomo.
Il grande testimone continua a guardare, più in là dei muri, più in là dei tempi. E così è il testimone irriducibile che queste grandi presenze, questi grandi testimoni lasciano, come organismi, con tanto ferro e tanto fuoco, che possono resistere alla trepidazione ed al silenzio delle età.

Poco prima di morire Federico García Lorca, mi raccontava che in una delle sue peregrinazioni, in cui il grande poeta guidava un piccolo teatro di studenti attraverso gli sperduti villaggi della Spagna, arrivò a un piccolo borgo e davanti alla chiesa fermò il gran carro de “La Barraca” e cominciò a montare lo scenario.
Poiché non c’era niente da vedere nel villaggio, Federico diresse i suoi passi verso la chiesa e entrò nella navata oscura. Cominciava a imbrunire …
Alcune vecchie tombe vicino alle pareti antiche, mostravano ancora sopra le pietre le lettere scalpellate di spagnoli morti da molto tempo.
Federico si avvicinò a una di queste e cominciò con difficoltà a sillabare un nome: “Qui giace – diceva la lapide – don Francisco – Federico, non con emozione, ma anche con un poco di terrore, continuò a leggere - … de Quevedo y Villegas, Cavaliere dell’Ordine di Santiago, Patrono della Città di Sant’Antonio Abate …”.
Non aveva dubbi, il più grande dei poeti, il raggio terribile, scatenato, con tutta la sua passione e la sua intelligenza e la sua tragica concezione gloriosa della vita e della morte, giaceva dimenticato per sempre, in una dimenticata chiesa di un dimenticato villaggio. Il ribelle riposava e l’oblio e la notte di Spagna lo nascondevano. Era entrato in quello che lui chiamava l’agricoltura della morte. Lo sdegno e il disprezzo con cui lui trattò la sua epoca si vendicavano di lui, lasciando un nome raggiante e turbolento sepolto sotto una povera pietra consumata. Fu tale la sua emozione, mi raccontava Federico, che, turbato, disorientato, confuso e rattristato, tornò dai ragazzi de “La Barraca” e ordinò di smontare il tavolato e continuare il viaggio in Castiglia. Lì rimaneva …

quella anima a cui tutto un Dio prigione è stato,
quelle vene che umore a tanto fuoco dettero,
quei midolli che gloriosamente bruciarono …

Ma io vi ripeto, alla fine di questo viaggio al cuore di Quevedo, perché fertile è la vita, imperitura la poesia, inevitabile la giustizia e perché la terra di Spagna non è soltanto terra ma popolo, io vi dico attraverso quelle bocche che continuano a cantare:

dal suo corpo si separeranno, non dalla sua attenzione:
saranno cenere, ma avrà sentito:
polvere saranno, ma polvere innamorata.

Cursos y conferencias, rivista del Collegio Libre de
Estudios, num. 199-200, Buenos Aires, ottobre -
novembre di 1943, ed in
Viajes, 1947 e 1955.


III
SCOPRENDO L'AMERICA 2
(1940-1943)

Il cielo e le stelle del Cile per il padre Alonso de Ovalle

Del formidabile materiale che ecceda la storia del leggendario paese cileno lasciarono gli scrittori coloniali, trascriviamo oggi una pagina - chiara e stellare - del meraviglioso Alonso de Ovalle sul cielo cileno. Ovalle è considerato come un classico nella storia americana. Gesuita, nato in Cile, come Diego dei Rosales,Ignacio Molina ed il padre Lacunza, si caratterizza, come tutti loro, per il suo esteso e quasi stravagante patriottismo. Gli elogi delle frutta, dei pesci, dei minerali, dei fiumi della sua sconosciuta patria, portano un indicibile accento esaltato di amore.

Araucanía, num. 1, Messico, 15.1.1941
Nota di introduzione ad un testo.


Versi di Sara de Ibáñez

Quando il diamante annida e si raggruppa nel corpo dell'uomo, ed invece della sua sfumatura minerale mette i suoi fili nel sangue, quando il suo zucchero stellato rompe la pelle umana e stabilisce lì la sua simmetria, è difficile tirare fuori alla luce fuoco e fulgore, perché questa sostanza fredda ed ardente brucia la sua strada, e lascia al suo passo un'orma fosforica, come di sangue o lucciola.
Questo è il caso della nostro pura, alta e risplendente compagna in poesia, l'uruguaiana Sara de Ibáñez, inedita fino ad oggi. Se bisogna chiudere gli occhi per accecarsi davanti a tanta luce condotta, se vediamo la rosa raggiante che alzano le sue mani vicino al mare giallo di Montevideo, pensiamo alla dolorosa e delicata forza che fece uscire in onde di quarzo e di agata profonda, questo nuovo e sommerso firmamento per la nostra poesia.
Manca in lei il mobile
juanramonesco con zampe di libro, manca in lei il rancore dell'asino demenziale, è voce e fiore e cielo per tutti i giorni fulgore intagliato nell'evviva luce dell'America, stella dura, diretta e tenera, appena uscita e tremante nel litorale del sud.

Taller, num. XII, Messico, gennaio-febbraio 1941.


Discorso nell'anfiteatro Bolivar

La parola esce come una freccia da una grotta oscura, e sarà sempre inutile il suo volo ed il suo suono se non ritorna alla terra con una goccia di verità tremando nella sua sonora punta. Due parole devo dirvi questo pomeriggio, ma in esse andrà la freccia di ritorno e la goccia appena cagliata.
Una nuova mitologia di oratori ci conduce a facili lusinghe. Crediamo lusingarci mutuamente sottolineando le somiglianze che esistono tra i nostri paesi. Io, da parte mia, vi assicuro non esistere due nazioni sorelle tanto differenti come Messico e Cile. Tocchiamo le sue strutture, andiamo a chiamare le loro profondità.
E naturalmente la bellezza del mondo sta nelle differenze. È un metallo, nel seno della terra, differente che giace addormentato vicino al suo materiale, è distinta ogni famiglia di foglie ed ogni coppa di albero. Tutto quello che c'è sulla terra vuole differenziarsi.
Basta guardare una mappa per comprendere. Il vostro territorio è un corno di abbondanza che rovescia verso il sud e verso il nord tutta la vostra prodigiosa ricchezza, molte volte, come disse il vostro poeta maggiore, sotto dettatura del diavolo. Tutto è germe, colorito e prodotto della vostra estesa patria.
Il nostro territorio è una spada di pietra e neve abbandonata nella costa più lontana del pianeta. Noi cileni abbiamo sentito, non il suono dell'aria nelle palme, né abbiamo sentito cadere le frutte pesanti e mature nella siesta del tropico; abbiamo vissuto conquistando la nostra propria estensione, pulendo la costa indurita che ci toccò abitare, ed alzando nelle nostre mani il fulgore della nostra dura patria.
Tra Acapulco, azzurra, e Punta Arenas, polare, sta tutta la terra, coi suoi climi e le sue razze e le sue regioni differenti. Lì finiscono gli alberi, gli uomini e la terra. Comincia presto il mare antartico e la gran solitudine dei ghiacci.
Mentre grandi razze di sacerdoti e guerrieri, tra voi, sceglievano il turchese, la giada e l'oro per alzarli all'altezza del fiore, e le strutture di templi e piramidi di un impero gigantesco riempivano il vostro territorio, era tra noi l'ombra della preistoria. E quando per affrontare il più grande impero incarica la Spagna, ed il mondo, il suo più titanico capitano, Hernán Cortés, una nuova Spagna grandiosa di tempii e di umanesimo si alza in questo lato dall'America, mentre noi sentivamo il tamburo guerriero di Arauco che dominava appena il silenzio delle città bruciate.
La nostra riserva ed i nostri silenziosi lavori civili cominciano a segnarsi come risultato di condizioni storiche e fisiche, il nostro sviluppo lento ed organico ci modella differenti in tutto dagli orgogliosi argentini e dai segreti peruviani. Messico, nel nord, si differenzia da tutti, per la sua vita scossa e drammatica, per il suo grandioso scenario in cui la libertà ed il sangue, come grandi statue allegoriche, indicano le strade del mondo.
Ma se discendiamo dal bicchiere e dal fiore, se rifiutiamo tutta la superficiale apparenza, se sconfiggiamo ogni benevolente sentimentalismo, se passiamo dalla foglia al tronco e dal tronco all'origine: lì ci incontriamo.
Messicani e cileni ci incontriamo nelle radici e lì dobbiamo cercarci: nella fame e nell'insoddisfazione delle radici, nella ricerca del pane e della verità, nelle stesse necessità, nelle stesse angosce, sì, nella terra, nell'origine e nella lotta terrestre ci confondiamo coi tutti i nostri fratelli, con tutti gli schiavi del pane, con tutti i poveri del mondo.
Verso la nostra America avanzano in questa ora sanguinante, la guerra ed i protettori; tra il sangue e l'oro vogliono incatenarci. Non so, né sapete, quale sarà il nostro destino in questo temporale terribile. I vecchi ed i nuovi pirati si spartiscono il bottino del mondo e le vecchie mani dell’Europa che cesellarono e dipinsero e scrissero tutto quello che imparammo, si alzano ora sotto una luna sanguinaria affinché anche la nostra America impari da lei l'arte completa di annichilire la vita.
Noi americani, vogliamo la pace, ma se questa è stata impossibile, speriamo che dalle ceneri della contesa, nella quale non vogliamo altri vincitori che i paesi di ogni paese in lotta, esca una nuova umanità che non accumuli le ricchezze in alcune mani, ma che ripartendole faccia impossibile lo sterminio e l'odio. Che il bottino non cambi mani, che la pace venga con la giustizia.
Perciò in questa ora la mia voce va verso i paesi oppressi, e li saluta con la mia libera coscienza di cileno e di americano, e saluto da questa casa di studenti, gli oppressi paesi della Cecoslovacchia e dell'India, i cinesi che lottano contro il loro terribile nemico, gli spagnoli che ancora, tra le boscaglie delle Asturie, resistono con quella forza di leoni che li fece unici eroi del triste mondo attuale.
Il mio pensiero va anche dai soldati delle Brigate Internazionali, ai rifugiati politici spagnoli, tedeschi, cechi, italiani, che si accumulano in campi di concentramento in Francia, senza che il mondo dia uno sguardo a coloro che dettero il loro sangue al paese spagnolo nella loro grandiosa lotta. Il mostruoso egoismo dell'umanità li lascia dimenticati e perseguiti come criminali, lascia che gli eroi marciscano nella sporcizia e nella fame, quando portati e ripartiti nella nostra vasta America essi sarebbero le uniche basi, le vere, le basi morali, le basi umane senza le quali la lotta contro il fascismo è in anticipo una sconfitta.
Giovani camerati: perdonate che vi abbia portato tanto lontano per mostrarvi una goccia di quello che credo la verità. Spero che il vostro fortunato viaggio stabilisca tra la mia patria e la vostra una nuova corrente di vita: una corrente di gioventù ed in realtà, una corrente di radici.

Tierra Nueva, num. 9-10, México D.F. maggio-agosto 1941.


Miguel Prieto
MIGUEL PRIETO. (Pagina 474.) Pittore spagnolo di nascita (Almodóvar del Campo, 1907) e messicano di adozione dal 1939. Fece paesaggi e ritratti, ma anche murali come quello dell'Osservatorio Astrofisico di Tonantzintla (1955). In Messico emerse nella grafica giornalistica: fu tipografo e direttore della rivista Romance, direttore artistico e tipografico del México en la cultura, il famoso supplemento letterario delle giornaliere Novedades, della Revista de la Universidad e delle pubblicazioni dell'Istituto Nacional de Bellas Artes. Neruda gli confidò la programmazione e tutto il curato grafico della gran edizione messicana di Canto general (1950). Da ciò Enrique Robertson dedusse ragionevolmente in conferenza inedita (Università del Cile, inverno 2000) che Miguel Prieto sarebbe stato il designer del LOGO nerudiano, apparso per la prima volta in quell'edizione di Canto general. Essendo il responsabile grafico di tutto ciò, Prieto non sentì la necessità di puntualizzare la sua paternità rispetto al magnifico design del pesce tra circoli armillari che era per lui solo un elemento dell'insieme. Non immaginò magari che Pablo Neruda - senza rivelare o meglio senza ricordare la sua origine, come succedè anche col suo nome di poeta – lo avrebbe adottato come emblema della sua opera e come bandiera del suo regno in Isola Nera. Miguel Prieto morì a Città del Messico nel 1956.

Prieto, piccolo albero dagli occhi azzurri, nutre le sue radici nel terreno pietroso e polveroso della solitudine castigliana, ed all'improvviso è tutto rami e fiore, primavera incandescente e petulante, perchè tra gli azzurri passa il crepuscolo freddo, il fuoco dei villaggi, i solitari fianchi del mare. Giovane pittore purificato e divoratore, albero di molto miele, è nel suo essere l'armonia e la furia: le due sale del mondo.

El Nacional, México D.F., 19.10.1941.


Alla gioventù di Morelia

Io avevo voglia di conoscere la vostra città famosa che Alberti ti descrivessi come un gran fiore rosato e che è piuttosto una campana di corallo cenerino alzando il suo accordo puro tra le colline e le praterie verdi. La volli conoscere come si vuole entrare nelle città addormentate della selva, una Morelia addormentata nell'acqua del tempo: una città vuota sotto i cui portoni, sui cui atri leggendari passarono solo le ombre centenarie dei dei e degli eroi. Ma da oggi faccio l'acquisizione della vostra esistenza, giovani fraterni, e so che d'ora in poi, nel mio ricordo non saranno vuoti i boschi né le belle pietre monumentali, bensì popolate per il fuoco, per la gioventù, per la speranza, per quello che siete e sarete, per lo spirito che difendete con la vostra presenza in questa sala intorno ad un uomo che non cerca un altro modo di essere grande che quella di essere umano.
Cominciate a vivere nell'angosciosa era decisiva di due mondi. Due grandi paesi titanici, i più grandi del nostro pianeta si sono impigliati in lotta mortale. Uno di essi lotta per mantenere l'odio di razze e di uomini; l'altro per alzare gli schiavi, per dsre dignità alla vita. Uno di essi fece dei libri un gran falò; l'altro finì una tirannia e delle sue rovine fece milioni di libri. Il capo di uno di essi disse come lemma: "Quando sentiate la parola cultura tirate fuori la rivoltella", e l'altro capo di Stato quello stesso giorno lasciò un alloro rosso nella tomba di Alejandro Pushkin. Perciò, per la vostra patria, per il vostro paese, per il mondo che vi toccherà vivere, avete ben tracciate e differenziate con sangue, le rotte che dovete scegliere.
Che il mio passo tra voi, giovani e fraterni cuori, vi aiuti a camminare dalle nobili pietre di Morelia, per la rotta della conoscenza, dell'intelligenza, della cultura, verso la fraternità finale tra tutti gli uomini.

Parole pronunciate per un'accoglienza nel Salone
Coloniale del Museo di Morelia, Michoacán, secondo
cronaca in
El Nacional, México D.F., 22.10.1941.


Guardo alle porte di Leningrado come guardai alle porte di Madrid

Amici miei: ogni volta che le circostanze impongono la mia presenza e le mie parole in una riunione di amici o nemici, vivo per molte ore prima turbato da un problema antico tra i miei problemi. Ed è quello di parlare o non parlare dei temi sociali e politici, quello di nascondere o no le sue drammatiche ripercussioni, quello di fare giocare l'intelligenza o la coscienza.
Quante volte ho visto la protesta e l'inquietudine di quelli che ascoltarono, e tante volte ho sopportato, non solo la conseguenza fisica di quanto dissi, bensì la semplice pena umana di avere ferito chi non stava con me quando stavano vicino a me. Nessuno cercò più di me il silenzio da conservare, lo cercai nella poesia e nelle pietre segrete della terra, cercai la dimenticanza nella botanica che vestisti di azzurro le pianure dei boschi, mi persi e mi ubriacai nell'oceano e nel cielo.
Ma nel fiore e nella parola, nella pianta e nella pietra, quando entrai in essi con la mano e col sangue, trovai in fondo a tutte le cose il cuore dolorante degli uomini. E persi possibilmente molte entità misteriose, ignorai senza dubbio molti sistemi di saggezza e di splendore, per incatenarmi in maniera definitiva alla ruota terribile dell'angoscia e delle speranze dell'uomo.
Per quello, perdonatemi, se oltre le vostre nobili fronti, oltre questo coro di amicizia poderosa che mi circonda come un anello di oro profondo, vedo, siedo, sento, oltre questa massa e oltre voi, quello che è registrato ogni minuto ed ogni ora nella sostanza del mio cuore: vedo i contadini assiderati e frustati, vedo gli operai del carbone, del caucciù, del salnitro, dell'avorio, sfruttati e feriti, cerco in mezzo alle selve l'origine del Rio delle Amazzoni, della sua forza fluviale e sacra, e vedo dalla sua origine tribù affamate, dolori e miserie, e per la costa dei nostri oceani sento la risata dei grandi ed il pianto immenso dei poveri. Sento i passi e le fruste dei despoti, vedo Luis Carlos Prestes, vedo i carcerati di Puerto Rico, vedo gli spagnoli imprigionati in Spagna, vedo Martín Niemoller, a Thaelmann, a Gabriel Peri. E guardo le porte di Leningrado come guardai le porte di Madrid, lo stagno di sangue di dove può uscire la nuova salvazione terrestre, ed angosciato fino al fondo con tanti dolori dell'umanità ed illuminato per le speranze che nascono dal sangue della gran nazione patriottica ed eroica difesa dei barbari invasori da milioni di cuori rossi. Perdonatemi quelli che non credete, quelli senza fede, che un uomo, affranto e speranzoso, porti ora, e sempre, ad ogni riunione, in ogni posto dove l'ascoltino, la sua testimonianxa, la sua angoscia e la sua speranza.
Cari amici messicani: mi avete aperto le porte della vostra patria violenta, sono entrato in lei prendendo possesso di tutto. Quello che ho voluto di voi sta già con me per sempre; stranieri, potete odiare o adorare questa terra, ma essa vi ha cambiato, la porterete nella vita impregnando perfino la vostra ombra. Io sentii arrivando ardere le stelle nell’oscuro, alzarsi gli immensi alberi sulla mia statura, ed il vento musicale e grandioso da questo clima portarmi inginocchiato ai piedi degli dei che ancora dirigono la vostra grandiosa patria.
Io vi vorrei ricevere in Cile, qualche volta con l'affetto che mi dimostrate questa notte. Lì comincia in questa epoca la primavera, spunta il freddo bocciolo del melo selvaggio mostrando il suo piccolo tremore di arteria di fronte alle grandi cordigliere. Il cielo fa tremare le sue brillanti materie vicino al nostro infinito litoraneo. Le isole si riempiono di fiori, ed il vino e la primavera toccano come in un bicchiere le labbra della mia patria.
Lì ci riuniremo qualche volta, fratelli. Lì o a Madrid, a Mosca, o in Germania o nella Francia riconquistata. Lì dove, come in questo gran paese fratello o come nella mia terra australe, si possa prendere il pane ed il vino dell'amicizia sotto le bandiere della libertà e della giustizia. Lì staremo qualche volta, insieme o separati, ma felici.

El Siglo, Santiago, 23.11.1941.


Sonata delle suppliche
SONATA DE LAS SÚPLICAS. (Pagine 478-479.) Curioso poema inedito che sembra scritto nello stile della "América, no invoco tu nombre en vano", capitolo VI (scritto nel 1942) di Canto general, del quale potrebbe essere un frammento residuo o rifiutato. Dattilografato in carta con intestazione del Senato, porta titolo e correzioni manoscritte con inchiostro verde di pugno e lettera di Neruda, più un'annotazione manoscritta di Homero Arce: inedito in [di?] 1942. - Dalla collezione nerudiana di Nurieldín Hermosilla.

Da lei usciva un roco grido di tempesta, la goccia
della pioggia nella notte, vicino al mare, la piuma
furiosa dell'albatro, bagnata in fuoco verde,
e questo signore, l'uomo, credè toccare senza dubbio
quel grido, quel fuoco, ed il volo del sangue.
Piccolo bicchiere di oro, pieno di un mare temuto,
disse, ed alla sua bocca assetata
avvicinò mare e fuoco, l'eternità
a lui destinata, il filo oscuro
della segreta primavera. "Dammi
la tua mano, dammi la tua voce di bacio, lasciami
ridere nelle scale, ed all'altezza
dell'alto inverno australe, quando ritorna
al suo livello infossato il fiore dell'ulmo e crescono
le acque araucane, la notte discende
ai saloni di velluto sbiadito,
ama questo fiore fluviale, questa pianta di argento,
questo suono solo che cercò il tuo grembo."

Questo è un tango. Che tango è questo?

Perché mi ammazzi, le disse lui, perché affondi
questo pugnale nel mio cuore? Ed ella
gli disse: "Questo è un tango. Che tango è questo?."

Era il tempo in cui l'autunno si divide
e cade in oro ed acqua la sua esistenza confusa,
il freddo marino entra nei parchi
come l'onda selvaggia dell'aria disabitata,
ma lì, corpo a corpo, due verità,
combattevano due esseri.

Egli, che ella amò se non un certo nembo retto
vicino alle sue tempie, qualcosa di determinato
fosse di lei, egli si disse: questa è l'aurora
di forti riccioli corti,
e come prima, e come più tardi e come segue
questo uomo, nella piccola stanza, rinchiuso
da tutte le pareti che crescono senza cessare,
disse: "Toccami l'anima, lì mi ferisci...."

Ed ella gli disse: "Questo è un tango. Che tango è questo?."

Testo inedito. Originale dactiloscrito senza firma,
datato 1942, titolo e correzioni manoscritti da Neruda.


Zweig e Petrov

La morte di Stephan Zweig e la morte di Eugenio Petrov sono francobolli e cifre del nostro tempo. Di un tempo che agonizza e che nasce.
Col suicidio di Stephan Zweig muoiono molti altri uomini, muoiono da lontano suicidio, di evasione, di diserzione, di vigliaccheria. La morte di Zweig è naturale, è la morte di un tempo che non ha che cosa fare. La morte di un uomo che non ha che cosa fare sulla terra nel momento dei grandi compiti. La morte di un scrittore - di un scrittore - quando tutto si è scritto, quando dobbiamo tornare a scriverlo tutto, quando il tempo comincia di nuovo a nascere.
Eugenio Petrov muore combattendo e scrivendo: mitragliato, rotto, sparso nell'uragano della nostra guerra, Éles grande. Solamente egli è grande.
Egli è tutta la grandezza. Corre al cuore della tempesta a combattere, a scrivere, ad estrarre la notizia eroica, ad illuminare il suo paese mostrandolo che non combatte solo. La sua morte fa nascere un'epoca, irriga con un sangue impetuoso il seme del nostro nuovo tempo.
Questa gran guerra dell'umanità lascia seminata l'URSS di mille eroi. Le sue frontiere si aggrovigliano di sangue e di alloro.
Tra essi, per la nostra condizione di scrittori, nessun eroe più puro e più alto di Eugenio Petrov.
La sua morte cancella altre morti vigliacche, come la primavera la nera cicatrice del tempo morto. Il suo sangue sale dalla terra fino agli alti alberi. E sopra agli alti alberi rimane vivendo il suo nome scritto con immenso fuoco.

Repertorio Americano, num. 946,
San José, Costa Rica, 12.9.1942.


La poesia di Juan Rejano

Quando si rifacciano le medaglie distrutte dalla sera pestilente di questi tempi, rotta appena dalle righe valorose della battaglia spagnola e slava, raccoglieremo tra fango e cenere le lacrime di questa poesia, la sua coda di vetri, di tale maniera che saremo orgogliosi pensando come passò il gabbiano lasciando una stele di platino sul cielo oscuro della tempesta terrestre, e esamineremo quella minuziosa moneta, fragranza stretta e splendore, come un documento di antichi eroi, di molta età, di molta angoscia, di molta primavera anche: sonetti, canzoni edificate nella pietra fresca del tempo insanguinato: pure, luminose gioiellerie degne di salire agli alberi per essere tagliate: allori radianti della dignità del cuore.

Questo è Juan Rejano pieno di malinconia e di dicerie, e questo il suo primo albero in cui ogni stella, ogni foglia ed ogni nido conservano le lucentezze rettilinee della coscienza, e gli scintillii insorgenti del sangue, e la luce pesta di questa ora delle vite.

Questa poesia non comincia: c'era un posto in attesa nella nostra lingua per la sua diamantina struttura.

Nota di bandello a Juan Rejano, Fidelidad de sueño e
La muerte burlada, Messico, Ediciones Diálogo, 1943.
Anche in El Nacional, Messico, 18.4.1943.


Su Mayakovski

Quando eravamo molto giovani sentivamo la voce di Mayakovski con incredulità: in mezzo alle ordine dei sistemi poetici che avevano classificato la poesia tra le linee dell'alba e del crepuscolo, si alzava una voce vicino ai martelli delle costruzioni, un poeta affondava la mano nel cuore collettivo ed estraeva di esso le forze e la fede per elevare i suoi nuovi canti. La forza, la tenerezza e la furia fanno di Mayakovski fino ad oggi il più alto esempio della nostra epoca poetica. Whitman l'avrebbe adorato. Whitman avrebbe sentito il suo grido attraversando le steppe, rispondendo attraverso il tempo e per la prima volta le sue imponenti rogative civili. Quello che di spazioso e travolgente ha la costruzione dell'URSS, l'intenso suono di strumenti di acciaio che colpiscono le gravi estensioni, gli ultimi spari della guerra civile, la nuova bandiera che ecceda il rosso del sangue dei lavoratori perseguiti per secoli alzava come nuovi pianeti la falce ed il martello, dando così dignità eterna alle nuove leggi umane, il combattimento, la speranza, la grandezza della nuova nazione e del Partito Bolscevico, tutto quello vive in Mayakovski come se dentro il suo proprio cuore si stessero sviluppando le tappe dalla costruzione, come se sentisse nel suo petto tutta il rumore di attrezzi e di inni della sua poderosa patria.
Dopo questi anni di silenzio la poesia di Mayakovski ritorna a dirci la sua verità ed il suo splendore. Perché gli invasori attaccando l'URSS hanno attaccato la sostanza stessa dei suoi grandi poemi di passione e musica; hanno conficcato i canini nel sangue stesso dei suoi eroici colonizzatori e construttori, hanno voluto asciugare la sorgente profonda che riempiva di freschezza universale questa nuova e coraggiosa poesia.
Egli accompagnava alla sua patria ed il suo paese come li accompagnò nella sua nascita. Grande onore per un poeta, il più grande onore. Perché la fede che ispirarono i suoi canti carica i fucili, magnifica la voce dei grandi aeroplani, alza le spade ed accompagna gli uomini alla vittoria.

Bollettino SAURSS [Societad de Amigos de la URSS]
Messico, 15.7.1943.


Discorso di Michoacán

Pronunciato nell'Università di San Nicolás di Hidalgo, Morelia, Michoacán, il 17 agosto 1943, ricevendo il titolo di Dottore Honoris Causa.


Dal fondo originale del Messico, fiorito ed agguerrito, mi chiamò sempre Michoacán, questa regione intatta del silenzio che alza un bicchiere di smeraldo ed ora un bicchiere di fuoco, verso i lenti cotoni celestiali della sua atmosfera incomparabile. Forse la bellezza di questa terra, la sua versata ombra verde, trova nel più profondo del mio essere un paesaggio simile, il territorio australe del Cile, con laghi e con cieli, con pioggia e con fiori selvaggi, con vulcani e con silenzio: il paesaggio della mia infanzia e della mia adolescenza. Forse tornò a trovare il mio cuore errante la sagoma di luce ed ombra che fugge e perdura, l’idioma delle foglie bagnate, l'alto esempio delle pure campagne coltivate.
Ma altre cose mi fecero amare Michoacán. I vostri eroi antichi che parlano ancora per le strade di un'età sommersa, età che inzuppa le radici della vostra gioventù con un soffio di disubbidienza, di indipendenza e di libertà che le fa brillare da lontano, come se avesse una lampada vicino alla chioma; la vostra città signorile di rosa e di cenere, la vostra antica razza mostra che produsse la più nobile scuola di scultura dell'America, i tessuti ed i pesci, l'Acquedotto e li Abiti, l'acqua dei laghi ed Ocampo, i monti e Lázaro Cardenas.
Tutto quello le grandi campane me lo portavano di Morelia con la loro roca voce che, attraversando le altre terre fraterne, arrivava ai miei uditi dovunque stessi.

Perciò la vostra chiamata fraterna, la alta e solenne accoglienza in questo chiostro, la dignità che mettete nelle mie mani, è raccolta da me con una devozione inestinguibile. Se non fosse per i profondi rami di sangue che vi legano ad una costruzione infinitamente delicata nel passato, se non fosse per quella singolarità essenziale che produce in voi le migliori vibrazioni della patria messicana, non direbbe che oggi date la mano ad un straniero bensì una michoacano australe, di un'altra latitudine lontana. Ma quante volte ho pensato che sebbene conosciamo dove comincia il Messico, molto male sappiamo dove il Messico finisce. La pelle dell'America, la carne turbolenta della nostra America comincia nel Rio Grande, si fa un girovita in America Centrale affinché due mari facciano saltare la loro schiuma sulle ardenti palme, si allargano dopo come una gran anca, si rompe all'improvviso col nostro fiume generale, l’abbondante Amazzoni, padre di tutti i fiumi, si alza in blocchi di diamante e di argento per il Perù solare, si estende come un ventre fecondo nelle nostre pampas argentine, e finisce rompendosi nella mia patria oltre Magellano, oltre le ultime terre fredde del continente e del mondo, tra le onde antartiche.
Sì, la pelle del Messico corre e si diffonde, si taglia e si alza, si accende e si raffredda, ma è la stessa pelle dell'America, la stessa corteccia oscura sotto la quale ardono gli stessi fuochi, corrono le stesse acque e si sgrana il nostro stesso linguaggio.
Perciò le ferite che si svegliano in un posto, le offese che toccano qualunque parte nascosta del nostro continente, si ripartiscono immediatamente per tutto il nostro corpo. Ma anche le grida di libertà ed ansietà dei nostri uomini si diffondono su tutta la nostra materia americana con la stessa comunità devastatrice. Nel 1810 Hidalgo ed O'Higgins parlano quasi contemporaneamente attraverso migliaia di chilometri di estensione inaudita. Passati più di cento anni i movimenti politici antifascisti trovano nella nostra America uguale spontaneità unitaria. Dopo questa gran guerra ho la certezza che i movimenti di liberazione dei paesi troveranno in noi le sue più poderose correnti di sicurezza.
Ma come mi guida un'osservazione positiva al vaticinare, sperare e promettere una maggiore unità storica nel futuro, non condivido un americanismo senza profondità e senza dolore, che ascoltiamo ad ogni passo, e che tende a mostrarci il nostro continente come una terra senza problemi, come un paradiso incontrato o ritornato per incontrare gli uomini dell'Europa.
Questo si deve alla sensazione pacifica che diamo lontano dalle sanguinanti pianure in che l'Europa si disfa. Questo si deve ad un concetto egoista, chimerico ed ingannatore, che vuole allontanarci contemporaneamente dalle nostre amare certezze, e delle cause umane ed universali nelle che l'America sempre partecipò.

In questa pelle unica ed adorata della nostra America, in questa epidermide bruna, di grano e minerali, di mais e di sangue, che vi parlava alcuni minuti fa, in questo contesto sacro di geografia e di responsabilità, ci sono macchie come terribili pustole, ci sono ancora servitù e miseria. Piccoli gruppi crudeli del nostro stesso sangue maneggiano ancora la frusta dei caposquadra, sulla sua stessa specie, che è la nostra. Nazioni che conoscerete progressisti e pulite, avanzate e decorose, per arte e miracolo delle riunioni panamericane sono in realtà triste retrogusto di oligarchie fraudolente, prede di nuovi commissionari. Questi nuovi commissionari disprezzano i loro paesi come in un'altra ora lo fecero in Messico, fino a che la Rivoluzione li svegliò in mezzo alla notte trascorsa. In altri piccoli paesi che sogliamo chiamare fratelli da anni non c'è volontà se non quella di un capo criminale e temibile. In quei paesi non esiste né poesia né libertà. In uno di essi il tiranno cambiò perfino il nome della città capitale, nome vecchio e venerato da tutti gli americani, per il suo proprio nome insignificante se non fosse vile. In altri paesi ancora maggiori che il Messico, difensori della libertà i cui nomi incoraggiano la speranza dei combattenti della Cina e dell'Unione Sovietica, rimangono in prigione per la volontà di piccoli potenti i cui nomi saranno immediatamente dimenticati quando smettano di stringere le dita intorno al collo della patria che li vide nascere. In altri grandi paesi dell'America, generali appena ribellatisi cominciano a bruciare libri, imprigionare migliaia di uomini, ed a condurre i loro paesi al martirio.
Quando pensiamo come americani, quando in questa vecchia città insignita per il pensiero e per la libertà riceviamo, come oggi ricevo, il migliore alloro, quello della fraternità della nostra vita americana, pensiamo all'estensione che le brillanti luci di questa sala e le coscienze pure di questa sala, non riescono ad illuminare. Così come pensiamo alla cosa brillante e fertile della nostra comunità, lasciamo un giuramento nel silenzio grave di quell'altra America più sorella quanto più dolorante. Lasciamo al giuramento di basare il nostro destino di americano in forma totale, facendoci carico della felicità delle nostre pittoriche regioni e del termine di tante agonie.
A quelli che in forma tenace parlano dell'America per elogiare il nostro prodigioso isolamento geografico diciamogli: L'America è figlia della libertà e combattimento dove per la libertà si combatte. La terrificante minaccia dei conquistatori nazi-fascisti non fu per nessuno tanto grave come per noi gli americani. Se altre nazioni andavano a perdere potere e splendore noi andavamo a perdere tutto: eravamo destinati ad essere i più nuovi schiavi, i semiuomini per la nuova e grande Germania. Razzialmente disprezzati, infinitamente bramati come produzione e come carne economica nel nuovo ed immenso mercato dello schiavitú che i nazisti prepararono, eravamo noi le vere vittime sognate per i terribili terroristi dell'età moderna. Perciò in questa ultima epoca la mia poesia ha toccato i temi più palpitanti della guerra, della grande guerra che è la nostra guerra. Ho deluso molti che avrebbero voluto di me un compagno più nella festa dei fiori. Io ho dovuto celebrare altri fiori, altri fiori martirizzati ed altri allori, altri allori gloriosi da cantare.

Fino a qui amici di oggi, di ieri e di sempre, il parlare che ho fatto ringraziando per la distinzione che avete destinato un poeta che non ha avuto altro destino che quello di essere un uomo della sua epoca, e per questo troppo umano. Ai poeti non stette bene nella testa la corona di allori, quella corona fatta di falso alloro e falso bronzo che segnava quello a cui la consegnavano un piccolo istrione nella farsa delle epoche... A noi poeti fummo insigniti meglio con l'esilio o col lungo silenzio delle età. Quando voi, nobili amici, vi siete ricordati di valorizzare con la vostra dignità la mia poesia ed i miei combattimenti, non ho l'impressione di ricevere una falsa corona, bensì una spada per continuare a difendere il cuore dell'America.

In Raúl Arreóla Cortés, Pablo Neruda en Morelia,
Morelia, Michoacán, Ediciones Casa de San Nicolás,
1972. Ed in
Cuadernos de la Fundación Neruda,
num. 39, Santiago, 1999.


[Prologo per Ilyá Ehrenburg]

La cosa più implacabile e più dolce di Ilyá Ehrenburg vive in queste foglie di gran scrittore, in questo libro con forma e polvere da sparo di obici, in questo volume alto e rancoroso, ardente ed amaro come doveva esserlo. Io muoio di colera vedendo il ragazzino azteco, vedendo al ragazzino cubano o argentino propinarci la sua sfilza su Kafka, su Rilke e su Lawrence mentre sulla terra ferita gravemente la testa argentata di Ehrenburg si china, illuminata dall'intelligenza, frustata dall'odio, per trasmetterci queste montagne di patimenti umani e queste strade presenti e futuri.
Giovani di posizione azzurra, invecchiati improvvisamente per un'oscena preoccupazione di "poesia pura", dimenticano in questo momento i loro più elementari doveri umani. La forza, la malvagità, la servitù, l'orrore passeggiano le loro bandiere terribili sulle nostre teste. Vediamo cadere e cancellarsi i passi dell'eroe. Vediamo, come è descritto in questo libro e per sempre, depositarsi la palude su quello che fu splendore.
Chi in questa ora non è un combattente è un codardo.
Non ci corrisponde in questo tempo esplosivo cercare la migliore spiga del passato né sfruttare gli angoli del sonno. La vita e la lotta degli uomini hanno assunto tali proporzioni di grandezza che solo nella nostra epoca e nella nostra lotta vivono le fonti di tutta l’esprimibile.
Questo reportage di Ehrenburg, queste pagine, descrivono un inferno che Alighieri avrebbe registrato con la sua stessa passione, ed il vento dell'odio avrebbe fatto volare la spaziosa schiuma dei suoi terzetti per arrivare a questa prosa crivellata in cui la morte e la speranza salgono come linfe gemelle dalla terra fino alle foglie sanguinanti.
Quelli che leggono questo libro vedranno anche, come da anni molti uomini hanno visto, l'Unione Sovietica, in un'alba di forza e di purezza.
Il miracolo della Gran Resistenza non è un avvenimento soprannaturale, è un miracolo materiale, spirituale e, finalmente, davvero umano.
La divisione dei pani, fatta nella vasta estensione dell'URSS per il gran Partito Comunista, unico partito dell'Uomo, è un miracolo imperituro e terreno, non sfruttato e distrutto dopo per una casta malefica di sacerdoti, bensì esteso nella profondità e nella distanza degli esseri fino ai limiti della natura. La divisione dei pani realizzò più tardi il miracolo della moltiplicazione dei fucili.
In queste pagine di sovranità angosciata, i fucili ed i pani di un nuovo mondo - non il Nuovo Mondo che certi fachiri paradisiaci e messianici ci vuole regalare - brillano come scintille nella notte nera, scintille uscite della luce immortale che viene dalla Russia e del suo combattimento che è il nostro.

Prologo ad Ilyá Ehrenburg, Muerte al invasor,
Messico, Fondo di Cultura Popolare, 1943.


Messaggio all'Università Nazionale
(Bogotà)

Ringraziando con emozione e con raccoglimento le vostre fraterne parole, mi sembra vederle alzare dalla vostra patria meravigliosa e sento passare attraverso il mio corpo le sue frasi generose verso l'aria. Le sento arrivare ai miei compagni assenti, a quelli che in questo mondo doloroso che ci è toccato alzarono prima di me le bandiere della libertà su una maggioranza degli esseri umani. Loro, gli intellettuali che lottarono vicino ai loro paesi, voglio ricordare cominciando questa notte; voglio che la mia parola rimanga interrogando lo spazio, l'immenso spazio della battaglia e della solitudine, ripetendo: essi sono la luce, il sale ed il seme del mondo. Dove stanno? Dove stanno Romain Rolland, Aragona, Malraux? Dove stanno Antonio Machado, Federico García Lorca e Miguel Hernández, dove stanno? Questi tre ultimi stanno da tempo sotto la terra, pagarono con la vita il ramo di luce che sgranarono con la loro poesia sulla vita umana. Gli altri, i francesi, i tedeschi, gli italiani, i norvegesi, i poeti della Cecoslovacchia, di Praga e della Romania, pagano nella prigione sanguinante o nel lungo esilio l’avere parlato, avere nominato, avere sfidato i tiranni.
Perciò parlare in questi giorni significa interpretare il silenzio di molte nobili voci scomparso, di molte voci che non si sentono, che si confondono già con l'essenza stessa della distruzione di questo tempo, ma che ancora vogliono comunicare, comunicare un'altra volta, forse questa notte, forse a voi, attraverso la mia piccola voce di poeta, un messaggio angosciato ed ardente che non ci parla di oblio ma di vittoria.
Non dimenticherò mai quando al ritorno del nostro Congresso memorabile celebrato a Madrid durante la guerra della Spagna, ed al quale assisterono tanto celebri scrittori antifascisti del mondo intero, le parole del francese Vaillant Coutourier: "Quali saranno i risultati di questo concorso? Libri, libri, molti libri." Sì, il mio caro e morto Vaillant Coutourier. Mancavano libri per illuminare l'avvicinamento della catastrofe. Il fascismo riempiva di armi le sue cantine segrete, si sentivano già i passi dei soldati che andavano a riempire di oppressione tutte le strade della terra, e davanti all'immensa mareggiata di angosce dolorose che venivano sull'umanità, avevamo solo il libro: libri, libri e più libri. Subito ricordo le parole appassionate con cui Thomas Mann o il conte Sforza, intellettuali esiliati degli stessi paesi in cui si preparava la malvagità, annunciavano, prevenivano ed alzavano una voce inutile. Se in questo momento solenne della storia raccogliessimo le attestazioni, come dovranno ritirarsi, dell'epoca prossima passata, incominciando con la discussione della Spagna e la sua sottomissione ai dittatori della Germania e dell'Italia, ci meraviglieremmo di vedere come questi drammi si ripercossero nella vita e nell'ora degli intellettuali della nostra epoca, e come per la prima volta il movimento immenso degli uomini di penna, di pensiero e di fede, accompagnò in maniera quasi unanime il senso e la politica popolare del nostro tempo. Gli scrittori della Francia, con Aragon alla testa; i norvegesi, con Anderson Nexo; gli spagnoli, con Alberti; i cubani, con Marinello; l'Unione Sovietica, con tutti i suoi poeti e pensatori; gli scrittori dell'umanità intera sfidarono le nuove tirannie, aiutarono il vacillante, annunciarono i crimini futuri e diedero dignità ad un'epoca di invasioni e di tradimenti.
Così, poichè parlando come americani, come cileni, come argentini, come peruviani o come colombiani, non facciamo altro che, da un lato, raccogliere nel nuovo continente, che è corno un bicchiere aperto, la fragranza fresca che ci viene dal largo mondo, e, d'altra parte, continuare la tradizione di America che nasce non da essere stata scoperta in una mattina di nebbia, bensì della lotta del sangue versato nella conquista della sua libertà.
Ed una cosa è evidente ed è che il nostro spirito di americani portò di tutte parti i semi che fecero possibile una America indipendente. E le fecero possibile perché la nostra coscienza di giovani abitanti di questo continente planetario ci segnala che qui possono riprodursisi le piante più lontane, i semi più difficili, con tutto il loro naturale splendore.
Non ci spaventano dunque con la vecchia cantilena delle idee esotiche. Esotici siamo noi stessi, discendenti di razze estranee a queste nude terre, esotica fu la nostra servitù ed esotica la nostra liberazione. Nel secolo scorso tutte le idee libertarie della Francia riempirono di splendore la prostrazione in cui vivevamo, ed una canzone della Francia arrivò ad essere simbolo americano della libertà e dei nostri diritti al combattimento. Le idee esotiche degli intellettuali della Rivoluzione francese entrarono nella mia patria e nella vostra mascherate di breviari e di messali; le idee esotiche si diffusero, attecchirono, crebbero e fiorirono, e quelle idee venute in lingue altrui, concepite per uomini lontani, incarnarono quello che fu forse fino ad oggi il nostro ideale vivente. Oggi l'umanità davanti alla minaccia del terrore, della prigione e delle tenebre, c'invia da paesi lontani nuovi pensieri che un'altra volta si cagliano nei nostri spaziosi cuori americani. Benvenute le piante, i frutti, gli uomini e le idee esotiche nelle nostre fertili praterie. Grande e generosa è la nostra magione tutelare, e siamo cresciuti non per chiudere le porte e le finestre alla luce, bensì per buttare giù i muri e lasciare un giardino palpitante dove stia la costruzione ombrosa. Che nessuno voglia chiudere gli occhi, chiudere le orecchie e la bocca dell'America. La nostra gioventù ci fa arbitri e contenitori nella sanguinante vacillazione di questi anni; arbitri per stabilire col nostro giudizio la rotta del paese e delle libertà umane, e contenitori per lottare con esse con tutta l'energia della nostra incorruttibile gioventù. Che la nostra fresca e giovane America, torrenziale e fragrante, sia anche pulita e profonda. Pulita di crimini contro l'uomo, spoglia di povertà orrenda, divise le terre alzate verso la primavera. Che tutti gli americani sentano contemporaneamente, come una punta di lancia, quando si mozza in qualche angolo la libertà dell'uomo americano. Che i carcerati politici in questo momento, nelle piccole prigioni tenebrose, sappiano che li circonda oggi un'atmosfera di implacabile solidarietà e domani un'aria estesa di liberazione. Guardate la mappa, giovani americani, ogni giorno: la mappa del mondo e quella della nostra patria grande: segnate di nero a lutto il posto delle tirannie, segnate di fuoco il posto dove si combatte per distruggerle, e segnate di aria vuota i posti dove l'uomo non pensa né vuole scacciare le catene. E se questi posti stanno vicino a noi, se costituiscono macchie nella purezza stellare del nostro continente planetario, pensate al giorno che voi, giovani di questo istante, arriverete alle responsabilità americane, e parlate allora il linguaggio della gioventù. Dico il linguaggio e non il silenzio, perché davanti all'ignominia politica il silenzio fino ad oggi espresso è un crimine contro le essenze dell'America.
Anni fa volevo arrivare alla vostra patria e respirare l'aria antica della libertà colombiana, aria che si sparge come un alto profumo imparentandosi con l'aria della mia patria. Ora vengo dal Messico, il grande e generoso paese, sentinella e baluardo della nostra razza.
Arrivare dalle altezze dall'America Centrale e messicana, da quelle irsute e dure geografie, cadere dall’alto sulle porte della Colombia, pestare un tappeto tessuto di fragranza accesa e di amicizia immeritata, era uno dei sogni della mia adolescenza, sogno che oggi riscatto dalle profondità in cui giacciono morti tanti viaggi a che c'incita il cuore. La Valle del Cauca riempì di canzoni le chitarre della mia patria, le vecchie chitarre di principi del secolo, mettendo nella roca voce degli spedizionieri, dei soldati e delle innamorate una nota di gelsomino adolorato, un'invincibile mano di fascino e di lontananza. Così, dunque, questa terra desiderata, cantata e canterina, stava dietro ai miei viaggi per il tempo e la terra, perché finalmente il fondo di quanto passa per le nostre più remote rappresentazioni è sempre un pezzo, grande o piccolo, della nostra terra dell'America, e questa geografia e questa città, e le valli in che Jorge Isaacs pianta per sempre nel nostro cuore il suo fogliame di lacrime e José Asunción Silva scatena anche per sempre il suo lunatico splendore, erano per me simbolo e segreto dell'America, punto di partenza di una conoscenza più profonda dei posti in cui il nostro emisfero nasconde la sua palpitante delizia. Ora sto con voi, ed in questo posto la vostra gioventù nella sua accoglienza è per me come il legno puro dei vostri grandi boschi; voi farete domani della vostra propria stirpe il castello alto, duraturo e sacro della libertà nel mondo.

Testo letto nell'Aula Massima della Facoltà di
Diritto dell'Università Nazionale, Bogotà, il
23.9.1943. Riproposto in
El Café Literario,
num. 1, Bogotà, gennaio-febbraio 1978.


Nella superbia la spina
Tre sonetti punitivi per Laureano Gómez
EN LA SOBERBIA LA ESPINA. TRES SONETOS PUNITIVOS PARA LAUREANO GÓMEZ. (Pagine 492-494.) Quando in ottobre del 1943 Neruda passò per la Colombia di ritorno al Cile, dal Messico, si vide obbligato a scendere all'arena per affrontare Laureano Gómez, politico conservatore veemente e ricco (quanto modesto come poeta), ed alcuni dei suoi scudieri. Le armi elette per tanto feroce duello furono i sonetti. Quelli di Neruda si pubblicarono sul diario El Tiempo, gli antinerudiani nel diario El Siglo di Bogotà, fondato e diretto dallo stesso Gómez. A titolo documentale, qui riportiamo anche i sonetti antinerudiani come furono riprodotti da Zig-Zag, num. 2014, Santiago, 29.10.1943. Al meno l'ultimo sembra scritto dall'ineffabile Laureano.

IN IL TUMORE L'AGO
I 14 primi

Burino estemporaneo di poeta,
pirata di rasoio e di fucile,
americano di rimbalzo
e di martello,

macellatore di euritmia con coltello.


Visiti un paese e nella tua cantilena
- che mai al buon gusto si sottomette-
oltraggi a distanza, piccolo botolo,
con l'aspra saliva del tuo grugno.

Se l'insulto a Laureano ti è uscito
è titolo migliore che non l'ammiri:
che il tuo lemma, Neruda, emerge

dell'orrendo mucchio delle tue dcerie:

"Odiare, odiare di morte quello che vale
ed avvelenare l'aria in cui respiri."

I secondi 14

È buono che ti esibisca scudiero
- repulsivo pagliaccio del vocabolo-
distanziato da ogni cavaliere
in falso atteggiamento con la tua lancia.

È buono che ti esibisca come furbo
calunniando i grandi, povero Pablo,
originale Pegaso di custode dei puledri
di chi ogni poema è una stalla.

Non avrai mai la tempera di Laureano,
nobile sentire e procedere tanto sano...
neppure il suo talento e la sua prestanza.

Ortolano mediocre e gran villano,
ti ingrassiamo con fiori, oh maiale,
e ci dai solo grasso, ma rancidisci!

E gli 14 ultimi

Ti divinizzarono i barbari del verso,
cinghiale letterario che ti ispiri
in ogni postribolo e nella cosa perversa,
perché solo nel fango tu respiri.

Cantando a Stalingrado non mi stupisci
che è l'opportunità l'universo
dove sempre, anfibio, tu ti distendi
occultando la cicatrice del tuo dritto.

Non continuare, no, a credere che sei vate,
il tuo stile è una salsa di pomodoro
fabbricata in atroce inquilinato.

In te, già niente serve da conclusione:

non ritornare per qua, sporca stuoia,
perché sei lurido ed inoltre ingrato!

Ángel María Criales Díaz

Scarabeo lirico

a Nefta Reyes (alias Neruda)

Poetastro mendicante e vagabondo
che al suono della tua grancassa di gitano
continui ad infestare il mondo americano
col tuo ululato di satiro iracondo.

La tua bisaccia di buffone inverecondo
gonfia con temi di seconda mano
che il tanfo esalano ed il fetore malsano
di vile trattoria e postribolo immondo.

E tu che solo uno pseudonome hai,
la tua bava fino ad una cima a lanciare vieni?
Mentecatto! Tu ti trovi molto sotto

e la cima è molto alta: segue il destino
che segna il tuo coprofago destino
maneggiandoti quale vile scarabeo!

Zoologo

1

Addio, Laureano mai premiato.
Satrapo triste, re arrivista.
Addio, imperatore di quarto piano
prima di tempo e senza cessare pagato.

Amministri le tombe del passato,
e, affascinato, approfitti dello stregato
nel bacato paradiso
dove arriva il superbo sconfitto.

Lì sei dio senza luce né primavera.
Lì sei capitano di lombricaio,
e nella terribile notte dell'arcano

lo scettro di violenza che ti aspetta
cadrà marcio come polvere e cera
sotto la gerarchia del verme.

2

Cavaliere dalla frusta meschina,
scomunicato dall'essere umano,
iracondo rudere della strada,
oh piccolo anticristo anticristiano.

Come te, con la frusta nella mano,
trema in España Franco, l'assassino,
ed in Germania il tuo sanguinante fratello
legge sulla neve il suo destino.

È tardi per te, triste Laureano.
Rimarrai come coda di tiranno
nel museo di quello che non esiste,

nel tuo piccolo parco di veleno
con la tua pistola che spara fango.
Vai via prima di essere. Tardi venisti!

3

Dove stiano la canzone ed il pensiero,
dove ballino o cantino i poeti,
dove la lira dica il suo lamento
non intrometterti, Laureano, non intrometterti.

Le critiche che ululi nel vento,
la stricnina che riempie le tue valigie,
te li restituiranno con monito:
non intrometterti, Laureano, non intrometterti.

Non toccare coi tuoi piedi la geografia
della verità o della poesia,
non sta nella verità il tuo terreno.

Ritorna alla frusta, ritorna all'amarezza,
ritorna alla tua rancorosa sepoltura.
Che non c'abbandoni il tuo veleno!

El Tiempo, Bogotà, ottobre 1943, e
Zig-Zag, num. 2.014, Santiago, 29.10.1943.


Pedro Nel Gómez

Credo che l'opera coraggiosa e preziosa di Pedro Nel Gómez sia un passo in più, un passo grande verso l'interpretazione della nostra America. Se vicino ai muralisti messicani avessimo in ognuno dei nostri paesi un Pedro Nel Gómez, la mappa spirituale e materiale dell'America avrebbe espresso la sua struttura, sarebbe arrivata ad un'esistenza nel tempo. Quasi tutta la nostra pittura, riflesso fiorito dell'Europa, pallida ombra di una cultura lontana, continua a sparire davanti ai nuovi scopritori dall'America che, come Pedro Nel Gómez, sono, finalmente, americani.

Muoia la mitologia greca: più terribilmente bella di una colonna corinzia è un'anaconda di quindici metri che esce dal fango della selva. Pedro Nel Gómez e quelli che verranno c'aiuteranno a trovare la nostra anima, con la sua visione dolce e magica della nostra vita.


Medellín, ottobre 1943


Revista Municipal, Medellín, ottobre 1943.


America, non spegnere le tue lampade

Sempre per me esistette la vostra patria, ma non come tutti i territori in cui l'uomo vive, sogna, soffre, trionfa e canta. Per me, il Perù fu madre dell'America, recinto circondato da alte e misteriose pietre, da morsi di schiuma singolare, da fiumi e metalli di alveo profondissimo. Gli inca lasciarono non unisca piccola corona di fuoco e martirio nelle mani attonite della storia, bensì un'ampia, estesa atmosfera scolpita dalle dita più fini, dalle mani capaci di condurre i suoni verso la malinconia e la riverenza e di alzare le pietre colossali di fronte al tempo infinito.
Ma lasciarono anche, con forza equinoziale, impresso nel volto dell'America una tenerezza pensosa, un gesto esile e commovente che dalle stoviglie, i gioielli, le statue, i tessuti ed il silenzio coltivato, illuminò sempre il cammino della profondità americana. Quando la mia terra ricevette le onde di fertili conquistatori incaici che portarono alle ombre arroccate di Arauco il contatto tessile della liturgia e del vestito; quando le palpitazioni spirituali dei boschi tutelari ed austral toccarono il turchese sacro e la stoviglia traboccante di contenuto spirituale, non sappiamo fino a che punto le acque essenziali del Perù invadevano il risveglio della mia patria, sommergendola in una maturità tellurica della quale è semplice espressione la mia propria poesia.
Più tardi, il vecchio conquistatore fa la sua tana di fulmini dove stette il maggiore splendore della nostra vita leggendaria. Nel Perù si sostituiscono come cappe geologice la terra, l'oro e l'acciaio; la terra trasformata in forme tanto diafane e vitali come gli stessi semi essenziali il cui crescita riempirà le anfore che calmeranno la sete dell'uomo; l'oro il cui potere dal posto segreto della sua statua sepolta recherà, attraverso il tempo e dell'oceano, agli uomini di altri pianeti e di altri linguaggi; e l'acciaio nel cui splendore sostanziale si formerà lentamente il lamento e la razza.
C'è qualcosa di cosmico nella vostra terra peruviana, qualcosa di tanto poderoso e tanto pieno di fulgore, che nessuna moda né nessun stile hanno potuto coprire, come se sotto il vostro territorio un'immensa statua giacente, minerale e fosforica, monolitica ed organica fosse ancora coperta da tessuti e santuari, da epoche e sabbie, e spuntasse la sua vigorosa struttura nell'altezza delle pietre abbandonate, nel suolo disabitato che abbiamo il dovere di scoprire. L'America è il vostro Perù, il vostro Perù settecentesco e primitivo, la vostra patria misteriosa, arrogante ed antica, ed in nessuno degli Stati dell'America troveremmo le concrezioni americane che, come l'oro, ed il mais, si spargono nel vostro bicchiere per darci dell'America una prospettiva insondabile.
Americani del Perù, se ho toccato con le mie mani australi la vostra corteccia e ho aperto il frutto sacro della vostra fraternità, non pensiate che vi lascio senza che anche il mio cuore si avvicini al vostro stato e la vostra grandezza attuali. Perdonatemi allora che, come americano essenziale, metta la mano nel vostro silenzio.
Da anni, da tutta la l'America silenziosa vi contemplano due paesi che sono le torri di vedetta ed i lieviti della libertà in America. Questi due paesi si chiamano Cile e Messico.
La geografia li collocò negli estremi duri del continente. Al Messico toccò essere il baluardo del nostro sangue quando la vita dell'America gli richiese gagliardamente di imporre le materie fondamentali del nostra America, di fronte al gran paese materialista del nord. Ed anche al Messico toccò alzare le prime bandiere quando la libertà minacciata in tutto il nostro pianeta si vedeva difesa dall’alta stirpe degli americani del nord.
Il Cile ha conosciuto la libertà, come gli predisse Simón Bolívar. Nel sacrificio delle terre più dure, nella conoscenza degli ostacoli più impenetrabili, la mia patria, con le stesse mani ardenti e delicate che resisterono ai lavori manuali ed ai climi più crudeli delle nostre latitudini, potè toccare il cuore dell'uomo, alzarlo come un bicchiere raggiante verso la libertà. La storia del mio paese camminò pesante e duramente verso l'aurora ed a quello sono consacrati i cileni di oggi, nel dissipare ogni giorno le tenebre che ci toccarono.
Da questi due punti, antartico l'uno, musicale ed esplosivo l'altro, guardiamo verso il Perù nella speranza che i suoi passi si incamminino verso la responsabilità che ci dà il titolo di americani. Se nelle vostre mani il difficile destino storico dell'America infiamma una luce di libertà che il vento di domani possa lasciare seppellito per sempre, sta nel vostro dovere non solo verso la vostra terra, bensì verso il resto della grandezza americana conservare, fortificare e mantenere questa luce essenziale. Se guardiamo nelle mattine la carta geografica dell'America coi suoi bei fiumi ed i suoi splendidi altari vulcanici noterete che esistono zone in cui le lacrime mettono un cerchio di ghiaccio alle tirannie, noterete che nei più prosperi, nel più ricco, nel più poderoso dei nostri Stati dell'America, sono appena nati nuovi tiranni. E questi nuovi tiranni sono esattamente uguali a quelli che patimmo col cuore angosciato: hanno spalline ed usano la frusta e la sciabola. Vediamo come le minori vestigia della libertà sono spiate dalle tigri ed i caimani della nostra spaventosa fauna cosmogonica. Allora, peruviani, cileni, colombiani, tutti quelli che respirate l'aria della libertà che ci lasciano i mostri della nostra preistoria, fate attenzione, abbiate molta cura. Facciamo attenzione all'antica fauna apoplettica che già sembrava classificata nei musei con le sue immense ossa difensive, le sue onorificenze ed i suoi membri sanguinanti. È viva ancora nel mondo la sete di dominio e la volontà del tormento ed i nostri boia ci spiano dalla mattina alla notte. Ma fate anche attenzione ai nostri falsi liberatori, di quelli che, non comprendendo lo spirito di questa epoca, pretendono di fare della violenza un mazzo di fiori per consegnarlo nell'altare delle libertà dell'uomo.
Il figlio della libertà dell'America, come Sucre, come Bolívar, come O'Higgins, come Morelos, come Artigas, come San Martin, come Mariátegui, è odiato contemporaneamente dalla reazione cavernicola e dalla demagogia sterile. La libertà in America sarà figlia dei nostri fatti e dei nostri pensieri.

Discorso letto nel ristorante La Cabaña di Lima durante
una cena di omaggio. In
La Noche, Lima, 22.10.1943,
ed in
Hora del Hombre, num. 3, Lima, ottobre 1943.





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