Pablo Neruda e Insetti


Vai ai contenuti

Santiago-Madrid andata e ritorno (1931-1939)

Santiago-Madrid andata e ritorno
(1931-1939)

I
DA BATAVIA A SANTIAGO
(1931-1933)

Introduzione alla poetica
di Ángel Cruchaga Santa María
INTRODUCCIÓN A LA POÉTICA DE ÁNGEL CRUCHAGA SACRA MARÍA. (Pagine 361-363.) Neruda scrisse questa nota dopo aver ricevuto a Batavia l'esemplare del libro La ciutad invisible che gli inviò il suo amico l'autore. Il matrimonio di Ángel con Albertina Azócar farà si che Neruda intensifichi attenzioni e cordialità verso l'amico, e verso la moglie dell'amico, giustamente per dissimulare le ferite (ancora più sanguinanti con la sua crescente delusione coniugale in Batavia) della rottura con Albertina nel 1929.

Né quello che impreca con salute di fuorilegge, né quello che piange con gran sottomissione rimangono fuori della casa delle muse della poesia. Ma quello che ride, quello sta fuori.
La residenza delle signore muse è imbottita di arazzi aspri e comunemente vanno le dame addobbate di dolorosa organza. Dure e cristalline, come verticali e solide acque sono le muraglie dell'abitazione solenne. Ed i raccolti dei suoi giardini non danno il risultato dell'estate ma espongono l'oscurità del suo mistero.
Questa è la maniera e il sacrificio di cominciare a frequentare le stanze di Ángel Cruchaga Santa María ed il modo di imbattersi nei suoi numeri angelici e digerire i suoi ostinati e lugubri alimenti.
Come un tocco di campane nere, e con tremore e suono diametrale ed augurale, le parole del magico attraversano la solitudine del Cile, prendendo dell'atmosfera sostanze diverse da superstizione e pioggia. Devoluzioni, acquisti, età l'hanno trasfigurato, vestendo ogni giorno lunare con una veste più ombrosa, di tale maniera che improvvisamente visto nella Notte e nella Casa, sinistramente spoglio di attributi mortali sembrerebbe, senza dubbio, la statua eretta nelle entrate del gran recinto.
Come anelli della temperatura della venuta dell'alba del giorno dell'autunno, i canti di Ángel si avvicinano ad alcuni pieni di gelato chiarore, con un certo tremore extraterrestre e sublunare, vestiti con una certa pelle di stelle. Come vaghi cassetti di ricami e pietre preziose quasi astratti, ancora complicati di folgoranti lucentezze, produttori di una tristezza insana, sembrano adattarsi immediatamente al previsto e presunto ed all’antico ed amaro, alle radici torbidamente sensibili che foreranno l'essere, accumulando lì le sue dolenti necessità e la sua triste dimenticanza.
Quei cassetti dolci e fenomenali della poetica di Ángel conservano soprattutto occhi azzurri di donne scomparse, grandi e freddi come occhi di strani pesci, e capaci ancora di dare sguardi tanto lunghi come gli arcobaleni. Sostanze definitivamente stellari, commetti, certe stelle, lenti fenomeni celesti hanno lasciato lì un odore di cielo, e contemporaneamente consumati materiali decorativi, come spessi tappeti distrutti, giallognole rose, vecchie direzioni, denunciano il passo molto immobile del tempo. Le cose dell'impero siderale tornano femminilmente tiepide, girano in circoli di oscuro splendore, come corpi di belle soffocate, circondate di acqua morta, disposte alle cerimonie del poeta.
I viventi e le morte di Cruchaga hanno avuto una tirannica predisposizione mortuaria, sono esistiti tanto puramente, con le mani tanto gravemente sistemate sul petto, con tale riuscita di posizione crepuscolare, dietro un'abbondanza di vetrate, in tanto tranquillo transito corporeo, che piuttosto somigliano vegetali dell'acqua, umide ed immobili efflorescenze.
Colori vescovili e cambiamenti di chiarezza si alternano nella sua dimora e queste luci duali si succedono in perpetuo rituale. Non c'è il peso né le dicerie della danza negli atri angelici, bensì la stessa popolazione del silenzio con voci e maschere spesso tenebrosi. Da un confine ad un altro del movimento dell'aria ripete suoni e lamenti in imbavagliato ed esasperante coro.
Malattie e sonni, ed esseri divini, i miscugli della noia e della solitudine, e gli aromi di certi fiori e di certi paesi e continenti, hanno trovato nella retorica di Ángel maggio posto estatico che nella realtà del mondo. La sua mitologia geografica ed i suoi nomi di argento come venature di fuoco freddo si incrociano nella sua pietra materiale, nella sua unica e favorita statua.
E tra i ripetuti sintomi mistici della sua opera tanto desolata, sento la sua attrito di lenta frequenza che agisce intorno a me con dominio infinito.

Batavia, Java, febbraio del 1931

Atena,
num. 75-76, Concepción,
Cile, maggio-giugno 1931.


Ode torrida

Venite col vostro carico di direzioni rosse,
estati dure, permanenti, aspri di queste zone della terra,
caricate sulle mie tempie sacchi di sudore bianco,
accecatemi di luce pazza, di lampi vecchi,
feritemi il cuore coi vostri baci di brace e vetro,
entrate nelle mie materie intestinali, mordendo
il mio soffice essere interiore con alimenti divoratori,
pepe, peperone, zenzero, frutti di mare, noci ardenti,
alimenti che attanagliano come granchi ed ancora
correte, zona infinita, le vostre influenze liquide,
nella mia gola stranamente esasperata,
le vostre spesse sorgenti di zucchero,
i vostri infiniti spermi, oh terra creativa della vita,
i vostri petroli sottili mischiati all'orina delle bestie selvagge,
il fango apocalittico dei bufali ed il fango fine delle risaie,
il tè e la pioggia del monsone e la rugiada tra le orchidee,
oh terra degli inferni riuniti,
cielo mio,
unisci senz’altro i tuoi solidi nella mia anima,
il tuo suolo esorbitante e tenace,
le tue pietre capaci di nutrire, ed ancora
la radice dei tuoi minerali, la pelle ed il cuoio delle tue bestie,
le unghie ed il becco dei tuoi viventi uccelli,
la sete dei tuoi strumenti, il suono
oscuro, disturbatore del tuono nel tuo cielo,
il tuo lento vitale silenzio come alcool o acido,
e le tue cifre segrete di morte e permanenza
seppellisci nelle passeggere terre della mia anima.

Isola di Java, 1931

Revista del Pacífico,
num. I, Santiago, giugno 1935.


Nota sulla poesia di Juvencio Valle
NOTA SOBRE LA POESIA DE JUVENCIO VALLE. (Pagine 364-365.) La menzione di un "mercante di quadri che mi insulta per invidia" potrebbe essere la prima menzione, nella scrittura di Neruda della feroce ed inestinguibile ostilità di Pablo di Rokha che poco prima gli ha destinato l'articolo "Pablo Neruda, poeta a la moda" in La Opinión, Santiago, 11.11.1932.

Sig. Raúl Silva Castro.
Mio caro amico: Non mi piace scrivere lettere letterarie, né articoli, neanche rispondo al mercante di quadri che mi insulta per invidia.
Tuttavia, non resisto alla tentazione di protestare davanti all'ingiustizia e disordine di giudizio che hanno significato fino ad ora unico apprezzamento [sic] del libro
Tratado del bosque di Juvencio Valle.
Alone trattò questo libro con la sua ripetuta maniera di protezione fiorita con doppio crimine di superficialità e perfidia. Alone continua ad invocare quelli fantasmi deceduti di D'Halmar, Shade e Magellanes: la sua critica soffre di morte e dimenticanza, e questo silenzio mi sembra indecoroso.
Inoltre il giovane
runrunista Reyes Messa, in Los tiempos, dopo mille vuotature a proposito della mia supposta influenza, breve, denigra e martirizza la sostanza di questo libro magnifico.
Orrore di orrori! Un essere giovanile che vuole difendere a morsi il suo posto in una pretesa avanguardia, un] vedono poeta che senza volere rimanere dietro, e senza mostrare di fronte il suo sviluppo poetico, affonda fino alla gola nel giornalismo e da lì lancia il suo inchiostro nazionale contro l'alto, puro e solitario giovane meridionale.
Juvencio Valle non è avanguardista né è, per fortuna,
runrunista. È, tuttavia, per diritto del dominio lirico, per tensione ed aumento di vita verbale; per condizioni essenziali e segrete, visibili tuttavia nella sua struttura; per l’arbitrario, il profondo, il dolce e profumato della sua poesia è, dico, il poeta più affascinante ed attraente della poesia attuale del Cile.
Tratado del bosque è concisione, nudità, potere, volontà e liberi arbitrato poetici, realizzati con sicurezza e vitalità resistenti. È un fuoco purissimo in mezzo alla selva. Una chitarra dalle corde chiare.
Solitudine, sogni, amori, foglie, l'acqua silvestre suonao come un metallo, corrono tutto il sud, vive nei versi del nuovo poeta con magnificenza e dignità di cuore. Tutto si è trasformato in lui in sostrato vivo, in humus abbandonato, da dove sorge, per benessere della mia anima, il suo delizioso canto.

El Mercurio, Santiago, 20.11.1932.


Numero e nome
NÚMERO Y NOMBRE. (Pagine 365-368.) Riappare il tema del sonno di altri. Vedasi supra la nota a "Il sueño de la tripulación" (Crónicas de Oriente). Raro poema in settenari che sembra dare forma al tentativo di Neruda di uscire dalla prostrazione poetica e spirituale, e soprattutto economica in cui si trova da quando ritornò in Cile nell’aprile del 1932.

Da un sogno al sogno di altri!
Da un raggio umido, nero,
versando sangue nero!
Che destriero spaventoso
di briglia sonnolenta
e fruste di schiuma
e zampe parallele!

Acque del cuore
messe nel sogno,
onde, canali, lingue,
in sviluppo lento,
invasive ed attive
arrampicando al sogno di altri,
scalando silenzi,
attraversando palpebre,
modificando sonni!

Sogni soli, temibili,
sogni di labbra secche,
soli, senza direzione,
alla ricerca di altri sogni,
con bocca di vampiri,
nella notte, correndo,
tarlando come acidi,
saltando su sogni,
corroborando spaventi,
comunicando morti.

Campane di onde morte,
sparano uccelli neri
di cartilagine immensa,
ali che afferrano ombre,
becchi ed unghie di sogno,
latitudini colpite
di suoni e voli,
suoni cacciatori,
sogni vinti, umidi,
respirati, oppressi.

Sogni che inondano sogni,
crescono e tagliano sogni,
inghiottono e varano sogni,
lavano e tingono sonni,
affondano e rompono sogni,
sogni che mangiano sogni,
crescono dentro sonni,
dormono dentro sogni,
sognano dentro sogni.

Tra sbarre nere,
chiusure gelate,
scale oscure,
sogno a sogno si lega,
sogno a sogno si batte,
sogno a sogno balla.
Con spade di gas,
con stelle di vino
si immergono in neri
corridori vuoti,
vaghi come ceneri
e lunghi come fiumi,
come città morte
o eserciti feriti,
o tunnel spessi,
silenziosi e vuoti,
soffici esseri che affondano
o si uniscono come fili,
lenti vestiti di paura,
di sopore, di sigillo,
che tremano e cadono
come lacrime di fumo,
ceneri istantanee,
riunioni di oblio.

( La scala verticale
ed il suo passo di argento,
ed il suo corpo magro,
nudo come l'acqua,
il suo odore di tè ed orgoglio,
il suo viso di topazio,
confusi, titubando,
corrono la notte chiara,
imbattendosi in ombre,
assetati come la mia anima.)

Domicili del sogno
con alberi di straccio
ed ombre di mela,
e lucentezze in fondo,
lucentezze ferite, umide,
come gramoli con sangue
cadute nell'acqua.

El Mercurio, Santiago, 26.2.1933


II
BUENOS AIRES
(1933-1934)

Discorso a due su Rubén Darío
di Federico García Lorca e Pablo Neruda
DISCORSO AL ALIMÓN SU RUBÉN DARÍO. (Pagine 369-371.) "L'incontro con Federico dovette essere per Neruda come un splendido ed inaspettato regalo, benché, a dire il vero, appena è documentata la relazione di ambedue a Buenos Aires." (Gibson *, II, p. 277). Questo discorso a due del 20.11.1933 fu indice dell'immediata sintonia in due poeti che si erano conosciuti solo da un mese (Federico sbarcò a Buenos Aires il 13.10.1933). Importa inoltre tener conto che García Lorca era allora per un poeta e drammaturgo nell'apice del successo e della celebrità mondiale e anche del mondo ispanofono (in quei giorni i suoi pezzi teatrali erano rappresentati nella capitale argentina dalla compagnia di Lola Membrives) mentre Neruda era solo un poeta cileno in ascesa.

Neruda: Signore...
Lorca: e signori: Esiste nella festa dei tori una fortuna chiamata "torear a due" in cui due toreri rubano il suo corpo al toro tenendo la stessa cappa.
Neruda: Federico ed io, legati da un filo di ferro elettrico, confrontiamo e rispondiamo a questa accoglienza molto decisiva.
Lorca: È abitudine in queste riunioni che i poeti mostrino la loro parola viva, argento o legno, e salutino con la loro propria voce i loro compagni ed amici.
Neruda: Ma noi stabiliamo tra voi un morto, un commensale vedovo, oscuro nelle tenebre di una morte più grande delle altre morti, vedovo della vita, di chi fosse nella sua ora marito abbagliante. Ci nascondiamo sotto la sua ombra ardente, ripetiamo il suo nome fino a che il suo potere salti dell’oblio.
Lorca: Noi andiamo, dopo avere inviato il nostro abbraccio con tenerezza di pinguino al delicato poeta Amado Villar, andiamo a lanciare un gran nome sulla tovaglia, nella sicurezza che si devono rompere i bicchieri, devono saltare le forchette, cercando l'occhio che essi desiderano, ed un colpo di mare deve macchiare le tovaglie. Noi nominiamo il poeta dell'America e della Spagna: Rubén...
Neruda: Darío. Perché, signore...
Lorca: e signori...
Neruda: Dove sta, a Buenos Aires, la piazza di Rubén Darío?
Lorca: Dove sta la statua di Rubén Darío?
Neruda: Egli amava i parchi. Dove sta il parco Rubén Darío?
Lorca: Dove sta il negozio di rose di Rubén Darío?
Neruda: Dove stanno il melo e le mele di Rubén Darío?
Lorca: Dove sta la mano tagliata di Rubén Darío?
Neruda: Dove sta l'olio, la resina, il cigno di Rubén Darío?
Lorca: Rubén Darío dorme nel suo "Nicaragua natale" sotto il suo spaventoso leone di marmo artificiale, come qui leoni che i ricchi mettono nei portoni delle loro case.
Neruda: Un leone di farmacia, a lui, fondatore di leoni, un leone senza stelle a chi dedicava stelle.
Lorca: Diede la voce della selva con un aggettivo, e come frate Luis de Granada, capo della lingua, fece segni stellari col limone, e la zampa di cervo, ed i molluschi pieni di terrore ed infinito; ci mise al mare con fregate ed ombre nelle bambine dei nostri occhi e costruì un'enorme passeggiata di Gin sul pomeriggio più grigio che ha avuto il cielo, e salutò da te a te il libeccio oscuro, ogni petto, come un poeta romantico, e mise la mano sul capitello corinzio con un dubbio ironico e triste, di tutte le epoche.
Neruda: Merita il suo nome rosso ricordarlo nelle sue direzioni essenziali coi suoi terribili dolori del cuore, la sua incertezza incandescente, la sua discesa agli ospedali dell'inferno, la sua salita ai castelli della fama, i suoi attributi di poeta grande, da allora e per sempre ed imprescindibile.
Lorca: Come poeta spagnolo insegnò in Spagna ai vecchi maestri ed i bambini, con un senso di universalità e di generosità che manca nei poeti attuali. Insegnò a Valle-Inclán ed a Juan Ramón Jiménez, ed ai fratelli Machado, e la sua voce fu acqua e salnitro, nel solco della venerabile lingua. Da Rodrigo Caro ai Argensolas o don Juan de Arguijo non aveva avuto lo spagnolo feste di parole, incontri di consonanti, luci e forma come in Rubén Darío. Dal paesaggio di Velázquez ed il falò di Goya e dalla malinconia di Quevedo al colto color mela dei paesaggi maiorchini, Darío portò a spasso la terra di Spagna come la sua propria terra.
Neruda: Lo portò al Cile una marea, il mare caldo del nord, e lo lasciò lì il mare, abbandonato nella costa dura e dentata, e l'oceano lo batteva con schiume e campane, ed il vento nero di Valparaíso lo riempiva di sale sonoro. Facciamo questa notte la sua statua con l'aria, attraversata dal fumo e dalla voce e dalle circostanze, e dalla vita, come questa sua poetica magnifica, attraversata da sogni e suoni.
Lorca: Ma su questa statua di aria io voglio mettere il suo sangue come un ramo di corallo, agitato dalla marea, i suoi nervi identici alla fotografia di un gruppo di raggi, la sua testa di minotauro, dove la neve gongorina è dipinta da un volo di colibrì, i suoi occhi vaghi ed assenti di milionario di lacrime, ed anche i suoi difetti. Le librerie mangiate già dai tarassachi, dove suonano vuoti di flauto, le bottiglie di cognac della sua drammatica ubriachezza, ed il suo cattivo gusto affascinante, ed i suoi riempitivi sfacciati che riempiono di umanità la moltitudine dei suoi versi. Fuori dalle norme, forme e scuole rimane in piede la feconda sostanza della sua grande poesia.
Neruda: Federico García Lorca, spagnolo, ed io, cileno, decliniamo la responsabilità di questa notte di cameratismo, verso quella gran ombra che cantò più altamente che noi, e salutò con voce inusitata alla terra argentina che calpestiamo.
Lorca: Pablo Neruda, cileno, ed io, spagnolo, coincidiamo nella lingua e nel gran poeta nicaraguense, argentino, cileno e spagnolo, Rubén Darío.
Neruda e Lorca; Per il cui omaggio e gloria alziamo i nostri bicchieri.

Discorso scritto a due mani e letto a due voci da Neruda e Lorca durante
il banchetto di omaggio ad ambedue nel PEN Club di Buenos Aires,
20.11.1933. Pubblicato per la prima volta su
El Sol, Madrid, 30.12.1934.


Severità
SEVERIDAD. (Pagine 372-373.) Sicuramente i consigli di García Lorca aiutarono a Neruda a sviluppare una strategia per rispondere agli attacchi, sempre di più frequenti, di scrittori che non senza motivo cominciavano a temere la sua crescente fama. Silenzio, indifferenza, non darsi per alluso, ed all'improvviso battere obliquamente con feroci risposte clandestine. Non è casuale che "Severidad" faccia parte dell'opuscolo dattiloscrito Paloma por dentro, regalo di Neruda (testi) e di Lorca (disegni) alla comune amica argentina Sara Tornú. Tra altri aspetti della sua influenza trasformatrice (cfr. "Introducción" a Loyola 1987) Federico aiutò a sbloccare nel suo nuovo amico l'aggressività - tanto tempo soffocata - del timido, ma contemporaneamente gli insegnò a controllare ed ad amministrare quell'energia. La modernità testimoniale della prima Residencia divenne nella seconda modernità agonistica, vale a dire attiva e combattente, rivendicatrice dei diritti, ambizioni, desideri e passioni del poeta.

Vi condanno a cagare di mattina e di notte
leggendo giornali vecchi e romanzi amari,
vi condanno a cagare pentimento e malinconia
e soavi imbrunire gialli.

Vi condanno a cagare in
corset ed in camicia
nelle vostre case piene di biciclette e canarini,
con i vostri pensionati azzurri e caldi
ed i vostri deplorevoli cuori a termine.

Da un mondo infossato escono cose sinistre:
apparati meccanici e cani senza muso,
ambasciatori grassi come rose,
tabaccherie nere e cinema avariati.

Io vi condanno alla notte delle camere da letto
interrotta appena da irrigatori e da sonni,
sonni come eucaliptus dalle mille foglie
e radici bagnate di orine e schiuma.

Non mi lasciate toccare le vostre acque sedentarie
né i vostri reclami intestinali, né le vostre religioni,
né le vostre fotografie prematuramente appese:
perché io ho fiamme nelle dita,
e lacrime di sventura nel cuore,
e papaveri moribondi si annidano nella mia bocca
come depositi di sangue insormontabile.

Ed odio le vostre nonne e le vostre mosche,
odio i vostri cibi ed i vostri sonni,
ed i vostri poeti che scrivono su "la dolce sposa",
e "gli auguri del villaggio":
in realtà meritate i vostri poeti ed i vostri piani
ed i vostri spiacevoli intrecci a quattro gambe.

Lasciatemi suolo col mio sangue puro,
con le mie dita e la mia anima,
ed i miei singhiozzi soli, oscuri come tunnel.
Lasciatemi il regno delle lunghe onde.
Lasciatemi una nave verde ed uno specchio.

In Paloma por dentro, opuscolo dactiloscrito, Buenos
Aires, all'inizio di 1934 [vedere queste OCGC, I,
pp. 1183-1184]. Raccolto in FDV, pp. 131-132.



III
MADRID
(1935)

Qui sto
AQUÍ ESTOY. (Pagine 374-380.) Sono ben riconoscibili nel testo i riferimenti ad episodi biografici e letterari di Vicente Huidobro e di Pablo de Rokha che, sebbene detestandosi reciprocamente, si unirono in realtà nella comune ostilità, o invidia, verso Neruda. De Rokha aveva cominciato col suo "Epitafio a Neruda" in La Opinión, Santiago, 22.5.1933, e dopo venne il clamoroso tema dal poema 16 come "plagio" di un poema di El Jardinero di Rabindranath Tagore. La polemica partì con "El affaire Neruda-Tagore" in Pro, num. 2, Santiago, novembre 1934, riprodotto in Vital, gennaio 1935, con commento di Huidobro, ed ebbe una lunga sequela di nuovi attacchi (Huidobro, Di Rokha, Jaime Dvor, Alfonso Toledo Rojas) e di non meno appassionate difese (Tomás Lago, Diego Muñoz, Antonio Rocco del Campo). Vedasi al riguardo la mia nota al poema 16 in OCGC * *, vol. I, p. 1157. Un elenco dei documenti della polemica nella bibliografia passiva di Alfonso M. Escudero: OC 1973, vol. III, pp. 1117 e ss. Nostro "Aquí estoy" tiene conto delle due versioni che conosco.
(1) versione Madrid 1935 (M '35). Dattiloscritto che porta in un occhiello
: "Pablo Neruda / "Aquí estoy" e più sotto le iniziali P.N. scritte per mano di Neruda stesso con inchiostro verde, ed in basso le iniziali e la data "Madrid, 2 de abril de 1935". Il bibliofilo cileno Hernán Bravo Moreno ha raccontato la storia di questa versione con lettera autografa del 18.3.1996 a Nurieldín Hermosilla (nella cui collezione sta attualmente il dattiloscritto con le iniziali,:

Detto esemplare di "Aquí estoy" corrisponde a quello che manteneva in suo potere lo scrittore spagnolo José María Souviron. Sapendolo il mio amico Fernando Rivera Zavala, uomo di libri come noi, si informò per ottenere anche una copia, per la quale mi portò una carta speciale [carta spagnola del secolo XVI] che era appartenuta ad un suo parente, l'insigne bibliografo Don José Toribio Medina Zavala, affinché con essa io effettuassi una copia e Rivera rimanesse con questa. Alcuni anni dopo fummo insieme ad una conferenza di Pablo Neruda ed in quell'occasione Fernando ebbe la buona trovata di assistere con la copia riferita. Nel posto della chiacchierata mi toccò rimanere di fianco al poeta Rubén Azócar, gran amico ed intimo di Neruda a cui domandai la possibilità che Pablo autografasse ed autenticasse il sempre discusso pezzo e potesse così dirsi con certezza che "Aquí estoy" era opera di Neruda. Azócar mi espresse che di sicuro Pablo non avrebbe inconvenienti per farlo, e che per tale effetto mi presentassi alla fine della conferenza al vate, e glielo chiedessi.
Di accordo con questo consiglio procedemmo, Rivera ed io, ad abbordarlo alla fine della conferenza e glielo chiediamo.
Neruda accettò, facendoci presenti che:
Il poema sto "Aquí estoy" mai era stato pubblicato, e solo avevano circolato copie a macchina tra alcuni amici.
Questo lo disse per lasciare in chiaro quello che aveva manifestato durante la sua chiacchierata, nel senso che egli
mai aveva pubblicato niente contro un altro poeta, e che quel poema non fu mai pubblicato. In questo esemplare procedé allora a mettere le sue iniziali, raccomandandoci che mantenessimo la cosa più riservata possibile.

La lettera dimenticò segnalare il posto e la data della conferenza di Neruda, salvo che è anteriore al 1965, anno della morte di Rubén Azócar. Potrebbe trattarsi del discorso "Mariano Latorre, Pedro Prado y mi propia sombra" del 1962, (in questo volume, pp. 1082-1101). In ogni caso, le iniziali di Neruda certificano la sua paternità rispetto ad un testo intitolato "Aquí estoy", ma non garantiscono necessariamente la completa fedeltà della versione contenuta nel dattiloscritto. Il dato importante è che l'esemplare che appartenne a Bravo Moreno (ed oggi a Hermosilla) in origine era stata conservata da Souviron. Una delle copie a macchina che avevano circolato tra amici?
(2) versione Parigi 1938 (P '38). Cartelletta grigia di 35 x 25 cm. In coperta, modulo solo: "Aquí estoy". In un occhiello interno in p. 5: "Pablo Neruda / Aquí estoy / Parigi / 1938." La cartelletta contiene 5 libretti sciolti per un totale di 32 pagine. Colofón in p. 29: "Questo poema di Pablo Neruda, intitolato sto
Aquí estoy, con vignette disegnate per Ramón Gaya, fu stampato per amici del poeta nella città di Parigi, durante l'anno 1938." I titoli dell’occhiello ed il testo del poema furono stampati solo nelle pagine dispari, ma la vignetta di Ramón Gaya in pagina pari (p. 4). In p. 7, prima dell'inizio del poema, in alto alla destra ed in tipo minore, come se fosse un'epigrafe o una dedica, si legge: "Barcellona 1935". All'opinione, si tratta di una pubblicazione non autorizzata dall’autore.
Ci sono notevoli differenze tra entrambe le versioni. Sembrano provenire da originale diversi (o da copie già modificate - rispetto al testo primordiale - durante il processo di moltiplicazione). Nessuna delle due mi merita totale fiducia, perché ognuna contiene elementi credibili che mancano nell'altra. Per stabilire il testo che propongo ho preso come basi la versione M '35, modificandola eventualmente, con correzioni o aumenti, quando P '38 mi sembrò più valida o più accettabile. P '38 comincia:

Aquí estoy
con mis labios de hierro
y un ojo en cada mano
y con mi corazón completamente,
y viene el alba, y viene el alba,
y viene el alba,
y aquí estoy
a pesar de perros, a pesar de lobos,
a pesar de pesadillas,
a pesar de ladillas
a pesar de pesares.

Qui sto / con le mie labbra di ferro / ed un occhio in ogni mano / e col mio cuore completamente, / e viene l'alba, e viene l'alba, / e viene l'alba, / e qui sto / nonostante cani, nonostante lupi, / nonostante incubi, / nonostante piattole / nonostante dispiaceri.


Ho preferito M '35 perché la sua disposizione metrica e retorica mi sembra più credibile e più in linea con gli ultimi poemi di
Residencia II che sono di quello stesso periodo (aprile 1935). In p. 379, Venid a lastimarme con esputos: così in M '35 ed in P '38, benché sembrasse più logico "No vengáis a lastimarme" tenendo conto di "no inauguréis" e "ni hos hagáis" di versi successivi. Lì stesso M '35 riporta: "no inauguréis adulterios con jóvenes rameras" dove invece P '38: "... con vacas amaestradas". In p. 380: "vive falsificando incestos" (M '35) contro "vive fabricando incestos" (P '38); più sotto, "Venid a mí, podridos" (M '35) contro "Huid de mí, podridos" (P '38); più sotto, i due versi che cominciano con "y os colguéis de los talones de El Mercurio" e finiscono con "perfectamente putridas" mancano in P '38; e più sotto ancora, dove M '35 porta "como conviene al judío cursi", P '38 propone invece un incomprensibile "como conviche al judío cursi" (sic) che sottrae affidabilità a questa versione. Ma in p. 382, i versi che vanno da "lod hediondos disfrazados" fino a "y así llegaremos a creer que somos genios" (e più sotto "panfletos purulentos repartío") sono di P '38 e mancano in M '35. In p. 384, "d'annunzios de a cuarenta" (M '35) contro "d'annunzios más baratos que pollino podrido" (P '38). In p. 384 ho preferito invece il verso "aquí estoy con harinas y simientes", de P '38, a "aquí estoy con harinas y cimientos" di M '35. Non è stato facile muoversi tra le due versioni con le quali ho cercato di stabilire un testo affidabile.

Sto qui con le mie labbra di ferro
ed un occhio in ogni mano
e col mio cuore completamente,
e viene l'alba, e viene
l'alba, e viene l'alba,
e sto qui nonostante
cani, nonostante
lupi, nonostante
incubi, nonostante
piattole, nonostante dispiaceri
sono pieno di lacrime e papaveri tagliati,
e pallide colombe di energia,
e con tutti i denti e le dita scrivo,
e con tutte le materie del mare,
con tutte le materie del cuore scrivo.

Caproni!
Figli di prostituta!
Oggi né domani
né mai
finirete con me!
Ho pieni di petali i testicoli,
ho pieno di uccelli i capelli,
ho poesia e vapori,
cimiteri e case,
gente che annega,
incendi,
nei miei
Veinte poemas,
nelle mie settimane, nelle mie cavallerie,
e cago nella prostituta che vi abortì,
derrokas, patiboli,
vidobras,
e benché scriviate in francese col ritratto
di Picasso nelle cornici,
e benché molto spesso rubiate specchi e portiate in vendita
il ritratto delle vostre sorelle,
non mi raggiungete né con anonimi,
né con saliva,
esisto, tra i metalli, la farina e le onde,
tra il mondo ed il cielo, con un cuore pieno di sangue
e di rugiada.

Venite a ferirmi con sputi
dalla mattina alla notte,
non inauguriate adulteri con vacche ammaestrate,
né vi facciate sequestrare,
né domani diventiate comunisti dal culo dorato,
bensì versate aceto,
gettate per la bocca il seme raccolto nella vulva
della prostituta, e spruzzate le pareti dei
water-closets
con tutta la vostra merda che vi condanno ad inghiottire un'altra volta
con il solo fatto che io nella mattina e nella notte
scrivo poemi pieni di pietre e lamenti,
cose piene di aghi e ceneri,
acque amare
cadute per sempre nella vostra morte.

Morte! Morte! Morte!
Morte al ladro di quadri,
morte al cesso di Reverdy,
morte alle sporche vacche invidiose
che abbaiano con gli intestini cotti in invidia,
in calce e marciume.
Morte al bandito
che cambia date nei suoi libri e con l'altra mano
vive da puro cane e sigaro ricco,
vive di oscure amministrazioni,
vive falsificando incesti
con figlie di madri oltraggiate!
Morte al bandito, al truffatore di dieci anni,
quadri, mobili, zii, province saccheggiate,
e dopo, a pendere dalle bavose barbe del colonnello,
e dell'utero marcio della marcia moglie del colonnello!

Fuggite da me, marci,
fate classi di malati e funghi, fatevi rapire e
possedere da scouts finlandesi,
ricettatori puzzolenti da letto di prostituita,
ma a me non venite, perché sono puro,
e con la gola e l'anima vi vomito quattordici volte,
vi vomito quattrocento volte, a voi,
alle vostre siringhe, benché collaboriate in
La Opinión
e nella litigiosità, benché ogni giorno coltiviate
con maggiore attenzione la vostra bile e la vostra merda,
e vi pendiate dai talloni di
El Mercurio e dell'oro,
e benché scriviate montagne tiepide perfettamente putride,
permettetemi una pallida cosa,
con trenta anni ardenti,
con un'anima di osso e labirinto,
permettetemi
di cagare nei vostri gomiti e nelle vostre nonne,
e nelle rivista da giovani
Ombligos
in cui sciogliete le ultime scintille che vi escono dal culo.

Merda e merda e merda,
terra e terra e terra,
vermi,
per voi,
falsi capi interrotti per l'invidia,
poeti balbuzienti!
Polvere, polvere, polvere,
per le vostre ceneri:
niente vale il vostro nome di sacco
tradotto al francese, come conviene all'ebreo pacchiano,
niente avere pagato dieci anni di cibi
a Montparnasse,
niente vale venire da Talca disposti
ad essere intitolati geni e ladri di pitture,
vi ammazzo,
vi ammazzo con schiuma e sacrifici,
e vi piscio, invidiosi,
ladri, figli del figlio della suocera della prostituta,
vi piscio eternamente nei vostri fegati
e nei vostri figli,
vi piscio nella fonte del cuore
che avete coperto con sterco,
ed avete alimentato con sterco,
ed avete assassinato con sterco.

Mentre il mondo si fornisce di pianto ad ogni lato,
ed i lavoratori ed i sindaci scricchiolano di sangue,
mentre la mappa si spaventa tra le lenzuola,
e l'angoscia fa gridare ai consigli comunali,
ci sono letterati di sinistro viso,
ladri verdi, pagliacci di Parigi,
miserabili di Talca,
che scoprendo odio,
fabbricando piccoli "plagi",
mascherati da comunisti naufraghi e fecali,
e mentre alla mamma portano via denaro,
al colonello portano via denaro,
alla mamma portano via denaro,
alcolonnelloallamammaportanoviadenero-portano via,
evviva il comunismo!
dicono i latrina-letterati
mentre il mondo cade e nasce,
solo l'odio e l'invidia cresce nelle loro unghie,
e si preoccupano di denunciare,
di macchiare, i puzzolenti,
mentre Alberti lotta,
González Tuñón lotta,
Aragon lotta,
i puzzolenti mascherati
corrono dietro alla letteratura
gettando sangue di parto maledetto,
gettando abbecedari e pesci acidi,
dicendo: accusiamo quello
e così arriveremo a credere che siamo geni,
i puzzolenti,
incapaci del bene, incapaci del male,
incapaci del suolo.

Perché morranno morti, tra rutti
di dottori ubriachi e scoregge tradotte,
perché il verme in essi è vivo ed ordina,
perché sono nati tra denti cariati
e gatti sputati,
perché il loro sangue di ascella sporca
sarà fonte di vipere sinistre,
perché fino ad essi arriveranno a morderli
i loro figli pieni di lingue,
e fino a quello di Thalca con Vincente spavento
arriveranno qualche giorno con coltello
dicendo: "Prima che parli e pubblichi,
restituisci caprone di aria, quello che rubi,
le acquaforti, gli olii, i pesos,
pesos, pesos, pesos,
ladro di camerata,
singhiozzo di maiale",
ed allora, nell'ombra, Apollinaire
ed molti altri rispondono:
"qui fu l'immondo,
muovendo le pinne, sequestrandosi
e dando piccole grida da bambina rapita.
Albión mi teme, sarò presidente,
io e Ricasso (ed una scoreggia gli è scappata).
Orrore di sonni, carenza di vene,
qui passò, il suo nome trasformò,
ed in alcune unioni anonimi inviava,
volantini purulenti distribuì
e leccando scrittori e corrompendo porte
il suo destino di pappagallo bisestile continua".

E dicono: "Approfittiamo di questo momento
per essere libertari, il secolo affonda,
e ci faremo eroi,
con una piuma tra i piedi
ed odio nelle palpebre,
cenere nei coglioni,
venga Lenin, rubando,
simulando, con palazzo nella strada principale,
o colonnello vestito di cammello".

No, villani, non mi ingannate,
se il mondo si trasforma,
cedete alla palude, al lutto ed alla lebbra,
al francese e alla megalomania,
pesci con teste di volpi,
d'annunci da quaranta,
non mi spaventate
con piccoli insulti che potete ripetere
pieni di godimento alle vostre infermiere,
qui sto
gettando fino alla morte poemi per i denti,
fino a che mi ammazziate
a veleno ed ombra.

Ma, mai! Preferisco morire ammazzando
i vostri cadaveri di cinquanta anni,
e, da oggi, avrete affondata la spada
nei vostri intestini di invidia e di fallimento
affinché gridiate: "Neruda plagia", "Neruda non esiste",
e cagate di malinconia.
Morti! Morti in castigliano, in francese ed in pus,
morti in orribile cascata di amarezza,
correte alla nicchia, ora, subito,
correte alla nicchia inalberando un nuovo trucco
di identità falsificata!

Ma è ancora tempo del cattolicesimo,
vi rimangono vesti talari e nuove posizioni da sporcare,
tristi codardi, vi rimangono ancora la teosofia
e le scuole per corrispondenza!
Avete scritto già la biografia di "Papá"
per sua figlia calda,
avete impegnato già gli zoccoli del colonnello
nel Cile agricolo,
ora vendete le vostre madri,
e vi dedicate al ciclismo!

Io ho conosciuto ribelli: artigiani,
poeti dalla fronte pulita e mani pulite,
esseri umani, ma non peste e lebbra e pus e calli
come voi!
Conoscetemi:
sono quello che sa e quello che canta,
e non potrete ammazzarmi benché vi spacchiate le vene
e torniate a nascere un'altra volta tra ruggini!

Addio alla morte,
addio alla vita, falliti,
qui sto con farine e sementi,
qui sto facendo uccelli,
qui sono solo.
Venite orribili esseri morti
ad inchiodare cadaveri nella mia anima,
affinché nella vostra morte,
nell'orribile odore di morte
delle vostre morti,
vi aiuti ad uscire dalle tombe amare
in cui starete pieni di bava putrida
con la dimenticanza a quattro labbra
ed una vipera nera nella gola!

Madrid, 2 aprile 1935. Prima pubblicazione completa,
secondo originale dattiloscritto autorizzato da Neruda con
le sue iniziali manoscritto (primi anni sessanta) e secondo
il testo "stampato da amici del poeta" nel 1938.


IV
MADRID
(1935-1936)


I prologhi ai Caballos Verdes
LOS PRÓLOGOS A LOS CABALLOS VERDES. (Pagine 381-384.) La direzione della rivista Caballo Verde para la Poesía (stampata da Manuel Altolaguirre) fu uno dei segni dell'accoglienza che i migliori poeti spagnoli del momento diedero a Neruda. La grande eccezione fu Juan Ramón Jiménez a cui Neruda - senza nominarlo - destina il prologo al numero 3, "Conducta y poesía." Nel quarto prologo, omaggio a G(ustavo) A(dolfo) B(écquer) nel centenario della sua nascita, Neruda afferma implicitamente l'unità della tradizione poetica in lingua castigliana. Secondo Neruda ci fu un numero 5, dedicato alla memoria di Julio Herrera e Reissig che terminò di stampare giusto all’inizio della guerra civile ed i cui esemplari si persero - magari per sempre - nella confusione di quelli giorni.

SU UNA POESIA SENZA PUREZZA

È molto conveniente, in certe ore del giorno o della notte, osservare profondamente gli oggetti in riposo: le ruote che hanno percorso lunghe, polverose distanze, sopportando grandi carichi vegetali o minerali, i sacchi delle carbonaie, i barili, le ceste, i manici e anse degli strumenti del falegname. Da essi si stacca il contatto dall'uomo e della terra come una lezione per il torturato poeta lirico. Le superfici usate, il consumo che le mani hanno inflitto alle cose, l'atmosfera spesso tragica e sempre patetica di questi oggetti, infonde una specie di attrazione non spregevole verso la realtà del mondo.
La confusa impurità degli esseri umani si percepisce in essi, il raggruppamento, uso e disuso dei materiali, le orme del piede e delle dita, la costanza di un'atmosfera umana inondano le cose dall’interno e dall’esterno.
Così sia la poesia che cerchiamo, consumata come da un acido per i doveri della mano, penetrata dal sudore e dal fumo, odorante ad orina e giglio, spruzzata dalle diverse professioni che si esercitano dentro e fuori la legge.
Una poesia impura come un abito, come un corpo, con macchie di nutrizione, ed atteggiamenti vergognosi, con rughe, osservazioni, sonni, veglia, profezie, dichiarazioni di amore e di odio, bestie, scosse, idilli, credenze politiche, negazioni, dubbi, affermazioni, imposte.
La sacra legge del madrigale ed i decreti del tatto, olfatto gusto, vista, udito, il desiderio di giustizia, il desiderio sessuale, il rumore dell'oceano, senza escludere deliberatamente niente, senza accettare deliberatamente niente, l'entrata nella profondità delle cose in un atto di precipitoso amore, e il prodotto poesia macchiato da colombe digitali, con orme di denti e ghiaccio, roso forse lievemente per il sudore e l'uso. Fino a raggiungere quella dolce superficie dello strumento toccato senza sosta, quella soavità durissima del legno maneggiato, dell'orgoglioso ferro. Il fiore, il grano, l'acqua hanno anche quella consistenza speciale, quel ricordo di un magnifico tatto.
E non dimentichiamo mai la malinconia, il consumato sentimentalismo, perfetti frutti impuri di meravigliosa qualità dimenticata, lasciati dietro per il frenetico libresco: la luce della luna, il cigno nel tramonto, il "mio cuore" sono senza dubbio il poetico elementare ed imprescindibile. Chi fugge del cattivo gusto cade nel gelo.

Caballo Verde para la Poesia, num. 1,
Madrid, ottobre 1935.


I TEMI

Verso il cammino del notturno estende le dita la grave statua ferrea di statura implacabile. I canti senza consultazione, le manifestazioni del cuore corrono con ansietà al suo dominio: la poderosa stella polare, la violacciocca planetaria, le grandi ombre invadono l'azzurro.
Lo spazio, la grandezza ferita si avvicinano. Non li frequentano i miserabili figli delle capacità e del tempo a tempo. Mentre l'infinita lucciola disfa in polvere ardendo il suo coda fosforea, gli studenti della terra, i sicuri geografi, gli impresari si decidono a dormire. Gli avvocati, i destinatari.
Solo solamente qualche cacciatore imprigionato in mezzo a boschi, stanco di alluminio celestiale, gettato da furiose stelle, solennemente alza la mano inguantata e si batte il posto del cuore.
Il posto del cuore c'appartiene. Solo solamente da lì, con aiuto della nera notte, dell'autunno deserto, escono, al colpo della mano, i canti del cuore.
Come lava o tenebre, come tremore bestiale, come rintocco senza rotta, la poesia mette le mani nella paura, nelle angosce, nelle malattie del cuore. Esistono sempre fuori le grandi scenografie che impongono la solitudine e l’oblio: alberi, stelle. Il poeta vestito di lutto scrive tremulamente molto solitario.

Caballo Verde para la Poesia, num. 2,
Madrid, novembre 1935.


CONDOTTA E POESIA

Quando il tempo ci va mangiando col suo quotidiano decisivo lampo, e gli atteggiamenti motivati, le fiducie, la fede cieca si precipitano e l'elevazione del poeta tende a cadere come la più triste madreperla sputata, ci domandiamo se è arrivata già l'ora di svilirci.
La dolorante ora di guardare come si sostiene l'uomo da puro dente, da pure unghie, da puri interessi. E come entrano nella casa della poesia i denti e le unghie ed i rami del feroce albero dell'odio.
È il potere dell'età o è, forse, l'inerzia che fa retrocedere i frutti nel bordo stesso del cuore, o forse l’ "artistico" si impadronisce del poeta ed invece del canto salmastro che le profonde onde devono fare saltare, vediamo ogni giorno il miserabile essere umano difendere il suo miserabile tesoro di persona preferita?
Ahi, il tempo avanza con cenere, con aria e con acqua! La pietra che hanno morso il fango e l'angoscia fiorisce all'improvviso con strepito di mare, e la piccola rosa gira la sua delicata tomba di corolla. Il tempo lava e svolge, ordina e continua.
Ed allora, che cosa rimane dei piccoli marciumi d le piccole cospirazioni del silenzio, dei piccoli freddi sporchi dell'ostilità? Niente, e nella casa della poesia non rimane niente altro che quello che fu scritto con sangue per essere ascoltato con il sangue.

Caballo Verde para la Poesia, num. 3,
Madrid, dicembre 1935.


G. A. B.
(1836-1936)

... lì cade la pioggia
con un sonno eterno..


Quella mano di madreselva ardendo inonda il crepuscolo con fumo pieno di pioggia, con neve piena di pioggia, con fiori che la pioggia ha toccato.

Grande voce dolce, cuore ferito!

Che rampicanti sviluppi, che colombe di lutto celestiale volano dai tuoi capelli? Che api con rugiada si stabiliscono nelle tue ultime sostanze?

Angelo d’oro, cenerino asfodelo!

Le vecchie cortine si sono dissanguate, il polso delle arpe si è trattenuto per lungo tempo oscuro. I dolori dell'amore mettono ora falangi di collera ed odio nel cuore. Ma le lacrime non si sono asciugate. Sotto ai nomi, sotto ai fatti corre un fiume di acque di sale sanguinante.

Triste abito, campana con fiori!

E sotto alle cose si alza la tua statua di ricami caduti, lavata per tanta pioggia e tanta lacrima, la tua statua di fantasma con gli occhi mangiati dagli uccelli del mare, la tua statua di gelsomini cancellati dal fulmine.

Sole sfortunato, signore delle piogge!

Caballo Verde para la Poesia, num. 4,
Madrid, gennaio di 1936.


Lo scultore Alberto

Lo stesso sforzo che fa la terra per creare una vera montagna di presenza imperiale, e solcata tuttavia da infiniti dettagli, ha sofferto la specie e la razza per alzare l'oscura e gigantesca struttura di Alberto lo scultore. È costato molti anni di terra spingere le sue insondabili, poderose, tenebrose radici: è costato molte fiamme produrre il suo cuore vittorioso; ha significato molte stazioni di ombra nera e luce calcarea produrre questa sorprendente grandezza, salendo dalle impronte dell'istinto fino all'intelligenza impura e vera. È un albero.
È Alberto, senza dubbio, la più rischiosa avventura della plastica spagnola, la più audace esplorazione dionisiaca del mondo iberico. Mentre i vecchi artisti stilizzati - parlo solo dei più degni - si aggrappano alla rosa e l'eseguono in interminabili aforismi di odio senile, la gioventù matura ed asciuga di Alberto dà colpi di testa e di martello all’ignorato ed apre orme e tunnel nel suolo e nel cielo, lasciando in essi per sempre i suoi inconfondibili passi di sangue. Queste nuove strade, per le quali credo onestamente debbano passare molte generazioni di plastici attuali e a venire, non mostrano dolcezza né compiacenza personale, bensì aspra pressione organica, acerrima lotta, violento sacrificio vitale. Il suo mondo formidabile disgusterà e spaventerà il barbuto confettiere poetico, il prete in miniatura, ed in generale il terribile burocrate produttore di "arte" vendibile e commestibile, perché la sua struttura impressionante, la sua trasfigurata geologia, la sua scoperta acerba, le sue estensioni toledane, piene di pietre e fantasmi, devono per forza spaventare con panico uomini e donne già catalogati per la morte.
Accompagna Alberto il crescente canto temibile degli impulsi sessuali, che in lui lasciano la loro macchia e le loro feroci cicatrici, e le forme oceaniche e terrestri perseguono spintonando la sua creazione spontanea, così come inseguirono il fango originale: infondendogli soffi di nudità di fiume, semplicità di soffio di fiume, e contemporaneamente parentesi di vetro fatti frantumi, umidità larvarie, singhiozzi di culture senza nome.
Ma se il fondo del mare se lo disputa, solo ha vinto la faccia della terra. La terra segna i suoi lavori con spazio imprendibile, con superfici bruciate dal fulmine, con aree che il sole e la luna ed il freddo hanno usato, con longitudine di alberature, vigneti ed uccelli, vacche, lampi ed alba. Il suo viso di uomo, fatto, come le pietre, con rughe delle intemperie, è stato costruito dallo stesso pianeta che attraverso di lui ha penetrato i suoi lavori, dandogli per sempre tessuto e tremore di grandezza terrestre.

Repertorio Americano, num. 769,
San José, Costa Rica, 5.9.1936.



V
TEMPESTA IN SPAGNA
(1937-1938)

Ai miei amici dell'America


Ricevuta ogni giorno solleciti e lettere amichevoli che mi dicono: lei deponga il suo atteggiamento, non parli della Spagna, non contribuisca ad esasperare gli animi, lei non si imbarchi in faziosità, lei ha un'alta missione di poeta che compiere, etc., etc. Voglio rispondere una volta per tutte che, situandomi nella guerra civile di fianco al paese spagnolo, l'ho fatto nella coscienza che il futuro dello spirito e della cultura della nostra razza dipendono direttamente dal risultato di questa lotta. Supponiamo per un momento che i bestiali elementi militari arrivassero a trionfare in Spagna, supponiamo che Franco, Von Faupel e Conti impiantassero il loro regime di tradimento ed invasione, non ci fermiamo nelle conseguenze morali e materiali di una catastrofe simile, pensiamo un momento a quello che sopravvivrebbe dell'intelletto. Non dimentichiamo che dopo l'assassinio di Federico García Lorca, nella piazza di Granada si fece un falò e si bruciarono migliaia di esemplari del
Romancero gitano e tutte le carte inedite del poeta.
L'assassinio e l'incendio presiedono il programma del militarismo fascista spagnolo, ispirato dallo spaventoso regime tedesco. I maestri della Galizia sono stati quasi interamente sterminati: la caccia di maestri di primo insegnamento era un passatempo giornaliero dei falangisti galiziani. Sono convinto e che un'onda di persecuzioni mai viste nella storia del mondo, finirebbe con tutto il vitale e creativo della Spagna. Sangue e fuoco finirebbero con tutto.
Al lato di essi, facendo la stessa figura dei militari felloni, vedremmo la feccia letteralizante della Spagna, i novellisti pornografi, ed alcuni traditori professionali come Marañón, fare qualche apparenza di attività intellettuale. Però i veri, l'insieme di ricercatori, maestri bibliotecari, saggisti, romanzieri, poeti, pittori, scultori, incisori, sarebbe morto o esiliato. La barbarie e la morte regnerebbero in Spagna.
Ma non passeranno. Ed i fucili del paese difendendo la loro vita difendono le biblioteche ed i musei, e difendono noi, scrittori di lingua spagnola. Difendendo le loro città difendono l'intelletto di nostra razza madre. Ed io sto con quello spirito indistruttibile, col cuore epico e valoroso della Spagna irriducibile, con lo stesso cuore del paese che fece germogliare i primi torrenti di poesia, ora basi petrose della nostra lingua. Sto e starò col paese spagnolo massacrato dal brigantaggio e dalla ruffianeria internazionale. Ed a tutti i miei multipli amici dell'America Latina voglio dire: non mi sentirei degno di vivere se così non fosse.

Parigi, 1937

Nuestra Expaña, Parigi, 9.3.1937.


Federico García Lorca
FEDERICO GARCÍA LORCA. (Pagine 388-393.) Neruda fu sempre leale alla memoria di Federico ed alla promessa che chiude questo discorso di omaggio letto a Parigi nel 1937, dopo le parole di presentazione di Robert Desnos. Che a volte si sentì solo nel suo tenace ricordare lo manifestano, tra altri, questi amari (e postmoderni) versi di trenta anni dopo: "Valía la pena cantar / cuando en España los puñales / dejaron un millón de ausentes, / cuando allí murió la verdad? / La despeñaron al osario / y se tejieron las banderas / con el silencio de los muertos. // Yo vuelvo al tema desangrado / como un general del olvido / que sigue viendo su derrota (Valeva la pena cantare / quando in Spagna i pugnali / lasciarono un milione di assenti, / quando lì morì la verità? / La precipitarono all'ossario / e si intesserono le bandiere / col silenzio dei morti. / / Mi giro al tema dissanguato / come un generale della dimenticanza / che continua a vedere la sua sconfitta" (Fin de mundo, I, «El tiempo en la vida», in OCGC, vol. III, p. 403).

Come osare evidenziare un nome di questa immensa selva dei nostri morti! Tanto gli umili coltivatori dell'Andalusia, assassinati dai loro nemici immemorabili, come il minerari morti nelle Asturie, ed i falegnami, i muratori, i salariati della città ed del campo, come ognuna delle migliaia di donne assassinate e bambini fracassati, ciascuna di queste ombre ardenti ha diritto ad apparire davanti a voi come testimoni del gran paese sventurato, e ha posto, credo, nei vostri cuori, se siete puliti di ingiustizia e di cattiveria. Tutte questi ombre terribili hanno nome nel ricordo, nomi di fuoco e di lealtà, nomi puri, normali, antichi e nobili come il nome del sale e dell'acqua. Come il sale e l'acqua si sono perduti un'altra volta nella terra, nel nome infinito della terra. Perché i sacrifici, i dolori, la purezza e la forza del paese della Spagna si collocano in questa lotta purificatrice più che in nessun’altra lotta con un panorama di pianure e frumenti e pietre, in mezzo all'inverno, con un fondo di aspro pianeta disputato dalla neve e dal sangue.
Sì, come osare scegliere un nome, uno solo, tra tanti silenziosi? Ma è che il nome che vado a pronunciare tra voi ha dietro le sue sillabe oscure una tale ricchezza mortale, è tanto pesante e tanto attraversato di significati che al pronunciarlo si pronunciano i nomi di tutti quelli che caddero difendendo la materia stessa dei suoi canti, perché egli era il difensore sonoro del cuore della Spagna.

Federico García Lorca! Era popolare come una chitarra, allegro, malinconico, profondo e chiaro come un bambino, come il popolo. Se si fosse cercato difficilmente, passo a passo, per tutti gli angoli chi sacrificare, come si sacrifica un simbolo, non si sarebbe trovato il popolare spagnolo, in velocità e profondità, in nessuno né in niente come in questo essere scelto. L'hanno scelto bene quelli che fucilandolo hanno voluto sparare al cuore della sua razza. Hanno scelto per piegare e martirizzare la Spagna, esaurirla nel suo profumo più rapido, romperla nella sua respirazione più veemente, tagliare la sua risata più indistruttibile. Le due Spagne più inconciliabili si sono sperimentate davanti a questa morte: la Spagna verde e scura dello spaventoso zoccolo diabolico, la Spagna sotterranea e maledetta, la Spagna crocifiggatrice e velenosa dei grandi crimini dinastici ed ecclesiastici, e di fronte a lei la Spagna raggiante dell’orgoglio vitale e dello spirito, la Spagna meteorica dell'intuizione, della continuazione e della scoperta, la Spagna di Federico García Lorca.
Sarà morto, egli, offerto come un giglio, come una chitarra selvaggia, sotto la terra che i suoi assassini gettarono coi piedi sopra alle sue ferite, ma la sua razza si difende come i suoi canti, in piedi e cantando, mentre gli escono dall'anima vortici di sangue, e così staranno per sempre nella memoria degli uomini.
Non so come precisare il suo ricordo. La violenta luce della vita illuminò solo ora un momento il suo viso adesso ferito e spento. Ma in quel lungo minuto della sua vita la sua figura risplendé di luce solare. Come dal tempo di Góngora e Lope non era tornato ad apparire in Spagna tanto
élan (in francese nel testo = slancio) creativo, tanta mobilità di forma e linguaggio, da quello tempo in cui gli spagnoli del paese baciavano l'abito di Lope de Vega non si è conosciuto in lingua spagnola una seduzione popolare tanto immensa rivolta ad un poeta. Tutto quello che toccava, anche nelle scale di estetismo misterioso, al quale gran poeta letterato non poteva rinunciare senza tradirsi, tutto quello che toccava si riempiva di profonde essenze, di suoni che arrivavano fino al fondo delle moltitudini. Quando ho menzionato il parola estetismo, non sbagliamo: García Lorca era l'antiesteta, in questo senso di riempire la sua poesia ed il suo teatro di drammi umani e tempeste del cuore, ma non per questo rinuncia ai segreti originali del mistero poetico. Il paese, con meravigliosa intuizione, si impadronisce della sua poesia, che si canta già e si cantava come anonima nei villaggi dell'Andalusia, ma egli non adulava in sé stesso questa tendenza per avvantaggiarsi, lontano da quello: cercava con avidità dentro e fuori di sé.
Il suo antiestetismo è forse l'origine della sua enorme popolarità in America. Di questa generazione brillante di poeti come Alberti, Aleixandre, Altolaguirre, Cernuda, etc., fu forse l'unicosu cui l'ombra di Góngora non esercitò il dominio di ghiaccio che l'anno 1927 sterilizzò esteticamente la grande poesia giovane della Spagna. L’America, separata per secoli di oceano dai padri classici della lingua, riconobbe grande a questo giovane poeta attratto irresistibilmente verso il paese ed il sangue. Ho visto a Buenos Aires, tre anni fa, l'apogeo ma grande che un poeta della nostra razza abbia ricevuto. Le grandi moltitudini sentivano con emozione e pianto le sue tragedie di inaudita opulenza verbale. In essa si rinnovava ottenendo nuovo fulgore fosforico l'eterno dramma spagnolo, l'amore e la morte ballando una danza furiosa, l'amore e la morte mascherate o nude.
Il suo ricordo, tracciare a questa distanza la sua fotografia, è impossibile. Era un lampo fisico, un'energia in continua rapidità un'allegria, un splendore, una tenerezza completamente sovraumana. La sua persona era magica e bruna, e portava la felicità.

Per curiosa ed insistente coincidenza i due grandi poeti giovani di maggiore nome in Spagna, Alberti e García Lorca si sono somigliati molto, fino alla rivalità. Entrambi andalusi dionisiaci, musicali, esuberanti, segreti e popolari, esaurivano contemporaneamente le origini della poesia spagnola, il folclore millenario dell'Andalusia e Castiglia, portando gradualmente la sua poetica dalla grazia aerea e vegetale dei principi del linguaggio fino al superamento della grazia e l'entrata nella drammatica selva della sua razza. Allora si separano; mentre uno, Alberti, si dà con generosità totale alla causa degli oppressi e vive solo in ragione della sua magnifica fede rivoluzionaria, l'altro torna sempre più alla sua letteratura verso la sua terra, verso Granada, fino a ritornare completamente, fino alla morte in lei. Tra essi non esisté rivalità vera, furono buoni e brillanti fratelli, e così vediamo che nell'ultimo ritorno di Alberti della Russia e Messico, nel gran omaggio che nel suo onore ebbe luogo a Madrid, Federico gli offrì, a nome di tutti, quella riunione con parole magnifiche. Pochi mesi dopo partì García Lorca per Granada. E lì, per strana fatalità, l'aspettava la morte, la morte che prenotavano ad Alberti i nemici del paese. Senza dimenticare il nostro gran poeta morto ricordiamo un secondo nostro gran camerata vivo, Alberti, che con un gruppo di poeti come Serrano Plaja, Miguel Hernández, Emilio Prados, Antonio Aparicio, stanno in questo istante a Madrid difendendo la causa del loro paese e della sua poesia.
Ma l'inquietudine sociale in Federico, prendeva altre forme più vicine alla sua anima di trovatore moresco. Colla sua
troupe La Barraca percorreva le strade della Spagna rappresentando il vecchio e grande teatro dimenticato: Lope di Rueda, Lope de Vega, Cervantes. Gli antichi romanzi drammatizzati erano restituiti da lui al puro seno da dove uscirono. I più remoti angoli della Castiglia conobbero le sue rappresentazioni. Da lui gli andalusi, gli asturiani, gli estremaduregni ritornarono a comunicare con loro geniali poeti versifichi appena addormentati nei loro cuori, poiché lo spettacolo li riempiva di stupore senza sorpresa. Né gli abiti antichi, né il linguaggio arcaico si scontrava con quelli contadini che molto spesso non avevano visto un'automobile né ascoltato un grammofono. Per mezzo alla tremenda, fantastica povertà del contadino spagnolo che ancora io, io ho visto vivere in caverne ed alimentarsi di erbe e rettili, passava questo vortice magico di poesia portando tra i sonni dei vecchi poeti i grani di polvere ed insoddisfazione della cultura.
Egli vide sempre in quelle regioni agonizzanti la miseria incredibile in cui i privilegiati mantenevano il loro paese, soffrì coi contadini l'inverno nelle praterie e nelle colline secche, e la tragedia fece tremare con molti dolori il suo cuore del sud.

Mi ricordo ora di uno dei suoi ricordi. Alcuni mesi fa uscì di nuovo per i paesi. Andava a rappresentare
Peribáñez, di Lope de Vega, e Federico uscì a percorrere gli angoli dell'Estremadura per trovare in essi gli abiti, gli autentici abiti del secolo XVII che le vecchie famiglie campagnole conservano ancora nelle sue cassapanche. Ritornò con un carico prodigioso di tessuti azzurri e dorati, scarpe e collane, vesti che per la prima volta vedevano la luce da secoli. La sua simpatia irresistibile otteneva tutto.
Una notte in un villaggio dell'Estremadura, senza poter addormentarsi, si alzò all’apparire dell'alba. Era ancora pieno di nebbia il duro paesaggio dell’Estremadura. Federico si sedette a guardare crescere il sole vicino ad alcune statue abbattute. Erano figure di marmo del secolo XVIII ed il posto era l'entrata di un dominio feudale, interamente abbandonato, come tante proprietà dei grandi signori spagnoli. Guardava Federico i torsi sconquassati, incendiati in bianchezza dal sole nascente, quando un agnellino separato del suo gregge cominciò a pascolare vicino a lui. All'improvviso attraversarono la strada cinque o sette maiali neri che si lanciarono sull'agnello ed in alcuni minuti davanti al suo spavento e la sua sorpresa, lo straziarono e lo divorarono. Federico, in preda a paura indicibile, immobilizzato di orrore, guardava i maiali neri ammazzare e divorare l'agnello tra le statue cadute, in quell'alba solitaria.
Quando me lo raccontò ritornando a Madrid la sua voce tremava ancora, perché la tragedia della morte ossessionava fino al delirio la sua sensibilità da bambino. Ora la sua morte, la sua terribile morte che niente ci farà dimenticare, mi porta il ricordo di quell'alba sanguinante. Forse a quel grande poeta, dolce e profetico, la vita gli offrì in anticipo, ed in simbolo terribile, la visione della sua propria morte.

Ho voluto portare davanti a voi il ricordo del nostro grande camerata scomparso. Chissà molti speravano di me tranquille parole poetiche distaccate dalla terra e dalla guerra. La parola stessa
Spagna porta a molta gente un'immensa angoscia mischiata con una grave speranza. Io non ho voluto aumentare queste angosce né turbare le vostre speranze, ma appena uscito della Spagna, io, latinoamericano, spagnolo di razza e di linguaggio, non avrei potuto parlare se non delle sue disgrazie. Non sono politico né non ho preso mai parte alla contesa politica, e le mie parole che molti avrebbero desiderato neutrale, sono stati tinte di passione. Comprendetemi e comprendete che noi, i poeti dell'America Spagna ed i poeti della Spagna, non dimenticheremo, né non perdoneremo mai, l'assassinio di chi consideriamo il più grande tra di noi, l'angelo di questo momento della nostra lingua. E perdonatemi se di tutti i dolori della Spagna vi ricordo solo la vita e la morte di un poeta. È che noi non potremo non dimenticare mai questo crimine, né perdonarlo. Non lo dimenticheremo né non lo perdoneremo mai. Mai.

Hora de España, III, Valencia, marzo 1937.


Tempesta in Spagna

Ho mantenuto un lungo contatto terrestre con la superficie della Spagna, con quello paese planetario, per lunghi anni di storia più silenzioso e misterioso che nessuno, approdato come un gran barca fantasma alla costa della conoscenza ed all'astrazione dell'intelligenza, situato come il suo proprio titanico Escorial con la sua pesante ed orgogliosa leggenda che eleva la sua struttura nella piana della sua grande miseria. Di questo lungo e lento contatto con la sua terra e la sua cultura ho tirato fuori la fiamma viva che mi consuma davanti alle grandi sventure e le grandi speranze della Spagna e chiediamo per questo racconto appassionato tutta la vostra attenzione perché davanti alla gran tragedia di nostra Madre Patria uno deve dedicarsi interamente: solo tutta la vita o tutto il silenzio sono degni di confrontarsi con la sua sostanza di fuoco.
E ci rivolgiamo a tutti quelli che stanno con noi nella lotta, a tutti quelli che il pudore o la timidezza mantiene nell'imprecisa indecisione ed a tutti quelli che militando nelle file del nemico non possono tollerare, sono sicuro, il colpo di calcio e l'ululato dei mori campali in nome di Gesù di Nazaret, che invadendo e frustando la logorata abitazione materiale dei figli della Spagna, non potranno accettare che quelli che nella Germania nera di oggi trascinano i sacerdoti all'oltraggio e le prigioni pretendano di mettersi, per distruggere il pane e la vita di un paese, la maschera della pietà e della difesa di Cristo. Quella maschera di Giuda è stata macchiata di sangue e dietro quello falso viso che benedice spruzzato con gocce terribili, ci sono campi di concentrazione dove tutta la cultura tedesca marcisce, ci sono terrore e martirio, c'è gran sole di oro e di pace dell’Abissina tormentata e ripulita dagli assassini: c'è dietro quella maschera solo il gelato osso della morte.

Il 19, 20 e 21 di Luglio, quando abbiamo visto uscire il popolo armato scarsamente, quando nella notte del 19 attraversavamo Madrid col gran musicista cileno Acario Cotapos, vedemmo i primi fucili, le prime pistole in mani del popolo. Che si armasse il paese spagnolo a Barcellona ed a Madrid è stato criticato severamente da tutti quelli che vedono in ogni operaio un energumeno, da tutti quelli che avrebbero voluto vedere il massacro ed il tradimento consumati, ma posso dire che niente mai nel mondo mi ha dato più orgoglio che vedere i poveri della terra alzare il pugno e la purezza contro l'ingiustizia preparata. E quella mattina in cui la mia casa situata a breve distanza del Quartiere della Montaña si scuoteva intera ad ogni esplosione, si scuoteva anche di orgoglio il cuore del mondo. Per la prima volta nella storia, ad una forza internazionale, ad un attacco concepito dai traditori di Berlino e di Roma, per la prima volta nella nostra epoca, un paese diceva no alla reazione sistematizzata, diceva no ad alcune forze militari enormi e contrarie, diceva no al fascismo. E, ancora ora, è passato più di un anno e quel popolo, attanagliato dalla miseria, insignito e costellato per il suo sangue esemplare, non si sottomette, non si arrende, ma cresce nella sua difesa come un gran albero di foglie di acciaio e di radici inzuppate della verità umana.
Vi racconterò la storia della mia due domestiche Pepa e María. Il 21 Luglio non avevo mangiato né pulizia nella mia casa perché le due, una di sedici ed un'altra di diciotto anni avevano preso parte dando forma alle disordinate file delle prime ore all'assalto e caduta del Quartiere della Montaña. Arrivarono a casa mia il giorno dopo e quei due angeli analfabeti dall'Andalusia, quelle due creature facili ad arrossire e dolci, avevano ferite le mani da sparare, erano entrate per prime nel quartiere difeso dai tattici, dalle mitragliatrici e dai generali. E, per molti giorni ho ascoltato a Pepa e María usare il mio telefono dicendo: "Abbiamo bisogno di un ricevitore radio nella nostra organizzazione, abbiamo bisogno di una maestra elementare, abbiamo bisogno di una macchina da scrivere, abbiamo bisogno di una dozzina di letti per il nostro nuovo ospedale."
Pepa e María, dove la guerra vi abbia portato, sappiate che vi ricordo dalla capitale della mia patria, da qui ed in questa ora e sappiate che il mio orgoglio vuole per il mio paese donne come voi, pure benché analfabeti, eroiche di grande e di divina semplicità.
Le strade odoravano di polvere da sparo, i miliziani avevano tirato fuori fucili ed elmetti ed uniformi dalla vecchia fortezza. I soldati ingannati, a chi dentro il quartiere - come nelle zone che oggi stanno basso la frusta italiana - era stato detto loro che il governo era stato preso dai russi, piangevano e baciavano i loro liberatori. Camion pieni di sorrisi macchiati di fumo, strepito di evviva alla Repubblica, di evviva alla Spagna, colore di bandiere nazionali, raffica di luce e fuoco, 21 Luglio sacro nella storia del paese che è la storia del mondo!
Ma, settimane dopo, ho visto la mia casa scuotersi con nuove esplosioni. Non erano le esplosioni della libertà. Cominciava il martirio. Ricordo la prima bomba, quella che cadde per strada Roso de Luna. Aveva suonato già l'allarme. Stavamo gli abitanti della casa raggruppati nel pianterreno coi nostri figli nelle braccia, sentivamo il ronzare degli aeroplani tedeschi, le voci alte degli spagnoli si sentivano nella notte tesa. All'improvviso, come un immenso vulcano che scoppia vicino ai nostri uditi ed un odore istantaneo di polvere da sparo nelle narici ed un strepito di sprofondamento e vetri rotti ed un sussurro di esseri che piangono.

Claridad, Santiago, 16.2.1938.


VI
Cile 1938: PAESE E COMBATTIMENTO

Arte popolare
ARTE POPULAR. (Pagine 397-398.) I precedenti testi connessi alla guerra civile spagnola ed il movimento antifascista internazionale (come "Tempestad en España", evidenziarono cambiamenti nella scrittura di Neruda che, tuttavia, in definitiva erano una diversa modulazione del vecchio linguaggio "profetico" (vedere il mio prologo al presente volume): si trattava dello stesso ambizioso orizzonte poetico delle prime Residencias, solo con un registro di più esplicita altisonanza. Non invano i testi canonici di quella linea furono riuniti in un volume che si chiamò Terzera Residencia. Molto più innovativo in prospettiva fu allora questa "Arte popular", testo di gran significato perché supponeva invece una nuova assiologia poetica. Per la prima volta Neruda cercava di formulare - con serietà e rischio - le basi concettuali di un'omologazione o corrispondenza tra la creatività della natura, come quella risultante dell'interazione vita/morte nel bosco, celebrata in "Galope muerto" ed in "Entrada a la madera", e la creatività della storia (come quella risultante dell'attività artistica popolare che il poeta in quel momento riconosceva più prossima alla creatività naturale e per ciò, in un certo modo, in condizioni di superiorità istruttiva - e di ponte - rispetto alla tradizione artistica colta nella quale egli stesso si aggiungeva). Per tutto ciò questa "Arte popular" è durante il tragitto un testo molto importante verso Canto general, vedasi in questione il capitolo VII.

Paese per noi, vuole dire campi del Cile, cuori bruni, divine sostanze terrestri, come essere farina o creta; popolo per noi scrittori, che per orgoglio stiamo con l'uomo del paese nella sua disperazione e nella sua speranza, significa più che ogni estetica coltivata o reazione chimicamente pura di spirito. Paese, matrice silenziosa della mia patria che stimo più che nei suoi paesaggi, più che nel suo vulcanico ed oceanico territorio, più che nei suoi palazzi, più che nelle sue superficiali forme legali, nella sua essenza aspra e taciturna di lavoratori pieni di malinconica allegria. Rassegnati, dominati, silenziosi, uomini oscuri della città, del campo e del mare della mia patria meravigliosa, la vostra arte fiorisce come piccole lucciole nella notte dell'infortunio e della miseria e della morte, e schiacciando duri metalli, sottomettendo e perforando cinghie e cuoi fino a fare del materiale informi cavalcature e staffe che più sembrano fiori stupendi; combattendo il legno nel fondo terribile delle nostre abbandonate regioni, fino a fare con essi rozzi e commoventi oggetti che, soprattutto, mostrano la purezza e la pace del cuore, impastando il legno e la terra fino a fortificarla nella nostra meravigliosa creta nera che non ha uguali in nessuna arte popolare del mondo, artigiani, artisti del mio sventurato paese, date a noi, gli scrittori e gli artisti coltivati, una lezione sovraumana di resistenza alla disgrazia e di creativa bellezza convertita in speranza. Sappiatelo, paese divino per proverbio e grandezza, tutti i vostri gesti e le vostre arti, attraversando l'intraversabile distanza che il destino sociale ha messo tra le classi, ci umilia, perché in tutta la nostra creazione, nella nostra barcollante ricerca, nell'oscurità dell’emozionale e dell’estetico, nella nostra tormentata situazione di stregoni di un mondo finito, non troviamo mai la realizzazione fragrante, spontanea, essenziale che trovate voi come l'ape trova la forma cellulare o il bambino la luce delle stelle.
Dal paese di tutti i paesi esce questa luce oscura che, formando un'arte delicatissima e violenta, fonda la base razziale e popolare in cui le arti e le vite nazionali si alzano alla luce del mondo. Dal romanziere spagnolo, dalla protesta messa in versi con spontaneità di rose contro l'invasione moresca, e motivata nei battiti del sangue, escono come un torrente di pietra la poesia spagnola e l'eroismo popolare, come correnti inseparabili nate nella stessa durissima culla. Ed il nostro più grande poeta cileno, Carlos Pezoa Veliz, si somiglia molto nella sua forma e nel contenuto del suo canto alla voce e alla chitarra ed al cane dei mendicanti ciechi.
Impariamo con questa esposizione l'asprezza e la dolcezza di quelli che non hanno nome, ed a quel silenzio della nostra razza diamo tutto il cuore rosa e colomba, parola e sperranza, perché il paese non ha niente e tutto merita.

Boletín Bimestral de la Comisión Chilena de Cooperación
Intelectual,
num. 7, Santiago, gennaio-febbraio 1938.
Discorso letto nell'apertura dell'Esposizione di Arte
Popolare, Museo di Belle arti, Santiago, 6.1.1938.


Il vero spirito tedesco

Dove stanno queste grandi vite sgretolate dall'esilio, dalla persecuzione e molte volte dalla morte?
Dove stanno, alimentano l'idea di patria come chi alimenta in fondo una colomba perduta nel fondo di un patio oscuro, con un grano disperato, fatto di speranze e di silenzio? Ahi di me, ahi di noi se non fosse per la speranza!
Qui portiamo, signore Direttore, queste grandi vestigia, queste grandi vele della barca nordica, alzata fino al cielo dalle fiamme dell’eterna, e discesa fino al fondo del naufragio per le contingenze della vita terrestre.
Tutto quello che il gran paese fertile costruì nel sogno, nella realtà e nella profondità, gelò qui, portato per noi, questo tesoro magnifico, frustato per il sangue e per le onde, portato per noi, uomini di un remoto paese appena uscito dell'ombrosa selva.
Forse per quello sappiamo e tesoreggiamo, e nelle vostre mani confidiamo il doloroso e castigato e perseguito ed esiliato tesoro. Come le foglie accumulate per il tempo con lentezza ed immensità danno all'ombra del bosco la sua poderosa grandezza, sotto a questi libri eminenti, sotto a questa rosa germanica di mille petali, ci sono secoli di tempo e di cultura, parole e silenzio che hanno riempito la terra. Affinché un Enrique Heine, un Einstein, un Thomas Mann mostri alla superficie del mondo il suo diamante floreale, la sua enigmatica geometria o la sua umanità inzuppata nel mistero, c'è nella terra tedesca secoli di preparazione alla saggezza che oggi sono ammutoliti, milioni di radici meravigliose sulle quali oggi cade una neve nera.
Consegnandoli, signore Direttore, consegnandovi oggi questi libri, preservandoli forse dal conflitto universale, con orgoglio pensiamo che la nostra cara patria non si inquina coi venti della furia ed offre rifugio nel cuore della sua nobile biblioteca a questa respirazione universale dell'intelligenza, tanto più alta quanto più dolorante.
Signor Direttore, credo che questa data generosa nella vostra istituzione e nel vostro paese, sarà ricordata più tardi in molte istituzioni ed in molti paesi. Solennemente vi lascio proteggere per molti anni il vero cuore della Germania.

Frente Popular, Santiago, 21.7.1938. Discorso di
consegna alla Biblioteca Nazionale (Santiago) dei
libri proscritti dalla Germania nazista, donazione
simbolica della Alianza de Intellectuales de Chile.


Fuori dal Cile i nemici della patria!
FUERA DE CHILE LOS ENNEMIGOS DE LA PATRIA! (Pagine 400-404.) Ho conservato la firma PABLO NERUDA (Neftalí Reyes) perché questo discorso, pronunciato dal poeta a Temuco pochi giorni prima della morte di suo padre, fu pubblicato varie settimane dopo il decesso. Accettare eccezionalmente allora che apparisse il nome Neftalí Reyes vicino al suo vero nome fu un omaggio (postumo) a Don José del Carmen ed un modo di riconoscimento della stirpe in quel momento drammatico. Zii ed altri membri dei famiglia Reyes con ogni probabilità furono presenti durante il discorso o lo lessero dopo nel quitidiano locale. Alcuni di quelli zii erano gli stessi barbari a cui alluderà poco dopo la prosa "La copa de sangre". Anche questo ebbe la sua parte nell'itinerario elaborativo del Canto general de Chile che più tardi confluirà nel Canto general.

Cari compagni, la guerra di Spagna mi sorprese a Madrid. Ricordo la notte di quello giorno come oggi.
Andavamo quattro cileni ad un spettacolo teatrale, all'improvviso canne di fucile e pistole dentro il taxi. Così cominciava la guerra civile del mondo in questo cuore di cileno, con alcune armi proletarie che interrompevano il futuro di una festa notturna. Quelle armi, quelle braccia piene di pallottole, mi insegnarono in una notte di Madrid quello che non imparai mai nei testi rivoluzionari. Mi insegnarono che il proletario può rispettare tutti i cannoni, può andare in unione assoluta con gli alleati per conservare il prestigio della democrazia e della pace ed il pane dei suoi figli; ma che se quella pace e quel pane e quella democrazia sono calpestate, il paese può uscire a difendersi per le strade con grandi cuori di leone abituato alle intemperie e all'incendio.

E dopo, per mesi ho seguito la marcia di quel glorioso esercito del paese, nello stesso centro vitale della sua gloriosa nascita, ho visto crescere le sue grandi ali rosse come una materiale aquila immensa. Ho visto i suoi grandi e piccoli eroi e davanti a voi, nella confidenza della mia voce e dei vostri uditi che sono gli uditi sacri del paese della mia patria, vi dirò che ho assistito alla vita e alla morte degli operai di Madrid come console del Cile, perché mi sentii designato per rappresentare il Cile e non per tradirlo per un mucchio di monete tinte con sangue.
Ma lì non rappresentai un mucchio di decrepiti demagoghi, non rappresentai mai il circolo che falsamente nella nostra patria vuole arrogarsi i cartelli dell'ordine, quando dovessero portare nella fronte la marca del brigante, lì a Madrid, cuore ardente e fumante e dolorante del mondo, credo di avere rappresentato il Cile nei suoi operai e nei suoi intellettuali, sconquassati e martirizzati per una reazione, per un'onda di mercanti senza legge e senza anima. Non sono la patria quelli, come non sono la patria spagnola i traditori di Franco, né i mori e italiani e tedeschi che trapanano gli angosciosi campi della nostra grande madre spagnola. No, la madre siamo noi, quelli che combattiamo per la vera tradizione delle nostre libertà, macchiati oggi per una classe sfruttata e minacciata per un'immensa onda di tirannia universale. Nostra è la patria, cileni che mi ascoltate, e sarete disgraziati se scioglierete la bandiera che ci è tanto cara, perché fu conquistata ed alzata al rispetto ed il trionfo da mani e cuori di operai trapassati da una pallottola di fucile, la bandiera del Cile data all'aria meravigliosa del nostro paese caro per uomini che amarono la libertà come solo noi l'amiamo e la difesero come noi, sono sicuro, sapremo difenderla.

Che cosa hanno a che vedere con la nostra patria quelli che mettono a sacco i nostri minerali e sfruttano e vendono i nostri suoli e rimettono le viscere della nostra feconda cappa terrestre affinché non mangino e si annientino i cileni? È la stessa casta di Franco il Maledetto ed i Ladislao Errázuriz, i Ross, il Fidel Estay di oggi non vacilleranno quando il paese del Cile sarà massacrato domani dagli indios del Chaco, se questo massacro può portare alle loro tasche alcuni biglietti di sterline, benché questi portino molte gocce del nostro povero sangue.
Questo primo di maggio è operaio; ma non dimentichiamo che il 18 settembre è tanto operaio come questo giorno e spero che questo prossimo siano le cose più definite e la speranza del trionfo più vicina. Perché il 18 settembre di più di cento anni fa fu anche una Fronte Popolare che ci diede l'Indipendenza ed oggi non è un'altra cosa che un'indipendenza nazionale quella di cui hanno bisogno i cileni.

Sono venuto in Cile a propiziare un movimento di intellettuali, di scrittori; di professionisti, di artisti che militino e lottino e soffrano e vivano nel paese. Posso dire con orgoglio che ho trionfato. Dovete conoscere il nostro nome: siamo l'Alianza de Intelectuales de Chile per la Difesa della Cultura. Perché la cultura è minacciata, come il paese è minacciato per la reazione militante fatta fascismo e rossismo. Così sta la cultura, i libri e l'insegnamento e i quadri, tutto questo, come la vita degli operai, io l'ho visto distrutto nell'Europa fascista e cavernosa.
Io ho visto i libri bruciati per i barbari ed i poeti assassinati contro una parete ed i quadri bombardati senza contemplazione, senza nessun rispetto per la vita dal bambino né della donna né dell'uomo. E davanti a questo pericolo immenso che rade al suolo l'umanità e trasforma in dolori fumanti ed in rovine sconsolate quello che esiste, io mi sono detto: il mio posto non sta in Europa; il mio posto sta qui affinché questi, come gli spagnoli, siano unghia e carne del mio proprio cuore. Il mio posto sta coi miei fratelli del Cile; il mio posto sta col mio proprio sangue e qui sto, compagni, facendo di ogni minuto della vita una sola avvertenza ed una sola ardente e frenetica e fiammeggiante chiamata per dirvi: anche a costo della vita, difendete la nostra libertà, che non si dica che in Cile passò il fascismo, perché se quel giorno arriva è migliore essere freddo e pieno di sangue in una cunetta.
Ma quell'ora non è arrivata ma bensì serietà e disciplina e frontismo: quella è la nostra consegna. E guardare, e guardare per tutti i lati al nemico che in questo momento negli aristocratici clubs di Santiago non solo si riuniscono, ma hanno l'audacia di celebrare nel Club Tedesco di Temuco il giorno della Germania. Il giorno della Germania! Questo mucchio di assassini sinistri che come uccelli nefasti gettano in questa ora stesse tonnellate di esplosivi sulle madri ed i bambini spagnoli; questi sleali colonizzatori della nostra frontiera osano sfidare il paese, riunendosi nel sacro giorno del proletariato universale per alzare i ventri in un brindisi di sangue che forse domani ci raggiunge.

Fuori dal Cile i nemici della patria! Fuori da qui le spie e gli agenti di Hitler il macellaio megalomane! Che si chiudano le scuole naziste della frontiera e del sud! Questa deve essere la nostra consegna. Vogliamo stranieri che rispettino la sovranità del Cile; vogliamo che la nostra patria e la nostra lingua stiano nel cuore di tutte le scuole. E se le nostre autorità o deboli o incommensurabilmente stupide o, quello che è peggiore, complici o consociate non vedono il pericolo del cane nazista nel nostro territorio meridionale, il paese di Temuco deve alzarsi e vigilare, perché non c'è più patria del paese, né più antipatriottici di quelli che tradiscono e lo dimenticano e lo vendono ed ora pianificano di comprarlo.
Questa città, Temuco, deve essere il centro di una campagna antinazista, antialemanna, comprendendo non in questo termine i tedeschi pacifici che non hanno mire imperialiste né politiche sul nostro paese, bensì quelli che aiutati per il disordine e l'avidità della classe governante si impossessano del nostro suolo ed insolentemente passeggiano davanti ai nostri nasi gli emblemi delle svastiche assassine.
E come esempio recente di abuso, di disonestà, di bugia interessata e pagata, leggiamo il giornale di oggi edito in Temuco. In omaggio di questa falsa festa del paese tedesco che non è tale festa altro che un latrato ufficiale messo sulla bocca del paese tedesco affinché non parli né ricordi la data internazionale che commemorano i paesi liberi del mondo, come omaggio all'infiltrazione del nostro territorio, come omaggio al disprezzo che nelle scuole tedesche di questa regione si insegna ai bambini del Cile, come omaggio a tutto questo, due pagine di propaganda nazista tedesca in questo
Diario Austral, i cui proprietari accuso di traditori la nostra patria.

Per fortuna e forse per caso a loro è scappato pubblicamente qualcosa: è che nella prima pagina c’è una fotografia dei bombardamenti di Barcellona e ahi compagni sappiamo la verità, benché la vogliano occultare con pagine di propaganda. Lì in quelle rovine dolorose, in quelli cadaveri disfatti dalla mitraglia tedesca abbiamo la verità che la pagina di questo quotidiano anticileno pretende di coprire con due pagine di falsità e di tradimento.
E chiedo a tutti voi un obolo, immediatamente per cominciare una gran campagna di nazionalità popolare anche se sia 20 centesimi, subito depositateli nella bandiera cilena per contribuire ad espellere gli invasori! Abbiamo bisogno di volantini, opuscoli, cartelli ed ognuno di voi deve contribuire.

Questo è il mio messaggio e non ho dubitato nel venire a parlarvi allontanandomi per alcuni momenti del letto di mio padre stanco per una grave malattia e quasi incosciente, perché interpreto anche il suo pensiero di radicale frontista venendo io, figlio prodigo di Temuco, a mettere nelle stesse orecchie, nello stesso cuore del mio paese, queste parole della Pasionaria, scritte con sangue ed allori:

Più vale morire in piedi che vivere in ginocchio


PABLO NERUDA (Neftalí Reyes)


La Voz Radical, Temuco, 2.7.1938. Discorso letto
nella Casa del Pueblo, Temuco, 1.5.1938.


Messico, Messico!
MÉXICO, MÉXICO! (Pagine 404-406.) [...] el pastor que elegimos, el que pudo ser padre de su pueblo [...] /Mi oscuro pueblo cantó una canción mexicana para darle la gloria. (il pastore che scegliamo, quello che poté essere padre del suo paese [...] / Il mio oscuro paese cantò una canzone messicana per dargli la gloria". Allusione ad Arturo Alessandri Palma, presidente in esercizio, eletto nel 1932 da una coalizione di destre, ma nell'elezione presidenziale del 1920 era stato il candidato della speranza popolare. L'attuale conservatore era stato allora un abile demagogo che i conservatori (nel potere) odiavano e temevano. Giovane e combattivo senatore liberale per le province del nord, gli piaceva che lo chiamassero il Leone di Tarapacá. La sua candidatura presidenziale svegliò un entusiasmo popolare - particolarmente tra gli studenti universitari ed impiegati della bassa classe media - mai visto prima in Cile, favorito inoltre dal nuovo quadro politico intercontinentale sorto della Grande Guerra del 1914-1918 che includeva la Rivoluzione russa del 1917 e la ribellione universitaria del 1918 a Córdoba, Argentina. E che per certo includeva anche, rinforzati, gli echi della rivoluzione di Zapata e Pancho Villa, cominciata prima. La canzone messicana a che allude il testo è "Cielito lindo" che, con versi ovviamente modificati per l'occasione, fu l'inno di battaglia della trionfante campagna presidenziale di Alessandri nel 1920.

Che orgoglio abbiamo di te, Messico fratello, Messico, aquila verde,
da sopra della mappa come alloro di ferro
lasci cadere una foglia che percorre
tutto l'abbandonato cuore del Sud-America
come un lingotto rapido di orgoglio,
e dal tuo sole centrale come da una granata
escono onde di luce per le nostre bandiere.

Messico, io mi ricordo
di te quando a Madrid ritornavano
i miei compagni combattenti
di ritorno dal sangue.

Mi portavano non un fiore di trincea,
mi portavano non un uccello assassinato,
bensì un pugno di capsule di bronzo
dietro le quali potei decifrare con orgoglio
la seguente leggenda "Messico, 1936."

Essi, i combattenti,
portarono fino a me il tuo fiore di fuoco,
portarono fino a me il tuo piumaggio di polvere da sparo,
per dirmi il Messico c'aiuta, non siamo tanto soli, fratello.
Ed allora
non mi sentii figlio di una patria tradita,
non mi sentii abitante di un mondo che rinchiudeva la Spagna,
mi sentii figlio dell'America, ed una goccia
del tuo coraggioso sangue, Messico, uscì a cantare al mondo.

Erano terribili quelli giorni:
era Badajoz, Talavera, Toledo,
era la ritirata,
il mondo aveva girato la schiena,
il mondo chiudeva le frontiere cioè la coscienza,
e da Madrid vedevamo avanzare ai traditori,
e nei campi vedevamo retrocedere i coraggiosi,
e nella linea vedevamo morire il fiore più rosso della Spagna
perché i fucili ed il cuore oramai non servivano: mancavano i fucili.
Ed allora arrivarono bianchi fucili che avevano attraversato il mare,
benedetto sia il Messico, benedetti siano i tuoi bianchi fucili attraverso il mare.
È che a te Messico, quello a cui il tuo paese intitolò eletto,
Messico, quello a cui salisti e nominasti capitano del tuo paese,
Lázaro Cárdenas, presidente, non arrivò alla cima per tradirti,
bensì per stare col suo paese nella disgrazia e nella fortuna.
Noi, Messico, abbiamo scelto male, ed in questa ora
assiderata, solenne, aleggiata di dubbio,
il pastore che scegliamo, quello che poté essere padre del suo paese
guarda impassibile lo sventurato petto del Cile ferito da mercanti miserabili.
Il mio oscuro paese cantò una canzone messicana per dargli la gloria,
Messico, perdonaci avere usato la tua canzone per una sconfitta
ed insegnaci una nuova e sicura canzone di vittoria.

Ma già la sappiamo, ma già la sappiamo,
è una canzone di speranza di tutti gli americani,
è una canzone di fuoco che scende dai tuoi vulcani
fino ai nostri deserti arcipelaghi, fino alle nostre infinite isole,
ed i carcerati del Perù dicono il tuo nome Messico, come dicono Spagna, come dicono Unione Sovietica,
come diranno domani Cile,
ed i combattenti del Levante spagnolo dicono anch’essi Messico,
ed i minatori di Sewell dicono in questa ora Messico,
perché Messico vuole dire speranza e futuro: Il Messico vuole dire Allegria.

Claridad, Santiago, 18.7.1938. Testo letto da Neruda
nel Teatro Caupolicán di Santiago durante l'omaggio
popolare al presidente Lázaro Cárdenas.


Don Pedro
DON PEDRO. (Pagine 406-407.) A parte i due maggiori candidati all'elezione presidenziale di 1938, Pedro Aguirre Cerda e Gustavo Ross Santa María, il testo allude di passaggio al presidente Arturo Alessandri Palma, "Don Arturo" nel 1920, ed a Carlos Ibáñez del Campo, ex dittatore militare durante il periodo 1927-1931.

La battaglia politica ha messo di fronte come mai prima in Cile due uomini straordinariamente contrari. Tra questi due cognomi, Ross, internazionale, ed Aguirre, cileno, è più che una semplice contraddizione linguistica. Questa parola: Aguirre, e più ancora, Don Pedro, la pronuncia il Cile come in un rantolo, come in un'ultima smorfia di speranza. Ross è il tavolo lucido, estranea, straniera, dei direttivi imbroglioni, del guadagno avido: di quei tavoli escono le notizie di crolli finanziari con suicidi e fughe in Europa. Aguirre, Don Pedro, è il tavolo silvestre delle scuole rurali del Cile, e dopo il tavolo con lampada nell'alta notte, il tavolo della meditazione e dello studio. L'oligarchia cilena, il Club de la Unión ricorrono ad un straniero extralegale, ad un
business's desperado, ad una pillola tossica. Il Cile sceglie il suo più esatto rappresentante, un maestro bruno della nostra classe mezza, un uomo severo e puro, un cileno essenziale.
E come dice il paese DON PEDRO! Non si predica molto questo dono del paese. Non c’è DON Gustavo, né Don Ross, né Don Carlos, né ahi già più,
hélas, DON Arturo! Per il paese, per la sua voce e per la sua divina voce popolare non c'è più Don che Don Pedro. E per me neanche.
Don Pedro esiste, Don Pedro, parla, Don Pedro è passato per tutto il Cile pensando, agendo, parlando, vivendo, esaminando, risolvendo d'ora in poi i problemi che non hanno altro che una soluzione: il trionfo della classe mezza, e del paese, la sconfitta finale di un'oligarchia dissociata ed estinta. Don Pedro è come un buon e fine albero delle nostre regioni meridionali, legni forti e silenziosi, con le quali si è costruito quello che abbiamo di abitazione nazionale e di famiglia e casa: oggi portiamo quello nobile legno al quale si è voluto posticiparsi per decreto governativo e forestiero, oggi portiamo legno di Aguirres, forte e silenzioso legno di scuole australi, per ricostruire la patria.

Aurora de Chile, num. 5, Santiago, 12.10.1938.


L'educazione sarà la nostra epopea
LA EDUCACIÓN SERÁ NUESTRA EPOPEYA. (Pagine 407-415) La dichiarazione "hemos vuelto a crear la Aurora de Chile" allude al giornale di quel nome fondato da frate Camilo Henríquez nel 1812.

In un lungo viaggio per il mondo cominciò a diventare più decisiva in me la campana di terra che ci chiama quando siamo assenti, l'immensa campana di fogliame, di rocce sferzate e linguaggio, e sentendo il silenzio della mia patria tra il fragore della guerra e tra il fumo ed il miele delle città, volli distinguere sempre per i visi evidenti o segreti della sua realtà, cominciai a studiare i vegetali e gli uccelli del Cile, amai delirantemente la nostra scultura di neve e mi precipitai al fondo oscuro dei nostri fiumi di salnitro e zolfo, affondai i miei occhi nei petali di polvere da sparo, fuoco e stupore di Góngora Marmolejo, di Pedro di Oña, di Pineta e Bascu-ñán. Ed allora il silenzio della mia patria, che fino ad allora era la sua bandiera e la sua campana di terra rimossa, fu non per me un silenzio di estese selve e mari che mi seguì tutta la vita come un fantasma, bensì una mano dura che prendeva la mia piccola mano di poeta angosciato ed angoscioso, e mi gettava con violenza a tentare di rimediare, in ginocchio, con passione e con dolcezza, la straziante solitudine della mia patria.
Non ho avuto, in questo anno di lotta, non ho avuto tempo neppure di guardare da vicino quello che la mia poesia adora: le stelle, le piante, i cereali, le pietre dei fiumi e delle strade del Cile. Non ho avuto tempo di continuare la mia imperiosa esplorazione, quella che mi ordina di toccare con amore la stalattite e la neve affinché la terra ed il mare mi consegnino la loro misteriosa essenza. Ma ho avanzato per un'altra strada, e sono arrivato a toccare il cuore nudo del mio paese, ed a realizzare con orgoglio che in esso vive un segreto più forte della Primavera, più fertile e più sonoro dell'avena e l'acqua, il segreto della verità, che il mio umile solitario ed abbandonato paese tira fuori del fondo del suo duro territorio, e l'alza nel suo trionfo, affinché tutti i paesi del mondo lo considerino, lo rispettino e lo imitino.
Ho conosciuto anche in altre terre un elemento di pietra dura e tenera che si chiama fraternità. Su quella pietra si è consolidata la nostra difesa della cultura. Nessuno può dire senza macchiarsi che nel nostro lavoro interno qualcuno voglia assumere categoria speciale o risaltare. Abbiamo compreso che interinalmente tutti svolgono un lavoro più grande, più puro e più lungo che noi. L'altezzosità e l'orgoglio, la mano impugnata per l'attacco l'abbiamo prenotata per il nemico, per chi si situi di fronte a noi a rompere la fraternità dell'uomo o la sua speranza nel futuro. E è esemplare per chi studi l'umanizzazione della lotta sociale che siamo stati attaccati con uguale violenza per due settori impegnati in uguale distruzione. Da un lato, i tetri mentecatti che l'estrema destra evidenziò per alzare un candidato di barbara e violenta mentalità, e dall’altro, gli irresponsabili, incontrollati e personalisti che, situandosi in una simulata posizione di sinistra servono solo con la sua ascia di divisione e lotta personale all'accecante nemico. Il nostro stendardo e la sua stella col suo libro li accolse, oggi si alza su essi e dice loro: "Il paese vi ha segnalato un cammino di unione per grandi destini e per grandi nemici, e voi affilate nell'ombra il coltello contro i vostri fratelli. Invece di insegnare al paese come era il vostro dovere, dovete imparare di lui la sua linea inesorabile di nobiltà politica."
Nella Conferenza Internazionale di Scrittori della nostra associazione, presieduta dal gran romanziere nordamericano Theodore Dreiser, celebrata questo anno a Parigi, Aragon, rendendo conto nella sua memoria annuale della marcia degli intellettuali del mondo, disse la cosa seguente: "Se avessimo un quadro di onore nella nostra casa, dovremmo mettere alla testa di quel quadro di onore l'Alianza des Intellectuales de Chile". È qui, dunque, riconosciuto internazionalmente il nostro lavoro in difesa della cultura, ed a Parigi, in un atto solenne nel quale partecipavano centinaia di uomini illustri.

Una nuova conoscenza, una nuova unione circonda il mondo come un nastro di tremula intelligenza. Già i nostri atti propri non sono isolati in relazione alla nostra patria né a remoti paesi. Già i battiti del cuore del Cile, cuore molte volte riunito per noi in atti impressionanti, non toccano solamente la pelle emozionale degli uomini, ma arrivano al loro obiettivo, per fondare il nostro amore per una causa o per edificare la resistenza contro i malvagi, ed arrivano lì dove erano destinati benché debbano attraversare i mari. Noi gli intellettuali, con assoluta coscienza, abbiamo determinato per noi stessi questo destino: quello di essere testimoni ardenti della nostra epoca, e questa attestazione e questa vigilanza li realizziamo come dovere implacabile dentro e fosse delle nostre frontiere. L'intelligenza per compiere la sua lettera magna non può riconoscere frontiere: quando molte frontiere si siano modificate o scomparse, rimarranno le nostre attestazioni che non sono stati scritti con schiuma, bensì con sangue della martirizzata umanità.
Dovremmo salutare in questa ora a tutte le sezioni della Alianza nel nostro territorio, quella di Concezione, Rancagua, Valparaíso, Linares, e specialmente alla brillante brigata di San Felipe. Ma più che tutto voglio che pensiamo che nell'ultimo punto meridionale del mondo, in Magallanes, un gruppo di cileni ha costituito lì l'Alianza de Intelectuales affinché provassimo col trionfo del Frente del Pueblo che in questa terra, nelle sue più lontane rughe geologiche, vicino al deserto o vicino ai mari solitari della fine del mondo, nella solitudine dei temporali e dei ghiacci, brilla come scintilla selvaggia la risoluzione di dare alla nostra patria tutto il suo potere e tutta la sua dignità dentro la pace degli uomini.
Ed in questo senso, è necessario ricordare che la Spagna ci ha dato più aiuto di quello che le diamo. La gran stirpe del suo indomabile paese ha insegnato al nostro che i diritti dell'uomo sono irrevocabili. E quando abbiamo portato e sparso i dolori della Spagna, quando chiedevamo in tutti i toni ed in tutti il posti aiuto per la sua grandiosa circostanza a lutto, quella sola parola
Spagna, quel solo petalo Spagna, quella parola pura, c'aiutava nella lotta di indipendenza che abbiamo appena sostenuto, molto più di quello che aiutò l'oro al candidato vinto. È ora di dirlo: l'immensa corrente popolare che ha portato al potere a nostro venerato presidente, Don Pedro Aguirre Cerda, ha un immenso debito con la Spagna, debito che speriamo ed esigiamo si paghi con la stessa generosità che la Spagna ha col mondo, difendendo la cultura con tutte le parole e con tutto il sangue.
Vicino alla difesa dello spirito perseguito in lontane latitudini, mai l'Alianza de Intelectuales si allontanò dal Cile. È la stella del Cile con un libro nel suo centro quella che forma il nostro emblema. Abbiamo messo nei nostri omaggi Freud, vicino a Camilo Henríquez, abbiamo rivissuto tutte le commuoventi presenze degli eroi del paese, abbiamo onorato Manuel Rodríguez, Lastarria, Bilbao, il tipografo Mulinare, Manuel di Salas, Juan Egaña, a Carlos Pezoa Veliz, etc. Molto prima della lotta presidenziale, vera guerra senza fucili, siamo tornati a creare l'
Aurora de Chile, ed il nostro giornale inzuppato di amore al nostro suolo e di speranze nella sua libertà, percorse tutto il territorio. Viviamo, dunque, una nuova aurora. E quelli che sostenemmo che dovevamo affrontare il combattimento, siamo di nuovo riuniti per aiutare a sostenere il trionfo del paese. E non c'è un'altra maniera di sostenere quello trionfo, bensì portare l'educazione delle masse fino a che sia una vera epopea. Il nostro presidente ha avuto una frase alta e religiosa per questo problema, frase che vogliamo raccogliere qui; ci ha detto: "Voglio che tutto il Cile sia una gran scuola." Sì, quello vogliamo e siamo disposti al lavoro. Le scuole devono spargersi, devono uscire ai campi, gli scrittori, i pittori ed i musicisti, coi maestri di primo insegnamento devono uscire in missioni culturali ai punti più lontani dalle ferrovie ed ai centri feudali del territorio, ed alle miniere ed i litorali, devono andare a portare il cinema, la musica, il libro, il teatro, e basta con ciò, lì dove arriva l'abbecedario arriva presto la libertà. Sappiamo che le stampe dello Stato che le radio dello Stato o posizionate sotto la sua custodia e responsabilità, che tutti i mezzi di propaganda posti nelle sue poderose mani, non saranno messe mai più al servizio dell'insulto, dell'ignoranza, della falsificazione ed altri prodotti della reazione. Ma ciò non basta. Vogliamo che penetrino alla nostra storia e nell'attualità del nostro paese; che le profonde personalità, come Ercilla, Pedro di Oña, il padre Ovalle, Diego Rosales, l’abate Molina, il poeta Pineda e Bascuñán ed altri che in pieno colonialismo forgiavano la nostra nazionalità, siano rivelati al paese in edizioni facili ed economiche; desideriamo che Camilo Henríquez, Egaña, Manuel de Salas e tutti gli eroi della democrazia cilena e stimolanti della cultura repubblicana arrivino nelle mani di tutti i cileni; pensiamo che Pezoa Veliz, Baldomero Lillo ed altri artisti che ci tracciarono la strada verso il paese, così come i più giovani, prodotti della nostra attualità, arrivino fino ai più solitari figli dal Cile.
Così si afferma la democrazia, insegnando ad un paese abbandonato, proteggendo un paese abbandonato, ed in questo compito di immenso sacrificio non bastano gli sforzi di nessun governo; dobbiamo affrontare questa responsabilità tutti noi cileni. L' l'Alianza de Intelectuales de Chile ha incaricato una commissione di tecnici scrittori, musicisti ed artisti plastici, un piano completo che nella prossima settimana presenterà all'Eccellentissimo signor Aguirre Cerda.

Noi iniziammo la battaglia contro la corruzione molti mesi prima della campagna presidenziale; noi facemmo i primi timbri gommati ed i primi dispositivi cinematografici per denigrare il corruttore e il corrotto; ma quella campagna, signori, non la considero finita. Dobbiamo terminare per sempre con questa terribile vergogna nazionale. Le pene contro il corruttore devono aumentarsi a molti anni di prigione e deve essere privato di ogni diritto cittadino. Il nuovo governo deve assicurare per mezzo di tutte le sue forze armate e civili che mai tornerà a comprare un voto in questa Repubblica. E sappiamo quello che questo significa.
L'Alianza de Intelectuales non ha alcun partito politico. Uomini di molte credenze lottano in essa, come forza morale e previdente, come espressione acuta davanti al pericolo che oggi si alza come minacciante apparizione il mondo. Tre nazioni hanno rotto ogni patto con l'umanità e dedicano il suo sforzo ad accumulare un fiume di agonie, di sangue e di morte, come mai lo contemplò la storia. Davanti a questa ombra tragica ci siamo raggruppati, senza paura per sfidare il mostro frontalmente e per creare nella cosa più amata che abbiamo, la nostra patria, un clima impossibile alla venuta di tanto terribili sventure. Ed abbiamo alzato un grido ed una consegna primaria che ancora non si è realizzata: LE SCUOLE ANTICILENE MOTIVATE CON UN PROPOSITO POLITICO PER I NAZISTI TEDESCHI, CON IL CONSENSO DELLE NOSTRE AUTORITÀ, DEVONO ESSERE CHIUSE. E non abbiamo fatto soli questa consegna. Donne ed uomini eminenti, con a capo la nostra Gabriela Mistral, hanno ripetuto pubblicamente: quelle scuole devono chiudersi. Abbiamo portato al governo attuale il nostro fervente desiderio: non siamo stati ascoltati. In quelle scuole si insegna ai figli di tedeschi, nati in Cile, a disprezzarci a nome della "Grande Germania". Il ritratto del torbido e tragico demonio che dirige al Terzo Reich sta lì nella porta di ogni scuola, invece di starci quello del presidente della Repubblica che ha accolto questi ingrati immigranti. Ma in realtà, non merita stare lì il ritratto di un governante che non ha avuto né l'autorità politica né morale necessaria per fare rispettare la nostra sovranità.
Ugualmente il nostro direttivo considera lavoro venturo qualcosa che voglio predire senza esitazione: abbiamo visto i crudeli tentativi del signore Ross per produrre un'insubordinazione militare, tentativi contrastati in realtà dall'ufficialità, dalla truppa, con una negativa che esalta non solo il nostro esercito, bensì al nostro paese. No, oramai non possono fomentare una guerra civile, perché giornalisti avviliti ci avevano chiamati "rossi" e ci avrebbero coperti di supposti atroci crimini commentati dopo da pervertiti critici letterari che già dovevano rinunciare ai loro danari. Così si procedette in Spagna. Ora rimane per gli sterminatori del mio paese una strada che già hanno intrapreso: la guerra finanziaria, il blocco all'economia, guerra che intraprendono contro un paese senza cibo e senza vestiti, capitanati da un vecchio direttivo di speculazioni e di frodi. E davanti a queste guerre e le prossime crisi economiche più o meno profonde, davanti alla minaccia della fame per il nostro paese, doverci consigliare al paese di non avere troppo rapide speranze, dobbiamo noi intellettuali uscire alla strada di nuovo e chiedere tutto il sacrificio che dovremo per difendere la libertà conquistata. Non ci vinceranno per fame, resisterà il Cile, che ha chiuso la bocca affamata per non mangiare il pane che il nemico gli offrì il 25 di ottobre, resisterà un'altra volta, ma bisogna insegnargli ed indicargli i nomi dei cileni traditori che preparano il suo martirio.
Fino a questo istante, ubbidendo alla dura necessità di un'intensa propaganda per la democrazia e contro il fascismo l'Alianza de Intelectuales ha svolto il suo ruolo in questo terreno e si è visto obbligata a rinunciare a molti dei suoi compiti di creazione e divulgazione culturale. L'abbiamo fatto con soddisfazione, con allegria, e sincerità, perché comprendevamo la necessità di farlo, perché in ciò consisteva la salute del paese e noi crediamo, come Camilo Henríquez, che la salute del paese è la suprema legge. La nostra
Aurora de Chile, nei suoi ultimi numeri si convertì quasi in un semplice foglio di propaganda elettorale, destinato principalmente ad esprimere la voce della cultura, in mezzo alla battaglia per la democrazia, nel seno della lotta elettorale. Ora crediamo che quello lavoro puramente di agitazione, che i compiti propagandisti che realizziamo devono continuare a realizzarsi, ma non attraverso le agitazioni e della sola propaganda bensì attraverso la creazione e la divulgazione culturale. In questo senso, i nostri camerata della Spagna c'offrono un esempio insostituibile: come nei primi giorni della guerra antifascista essi si dedicarono a divulgare il maneggio del fucile, ora che il paese lo fa per sé stesso e che hanno poderose scuole militari, coltivano il cuore poetico e filosofico della Spagna come non si è fatto quasi per un centinaio di anni. E tutto ciò ancora in mezzo al prolungamento doloroso della guerra.

L'anno perciò finisce ed il nostro compito si rivela come appena incominciato. Coraggio compagni cari che fino ad ora avete messo la vostra fiducia generosa nelle mie mani, fino ad ieri solo capaci di fabbricare i miei sogni. Tutti, e specialmente, i nostri vicepresidenti, Roberto Aldunate, Alberto Romero, Armando Carvajal, René Mesa C., ed il nostro segretario, Gerardo Seguel; gli assenti: Juvencio Valle, a Madrid; Lorenzo Domínguez, a Barcellona, la deliziosa María Valencia a Parigi, tutti avete portato questo duro lavoro con una coscienza ed una splendida prodezza. In un anno di attacco per difendere lo spirito, abbiamo avuto solo una sola diserzione. Tutte le braccia, tutte le vite dei nostri compagni medici ed architetti, musicisti e plastiche, poeti e romanzieri, giornalisti e correttori di bozze, tutti avete risposto e spero che risponderete da domani di nuovo. Appena inauguriamo il nostro nuovo locale, e voglio raccontarvi, per il nostro orgoglio, che quando compravamo i mobili per il nostro piccolo ufficio in una casa di mobili vecchi, ci rendemmo conto che non avevamo denaro. Allora, noi dicemmo al cassiere, i mobili non potevano esserci consegnati quel giorno. Ma avevamo bisogno di essi. Ed allora dal fondo del negozio un operaio che sollevava a spalla una gran tavola, disse a voce alta al cassiere: sono per l'Alianza de Intelectuales, rispondo io. E dopo quando lo stesso operaio li trasportò lì al nostro locale, in un terzo piano, e volemmo pagargli la cosegna, ci disse semplicemente di no, è il mio contributo per il vostro lavoro. E questo succedette tre giorni fa, qui per strada Estado, ad un passo delle magioni dei magnati che disprezzano ed ingiuriano il nostro nobile paese. Un anno fa vi dissi: "Il paese sta con noi, noi dobbiamo stare col paese"; oggi abbiamo fatto un passo, un solo passo nella lotta ed il paese ci manifesta con tutta la sua vegetale purezza, con tutto il suo poderoso cuore di sabbia e sangue che non abbiamo deviato durante il tragitto.
Oggi, nell'aurora e nella primavera popolare del Cile, gli operai del pensiero ci riuniamo per finire con un ricordo, un anno di lavoro. E giuriamo in piedi nella nostra terra riconquistata, sotto i nostri ardenti martiri, sotto l'ombra di Camilo Henríquez, di Gómez Rojas, di García Lorca, di Emiliano Barral, di Massimo Gorki e di Henri Barbusse, ora confusi per sempre nella farina del tempo, giuriamo continuare lottando perché tutti i diritti dell'uomo, perché la dignità dello spirito trionfi sulla notte nera del fascismo e perché da questo terribile inverno di ghiaccio e sangue che colpisce la faccia della terra, esca repentina e profonda la primavera che speriamo, la gran primavera del mondo.

Aurora de Chile, num. 6, Santiago, 3.12.1938.


VII
Cile 1938: LUTTO

César Vallejo è morto

Questa primavera dell'Europa sta crescendo più su uno, uno indimenticabile tra i morti, il nostro bene ammirato, nostro benvoluto César Vallejo. Per questi tempi di Parigi, egli viveva con la finestra aperta, e la sua pensosa testa di pietra peruviana raccoglieva la voce della Francia, del mondo, della Spagna... Vecchio combattente della speranza, vecchio caro. È possibile? E che cosa faremo in questo mondo per essere degni della tua silenziosa opera duratura, della tua interna crescita essenziale? Già nei tuoi ultimi tempi, fratello, il tuo corpo, la tua anima ti chiedevano terra americana, ma il falò della Spagna ti manteneva in Francia dove nessuno fu più straniero. Perché eri lo spettro americano - indoamericano, come voi preferite dire -, un spettro della nostra martirizzata America, un spettro maturo nella libertà e nella passione. Avevi qualcosa di miniera, di avvallamento lunare, qualcosa terrenalmente profondo.
"Rese tributo alle sue molte fami", mi scrive Juan Larrea. Molte fami, sembra impossibile... Le molte fami, le molte solitudini, le molte leghe di viaggio, pensando agli uomini, nell'ingiustizia su questa terra, nella vigliaccheria di mezza umanità. Quello della Spagna ti andava già rodendo l'anima. Quell'anima tanto rosicchiata per il tuo proprio spirito, tanto spoglia, tanto ferita per la tua propria necessità ascetica. Quello della Spagna è stato il trapano di ogni giorno per la tua immensa virtù. Era grande, Vallejo. Ere interiore e grande, come un gran palazzo di pietra sotterranea, con molto silenzio minerale, con molta essenza di tempo e di specie. E là in fondo il fuoco implacabile dello spirito, brace e cenere... Ti saluto, gran poeta, ti saluto, fratello.

Aurora de Chile, num. 1, Santiago, agosto del 1938.


La coppa di sangue
LA COPA DE SANGRE. (Pagine 417-418.) Quando qualche volta domandai a Neruda perché non aveva incluso questo testo - per me straordinario - in nessuno dei suoi libri, si limitò a rispondere: "Troppo personale." Che significava: vincolato all'irresoluto conflitto con suo padre (cfr. il mio prologo al presente volume). Scritto allo spuntare della primavera cilena del 1938, il testo rimase inedito fino a che gli anni trascorsi debilitarono la resistenza del poeta chi finì per accettare la sua inclusione nell'antologia che Arturo Aldunate Phillips stava organizzando per l'editore Nascimento (Neruda, Selección, 1943).

Quando remotamente ritorno e nello straordinario caso dei treni, come gli antecedenti sulle cavalcature, rimango addormentato ed ingarbugliato nelle mie esclusive proprietà, vedo attraverso il nero degli anni attraversandolo tutto come un rampicante innevato un patriottico sentimento, un barbaro vento tricolore nella mia investitura: appartengo ad un pezzo di povera terra australe verso l'Araucanía, sono venuti i miei atti dai più distanti orologi, come se quella terra boscosa e perpetuamente in pioggia avesse un mio segreto che non conosco, che non conosco e che devo sapere, e che cerco, perdutamente, ciecamente, esaminando lunghi fiumi, vegetazioni, inconcepibili mucchi di legno, mari del sud, affondando nella botanica e nella pioggia, senza arrivare a quella privilegiata schiuma che le onde depositano e rompono, senza arrivare a quel metro di terra speciale, senza toccare la mia vera sabbia. Allora, mentre il treno notturno tocca violentemente stazioni del legno o carbonifere come se in mezzo al mare della notte si scuotesse contro gli scogli, mi sento rarefatto e scolare, bambino nel freddo della zona meridionale, con la scuola nelle delimitazioni del paese, e contro il cuore le grandi, umide boscaglie del Sud del mondo. Entro in un patio, vado vestito di nero, ho cravatta di poeta, i miei zii stanno lì tutti riuniti, sono tutti immensi, sotto all’albero chitarre e coltelli, canti che rapidamente interrompe l'aspro vino. Ed allora aprono la gola di un agnello palpitante, ed una coppa bruciante di sangue mi portano alla bocca, tra spari e canti, e mi sento agonizzare come l'agnello, e voglio anche arrivare ad essere centauro, e, pallido, indeciso, perduto in mezzo alla deserta infanzia, alzo e bevo la coppa di sangue.
Poco fa morì mio padre, avvenimento strettamente laico, e tuttavia qualcosa religiosamente funzione funebre è successa nella sua tomba, e questo è il momento di rivelarlo. Alcuni settimane dopo mia madre secondo il diario e temibile linguaggio decedeva anche, ed affinché riposassero insieme trasferiamo di nicchia il cavaliere morto. Fummo a mezzogiorno con mio fratello ed alcuni dei ferrovieri amici del defunto, facemmo aprire la nicchia già sigillata e cementata, e tiriamo fuori l'urna, già piena di funghi, e su lei una palma con fiori neri ed estinti: l'umidità della zona aveva consumato la bara e calandola dal suo posto, ahi senza credere a quello che vedevo, vedemmo scendere da lui quantità di acqua, quantità come interminabili litri che cadevano da dentro a lui, dalla sua sostanza.
Ma tutto si spiega: questa acqua tragica era forse pioggia, pioggia di un solo giorno, di una sola ora forse del nostro australe inverno, e questa pioggia aveva attraversato soffitti e balaustre, mattone ed altri materiali ed altri morti fino ad arrivare alla tomba del mio padre. Orbene, questa acqua terribile, questa acqua uscita da un impossibile, insondabile, straordinario nascondiglio, per mostrarmi il suo torrenziale segreto, questa acqua originale e temibile mi notava un'altra volta con suo misterioso rovesciamento la mia connessione interminabile con una determinata vita, regione e morte.

Temuco, prob. agosto 1938


Pablo Neruda, Selección (di A. Aldunate Phillips),
Santiago, Nascimento, 1943.


Umili versi affinché riposi mia madre

Mia madre, sono arrivato tardi per baciarti
ed affinché con le tue mani pure mi benedicessi:
già il tuo passo di luce continuava ad estinguersi
ed aveva cominciato a ritornare alla terra.

Chiedesti poco in questo mondo, madre mia.
Forse questo pugno di violette bagnate
sta di più tra le tue dolci mani
che non chiesero niente.

La tua vita era una goccia di miele che tremava appena
nella soglia del sonno e del profumo,
sacra stavi già come dolce legno
di altare, o come aureola di cenere o di nuvola.

Dolce, già non potevi sperare sola un nuovo
giorno, una nuova primavera,
ed a trovarti con lui per aspettarlo sei andato
verso la terra.

Temuco, agosto 1938

Raccolto in RIV, p. 134.


VIII
AMERICA ED EUROPA 1939:
LA SPAGNA NON È MORTA

Spagna

Un po' affaticato per un anno di lotta per la libertà intellettuale e politica della mia patria, sono venuto fino a questa riunione a non dire niente ed ad ascoltare con devozione e speranza, devozione perché, senza dubbio, compagni, portate, dai distanti paesi che rappresentate, alcuni gocce di mischiata fraternità e curiosità, e speranza, perché la nostra istituzione, l'Alieanza de Intelectuales de Chile per la difesa della cultura, mette sopra ogni riunione umana, una condizione di speranza.

E così, sommerso in questa atmosfera di cordiali tentativi, ho visto passare tra il terribile e necessario abbecedario delle preoccupazioni tecniche, le parole che a noi, intellettuali cileni, ci sono più rispettabili e care. Mi riferisco alla parola
dignità umana, mi riferisco alla parola democrazia, mi riferisco alla parola libertà.
Ma una parola ha tardato ad arrivare a questa riunione, una parola ha aspettato oggi troppo per arrivare ad essere pronunciata nel cuore popolare dalla nostra università, una parola che è ripetuta da milioni di uomini e da migliaia di intellettuali in tutta la terra, come simbolo e come realtà straziante. E questa parola è
Spagna.
Amici di tutta l'America: poco più di un anno fa, ci riuniamo in un'assemblea come questa sessanta scrittori di tutte le regioni del mondo, nella capitale fiammeggiante della Spagna. Vi giuro che in quella riunione di uomini dello spirito, uniti sotto i bombardamenti dei nemici della civiltà, quelle riunioni, in quei pasti dentro una città assediata, ci fu più allegria che in queste riunioni protette dallo spirito del mio paese incarnato nella nostra università. E è che lì c'univamo, non ad analizzare le conseguenze di un mondo perso, bensì a creare la realtà di un mondo futuro. Una notte, dopo il lavoro di tutto un lungo giorno di guerra, vicino al hotel dove mangiavano tutti gli scrittori, diventò più frequente il rumore delle esplosioni e salì al cielo un'immensa cortina di fuoco dalla città ferita ed attaccata. E davanti all'esplosione sempre di più continua delle bombe nemiche ci riunivamo a cantare le nostre canzoni di speranza: era la voce di Orfeo nelle porte dell'inferno; era la voce del paese incarnato per la prima volta da intellettuali che la vita spargerebbe per tutti i paesi e che l'unica realtà attuale, la spaventosa realtà della cultura minacciata, unì a Madrid, nella capitale del mondo. Per quel motivo non voglio andare via di queste riunioni senza avere pronunciato questa parola che definisce tutto il nostro atteggiamento, che definisce tutta la nostra lotta, tutta la nostra speranza, tutta la nostra allegria. Questa parola
Spagna che entra come un angelo di fuoco nella coscienza degli uomini, a dir loro: intellettuali di tutti i paesi, unitevi per difendere la cultura.
Quando appena questo pomeriggio parlava il rispettato professore Don Enrique Molina, mi sembrava di assistere ad un antico ballo pieno di imponenti e dolorosi fantasmi vestiti di organza. Quei fantasmi che come davanti ad una dolce scatolina di musica, uscivano a ballare invitati per il rettore di [l'Università di] Concezione, portavano nomi che oggi appena riconosciamo, si chiamavano Cultura Interna, Convivenza spirituale ed altri. Ma davanti al ballo organizzato tanto leggiadramente, tanto deliziosamente Per questo credente sincero, spegnendo i passi di questa gavotta, io sentivo il ruggire dei cannoni di Madrid bassa i quali tremano le mussoline dello spirito. Questo suono terribile non si è sentito in questa assemblea, malgrado in questo momento riempia la vita di nostra madre la Spagna.
Gli intellettuali del Cile vogliono, sulla base di un realismo socialista, conquistare la pace dell'umanità intera.

Vogliono una fraternità impiantata per il paese, vogliono escludere da quella fraternità quelli che distruggono la Spagna monumentale e la Cina immemorabile, con procedimenti di tanta dura crudeltà che il cuore dell'uomo si fa un nodo di terribile angoscia; vogliamo un umanesimo contro i tiranni, vogliamo la libertà della cultura, perché sappiamo che questa vuole servire al paese, e vogliamo anche una America di paesi felici, una America senza stracci, una America per americani e per ospitare la libertà del mondo. E, come disse Marta Brunet, nostra nobile camerata presidente dei giornalisti cileni, già dobbiamo dire al mondo:
Non passeranno, come l'hanno detto davanti a Madrid il romanziere Cervantes e la generale Miaja, il poeta Garcilaso de la Vega e la Pasionaria, il gran Quevedo ed il generale Rojo, la cultura ed il paese.

11 gennaio 1939

La Nación, Santiago, 22.1.1935. Discorso di chiusura
della Prima Conferenza Americana per la Cooperazione Intellettuale.


La Spagna non è morta

In una notte sulla quale è caduto il tempo, un tempo duro come una frusta, in una notte già invecchiata e raggrinzita per tante assenze e bruciata con polvere da sparo, scesi dal treno per calpestare Madrid per volta prima. E tra la moltitudine che circondava e riempiva la stazione, moltitudine incredibilmente remota e sconosciuta, solo un viso era per me, solo un viso pallido e bruno, solo una maschera della Spagna veniva per incontrarmi. Lo scorsi all'improvviso, tra il fumo, tra tutta la solitudine che arrivava verso di me, scorsi un uomo nei marciapiedi già quasi deserti, un uomo che alzando alcuni fiori mi aspettava, egli solo, nella stazione di inverno. Ma quell'uomo era la Spagna, e si chiamava Federico.
Allora con lui scesi le scalinate fatte dalla dura pietra della Spagna, e con lui salii verso l'enigma dei paramenti e delle ossa di quello territorio, più polveroso, più sepolto nell'umana terra che nessuno, più planetario ed isolato che nessuno, più stellare e più radiante che nessuna patria dell'uomo.
Perché lì sorgeva all'improvviso dalle pietre ardenti in cui ardeva un tremulo passato, e tra l'avorio disfatto dei morti, di lì sorgeva una vita terrena con silenzioso e poderoso movimento di ferro, perché lì si univa davanti ai miei attoniti occhi americani la palpebra chiusa della statua con la colomba infinita della creazione e della libertà.
Compresi allora che il nostro romanticismo americano, la nostra fluviale e vulcanica costruzione, mancava quella prima Alleanza che in Spagna, prima di questa guerra terribile, vidi sul punto di realizzarsi, unendosi il mistero con l'esattezza, il classicismo con la passione, il passato con la speranza.
Perché io sostengo che la cosa tradizionale della Spagna, le sue scoperte nello spazio e nel cuore dell'umanità, non appartengono a coloro che hanno tradito, invaso, oltraggiato e straziato la Spagna precisamente a nome del tradizionale e dell’imperiale, ma bensì il suo passato immenso viveva solo col suo paese, per resuscitare con lui in un'onda di meravigliosa speranza che vediamo in questa ora agonizzare, ma che rimarrà per sempre frustando la coscienza dell'uomo sulla terra.

Cantavano le strade di Madrid, della Madrid prima dalla lotta, cantavano i bambini della Spagna, cantavano perché era arrivata la Fronte Popolare e celebravano quella finestra aperta verso il futuro. Essi, i lavoratori della Spagna, avevano aperto quella finestra al mondo, ed in quello vuoto di luce e di ombra vedevamo i visi della Spagna, i visi feriti dalla fame illuminati per un nuovo splendore planetario, ed pieni di una canzone poderosa come la terra e forte come il tempo. E quella canzone nazionale ed internazionale, scendo le rapida primavera castigliana appoggiandosi sulle stesse pietre del mistero e nelle stesse forze di questa nuova primavera diceva a tutta la terra: "Sopra i poveri del mondo" nell'imbrunire delle fabbriche di Madrid, nell'alba dei nuovi fogliami e tra il canto senza cuore degli uccelli, sopra i poveri del mondo, cantava l'umanità dalla bocca assetata della Spagna.
Camerati, abbiamo sentito questa voce. Abbiamo sentito questa voce nella sua pressione più alta, questa voce della Spagna, questa voce di madre abbagliante, questa voce che andava a partorire. Ed abbiamo sentito vicino o lontano un rumore terribile di polvere da sparo che soffocava questa voce annunciatrice, ed allora, subitanea come canto di tempesta, abbiamo sentito la voce del paese in combattimento, alta, dura e tagliente come spada, e siamo arrivati a questo crepuscolo terribile in cui rompendo la luce ed il fiore sentiamo solo il singhiozzo della Spagna, singhiozzo brusco e confuso perché la notte, il tradimento e la morte invadono in questa ora assassina l'umanità intera e è giusto che entrino per la sua porta più splendida, per il cuore della Spagna. Per di là anche usciranno le tenebre e metterà l'irrigatrice luce del giorno della libertà.
Fabbriche di quei giorni, scuole di quei giorni, spighe di quei giorni, io vi saluto da Montevideo, e vi saluto dal Cile, e vi saluto giorni della Spagna con la coscienza e la speranza che dovete ritornare.

Vi saluto soprattutto dal Cile, la mia adorata patria, il paese più bello del mondo, dal Cile, il mio dolorante paese vulcanico, paese di vini e di grano, paese di litorale verde frustato per le più grandi e trasparenti onde dell'oceano. Lì, mia madre, madre Spagna, cantano gli uomini del nostro mare e della nostra terra, cantano le nostre scuole e le nostre miniere, cantano i nostri poeti basso il tricolore sacro della patria, sotto la neve ed il cielo del nostro paese meraviglioso, ma non cantano per il mare, non per il cielo né per i frutti né per il vino; canta la mia patria, perché in lei si rifugia la colomba invincibile della libertà, perché i miei rudi compagni del salnitro e del rame hanno fatto un vuoto di mani dure e delicate per albergare lì la speranza dell'America, la speranza che ci confidasse la dissanguata madre del nostro sangue.
Fratelli americani, solo una coscienza profonda e privilegiata può farci comprendere l'eredità trascendente la vita pura che proteggiamo. Oramai non possiamo sognare: oramai non abbiamo tempo per dormire sognando, c'addormentiamo pesantemente, col sonno della stanchezza del soldato e del costruttore. Da ogni parte dell'America ascoltiamo rumori di martelli e canti: lavoriamo, viviamo e lottiamo difesi dall'acqua oceanica, lavoriamo per il lavoro, per la pace.
E vicino ai terrificanti vulcani, nelle deserte pampas, negli interminabili fiumi, nel nostro giorno ardente dell'America sentiamo il rumore di martelli germogliare come pura canzone di metallo intenerito vicino alle tenebrose mani dell'Europa. I nostri attrezzi dolci ed orgogliosi alzano la casa della pace dell'uomo in questi nuovi territori circondati per l'oceano e per il ghiaccio. E nella mappa dell'America una canzone di ferriere e di fucine risponde come un'eco di fuoco all'inverno di Monaco, una fiamma di luce si accende in Cile, una voce di metallo senza paura esce da Montevideo, un fiore immenso cresce in Uruguay, una mano alza il pugno in Colombia, un petto duro con un cuore di pane immenso difende il Messico e si chiama Càrdenas, ed un sorriso più fine, il più intelligente, il più virile e tuttavia adorabile si apre come una nuova stella per proteggere la libertà dall'uomo, e quello sorriso deciso nasce solo nella nostra America e si chiama Roosevelt, e questo sorriso e questo nome fanno tremare le tenebre.

Ma mi stupì, meglio di niente, veder rivivere nelle strade spagnole la mano del pittore, gli occhi del poeta, la luce degli intellettuali. Questi erano rinati per il paese. Quella terra stava segnalata non solo per ombre di navigatori e soldati furiosi, racchiudeva la Spagna anche il peso fragrante di Luis di Góngora, di Pedro de Spinosa, di Francisco de Quevedo, di El Greco e di Goya. Questi stami di fuoco dormivano sulla Spagna come vene di sterile lutto. Perché quando il paese dorme, dorme la libertà, dorme la pace e dorme la cultura. E per quel motivo, davanti al risveglio del paese della Spagna che mi è toccato presenziare con riverenza profonda, col risveglio dei minatori delle Asturie, col nuovo giorno dei panettieri e dei pescatori, ho visto arrivare alla Spagna come una luna piena di fiori, la presenza antica e fresca dei conquistatori spagnoli della poesia e dell'arte; ho visto albeggiare di nuovo i coralli sonnambuli di Góngora albeggiando sulla nobile fronte del gran poeta Rafael Alberti; ho visto arrivare i cavalli di El Greco, con l'ombra di secoli, alle officine dei nuovi pittori: ho contemplato una versata luce solare riempire di spighe la poesia ed il silenzio della Spagna.
Come in una cera vergine si modellavano i grandi esempi: i poeti uscivano ai campi a mostrare la pittura e la poesia ed il cinema; e come uno spettro di spiga, come una tenace radice di grano, come una fotografia dell'ambra, Federico García Lorca, Grande di Spagna, usciva per i villaggi e le strade dell'Estremadura e Castiglia ad insegnare al popolo ed ad imparare da lui tutto quello che fu: perché questo uomo tra tutti fu come il popolo, fu farina pura, immacolata pietra.
In grandi carri gli intellettuali, cioè, i miei fratelli, i veri, quelli della terra, quelli del popolo, quelli della lettera che non tradisce ma accende, in grandi e scalcinate carrozze uscivano gli intellettuali ogni giorno per dare luce e parole ai contadini. I telai si trattenevano soavemente, gli aratri rimanevano vicini alla notte piena di stelle, e la voce dei poeti, la voce rispettabile dei miei compagni cadeva non nel solco dalla terra bensì nella sete dell'anima. Niente odiò più la prematura ribellione e reazione, neanche agli operai, e quando il generale Francisco Franco, persona che come sembra dirige uno Stato, ed a chi in questo paese non devo chiamare assassino, quando questo generale alzò le sue milizie nazionalmente moresche, nazionalmente napoletane, nazionalmente portoghesi, nazionalmente germaniche; quando questo uomo forte non alzò ma scese in Spagna, cercò più che nessuno chi fosse poeta, chi fosse professore, chi fosse medico, chi fosse intellettuale. E quando si ripercossero sul nostro disperato cuore i tiri che avevano massacrato i nostri coraggiosi camerati intellettuali, quando appena spuntava a noi l'odore del sangue e di polvere da sparo, erano i nostri morti, erano le nostre canzoni, la nostra era pittura resuscitata, e le nostre investigazioni e la nostra saggezza e la nostra tenerezza quella che moriva, la prima, assassinata. E questo fatto sanguinante, questo sparo interminabile, questa ascia che cade perpetuamente in Galizia, a Siviglia, a Roma, a Berlino, questa scintilla di banditi, questa goccia del nostro sangue che si accende sotto l'ascia di Vienna, in Praga, in Cina, questa stella di martirio ci mostrava che il fascismo odiava, più che a nessuno né niente, l'intelligenza e la luce, e ci mostrava vicino a quel tramonto di sangue una strada da poco partorita, vivere o morire, non c'è più dilemma, ma vivremo, morremo col paese, coi poveri del mondo.

La Spagna è, dunque, insegnamento singolare e totale, insegnamento per il popolo, insegnamento di allori sconquassati, insegnamento per l'umanista, lezione per la moltitudine e per la solitudine. Il suo immenso fiume di uomini uniti per proteggere in quell'arida terra la dignità e l'indipendenza, tesoro centrale del futuro, il suo immenso fiume di uomini e di bandiere, le sue popolazioni silenziose sotto il tuono delle esplosioni e delle aggressioni più selvagge che contemplò la storia; i suoi bambini che nei sotterranei di Madrid ci facevano tacere, indicandoci con le loro piccole mani il cielo dove si sentiva il mormorio nero degli aeroplani invasori; le sue scuole appena aperte di fianco al sangue versato per la mitraglia; i suoi poeti raggruppati vicino ai soldati, guardando l'orizzonte della polvere da sparo; continueranno a mostrare per secoli alle moltitudini, il potere dell'unione organizzata, e lo scintillio dell'intelligenza totale del mondo, commossa fino alle sue segrete basi, per tanta empietà e tanta persecuzione, anche organizzata contro tutto un Paese della più nobile stirpe, è la lezione per la solitudine dell'esame, lezione di umanità convulsiva, temporale di singhiozzi che entra sotto i piedi del saggio che apre la porte del sognatore assorto, che scende per i camini, contro il fumo, contro il carbone, fino all'anima dei neutrali e con un dito di lampi gli scrive e gli graffia la nascosta coscienza.
Io sono un poeta, il più assorto nella contemplazione della terra; io ho voluto rompere con la mia piccola e disordinata poesia il cerchio di mistero che circonda il vetro, il legno e la pietra; io specializzai il mio cuore per ascoltare tutti i suoni che l'universo slegava nell'oceanica notte, nelle silenziose estensioni della terra o dell'aria, ma non posso, non posso, un tamburo roco mi chiama, un battito di dolori umani, un coro di sangue come nuovo e terribile movimento di onde si alza nel mondo, e cadono nella terra spagnola per i labirinti dalla storia gli occhi dei bambini che non nacquero per essere sepolti, bensì per sfidare la luce del pianeta; e non posso, non posso, perché in Cina salta il sangue per le risaie, perché cadono i muri di Praga su un fango di infinite lacrime; perché i fiori dei ciliegi austriaci sono macchiati dal terrore umano; non posso, non posso conservare la mia cattedra di silenzioso esame della vita e del mondo, devo uscire a gridare per le strade e così starò fino al fine della mia vita. Siamo solidali e responsabili della pace dell'America, ma quel compito ci dà anche autorità, e ci mostra il dovere che l'umanità, col nostro intervento, esca dal delirio e rinasca dal temporale.

La Spagna non è morta: ci sono migliaia di uomini, di donne e bambini che soffrono nei campi di concentramento che il paese che ha per lemma "Fraternità, Uguaglianza e Libertà" ha disposto per i nostri fratelli, stanno lì prigionieri, non hanno altro delitto che l'avere difeso l'indipendenza della loro patria.
L'America intera deve mobilitarsi, a noi tocca anche cancellare quella vergogna, e dicendo con orgoglio che il mio governo riceverà, nonostante la desolazione che da poco ci frusta, gli emigrati spagnoli, devo chiedere l'aiuto di tutti voi, perché sebbene il Cile abbia terre per la pace e per il lavoro di coloro che vogliano ripararsi sotto la nostra solitaria stella, non abbiamo nel nostro paese scosso per la disgrazia, il denaro necessario per trasportare gli spagnoli. A tutte le parti, per quel motivo, scriviamo, diciamo, pensiamo: gli spagnoli all'America, per formare un nuovo movimento di unità e di aiuto verso l'emigrazione. Che non si senta in questi mesi di angoscia, e sopra la Spagna, solo queste parole: spagnoli all'America, spagnoli alle terre che essi consegnarono al mondo.

No, non sei morta Spagna, non sei morta. Lo vedo tutto, vedo l'assassino e vedo il becchino, vedo i veli a lutto, e vedo il tuo corpo nudo sull’altipiano da dove germogliò la nostra lingua meravigliosa, vedo le tue aperte ferite che bagnano la terra col tuo sangue esemplare, vedo gli uccelli rapaci ammucchiarsi nell'altezza con voraci artigli e becchi, vedo nell'oscuro imbrunire la tua bella fronte stanca. Ma non sei morta, Spagna sovraumana, Spagna delle lampade ad olio, Spagna dei cereali, del vino e dell'astrazione eroica: no, riposa solo un minuto il tuo sangue, affinché la storia sappia quello che perde, affinché la libertà si guardi all'improvviso solitaria, affinché la cultura si senta all'improvviso abbandonata, affinché l'uomo si tocchi il cuore e si domandi: dove sta?, dove sta la Spagna? E gli rispondiamo: sta per sempre, nella nostra lotta ardente, è fusa nel destino del mondo, sta nelle nuove strade del vecchio oceano che ella rivelò secoli fa, sta nei vecchi pensieri di pace, di dignità e di giustizia che il tuo martirio, Spagna, ha rinnovato e fatto tremare con nuova vita davanti alla luce universale; stai, Spagna, in tutte le nostre azioni, in tutti i nostri pensieri, nella determinación della nostra condotta, nella nostra angoscia come nella nostra allegria e nella nostra speranza. La Spagna non è morta, E guardiamo la realtà ed il futuro per ottenere passione e fiducia, la Spagna non è morta, e si alza l'anima fino al posto in cui le mani di tutti gli uomini chiusi si uniscono, fino al posto in cui tutti i pugni chiusi si uniscono, fino al posto in cui la madre immensa ci mostra per tutta la notte dei tempi, come si deve morire per la libertà.

Aurora de Chile, num. 10, Santiago, 6.5.1939. Discorso
letto in Montevideo, marzo 1939, in rappresentaza
dell' Alianza de Intelectuales de Chile davanti al Congresso
Internazionale delle Democrazie.


Nella morte di Antonio Machado

In questo straziante crepuscolo del mondo, dopo un rintocco di sangue, entra la notte per le terre spagnole. Oggi, a questa ora, entra e si stabilisce l'ombra fino a sotto alle pietre. Sotto ad ogni pietra e sotto ogni foglia e sotto ogni tetto, c'è in questa ora una goccia di sangue ed una goccia di ombra. E questo riunito sangue ed ombra seppelliscono tutta il terrestre: coprono anche il cuore dell'uomo. Arriva la notte per le strade dalla Spagna, per le vecchie strade di polvere finissima e secolare arrivano le cavalcate notturne, davanti ad ogni porta scossa si trattengono gli assassini, gli uomini dell'ombra, e davanti a quello che si chiama Juan, davanti a quello che si chiama Pedro, come te, come tuo padre, davanti al fabbro, davanti all'agricoltore, davanti al maestro, davanti alla Spagna, si situa una bocca di fucile, una fiammata pazza ed un grido di agonia.
Per le strade del nostro sangue arriva la notte. Vedo attraversare le coppie di contadini che si nascondendono tra le rughe dalla pietra, vedo girare gli impazziti occhi degli uomini che guardano al mare, il mare senza barche, vedo ai miei compagni scrittori graffiare la terra con le unghie rotte perché il tormento non ha oramai capacità nel cuore, vedo correre per i sentieri, cadere per le rocce, tutta la razza degli orgogliosi spagnoli, che lasciarono soli davanti ai suoi assassini, tutta una parte di un'umanità miserabile. Ed in questa fila amara, tra i bambini affamati e le madri ferite, guardo, prima della morte, questo ardente e malinconico cavaliere, questa eleganza di quercia e pietra toccata dalla neve, questo eroe di una profonda Spagna che è ora solo una scossa, solo una coltellata nel sangue, solo un seme nella fronte di tutti gli uomini.

Chi sei?, gli dico; e questa ombra pura mi risponde: "Sono quello che lascio dietro, sono una regione di mulini e luna, sono un sole di freddo nell’altopiano, sono una misteriosa mano di pietra che bussa alle porte del paese. Sono Antonio Machado sloggiato della sua magione tutelare, sono la Spagna cacciata fuori della Spagna."
Tutte le sterpaglie rischiose dell'esplorazione per l'intelligenza, tutte le passioni dell'essere portate alla destrezza della luce, tutta l'anzianità portata al suo splendore ed il suo scintillio, tutto lo mise Antonio Machado nelle mani del suo paese, tutta la sua saggezza, tutta la sua tenerezza, tutto il suo silenzio, tutto il suo lignaggio, tutto lo lasciò Machado ardendo in quello falò di leoni, e guardando dietro e vedendo al suo paese perseguito, sconquassato, offeso, vilipeso, tradito e scosso per questo mortale, per questa infame ingiustizia consumata, Antonio Machado, vedendo la notte, e la goccia di sangue e la goccia di ombra tremare ed occultare tutta la luce della sua patria, Antonio Machado chiude gli occhi e muore, contemplando alla Spagna con gli occhi chiusi, perché così guardino ora a Spagna quelli che l'amano, con gli occhi chiusi, per non vedere il pugnale dei malvagi che rompe il cuore dei giusto.
Io, se egli non fosse morto, io gli avrei detto: "Prendete, signore, questa strada; lasciatemi, signore, farvi vuoto sotto questo fogliame ed accendervi fuoco tra queste pietre straniere." E gli avrebbe detto: "Guardate, signore, dietro questi alberi di confine; guardate, signore, oltre l'oceano; guardate verso là dove brillano stelle sconosciute prime al mondo, stelle che furono date al cielo da un pugno di mani spagnole, là, nel limite delle isole e del mare, sta l’America, e l’America spagnola, l’America libera, l'America rumorosa di sillabe e di vene ispaniche, l’America piena di frutti e di carne. L'America non può mostrare il cuore indurito dell'Europa, l’America, signore - egli avrebbe detto -, l'America non può tradire, non può negare rifugio alla sventurata madre del suo sangue."

Ma non potei dirglelo. Io vado in Francia a raccogliere spagnoli darloro il rifugio del Cile, perché nella mia patria comanda il popolo, e è questo uno dei suoi mandati. E non potrò dirglielo, ma lo dirò ad un pescatore galiziano, ad un contadino della Castiglia ad un minatore delle Asturie, lo dirò a qualunque operaio basco, catalano o andaluso, e so che Machado, il poeta, ascolterà questo messaggio che porto da un paese, perché Antonio Machado già entrò nella storia, e la storia ascolta e conserva il grande ed il meschino, l’alto ed il miserabile, ascolta tutto per giudicare domani.
E quando la giustizia si scriva, quando cada tutto il fango che si è gettato sopra ogni mattina di questo mondo, quando si rompano gli ultimi stracci della bugia, in quell'ora della giustizia e dell'alba che speriamo, nelle grandi porte di porfido, nelle colonne fondamentali che sosterranno la pace tra gli uomini, sarà registrato questo nome con alfabeto ardente: Popolo spagnolo, e dentro quello nome, come piccole, ma formidabili api, starà il piccolo nome di Antonio Machado, starà il piccolo nome di Federico García Eorca, piccoli dentro il gran tribunale palpitante della giustizia universale e popolare, ma grandi, titanici e sonori come le radici della razza.

Penserete che quando vaga sgozzata la voce degli usignoli è arrivata una notte più completa, più selvaggia e più sanguinaria di tutte le notti del mondo. E così è. Penserete che ombra e sangue crescono fino alla punta delle spighe e fino al centro delle rose, e così è; penserete che alzano il braccio in Spagna per mostrare le mani macchiate per il tradimento ed il sangue dei fratelli, e così è; ma, angosciati compagni, camerati miei, pensate che il mare è più profondo, più amaro e più pieno di colera, e l'uomo ha sperato con gli occhi sistemati nell'altro bordo, pensate che il deserto, la distanza ed il tempo sono attraversati per la speranza umana, pensate che la roccia si disfa a vantaggio della volontà. Ed il branco di lupi si disperderà per le steppe e per le porte severe della Spagna torneranno a mettere l'allegria e la giustizia dell'uomo.

Aurora de Chile, num. 10, Santiago, 6.5.1939.
Parole lette per un atto di omaggio a Machado
in Buenos Aires, marzo 1939.


Un autografo di Pablo Neruda

L'America deve tendere la mano alla Spagna nella sventura. Migliaia di spagnoli si ammucchiano in inumani campi di concentramento, pieni di miseria ed angoscia.
Portiamoli in America. Il Cile, appena uscito da una convulsione terrestre che l'ha coperto di rovine, apre le porte affinché nel suo territorio si ospitino queste vittime spagnole del fascismo europeo. Aggregate a questo gesto generoso il vostro aiuto materiale! Spagnoli in Cile!

Aurora de Chile, num. 12, Santiago, 4.7.1939.
Facsimile di una nota (manoscritta) salutando
la federazione di Organizzazioni Argentine di
Aiuto ai Rifugiati Spagnoli (FOARE).


Il Cile vi accoglie

Spagnoli:
Forse di tutta la la vasta America fu il Cile per voi la regione più remota.
Lo fu anche per i vostri antenati.
Molti pericoli e molta miseria sopportarono i conquistatori spagnoli. Per trecento anni vissero in continua battaglia contro gli indomabili araucani.
Di quella dura esistenza rimane una razza abituata alle difficoltà della vita. Il Cile dista molto da essere un paradiso. La Nostra terra consegna solo il suo sforzo a chi la lavora duramente.

Repubblicani:
Il nostro paese vi riceve con cordiale accoglienza. Il vostro eroismo e la vostra tragedia hanno commosso al nostro paese.
Ma avete davanti a voi solo una prospettiva di lavoro, che può essere feconda, per il bene della vostra nuova patria, protetta dal suo governo di base popolare.

PABLO NERUDA

Console Delegato per la
Immigrazione Spagnola.


Testo compreso nell'opuscolo Cile os acoge, diretto ai
repubblicani rifugiati in Francia, Parigi, s.p. de i., 1939.


Discorso delle lire
DISCURSO DE LAS LIRAS. (Pagine 434-435.) "In questo mese di settembre si compiono venti anni dalla morte di Pablo Neruda. Come un minimo omaggio, pubblichiamo un suo poema, Discurso de las liras. Non è inedito ma pochi, molto pochi lo conoscono: si pubblicò già più di mezzo secolo fa in una rivista di scarsa circolazione [..].Discurso de las liras apparve nel numero VI di Taller, nel novembre del 1939. A mo' di prologo, precedeva una breve selezione di liriche di vari poeti del secolo XVII: Luis Martín (figura in Flores de poetas illustres, la celebre antologia di Pedro Spinosa, e fu, secondo Dámaso Alonso, "un eccellente poeta di secondo ordine"); Suor Juana Inés de la Cruz; il Conte Bernardino de Rebolledo (autore di un curioso Tratado sobre la existencia del Purgatorio); Juan di Tassis, conte di Villamediana, e signora Cristobalina (il suo nome completo era Cristobalina Fernández di Alarcón, "Sibilla di Antequera" come quella chiamò Lope de Vega). Pablo Neruda aveva fatto la selezione di questi poemi per un numero di Cruz y Raya che non arrivò ad uscire poichè la guerra finì con la rivista, come con tante altre cose. Esperto di quello che José Bergamín era riuscito a salvare il poema di Neruda e gli altri testi, gli chiesi che mi permettesse di pubblicarli su Taller. Accettò generosamente. In agosto dell'anno seguente arrivò Neruda dal Messico ed approvò la pubblicazione del suo poema. [...] Ignoro perché Discurso de las liras non fu compreso nella Terzera residencia; non è inferiore ai poemi che compongono la prima parte di quello libro. Tutti questi, per la sua ispirazione e la sua fattura, sono una specie di congiungimento a Residencia en la tierra. In Discurso de las liras è un sostenuto sentimento della forma - strofe di quattro versi ognuna - alleato a quella visione sonnambula del mondo che diede alla sua poesia, in quegli anni, una gravità che la distingue da tutto quello che si scriveva allora. Gravitazione del linguaggio attratto per un oscuro magnetismo verso una regione di sensazioni e battiti, regni sotterranei dell'essere, evidenze che possiamo toccare ma non pensare...", Octavio Paz, in Vuelta, num. 2.02., México, settembre 1993, pag. 8.

La lira delle foglie secche
e la sua vacillazione di aromi d’oro
attraversa l'ombra e la dimenticanza
con battito di ala di colombe rosse.

Chiaramente la forma scivola
verso il vetro, verso le bianche mani,
verso la grandezza dei roseti
i cui radici aspettano il mare.

La forma arde nel suo fuoco di pugnali
e indirizza brucianti scottature
come stella da punte invincibili
o chiave arrossita con segreti.

È che l'anima dell'uomo cerca ferite,
alla cieca, nell'ombra delle cose,
tanto nella scarsa immensità del petalo
come nella sorda scienza delle onde.

Ferita! Ferita! Voce con acqua ed occhi
sommando dimenticanze di aria taciturna,
lacrime piene di foglie come edere,
sostanze sconfitte dell'autunno!

Tremore che cerca patria scivolando
a gorgoglii di frecce bruciate
verso l'albero di rotte iniziali
che la notte e la neve divorarono.

Il poeta ascolta e cresce con la notte,
ed il suo sistema di sospiri cresce
verso una forma come un globo d’acqua
o una cipolla di metallo remoto.

Perché la lira esce dalle foglie
secche, pestate per la vecchia dimenticanza,
come un cavallo da zampe di argento
e celestiale muso cenerino.

Taller, num. VI, Messico, novembre 1939.








Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 80 - 27 nov 2013 | postmaster@antoniogiannotti.it

Torna ai contenuti | Torna al menu