Pablo Neruda e Insetti


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Terzo libro delle lodi (1957) - 4^ parte

1957 - TERZO LIBRO DELLE LODI


ODE AL VECCHIO POETA

Mi dette la mano
come se un albero vecchio
allungasse un gancio
senza
occhi e senza frutti.
La sua
mano
che scrisse sciogliendo
i fili e le erbe
del
destino
ora era
minuziosamente
rigata
da giorni, mesi, anni.
Secca sul suo volto
era
la scrittura
del tempo,
piccola
e errante
come
se lì stessero
disposte
le linee e i segni
dalla sua nascita
e poco a poco
l’aria
li avesse eretti.

Larghe linee profonde,
capitoli tagliati
per l’età sulla sua faccia,
segni interrogativi,
parole misteriose,
asterischi,
tutto quello che dimenticarono le sirene
nell’estesa
solitudine della sua anima,
quello che cadde dallo
stellato cielo,
lì stava sul suo volto
disegnato.
Mai l’antico
bardo
raccolse
con penna e carta dura
il fiume versato
della vita
o il dio sconosciuto
che corteggiò il suo verso,
e adesso,
nelle sue guance.
tutto
il mistero
disegnò
con freddo
l’algebra
delle sue rivelazioni
e le piccole,
invariabili
cose
disprezzate
lasciarono
sulla sua fronte
profondissime
pagine
e
sulla sua
narice
magra,
come becco
di cormorano errante,
i viaggi e le onde
depositarono
la loro lettera
ultramarina.
Soltanto
due pietruzze
intrattabili,
due agate
marine
su quel
combattimento,
erano
i suoi occhi
e soltanto attraverso essi
vidi lo spento
falò,
una rosa
nelle mani
del poeta.

Ora
il vestito
gli stava grande
come se già vivesse
in una
casa
vuota,
e le ossa
di tutto
il suo corpo si accostavano
alla pelle
sollevandola
e era
di osso,
di osso che vedeva
ed insegnava,
un piccolo
albero, infine, di osso,
era il poeta
spento
dalla calligrafia
della pioggia,
dalle inesauribili
sorgenti del tempo.

Lì lo lasciai andare
frettoloso alla sua morte
come
se lo aspettasse
anche quasi nuda
in un parco ombroso
e insieme
fossero
perfino
una smantellata camera da letto
e in lui dormissero
come dormiremo
tutti
gli uomini:
con
una rosa
secca
in
una
mano
che talvolta cade
trasformata in polvere.
1956

ODE A UN MAZZO DI VIOLETTE

Riccio ramo nell’ombra
immerso:
gocce di acqua violetta
e luce selvaggia
crebbero con il tuo aroma:
una fresca bellezza
sotterranea
si arrampicò con i tuoi boccioli
e sconvolse i miei occhi e la mia vita.

Una per una, fiori
che allungarono
metallici peduncoli,
cercando nell’ombra
raggio dopo raggio di una luce oscura
finché incoronarono
il mistero
con la loro massa profonda di profumo,
e unite
furono una sola stella
di odore remoto e cuore violaceo.

Ramo profondo,
intimo
odore
della natura,
assomigli
all’onda, alla chioma,
allo sguardo
di una naiade distrutta
e sottomarina,
ma da vicino,
in piena
temerarietà azzurra della sua fragranza,
terra, fiore della terra,
odore terrestre
spandi, e il tuo raggio
ultravioletto
è combustione lontana di vulcani.

Immerso nella tua bellezza
il mio vecchio viso tante
volte osteggiato dalla polvere
e qualcosa dalla terra
mi trasmetti,
e non è solo un profumo,
non è solo il grido puro
del tuo colore totale, è piuttosto
una parola con rugiada,
una umidità florida con radici.

Fragile fascio di violette
stellate,
piccolo, misterioso
planetario
di fosforo marino,
notturno ramo tra le foglie verdi,
la verità è
che non ho parola azzurra per esprimenti:

più che ogni parola
ti descrive una pulsazione del tuo aroma.
1956

ODE PER ANNAFFIARE

Sopra la terra, sopra i dolori,
acqua dalla tua mano
per l’irrigazione
e sembra che cadano
incurvandosi
altre acque,
non quelle della città per le bocche,
per le pentole, ma
annaffiando
la canna
estrae acque nascoste
dall’occulto, dal fresco
cuore ramificato della terra.

Da lì,
sale questo filo,
si sviluppa in acqua,
si moltiplica in gocce,
si dirige alla sete delle lattughe.

Dalla polvere e dalle piante
un nuovo aroma
cresce
con l’acqua.
È un odore bagnato
di astro verde,
è la resurrezione della freschezza,
la fragranza perduta
del cuore remoto
orfano dei boschi,
e cresce l’acqua
come
la musica nelle tue mani:
con forza cristallina
costruisce una lancia
trasparente
che attacca, impregna e muove
la sua comunicazione con le radici.

L’azione dell’acqua fischia,
scoppietta, canta,
sbroglia
segrete fibre, sale
e cade come coppa
traboccata,
pulisce le foglie fino a
che sembrino campane
nella pioggia,
tormenta i viaggi
dell’insetto,
lascia cadere sopra il capo
di un uccello sorpreso
un acquazzone d’argento,
e vola
e scende
finché il tuo giardino o il tuo seminato,
il raggio delle tue rose
e la pelle genitale della magnolia,
apprezzano
il dono
onesto
dell’acqua
e tu, con la tua canna,
circondata
dalle emanazioni del tuo orto,
per l’umidità del suolo, circondato
come un re da una isola
per la pioggia,
dominatore di tutti
gli elementi,
sai,
al riporre la canna,
e arrotolarla
come un
purissimo serpente,
sai che sopra di te, sopra ai tuoi rami
di rovere polveroso,
acqua di irrigazione, aroma,
cadde bagnando la tua anima:
e ringrazi l’irrigazione che ti dette.

ODE AL SALE

Questo sale
della saliera
io lo vidi nelle saline.
So che
non
mi credete,
ma
canta,
canta il sale, la pelle
delle saline,
canta
con una bocca soffocata
dalla terra.
Tremai in quelle
solitudini
quando ascoltai
la voce
del
sale
sul deserto.
Vicino Antofagasta
tutta
la
pampa salnitrosa
suona:
è una
voce
rovinata,
un compassionevole
canto.

Dopo nelle sue cavità
la salgemma, montagna
della luce sotterrata,
cattedrale trasparente,
vetro del mare, dimenticato
dalle onde.

E poi su ogni tavola
di questo mondo,
sale,
la tua sostanza
agile
spolverando
la luce vitale
sopra
gli alimenti.
Conservatrice
delle antiche
stive delle navi,
scopritrice
fosti
nell’oceano,
materia
avanzata
negli sconosciuti, socchiusi
sentieri della schiuma.

Polvere del mare, la lingua
da te riceve un bacio
dalla notte marina:
il gusto fonde in ciascuna
insaporita prelibatezza il tuo oceano
e così la minima,
la minuscola
onda della saliera
ci insegna
non soltanto la sua domestica bianchezza,
ma il sapore centrale dell’infinito.
1956

ODE ALLA SEGA

Tra i nobili
utensili,
lo snello
martello,
la falce appena tagliata dalla luna,
lo smussato, robusto
scalpello, la generosa
pala,
sei, sega,
il pesce, il pesce
maligno,
lo squalo di funesta dentatura.

Tuttavia, la fila
dei tuoi
minimi denti
taglia cantando
il sole
sulla legna,
il miele del pino, l’acidità
metallica del rovere.
Allegramente
tagli
e cantando
la segatura sparge le tue prodezze
che il vento muove e che la pioggia frusta.

Non assumesti grazia
come quella dell’insolito martello
che decorò con due piume di gallo
la sua testa di acciaio,
bensì
come un pesce
della profonda
pienezza sottomarina,
dopo il tuo lavoro natatorio
ti immobilizzi e scompari
come nel letto oscuro dell’oceano.

Sega, pesce amico
che canta,
non divori
il cibo che tagliò la tua dentatura,
ma lo rovesci
in briciole di legno.

Sega azzurra, magra
lavoratore, cantando
tagliasti
per me
le tavole del guardaroba,
per tutti
cornici
perché in esse
sfolgori la pittura
o penetri nella casa
il fiume della luce dalla finestra.
Per tutta la terra
con i suoi fiumi
e le sue navigazioni,
per i
porti,
nelle imbarcazioni dell’oceano,
nell’alto
dei villaggi sospesi
sulla neve,
ancora
lontani, più lontani:
nel
segreto
degli istituti,
nella casa fiorita
dell’amante,
e anche
nel patio abbandonato
dove morì un Ignacio, un Saturnino,
così come
nelle profonde fucine,
in ogni parte
una sega
vigila,
una sega
magra, con i suoi
piccoli denti
di pesce familiare ed il suo vestito
di mare, di miniera azzurra, di fioretto dimenticato.

Così, sega,
voglio
segare
le cose gialle di questo mondo,
tagliare
legni puri,
cortecce della terra e della vita,
querce, roveri, sandali
sacri,
autunno
in lunghe leghe diffuso.
Io voglio
la tua nascosta
utilità, la tua forza
e la tua freschezza,
la sicura modestia
del tuo dentato acciaio,
la tua lamina di luna!

Mi congedo
da te,
benefica
sega,
astrale
e sottomarina,
dicendoti
che
rimarrei
sempre con la tua metallica vittoria
nelle segherie,
violino del bosco, uccello
della segatura, tenace
squalo del legno!
1956

ODE AL TEMPO FUTURO

Tempo, mi chiami. Prima
eri
spazio puro,
ampia prateria.
Oggi
filo o goccia
sei,
luce magra
che corre come lepre verso i pruni
della concava notte.

Ma,
adesso,
mi dici, tempo, quello
che ieri non mi dicesti:

I tuoi passi affretta,
il tuo cuore riposa,
sviluppa il tuo canto.

Lo stesso sono. Non sono? Chi, nel corso
delle acque che corrono
identifica il fiume?

Soltanto so che proprio lì,
in una sola
porta
il mio cuore batteva,
da ieri, da lontano,
da allora,
dalla mia nascita.


dove risponde
l’eco oscura
del mare
che canta e canto
e che
conosco
soltanto
per un cieco fischio,
per un raggio
sulle onde,
per le sue antiche schiume nella notte.

Così, puoi, tempo, invano
mi hai misurato,
invano trascorresti
anticipando
strade all’errante.

Arrivato a una sola porta
passai tutta la notte,
solitario, cantando.

E adesso
che la tua luce si assottiglia
come animale che corre
perdendosi nell’ombra
mi dici,
all’orecchio,
quello che non mi insegnasti
e seppi sempre.

ODE ALLE FORBICI

Prodigiose
forbici
(somiglianti
a uccelli,
a pesci),
lucidate siete come le armature
della cavalleria.

Da due coltelli lunghi
e traditori,
sposati e incrociati
per sempre,
da due
piccoli fiumi
legati,
risultò una tagliente creatura,
un pesce che nuota in tempestose tele,
un uccello che vola
nei
negozi di parrucchiere.

Forbici
odorose
in
mano
della zia
sarta,
quando con il suo metallico
occhio bianco
guardarono
la nostra
accantonata
infanzia
e raccontavamo
ai vicini
i nostri furti di baci e susine.


nella casa
e dentro il loro nido
le forbici incrociarono
le nostre vite
e dopo
quanta
tela
tagliarono e tagliarono
per spose e morti,
per neonati e ospedali
tagliarono
e tagliarono,
e il capello
contadino
duro
come pianta nella pietra,
e le bandiere
che dopo
fuoco e sangue
macchiarono ed onorarono,
e io fusto
delle vigne in inverno,
il filo
della
voce
nel telefono.

Delle forbici dimenticate
tagliarono sul tuo ombellico
il filo
della madre
e ti consegnarono per sempre
la tua separata parte di esistenza:
altre, non necessariamente
oscure,
taglieranno qualche giorno
il tuo vestito di defunto.

Le forbici
furono
in ogni luogo:
esplorarono
il mondo
tagliando
ugualmente
allegria
e tristezza:
tutto fu panno
per le forbici:
titaniche
forbici
di sartoria,
belle come crociere,
minuscole
che tagliano unghie,
dandole forma di calante luna,
sottili,
sottomarine forbici
del chirurgo
che tagliano il groviglio
o il nodo sbagliato nel tuo intestino.

E qui con le forbici
della ragione
taglio la mia ode,
perché non si allarghi e non si increspi,
perché
possa
cadere nella tua tasca
piegata e preparata
come
un paio
di forbici.
1956

ODE ALLE TEMPESTE DI CORDOBA

Il pieno mezzogiorno
rifulgente
è una
spada d’oro,
improvvisamente
cade un tuono
come una
pietra
sopra un tamburo d cuoio rosso,
emerge dall’aria
come
una bandiera,
si fora il cielo
e tutta la sua acqua verde
si precipita
sopra la terra terra
terra terra
cosparsa
di allevamenti.
Rumorosa è l’avventura
dell’acqua sboccata
dalle alture:
sembrano che corrano
cavalli nel cielo,
cadano montagne bianche,
cadano sedie, poltrone
e allora
le scintille
ardono, fuggono, scoppiano,
il campo trema a ciascuna
frustata celeste
il fulmine
brucia
solitari
alberi
con fosforo d’inferno
mentre
l’acqua
convertita in grandine
abbatte muri, uccide
pollai,
corre spaventata la pernice, si nasconde
nel suo retrobottega il fornaio,
la vipera attraversa
come lento lampo
il terreno desertico cercando
un buco, cade
un falco
colpito
dalla pietra celeste
e adesso
il vento della sierra,
gigantesco,
rabbioso,
corre
per la pianura
scatenato.
È un
gigantesco demente
che sfuggì da un racconto
e con braccia incrociate
attraversa, gridando, i villaggi:
il vento pazzo
attacca
i duri carrubi,
rompe
la chioma
dei dolci salici,
suona
come
una
cascata
verde,
che trascina
barilotti e fogliame,
carretti di vetro, letti di piombo.
Improvvisamente,
verticale
ritorna
il giorno
puro,
azzurra è la sua matassa,
rotonda la medaglia
del sole crudele,
non si muove
una foglia,
le cicale
cantano come soprani,
il postino
di Totoral riparte
colombe della carta in bicicletta,
qualcuno sale
sul cavallo,
un toro muggisce,
è estate,
qui, signori,
non è
successo
niente.

ODE AL VALZER SOPRA LE ONDE

Vecchio valzer, sei vivo
battendo
soavemente
non alla maniera
di un
cuore sotterrato,
ma come l’odore
di una pianta profonda,
forse come l’aroma
dell’oblio.

Non conosco
i
segni
della musica,
né sui libri sacri,
sono un
povero poeta
delle strade
e soltanto
vivo o muoio
quando
dai suoni oscuri
emerge sopra un mare di caprifoglio
il miele
antico,
il ballo circondato
da un ramo celeste di palme.

Oh, per i pergolati,
sulla sabbia
di quella costa, sotto
quella luna,
ballare con te il valzer
delle schiume
stringendo la tua vita
e all’ombra
del cielo e della sua nave
baciare sopra le tue palpebre i tuoi occhi
risvegliando
la rugiada
addormentata sul gelsomino fosforescente!
Oh, valzer dalle labbra pure
socchiuse
al viavai
amoroso
delle onde,
oh cuore
antico
levato
sulla nave
della musica,
oh valzer
fatto
di
fumo,
di colombe,
di niente,
che vivi
nonostante
come una corda sottile,
indistruttibile,
intrecciata con
ricordi
imprecisi,
con solitudine, con terra,
con giardini!

Ballar con te , amore,
alla fragrante
luce
di quella luna,
di quella antica
luna,
baciare, baciare la tua fronte
mentre ruota
quella
musica
sopra le onde!

ODE AL VIAGGIO FORTUNATO

Oh, viaggio fortunato!
Mi separai dalla primavera
lavorando nella mia patria.
I motori
dell’uccello di alluminio
trepidarono
e furono forza pura
scivolando nel cielo.
Così le cordigliere e i fiumi
attraversai, le estensioni argentine,
i vulcani, le paludi, le selve:
il nostro pianeta verde.
Quindi lanciò l’aereo sopra le nubi
la sua rettitudine d’argento
attraversando acqua infinita, notti
tagliate
come coppe o capsule azzurre,
giorni sconosciuti la cui fiamma
si mosse nel vento,
finché scendemmo
nella nostra stella errante
sopra l’antica neve della Finlandia.
Soltanto alcuni giorni
nella
rosa bianca, reclinata
su una nave di legno,
e Mosca
aprì le sue strade:
mi aspettava
la sua chiarezza notturna,
il suo vino trasparente.
Viva è la luce dell’aria
e accesa è la terra
a ogni ora,
sebbene l’inverno
chiuda con spade
i mari e i fiumi,
alcuno aspetta, noi riconosciamo:
arde la vita in mezzo alla neve.

E quando
di ritorno
brillò la tua bocca sotto i pini
di Datitla e in alto
fischiarono, crepitarono
e cantarono
stravaganti
uccelli
sotto la luna di Montevideo,
allora
al tuo amore sono ritornato,
alla allegria
dei tuoi grandi occhi:
scesi, toccai la terra
amandoti e amando
il mio viaggio fortunato!



Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 61 del 24 agosto 2009 | postmaster@antoniogiannotti.it

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