Pablo Neruda e Insetti


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Terzo libro delle odi (1957) - 1^ parte

1957 - TERZO LIBRO DELLE LODI

1957 - TERZO LIBRO DELLE ODI

ODI DI TUTTO IL MONDO

Odi per quello che passa
galoppando
sotto rami bagnati
in inverno.

Odi
ti tutti
i colori e dimensioni,
serafici, azzurri
o violenti,
per mangiare,
per ballare,
per seguire le impronte nella sabbia,

per essere e non essere.

Io vendo odi
magre
in gomitolo,
come fil di ferro,
altre come cucchiai,
ne vendo
alcune selvatiche,
si muovono con piedi di puma:
si debbono maneggiare
con precauzione, con inferriate:
uscirono
dagli antichi boschi,
hanno fame.

Scrivo anche
per sarte
odi
di inclinazione dolente,
coperte
dall’
aroma
sepolto
dei lillà.

Altre
possiedono
silvestri minerali,
durezza dei monti
della mia patria,
o semplicemente
amore ultramarino.

Infine,
deciderete voi
quello che contengono:
pomodori
o cervi
o cemento,
oscure allegrie infondate,
treni
che
fischiano
solitari
trasmigrando
per regioni
con freddo e acquazzone.

Di tutto
un poco
ho per tutti.

Io so
che ci sono altre
e altre
cose
che girano intorno
nella notte o sotto
dei mobili o dentro
al cuore
perduto.
Si,
ma
ho tempo,
ho ancora molto tempo
- ho una chiocciola
che riunisce
la tenace melodia
del segreto
e la vigilanza
sulla sua cassa
trasformata in martello o farfalla -,

tempo

per
guardare
pietre ombrose

o raccogliere
ancora
acqua dimenticata

e per dare
a te
o a chi lo desideri
la primavera ampia della mia lira.

Così, quindi,
nelle tue mani
deposito
questo fardello
di fiori e ferri di cavallo
e addio,

a più tardi:

a più presto:
fino a che tutto
sia
e sia canto.

ODE ALL’APE

Moltitudine dell’ape!
entra e esce
dal carminio, dall’azzurro,
dal giallo,
dalla più soave
morbidezza del mondo:
entra in
una corolla
precipitosamente,
per attività,
esce
con abito d’oro
e quantità di stivali
gialli.

Perfetta
nel girovita,
l’addome rigato
da sbarre scure,
la testolina
sempre
preoccupata
e le
ali
appena fatte di acqua:
entra
in tutte le finestre odorose,
apre
le porte della seta,
penetra per i talami
dell’amore più fragrante,
si imbatte
in
una
goccia
di rugiada
come in un diamante
e da tutte le case
che visita
estrae
miele
misterioso,
ricco e profondo
miele, fitto aroma,
liquida luce che cade in gocciolone,
finché al suo
palazzo
collettivo
ritorna
e nei gotici merli
deposita
il prodotto
del fiore e del volo,
il sole nuziale serafico e segreto!

Moltitudine dell’ape!
Elevazione
sacra
dell’unità,
scuola
palpitante!

Ronzano
sonore
quantità
che lavorano
il nettare,
passano
veloci
gocce
di ambrosia:
è la
siesta
dell’estate nelle verdi
solitudini
di Osorno. Sopra
il sole inchioda le sue lance
nella neve,
risplendono i vulcani,
ampi
come
i mari
e la terra,
azzurro è lo spazio,
ma
c’è qualcosa
che trema, è
il bruciante
cuore
dell’estate,
il cuore di miele
moltiplicato,
la rumorosa
ape,
il crepitante
favo
di volo ed oro!

Api,
lavoratrici pure,
ogivali
operaie,
fini, lampeggianti
proletarie,
perfette,
temerarie milizie
che nel combattimento attaccano
con pungiglione suicida,
ronzate,
ronzate sopra
i doni della terra,
famiglia d’oro,
moltitudine del vento,
scuotete l’incendio
dei fiori,
la sete degli stami,
l’acuto
filo
di odore
che riunisce i giorni,
e propagate
il miele
oltrepassando
i continenti umidi, le isole
più lontane del cielo
dell’ovest.

Si:
che la cera alzi
statue verdi,
il miele
distribuisca
lingue
infinite,
e l’oceano sia
un
alveare,
la terra
torre e tunica
di fiori,
e il mondo
una cascata,
chioma,
crescita
incessante
di favi!

ODE AL MESE DI AGOSTO

Un’altra volta ritorno
al chiaro
della terra,
a guardare
e toccare
pietre silvestri,
sabbia, rami, luna.
Agosto
australe,
agosto
limpido e freddo,
la tua colonna
si alza
dalla terra al cielo
e ti incoronano
le pietre stellari,
la notte dello zaffiro.

Oh,
inverno
chiaro,
vedo
fiorire il tuo rettangolo
in una
sola
rosa,
la neve,
e bianco, azzurro, mi insegna
la tua pura
geometria
una lezione
aperta:
il mondo è senza foglie,
senza battiti,
spogliato di tutto
quello che muore:
è solamente
pietra e freddo,
libro nudo di cristallo da dove
le lunghe lettere della luce si alzano.

Agosto senza
strade, senza
numeri,
agosto senza scarpe
che camminano
verso le sofferenze,
ritorno
alla tua solitudine
non
per
annegarmi
in essa,
bensì
per
lavarmi con le tue acque,
affinché in me
scivoli
la luna
fredda
e pesti per i boschi
pietre, foglie
cadute
in agosto, e tutto abbia
estensione limpida,
sapore di cielo, altezza
di giovane cuore sotto la pioggia.

Oh
piena potenza,
chiarezza
spogliata
della terra,
amo
la tua
astratta
pace
nelle strade.
Voglio
stare
solo
in mezzo
alla luce di agosto
e vedere
così
senza sangue
per una volta
la vita:
vederla
come una
nave
disabitata
e bella,
senza più aroma che l’aria marina
o l’invisibile di un rosmarino amaro.
Passo a passo,
senza nulla:
ma ho
luna e neve.
E vado
persino senza di me,
finalmente,
nel più luminoso
chiarore della terra!

ODE AL MURATORE TRANQUILLO

Il muratore
dispose
i mattoni.
Mescolò la calce, lavorò
con sabbia.

Senza fretta, senza parole,
fece i suoi movimenti
alzando la scala,
livellando
il cemento.

Omeri rotondi, sopracciglia
sopra degli occhi
seri.

Lento andava e veniva
nel suo lavoro
e dalla sua mano
la materia
cresceva.
La calce coprì i muri,
una colonna
alzò il suo lignaggio,
i soffitti
impedirono la furia
del sole esasperato.

Da una angolo all’altro andava
con
tranquille mani
il muratore
spostando
materiali.
E alla fine
della
settimana,
le colonne,
l’arco,
figli di
calce, sabbia,
sapienza e mani,
inaugurarono
la semplice fermezza
e la freschezza.

Ahi, che lezione
mi dette col suo lavoro
il muratore tranquillo!
1956

ODE A UN ALBATROS VIAGGIATORE

Un grande albatros
grigio
morì quel giorno.
Qui cadde
sulle umide
sabbie.
In questo
mese
opaco, in
questo giorno
di autunno argentato
e piovigginoso,
somigliante
a una rete
con pesci freddi
e acqua
di mare.
Qui
cadde
morendo
il grande uccello.

Era
nella
morte
come una croce scura.
Da punta a punta di ala
tre metri di piumaggio
e la testa curva
come un uncino
con gli occhi ciclonici
chiusi.

Dalla Nuova Zelanda
attraversò tutto l’oceano
fino a
morire in Cile.

Perché? Perché? Che sale,
che onda, che vento
trovò nel mare?
Che cosa innalzò la sua forza
contro tutto
lo spazio?
Perché il suo potere
si testò nelle più dure
solitudini?
O fu la sua meta
la magnetica rosa
di una stella?
Nessuno
potrà saperlo, né dircelo.
L’oceano in questo
ampio sentiero
non ha
isola alcuna,
e l’albatros errante
nella interplanetaria
parabola
del vittorioso volo
incontrò solo giorni,
notti, acqua,
solitudini,
spazio.

Egli, con le sue ali, era
l’energia,
la direzione, gli occhi
che vinsero
sole e ombra:
l’uccello
scivolava nel cielo
verso
la più
lontana
terra
sconosciuta.

Uccello esteso, immobile
sembravi
volando
tra i continenti
sopra mari perduti,
una sola
vibrazione di ala,
un agile
colpo di campana e piuma:
così cambiava appena
la tua maestà la rotta
e trionfante continuavi
fedele nell’implacabile,
deserto
cammino.
Felice eri girando
appena
tra l’onda e l’aria
sommergendo la punta
della tua ala nell’oceano
o sentendoti nel mezzo
della estensione marina
con le ali chiuse come una cassaforte
di segreti gioielli,
dondolato
dalle
solitarie
schiume
come una profezia
muta
nel movimento dei salmi.

Uccello albatros, perdono,
dissi, in silenzio,
quando lo vidi disteso,
irrigidito
nella sabbia, dopo
l’immensa
traversata.
Eroe, gli dissi, nessuno
solleverà sopra la terra
in un
piazza di paese
la tua estasiata
statua,
nessuno.
Lì si sdraieranno nel mezzo
dei tristi allori
ufficiali
l’uomo dai baffi
con cappa e spada,
chi uccise
nella guerra
la contadina,
chi con un solo
obice sanguinoso
fece a pezzi
una scuola
di bambini,
chi usurpò
le terre
degli indios,
o il cacciatore
di colombi, lo
sterminatore
de cigni neri.

Si,
non aspettare,
dissi
al re del vento,
all’uccello dei mari,
non aspettare
un tumulo
eretto
alla tua prodezza,
e mentre
tetri cittadini
riuniti intorno alle tue spoglie
ti strappavano
una piuma, cioè,
un petalo, un messaggio
uraganato,
io mi allontanai
perché,
almeno,
il tuo ricordo,
senza pietra, senza statua,
in questi versi voli
per l’ultima volta contro
la distanza
e rimanda così vicino al mare il tuo volo.

Oh, capitano oscuro,
caduto nella mia patria,
magari che le tue ali
orgogliose
continuassero a volare sopra
l’onda finale, l’onda della morte.
1956

ODE AL CARRUBO MORTO

Camminavamo da
Totoral, polveroso
era il nostro pianeta:
la
pampa circondata
dal celeste cielo:
calore e chiara luce nel vuoto.
Attraversavamo
Barranca Yaco
verso le solitudini di Ongamira
quando
sdraiato sopra la prateria
trovammo
un albero abbattuto,
un carrubo morto.

La tempesta
di ieri sera
alzò le sue radici
argentine
e le lasciò contratte
come una chioma di frenetici crini
piantati nel vento.

Mi avvicinai e era tale
la sua forza ferita,
tanto eroici i suoi rami al suolo,
irradiava la sua chioma
tale maestosità terreste,
che quando
toccai il suo tronco
io sentii che palpitava
e un lampo
del cuore dell’albero
mi fece chiudere gli occhi
e abbassare
la testa.

Era duro e arato
dal tempo, una solida
colonna lavorata
dalla pioggia e dalla terra,
e come un candelabro ripartiva
le sue arrotondate
braccia di legno
da dove
luce verde e ombra verde
prodigò alla pianura.

Al carrubo
duro, solido
come
una coppa di ferro,
arrivò
la tempesta americana,
l’aquilone
azzurro
della prateria
e all’improvviso il cielo
abbatté la sua bellezza.

Lì rimasi guardando
quello che fino a ieri
inalberò
rumore silvestre e nidi
e non piansi
perché il mio fratello morto
era tanto bello nella morte come nella vita.

Mi accomiatai. E lì rimase
coricato
sopra la terra madre.

Lasciai al vento
a vegliarlo e a piangerlo
e da lontano vidi
che
ancora
accarezzava la sua chioma.

Totolar, 19 gennaio 1956

ODE ALLE ALGHE DELL’OCEANO

Non conoscete forse
gli sgranati
versanti
dell’oceano.
Nella mia patria
è la luce
di ogni giorno.
Viviamo
nel filo
dell’onda,
nell’odore del mare,
nel suo stellato vino.

A volte
le alte
onde
portano
nella palma
di una
grande mano verde
un tessuto
tremante:
la tela
interminabile
delle alghe.
Sono
i vellutati
guanti
dell’oceano,
mani
di soffocati,
stoffa
funeraria,
ma
quando
nell’alto
del muro dell’onda,
nella campana
del mare,
traspariscono,
brillano
come
collane
delle isole,
dilatano
i loro rosari
e la soave turgidità
navale dei suoi capezzoli
si dondola
al peso
dell’aria che le tocca!

Oh spoglie
del gran
busto marino
mai dissotterrato,
chioma
del cielo sottomarino,
barba dei pianeti
che ruotarono
ardendo
nell’oceano.
Galleggiando sopra
la notte e la marea,
tese
come zattere
di pura
perla e gomma,
scosse
da un pesce, dal sole, dal battito
di una sola sirena,
improvvisamente
in una
risata di violenza,
il mare
tra le pietre
del litorale le dimentica
come brandelli
scuri
di bandiera,
come fiori caduti dalla nave.
E lì
le tue mani, le tue pupille
scopriranno
un umido universo di freschezza,
la trasparenza del
grappolo
delle vigne sommerse,
una goccia
del talamo
marino,
dell’ampio letto azzurro
decorato
con scudi d’oro,
cozze minuscole,
verdi protozoi.

Arancioni, ossidate forme
di spatola, di uovo,
di palma,
ventagli
erranti
colpiti
dal-
l’interminabile
movimento
del cuore
marino,
isole dei sargassi
che fino alla mia porta
arrivano
con i resti
degli
arcobaleni,
lasciatemi
portare al mio collo, sulla mia testa,
i pampini bagnati
dell’oceano,
la chioma morta
dell’onda.
1956

ODE ALLA VIOLACCIOCCA

Quando avvolto in carte,
divoratore sinistro
di libri e libracci,
arrivai a Isla, al sole
e al sale marino,
strappai dal piccolo
giardino
le violacciocche.
Le gettai nel precipizio,
le offesi
raccontandogli
le mie passioni contrarie:
piante di mare, spine
coronate
di purpurei lampi:
così disposi
il mio giardino di sabbia.

Dichiarai suburbana
la fragranza
della violacciocca che il vento
lì sparse con invisibili dita.

Oggi sono tornato
dopo lunghi
mesi,
simili a secoli, anni
di ombra, luce e sangue,
a piantare
violacciocche
a Isla:
timidi fiori,
appena
luce fragrante,
protagonisti puri
del silenzio:
adesso
vi amo
perché
imparai
la chiarezza
camminando
e inciampando
per la terra,
e
quando caddi con la testa
rotta, un
bagliore
violaceo,
un raggio bianco,
un odore infinito di fazzoletto
mi accolse:
le povere violacciocche
di fedele aroma, di perduta neve
mi aspettavano: circondarono
la mia testa
con stelle o mani
conosciute,
riconobbi
l’aroma
provinciale,
ritornai a vivere quella
intimità fragrante.

Amate violacciocche,
dimenticate,
perdonatemi.
Adesso
i vostri
celestiali fiori
crescono
nel mio giardino di sabbia,
impregnando
il mio cuore
di aromi amorosi:
nel pomeriggio
rovescia
il cristallino vento dell’oceano
gocce di sale azzurro,
neve marina.

Tutto alla chiarezza è ritornato.
Mi sembra
improvvisamente
che il mondo
sia più
semplice,
come
se si fosse riempito
di violacciocche.
Preparata
è
la terra.
Incomincia
semplicemente
un nuovo giorno di violacciocche.
1956

ODE ALL’
AROMO

Varietà di pianta dai rami spinosi e fiori gialli molto odorosi (acacia farnesiana)

Vapore o nebbia o nube
mi circondavano.
Andavo per San Jerónimo
verso il porto
quasi addormentato quando
dall’inverno
una montagna
di luce gialla,
una torre fiorita
risalì la strada e tutto
si riempì di profumo.

Era un
aromo.

La sua altezza
di padiglione florido
si costruì
con miele e sole e aroma
e in esso
io
vidi
la cattedrale del polline,
la profonda
città
delle api.

Lì me ne stetti muto
e erano i monti
del Cile, nell’inverno,
sottomarini,
remoti,
sepolti
nell’acqua invisibile
del cielo argentato:
solamente
l’albero della mimosa
dava nell’ombra
grida
gialle
come se
dalla primavera errante
si fosse staccata
una campana
e lì
stesse
ardendo
in
quel
albero sonoro,
giallo,
giallo
come nessuna cosa può esserlo,
né il canarino, né l’oro,
né la pelle del limone, né la ginestra.

Aromo
,
sole terrestre,
esplosione
di profumo,
cascata,
cataratta,
chioma
di tutto il giallo
sparso
in una sola onda
di fogliame,
aromo
anticipato
in quello
australe
inverno
come
un
valoroso
militare
giallo,
prima della battaglia,
nudo,
disarmato,
di fronte
ai battaglioni della pioggia,
aromo,
torre
dal-
la
luce
fragrante,
precedente
falò
della
primavera,

salute

salute

pesante è il tuo lavoro
e un giallo amore è la tua robustezza.

Ti proclamo
favo
del mondo:
vogliamo
per un istante
essere
calabroni
silvestri,
eleganti, alcoliche
vespe,
mosconi di miele
e velluto,
immergere
gli occhi,
la camicia,
il cuore,
i capelli
nel tuo tremore fragrante,
nella tua coppa
gialla
fino a essere solamente aroma
nel tuo
pianeta,
polline di onore, intimità dell’oro,
piuma della tua fragranza.
1956

ODE A UN GRANDE TONNO NEL MERCATO

Nel mercato verde,
pallottola
del profondo
oceano,
proiettile
natatorio,
ti vidi,
morto.

Tutto intorno a te
erano lattughe,
schiuma
della terra,
carote,
grappoli,
ma
della verità
marina,
dello sconosciuto,
della
insondabile
ombra,
acqua
profonda,
abisso,
solamente tu sopravvivevi
catramato, verniciato,
testimone
della profonda notte.
Solamente tu, pallottola oscura
dell’abisso,
sicura,
distrutta
solamente in un punto,
sempre
rinascendo,
ancorando nella corrente
le sue alate pinne,
circolando
nella velocità,
nel corso
del-
la
ombra
marina
come luttuosa freccia,
dardo del mare,
intrepida oliva.

Morto ti vidi,
defunto re
del mio proprio oceano,
veemenza
verde, abete
sottomarino,
noce
dei maremoti,
lì,
spoglia morta,
nel mercato
era
tuttavia
la tua forma
l’unica cosa diretta
tra
la confusa sconfitta
della natura:
eri
solo come una nave,
armato
tra legumi,
con pinna e prua scure e oliate,
come se ancora tu fossi
l’imbarcazione del vento,
l’unica
e pura
macchina
marina:
intatta navigavi
le acque della morte.
1956

ODE AL PESCHERECCIO

All’improvviso nella notte pura
e stellata
il cuore della barca, le sue arterie,
scattarono,
e occulte
serpentine costruirono
nell’acqua
un castello
di serpenti:
il fuoco distrusse quanto aveva
nelle sue mani
e quando con la sua lingua
toccò
la chioma
della polvere da sparo
scoppiò
come un tuono,
come sconfitta capsula,
l’imbarcazione da pesca.
Quindici
furono i
morti
pescatori,
disseminati
nella
notte fredda.

Mai
ritornarono da questo viaggio.
Né un solo dito di uomo,
né un solo piede nudo.

È poca morte quindici
pescatori
per il terribile
oceano
del Cile,
ma
quei
morti erranti,
espulsi
dal cielo e dalla terra
da tanta solitudine in movimento,
furono
come cenere
inesauribile,
come acque luttuose
che cadevano
sopra
le uve della mia patria,
pioggia,
pioggia
salata,
pioggia divoratrice che colpisce
il cuore del Cile e i suoi garofani.

Molti
sono,
si,
i morti
di terra e di mare,
i poveri
della miniera
ingoiati
dalla scura
marea della terra,
corrosi
dai
solforici
denti
del minerale andino,
e nella
strada,
nella fabbrica,
nel
tristissimo ospedale
dell’abbandono.
Si,
sono
sempre
poveri
i prescelti
dalla morte,
i raccolti in grappolo
dalle mani gelate
della raccoglitrice.

Ma questi
dispersi
in piena, in piena ombra,
con stelle
verso tutte le acque
dell’oceano,
quindici
morti
erranti,
poco
a
poco
integrati
col sale, con l’onda,
con la schiuma,
questi
senza dubbio
furono
quindici
pugnali
conficcati
nel cuore marino
della mia povera
famiglia.

Solamente
possiederanno l’ampia
bara dei acqua scura,
l’unica luce
che veglierà
i loro corpi
sarà
l’eternità
delle stelle,
e mille anni
vedova
vagherà per il cielo
la notte del naufragio,
quella notte.

Ma
dal mare
e dalla terra
torneranno
qualche giorno
i nostri morti.
Torneranno
quando
saremo
veramente
vivi,
quando
l’uomo
si sveglierà
e i popoli
cammineranno,
essi
dispersi, soli, confusi
col fuoco e l’acqua,
essi
triturati, bruciati,
in terra o mare, forse
saranno riuniti
finalmente
nel nostro sangue.
Meschina
sarebbe la vittoria solamente nostra.
Essa è il fiore finale dei caduti.
1956

ODE ALLA BICICLETTA

Andava
per la strada
crepitando:
il sole si sgranava
come mais ardete
e era
la terra
calda
un infinito circolo
con cielo in alto
azzurro, disabitato.

Passarono
vicino a me
le biciclette,
gli unici
insetti
di quel
minuto
secco dell’estate,
riservate,
veloci,
trasparenti:
mi sembrarono
soltanto
movimenti dell’aria.

Operai e ragazze
alle fabbriche
andavano
consegnando
gli occhi
all’estate,
le teste al cielo,
seduti
sulle
elitre
delle vertiginose
biciclette
che fischiavano
attraversando
ponti, rosai, rovi
e mezzogiorno.

Pensai al pomeriggio quando
i ragazzi
si lavano,
cantano, mangiano, alzano
una coppa
di vino
in onore
dell’amore
e della vita,
a alla porta
aspettava
la bicicletta
immobile
perché
soltanto
di movimento fu la sua anima
e lì caduta
non è
insetto trasparente
che percorre
l’estate,
ma
scheletro
freddo
che solo
recupera
un corpo errante
con l’urgenza
e la luce,
cioè,
con
la
resurrezione
di ciascun giorno.
1956

ODE AL BOSCO DELLE
PETRAS

(o
PITRA) Mirtacea arborea medicinale, dalle bacche nere commestibili; la polvere delle sue foglie e la corteccia si usano in agricoltura come insetticidi (Myrcengenia pitra)

Per la costa, tra gli
eucalipti azzurri
e le dimore nuove
di Algarrobo,
c’è un bosco
solenne:
un antica
manciata di alberi
che dimenticò la morte.

I secoli
attorcigliarono
i loro tronchi, cicatrici
coprirono ogni ramo,
cenere e lutto
caddero sopra le loro antiche chiome,
si intrecciò il fogliame
dell’uno e dell’altro
come tele titaniche
di ragni
e fu il fogliame come dita
di agonizzanti verdi
annodati
l’uno all’altro e pietrificati.

Il vecchio bosco vive
ancora, qualche nuova
foglia spunta nell’altezza,
un nido
palpitò
nella primavera,
una goccia
di resina fragrante
cade nell’acqua e muore.
Quieta, quieta è l’ombra
e il silenzio compatto
è
come
cristallo nero
tra le vecchie braccia
degli svenuti candelabri.
Il suolo di solleva,
i piedi nodosi si dissotterrano
e sono morti di pietra,
statue rotte, ossa,
le radici
che affiorano dalla terra.

Di notte
lì il silenzio
è un profondo lago
da cui salgono
sommerse
presenze,
chiome
di muschio
e di liane,
occhi
antichi
con
luce
di turchese,
cenerine lucertole dimenticate,
orgogliose donne pazzamente morte,
guerrieri
affascinatori,
riti
araucani.

Si popola il vecchio bosco
delle
Petras
come un salotto
selvaggio
e poi
ombra,
pioggia,
tempo,
oblio
cadono
spegnendolo.

Gli invisibili esseri
si ritirano
e il vecchio bosco
ritorna
alla sua immobilità, alla sua solenne
virtù di pietra e sonno.
1956

ODE ALLA NAVE NELLA BOTTIGLIA

Mai navigò
nessuno
come nella tua barca:
il giorno
trasparente
non ebbe
imbarcazione alcuna
come
questo minimo
petalo
di vetro
che imprigionò
la tua forma
di rugiada,
bottiglia,
nel cui
vento
va il veliero,
bottiglia,
sì,
o vivente
traversata,
essenza
del tragitto,
capsula
dell’amore sopra le onde,
opera
delle sirene!

Io so che
nella tua gola
delicata
entrarono
piccoletti
carpentieri
che volavano
su un’ape, mosche che portavano
sul loro dorso
attrezzi,
chiodi, tavole,
corde
minute,
e così in una bottiglia
la perfetta nave
crebbe:
lo scafo fu la noce della sua bellezza,
come spille elevò i suoi alberi.

Allora
alle
sue
pic-
co-
lis-
sime
isole
ritornò l’arsenale
e per navigar
nella bottiglia
entrò
cantando
la minuscola, azzurra
marineria.

Così, bottiglia,
dentro
il tuo
mare, il tuo cielo,
si costruì
una nave
piccola, si,
minuscola
per l’immenso mare che la attendeva:

la verità
è che nessuno
la costruì
e non navigherà se non nei sogni.

ODE AL PALOMBARO

Uscì l’uomo di gomma
dai mari.
Seduto
sembrava
re
rotondo
dell’acqua,
polpo
segreto
e grasso,
vita
troncata
da invisibile alga.

Dall’oceanica barca
scesero
pescatori
straccioni,
violacei
per la notte
sull’oceano,
scesero
sollevando
grandi pesci fosforici
come
fuoco voltaico,
i ricci cadendo
ammucchiarono
sulle sabbie
il rancore fragile
delle loro spine.

L’uomo
sottomarino
estrasse le sue grandi gambe,
maldestramente
vacillò fra intestini
orribili di pesci.
I gabbiani fendevano
l’aria libera con
i loro veloci becchi,
e il palombaro
come un ubriaco
camminava
sulla spiaggia,
maldestro
e scontroso,
rinfoderato
non soltanto
nel suo vestito di cetaceo,
ma ancora
metà mare
e metà terra,
senza sapere come
guidare gli immensi
piedi di gomma.

Lì stava nascendo.
Si separò
dal mare
come dall’utero,
innocente,
e era cupo, fragile
e selvaggio,
come
uno
appena
nato.
Ogni volta
gli toccava
nascere
dalle acque
o la sabbia.
Ogni giorno
scendendo
dalla prua
alle crudeli
correnti,
al freddo
del Pacifico
cileno,
il palombaro
doveva
nascere,
farsi
mostruoso,
ombra,
avanzare
con cautela,
imparare
a muoversi
con lentezza
di luna
sottomarina,
avere
a fatica
pensieri
d’acqua,
raccogliere
gli ostili
frutti, stalattiti
o tesori
della profonda solitudine
di quei
bagnati
cimiteri,
come se raccogliesse
cavolfiori,
e quando come un globo
di aria scura
saliva
verso
la luce, verso
la sua Mercedes,
la sua Clara, la sua Rosaura,
era difficile
camminare,
pensare, mangiare
di nuovo.
Tutto
era principio
per
quell’uomo tanto grande
tuttavia incompiuto,
traballante
tra l’oscurità
degli abissi.

Come tutte le cose
che appresi
nella mia esistenza,
vedendole, conoscendo,
appresi che essere palombaro
è un mestiere
difficile? No!
Infinito.

ODE AL CACTUS SPOSTATO

Portammo un gran cactus
di entroterra
fino alla spiaggia verde.

Aveva le radici
il gigante
messe
nella pietra
e si afferrava
a quella dura
maternità
con sotterranei,
implacabili
vincoli.

Il piccone
cadeva
alzando
polvere
e fuoco,
la roccia
si scuoteva come
se partorisse,
e a fatica
si muoveva
l’obelisco verde,
corazzato
con tutte le spire
della terra,
finché
con un laccio
lo legammo
in alto
e tirando
tutti insieme
abbattemmo
la sacra colonna
dei monti.

Allora
custodito
e fermato,
avvolto in
sacco e corde
trascinammo
la sua irsuta
statura,
ma
appena
qualcuno
avvicinò la mano
al vegetale ardente,
questi
gli lanciò le sue spine,
e con sangue segnò la morsicatura.

Lo piantammo
orientato al mare cupo,
alto
contro
le onde,
nemico,
eretto per tutti
gli aculei
dell’orgoglio,
maestoso
nella sua nuova
solennità di statua.
E lì
rimaniamo
improvvisamente
tristi,
gli uomini
dell’impresa,
guardando
l’alto
cactus
dalla montagna andina
trasferito
nella sabbia.

Egli continuò
la sua
aspra
esistenza:
noi
ci guardiamo
come vilipesi,
vecchi
carcerieri.

Vento amaro
del mare
dondolò
l’esile
sagoma
dell’alto solitario con spine:
Egli salutò
l’oceano
con
un
im-
per-
cet-
ti-
bile
mo-
vi-
men-
to
e
conti-
nuò

ele-
va-
to
nel
suo
mi-
ste-
ro.
1956

ODE ALLA VIA SAN DIEGO

Per la via
San Diego
l’aria di Santiago
viaggiava verso il sud maestoso.
Non viaggiava in treno l’aria.

Va passo a passo
guardando
prima le finestre,
poi i fiumi,
più tardi i vulcani.

Ma,
lungamente,
nell’angolo
di via Alameda
guarda un caffè piccolo
che sembra
un autobus
carico di viaggiatori.
Dopo viene
un negozio
di francobolli, timbri, insegne.
Qui si può
comprare in lettere bianche
e fondo azzurro brunito
l’insegna temibile di “Dentista”.
Mi abbaglia questo negozio.
E quelli che seguono hanno
questo impeto
di quello che volle essere
solamente transitorio
e restò formato
per sempre.
Più lontano
vendono
l’immaginario, l’inimmaginabile,
utensili spaventosi,
incogniti cinti erniari,
induriti
fiori di ortopedia,
gambe
che chiedono corpi,
gomme allacciate
come braccia
di bestie sottomarine.

Procedo guardando porte.
Attraverso
tende,
compro piccole
cose
inutilizzabili.

Sono il croniste errante
della via San Diego.

Al numero 134,
la libreria Araya.
Il vecchio libraio
è una pietra,
sembra il presidente
di una repubblica
smantellata,
di un magazzino verde,
di una nazione piovosa.
I libri
si accumulano. Terribili
pagine che spaventano
il cacciatore di leoni.
Ci sono geografie
di quattrocento tomi:
nei primi
c’è luna piena, gelsomini di arcipelaghi:
gli ultimi volumi
sono solo solitudini:
regni di neve, sussurranti renne.

Nel seguente numero
della strada
vendono poveri giocattoli,
e dalle porte vicine
la carne arrosto
inonda
le narici
della crepuscolare cittadinanza.
Nell’hotel che segue
le coppie
entrano col contagocce:
è tardi
e l’attività
si affretta:
l’amore cerca piume
clandestine.
Più in là vendono testate
di bronzo abbagliante,
letti straordinari
costruiti
forse
in cantieri navali.
Sono come
eterne imbarcazioni gialle:
devono iniziare il viaggio,
riempirsi
con nascite e agonie.
Tutta la via aspetta
l’onda dell’amore e la sua marea.
Sulla finestra
che segue c’è un violino
rotto,
ma arricciato nella sua dolcezza
di sole abbandonato.
Abita questa finestra
incompreso
per le scarpe che si accumularono
sopra di lei e le bottiglie
vuote
che adornano il suo riposo.

Vengono
per la trasmigratoria
via
San Diego
di Santiago del Cile,
in questo anno:
odore di gas, un’ombra,
odore di pioggia secca.
Al passo
degli operai che si sgranarono
dagli agonizzanti autobus
suonano
tutti i tanghi in tutte le radio
nello stesso minuto.

Cerca con me
una coppa gigante,
con bandiera,
onore e monumento
del vino e della patria cristallina.

Comizio lampo.

Gridano
quattrocento operai
e studenti:

Salari!

Il rame per il Cile!
Pane e Pace!

Che scandalo!

Si chiudono
i negozi,
si ode
uno sparo,
escono da tutte le parti
le bandiere.

La via
corre ora
verso l’alto,
verso domani:
un’onda
venuta
dal fondo
del mio paese
in questo fiume
popolare
ricevette i suoi affluenti
da tutta l’estensione del
territorio.

Di notte, la via
San Diego
continua per la città, la luce la riempie.
Poi,
il silenzio
fa scivolare su di essa la sua nave.

Alcuni passi ancora: una campana
che sveglia:
è il giorno che arriva
rumoroso, in autobus sgangherato,
riscuote la sua tariffa mattutina
per vedere il cielo azzurro
solamente un minuto, appena un minuto
prima che le botteghe,
i suoni,
ci ingoino e triturino
nel grande intestino
della via.



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