Pablo Neruda e Insetti


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Nuove odi elementari (1)

1956 - NUOVE ODI ELEMENTARI

1956 - NUOVE ODI ELEMENTARI


LA CASA DELLE ODI

Scrivendo
queste
odi
in questo
anno mille
novecento
cinquantacinque
spiegando e suonando
la mia lira obbligatoria e rumorosa,
so quello che sono
e dove va il mio canto.

Capisco
che il compratore di miti
e misteri
entri nella mia casa delle odi,
fatta
con mattone crudo e legno,
e odi gli utensili,
i ritratti
di padre e madre e patria
sulle pareti,
la semplicità
del pane
e della saliera.
Ma è così la casa delle mie odi.

Io detronizzai la nera monarchia,
la chioma inutile dei sogni,
calpestai la coda
del rettile mentale,
e disposi le cose
- acqua e fuoco -
d’accordo con l’uomo e con la terra.
Desidero che tutto
abbia
impugnatura
che tutto sia
tazza o attrezzo.
Desidero che per la porta delle mie odi
entri la gente alla ferramenta.

Io lavoro
tagliando
tavole fresche,
accumulando miele
nei barilotti,
disponendo
ferri di cavallo, arnesi,
forchette:
che entri qui tutto il mondo,
che domandi,
che chieda quello che vuole.

Io sono del Sud, cileno,
navigante,
che girò
per i mari.

Non me ne stetti nelle isole,
incoronato.

Non me ne stetti fissato
in nessun sogno.

Ritornai a lavorare semplicemente
con tutti gli altri
e per tutti.

Perché tutti vivano
in essa
faccio la mia casa
con odi
trasparenti.


ODE ALL’OLIO

Vicino al rumoroso
cereale, alle onde
del vento nell’avena,

l’olivo

di volume argentato,
severo nel suo lignaggio,
nel suo contorto
cuore terrestre:
le gracili
olive
levigate
dalle dita
che fecero
la colomba
e la chiocciola
marina:
verdi,
innumerevoli,
purissimi
capezzoli
della natura,
e lì
nei
secchi
uliveti,
dove
solamente
cielo azzurro con cicale,
e terra dura
esistono,

il prodigio,
la capsula
perfetta
dell’oliva
riempie
con le sue costellazioni il fogliame:
più tardi
l stoviglie,
il miracolo,
l’olio.

Io amo
le patrie dell’olio,
gli uliveti
di Chacabuco, in Cile,
la mattina
le piume di platino
forestali
contro le grinzose
cordigliere,
in Anacapri, in alto,
sopra la luce tirrena,
la disperazione degli olivi,
e nella mappa d’Europa,
Spagna,
cesta nera di olive
sparse per le zagare
come per una raffica marina.

Olio,
recondita e suprema
condizione della pentola,
piedistallo di perdizione,
chiave celeste della maionese,
soave e saporoso
sopra le lattughe
e soprannaturale nell’inferno
degli arcivescovili aterini. (*)
Olio, nella nostra voce, nel
nostro coro,
con
intima
soavità poderoso
canti:
sei idioma
casigliano:
hai sillabe di olio,
hai palpebre
utili ed odorose
come la tua fragrante materia.
Non canta soltanto il vino,
canta anche l’olio,
vive in noi con la sua luce matura
e tra i beni della terra
separo,
olio,
la tua inesauribile pace, la tua essenza verde,
il tuo colmo tesoro che discende
dalle sorgenti dell’olivo.

(*) Aterinidi: famiglia di pesci di dimensioni modeste che vivono in branchi, sia in mare che in acqua dolce; una specie da piccola è nota come “latterino”.

ODE ALLA SPINA DEL FIL DI FERRO

Nel mio paese
fil di ferro, fil di ferro …

Tu percorri
il largo
filo del Cile,
uccelli
solitari,
e in lunghezza,
in larghezza,
estensioni sterili,
fil di ferro,
fil di ferro …

In altri luoghi
del pianeta
i
cereali
traboccano,
tremule onde
fa il vento
sopra il grano.
In altre
terre
muggisce
nutritivo e poderoso
nelle prateria
il bestiame:
qui,
monti deserti,
latitudini,
non hanno uomini,
non hanno cavalli,
soltanto recinti,
spine,
e la terra
vuota.

In altre parti
crescono
i cavoli,
i formaggi,
si moltiplica
il pane,
il fumo
sporge
il suo pennacchio
sui tetti
come l’acconciatura
della quaglia,
villaggi
che occultano,
come la gallina,
le uova,
un nido di trattori:
la speranza.
Qui
terre
e terre,
terre ammutolite,
terre cieche,
terre senza cuore,
terre senza solco.

In altre parti pane,
riso, mele …

Il Cile fil di ferro, fil di ferro …

ODE ALLA ARAUCARIA ARAUCANA

Araucaria: genere di pianta conifera originaria del Sud-america, di altezza notevole, e dalle caratteristiche foglie aghiformi o lanceolate.
Araucania: regione del Cile centrale, fra le Ande e l'Oceano abitata da un popolo fierissimo che, dopo essersi opposto al dominio inca, combatté per tre secoli gli spagnoli e fu definitivamente assoggettato nei primi decenni del XIX secolo. Per Neruda l'Araucania e il suo popolo, più volte cantati dal poeta, soprattutto nel Canto General, simboleggiano lo spirito di indipendenza e le tradizioni più autentiche della sua patria.

Alta sopra la terra
ti posero,
dura, bella araucaria
degli australi
monti,
torre del Cile, punta
del territorio verde,
padiglione dell’inverno,
nave
della fragranza.

Adesso, tuttavia,
non perché bella
ti canto,
ma per il grappolo della tua specie.
per la tua frutta chiusa,
per la tua pigna aperta.

Anticamente,
anticamente fu
quando
sugli indios
si aprì come una rosa di legno
la colossale pugno
del tuo pugno,
e lasciò
sopra
l’umida terra
i pinoli:
farina, pane silvestre
dell’indomabile
Arauco.

Vedeste la guerra:
armati
i guerrieri
di Castiglia
e i loro cavalli
dai galvanici
crini
e di fronte
a loro
il grido
dei
nudi
eroi,
voce del fuoco, coltelli
di dura pietra scura,
lance impazzite
nel bosco,
tamburi,
tamburi
sacri,
e dentro
la selva
il silenzio,
la morte
che si ripiega,
la guerra.

Allora, nell’ultimo
bastione verde,
dispersi
per la fuga,
le lance
della selva
si riunirono
sotto
le araucarie
spinose.

La croce,
la spada,
la fame
stavano decimando
la famiglia selvaggia.
Terrore,
terrore di un colpo
di ferro di cavallo,
battito di una foglia,
vento,
dolore
e pioggia.
Improvvisamente
si scosse lassù
la araucaria
araucana,
le sue illustri
radici,
le spine
irsute
del poderoso
padiglione
ebbero
un movimento
nero
di battaglia:
ruggì come un’onda
di leoni
tutto il fogliame
della selva
dura
e allora
cadde
una mareggiata
di pigne:
gli antichi
involucri
si ruppero
contro la terra, contro
la pietra difesa
e si sgranarono
i loro frutti, il pane ultimo
della patria.

Così l’Araucania
ricompose
le sue lance di acqua e oro,
naufragarono i boschi
sotto il sibilo
del valore
risorto
e avanzarono
le cinture
violente come raffiche,
le
piume
incendiarie del Cacique:
pietra bruciata
e freccia volante
attaccarono
l’invasore di ferro
durante il cammino.

Araucaria,
fogliame
di bronzo con spine,
grazie
ti dette
la insanguinata stirpe,
grazie
ti dette
la terra difesa,
grazie,
pane di valorosi,
alimento
nascosto
nella bagnata aurora
della patria:
corono verde,
pura
madre degli spazi,
lampada
del freddo
territorio,
oggi
dammi
la tua
luce ombrosa,
l’imponente
sicurezza
inalberata
sopra le tue radici
e abbandona nel mio canto
l’eredità
e il sibilo
del vento che ti tocca,
dell’antico
e uraganico vento
della mia patria.

Lascia cadere
nella mia anima
le tue granate
perché le legioni
si alimentino
della tua specie nel mio canto.
Albero nutrice, consegnami
la terrena collana che ti lega
alle viscere piovose
della terra,
consegnami
la tua resistenza, il volto
e le radici
ferme
contro l’invidia,
l’invasione, la cupidigia,
l’insolenza.
Le tue armi lascia e veglia
sopra il mio cuore,
sopra i miei,
sopra le spalle
dei valorosi,
perché alla stessa luce di foglie e aurora,
sabbie e fogliame,
io vado con le bandiere
al richiamo
profondo del mio popolo!
Araucaria araucana,
qui mi possiedi!

ODE ALLA SABBIA

Sabbia pura, come
si accumulò, impalpabile,
il tuo granello diviso
e cintura del mare, coppa del mondo,
petalo planetario,
riunisti davanti all’urlo
di onde e uccelli selvatici
il tuo anello eterno e la tua unità oscura?

Sabbia, madre
eri
dell’oceano,
esso nella tua pietra innumerevole
depositò il grappolo della specie,
ferendo
con le sue grida seminali
di toro verde la tua natura.
Nudo sopra
la tua frammentaria pelle
sento
il tuo bacio, il tuo sussurro
percorrermi
più stretto che l’acqua,
l’aria, il tempo,
piegandosi
alle linee del mio corpo,
tornando a formare
e quando
vado errando
per la spiaggia marina
il vuoto del mio essere permane un istante
nella tua memoria, sabbia,
finché aria,
onda
o notte
cancellano il mio peso grigio nel tuo dominio.

Silice demolita,
marmo disperso, anello
sgranato,
polline
della profondità,
polvere marina,
ti alzi
dalle dune
argentate
come
gole
di colomba,
ti estendi
nel deserto,
sabbia
della luna
senza limite,
circolare e brillante
come un anello,
morta,
solo silenzio
finché il vento fischia
e terrificante accorre
colpendo
la pietra demolita,
la savana
di sale e solitudine,
e allora
la inferocita sabbia
suona come un castello
attraversato
da una raffica di violini,
per una tumultuosa
velocità di spada in movimento.

Cadi
finché l’uomo
ti raccoglie
nella sua pala
e al miscuglio
dell’edificio
serenamente accorri
ritornando
alla pietra,
alla forma,
costruendo
una
dimora
riunita nuovamente
per servire
la volontà dell’uomo.

ODE AL SUO AROMA

Soave mia, di cosa profumi,
di quale frutto,
di quale stella, di quale foglia?

Vicino
al tuo piccolo orecchio
e davanti a te
mi inchino,
fisso
la narice dentro i capelli
e il sorriso
cercando, conoscendo
la razza del tuo aroma:
è soave, ma
non è un fiore, non è coltellata
di garofano penetrante
o impetuoso aroma
di violenti
gelsomini,
è qualcosa, è terra,
è
aria,
legni o meli,
odore
della luce sulla pelle,
aroma
della foglia
dell’albero
della vita
con polvere
di cammino
e freschezza
di mattutina ombra
sulla radici,
odore di pietra e fiume,
ma
più vicino
di un pesco,
dalla tiepida
palpitazione segreta
del sangue,
odore
di una casa pura
e di una cascata,
fragranza
di colomba
e di capigliatura,
aroma
della mia mano
che percorse la luna
del tuo corpo,
le stelle
della tua pelle stellata,
l’oro,
il frumento,
il pane del tuo contatto,
e lì
nella lunghezza
della tua luce pazza,
nella tua circonferenza di vaso,
nella coppa,
negli occhi dei tuoi seni,
tra le tue ampie palpebre
e la tua bocca di schiuma,
in tutto
lasciò,
lasciò la mia mano
odore di inchiostro e selva,
sangue e frutti perduti,
fragranza
di dimenticati pianeti,
di pure
carte vegetali,

il mio proprio corpo
sommerso
nella freschezza del tuo amore, amata,
come in una sorgente
o nel suono
di un campanile
arrivi
tra l’odore del cielo
e il volo
degli ultimi uccelli,
amore,
odore,
parola
della tua pelle, dell’idioma
della notte nella tua notte,
del giorno nel tuo sguardo.

Dal tuo cuore
sale
il tuo aroma
come dalla terra
la luce fino alla cima del ciliegio:
sulla tua pelle io fermo
il tuo battito
e odoro
l’onda di luce che sale,
la frutta sommersa
nella sua fragranza,
la notte che respiri,
il sangue che percorre
la tua bellezza
fino a arrivare al bacio
che mi attende
sulla tua bocca.

ODE ALLA BELLA NUDA

Con casto cuore, con occhi
puri,
ti celebro, bellezza,
trattenendo il sangue
perché sorga e segua
la linea, il tuo contorno,
perché
tu entri nella mia ode
come in terra di boschi o in schiuma:
in aroma terrestre
o in musica marina.

Bella nuda,
uguali i tuoi piedi arcuati
per un antico colpo
di vento e del suono
che tu origliasti,
chiocciole minime
dello splendido mare americano.
Uguali sono i tuoi petti
di parallela pienezza, ripieni
delle luce della vita,
uguali
volano
le tue palpebre di frumento
che scoprono
e nascondono
due paesi profondi nei tuoi occhi.

La linea che la tua schiena
ha diviso
in pallide regioni
si perde e sorge
in due limpide metà
di mela
e continua
separando
la tua bellezza
in due colonne
di oro bruciato, di alabastro fino,
a perdersi nei tuoi piedi come in due uve,
da dove nuovamente arde e si eleva
l’albero doppio della tua simmetria,
fuoco florido, candelabro aperto,
turgida frutta alzata
sopra il patto del mare e della terra.

Il tuo corpo, in quale materia,
agata, quarzo, frumento,
si plasmò, crebbe
come del pane si alza
la temperatura,
e segnalò colline
argentate,
valli di un solo petalo, dolcezze
di profondo velluto,
fino a rimanere cagliata
la fine e ferma forma femminile?

Non soltanto è luce che cade
sopra il mondo
quella che allunga sul tuo corpo
la sua neve soffocata,
finché si stacca
da te la chiarezza come se fosse
incendiata da dentro.

Sotto il tuo piede vive la luna.

ODE AL CACTUS DELLA COSTA

Piccola
massa pura
di spine stellate,
cactus delle sabbie,
nemico,
il poeta
saluta
la tua salute ispida:
in inverno
ti ho visto:
la foschia consumava
il terreno roccioso,
i tuoni
di ondosità
cadono
contro il Cile,
il sale abbatte statue,
lo spazio
occupato
dalle travolgenti
piume della tormenta,
e tu,
piccolo
eroe
ispido,
tranquillo
tra due pietre,
immobile,
senza occhi e senza foglie,
senza nido e senza nervi,
duro, con le tue radici
minerali
come anelli terrestri
posti
nel ferro del pianeta,
e sopra
una testa,
una minuscola
e spinosa testa
immobile,
ferma, pura,
sola nel trepidante oceano,
nell’uraganato territorio.

Più tardi agosto arriva,
la primavera dorme
confusa nel freddo
dell’emisfero nero,
tutto nella costa ha
sapore nero,
le onde
si ripetono
come piani
il cielo
è una nave
abbattuta, intristita,
il mondo è un naufragio,
e allora
ti scelse la primavera
per tornare
a vedere
la luce sopra la terra
e spuntano
due gocce di sangue
dal suo parto
in due delle tue spine solitarie,
e nasce

tra pietre,
tra i tuoi spilli,
nasce
nuovamente
la marina
primavera,
la celeste e terrestre
primavera.

Lì, di tutto
quello che esiste, fragrante,
aereo, consumato,
quello che trema nelle foglie
del limone o tra
gli aromi addormentati
della imperiale magnolia,
di tutto quello che attende
il suo arrivo,
tu, cactus delle sabbie,
piccolo brutto immobile,
solitario,
tu fosti l’eletto
e rapido
prima che un altro fiore sfidi
i bottoni
di sangue
delle tue sacre dita
si fecero fiori rosa,
petali miracolosi.

Così è la storia,
e questa
è la morale
del mio poema:
dove
stai, dove vivi,
nell’ultima
solitudine di questo mondo,
nel flagello
della furia terrestre,
nel nascondiglio
delle umiliazioni,
fratello,
sorella,
aspetta,
lavora
fermo
con il tuo piccolo essere e le tue radici.

Un giorno
per te,
per tutti,
salirà
dal tuo cuore un raggio rosso,
fiorirà anche una mattina:
non ti ha dimenticato, fratello,
sorella,
non ti ha dimenticato,
no,
la primavera:io te lo dico,
io te lo assicuro,
perché il cactus terribile,
lo spinoso
figlio delle sabbie,
conversando
con me
mi raccomandò questo messaggio
per il tuo cuore sconsolato.

E allora
te lo dico
e me lo dico:
fratello, sorella,
attendi,
stai sicuro:
Non ci dimenticherà la primavera.

ODE AI CALZINI

Mi portò Maru Mori
un paio di calzini
che tessé con le sue mani
di pastora,
due calzini soavi
come lepri.
In essi
misi i piedi
come in
due
astucci
tessuti
con fibre del
crepuscolo
e pelle di pecora.

Violenti calzini,
i miei piedi furono
due pesci
di lana,
due larghi squali
di azzurro ultramarino
attraversati
da una treccia d’oro,
due giganteschi merli,
due cannoni:
i miei piedi
furono onorati
in questo modo
da
questi
celestiali
calzini.
Erano
tanto belli
che per prima cosa
i miei piedi mi sembrarono
inaccettabili
come due decrepiti
pompieri, pompieri
indegni
di quel fuoco
ricamato,
di quei luminosi
calzini.

Tuttavia
resistetti
alla tentazione acuta
di custodirli
come i collegiali
preservano
le lucciole,
come gli eruditi
collezionano
documenti sacri,
resistetti
all’impulso furioso
di porli
in una gabbia
d’oro
e dargli ogni giorno
miglio
e polpa di melone rosato.
Come scopritori
che nella selva
si dedicano al rarissimo
cervo verde
allo spiedo
e se lo mangiano
con rimorso,
stesi
i miei piedi
e mi infoderai
i
bei
calzini
e
dopo le scarpe.

E qui sta
la morale della mia ode:
due volte è bellezza
la bellezza
e quello che è buono è doppiamente
buono
quando si tratta di due calzini
di lana
nell’inverno.

ODE ALLA CASCATA

Improvvisamente, un giorno
mi alzai presto
e ti detti una cascata.
Di tutto
quello che esiste
sopra la terra,
pietre,
edifici,
garofani,
di tutto
quello che vola nell’aria,
nubi,
uccelli,
di tutto
quello che esiste
sotto la terra,
minerali,
morti,
non esiste
niente tanto fuggitivo,
niente che canti
come una cascata.

Ahi sentila:
ruggisce
come una leonessa bianca,
brilla
come il fiore del fosforo,
sogna
come ciascuno dei tuoi sogni,
canta
nel mio canto
dandomi
passeggera oreficeria.
Ma
lavora
e muove
la ruota
di un mulino
e non solamente
è ferito crisantemo,
ma realizzatrice
della farina,
madre del pane che mangi
ogni giorno.

Mai
ti peserà quello che ti ha dato
perché sempre
fu tuo
quello che ti dette, il fiore o il legno,
la parola o il muro
che sostengono
tutto l’amore errante che riposa
ardente nelle nostre mani,
ma di quanto
ti detti,
ti do,
ti consegno,
sarà questa
segreta
voce
dell’acqua
quella che un giorno
dirà nel suo idioma quanto
tu ed io stiamo zitti,
racconterà i nostri baci
alla terra,
alla farina,
continuerà
macinando
frumento,
notte,
silenzio,
parole,
racconti,
canti.

ODE ALLA CORDIGLIERA ANDINA

Nuovamente dall’alto,
dal cielo
volando,
apparisti, cordigliera
bianca e scura della mia patria.
Prima il grande aereo
incrociò i grandi mari,
le selve, i deserti.
Tutto fu simmetria
tutto sopra la terra
preparato,
tutto dall’altitudine
era strada
finché nel mezzo
della terra e del cielo
si interpose
la tua neve planetaria
congelando le torri della terra.
Vulcani, cicatrici,
frane,
nevi ferruginose,
titaniche alture
desolate,
cime dei monti,
piedi del cielo,
abissi dell’abisso,
coltellate
che tagliarono
il guscio terrestre
e il sole
a sette mila
metri di altezza,
duri come un diamante
sopra
le vene, le diramazioni
dell’ombra e la neve
sopra l’inferocita
tormenta dei mondi
che si fermò bollendo
e nel silenzio
colossale
impose
i suoi mari di granito.

Patria, mise la terra
nelle tue mani scarne
il suo più duro stendardo,
la cordigliera andina,
ferro innevato, solitudine pura,
pietra e brivido,
e nel tuo costato
come fiore infinito il mare ti offre
la sua increspata schiuma.
Oh mare, oh neve,
oh cielo
della mia piccola patria,
all’uomo, al compatriota,
al compagno
darai,
darai un giorno
il pane della tua grandezza,
lo unirai al destino
della neve,
allo splendore sacro
del mare e della sua energia.

Dura abitazione,
un giorno
ti aprirai
consegnando
la segreta
fecondità,
il raggio dei tuoi doni,
e allora
mio piccolo
compatriota,
sfortunato nella sua propria fortezza,
stracciando nel suo ambito d’oro,
riceverai
il tesoro
conquistandolo,
difendendo la neve della sua stella,
moltiplicando il mare e i suoi grappoli,
estendendo il silenzio dei frutti.
Cordigliera, collegio
di pietra,
in questa ora
la tua grandezza
celebro,
la tua durezza,
il candelabro freddo
delle tue alte
solitudini di neve,
la notte,
estuario immobile,
navigando
sopra
le pietre del tuo sonno,
il giorno
trasparente
nel tuo capo
e in essa, nella innevata
capigliatura
del mondo,
il condor
alza
le sue ali
poderose,
il suo volo
degno
delle acerrime alture.

ODE AL CRANIO

Non lo sentii
tranne
quando caddi,
quando persi
l’esistenza
e rotolò
fuori
dal mio essere come un osso
di frutta
schiacciata:
non seppi
ma sonno
e oscurità,
quindi
sangue e cammino,
improvvisa
luce
acuta:
i viaggiatori
che alzano la tua ombra.
Più tardi la tela del letto
bianco come la luna
e il sonno finalmente appiccicato
alla tua ferita
come un cotone nero.

Questa mattina
stesi un dito segreto,
scesi per le costole
al corpo
maltrattato
e unicamente
incontrai
fermo
come un casco
il mio povero
cranio.
Quanto
nella mia età, in viaggi, in amori,
mi guardai ogni pelo,
ogni ruga
della mia fronte,
senza vedere la grandezza
della testa,
la ossuta
torre del pensiero,
la zucca dura,
la volta di calcio
protettrice
come una cassa di orologio
che copre
col suo spessore di muro
minuscoli tesori,
vasi, circolazioni
incredibili,
battito di discernimento, vene del sonno,
gelatina dell’anima,
tutto
il piccolo oceano
che sei,
il pennacchio profondo
del cervello,
le circonvoluzioni raggrinzite
come una cordigliera sommersa
e in ciò
la volontà, il pesce del movimento,
la elettrica corolla
dello stimolo,
le alghe dei ricordo.

Mi toccai la testa,
scoprendola,
come nella geologia
di un monte
già senza foglie,
senza tremante melodia di uccelli,
si scopre
il duro
minerale,
l’ossatura
della terra,
e ferito ancora,
in questo
canto lodo
il cranio, il tuo,
il mio,
il cranio,
lo spessore
protettore,
la cassaforte, il casco
della vita,
la noce dell’esistenza.

ODE ALLA CRITICA (II)

Toccai il mio libro:
era
compatto,
fermo,
arcuato
come un nave bianca,
socchiuso
come una nuova rosa,
era
per i miei occhi
un mulino,
da ciascun foglio
il fiore del pane cresceva
sopra il mio libro:
mi accecai con i miei raggi,
mi sentii troppo
soddisfatto,
persi la terra,
cominciai a camminare
avvolto nelle nubi
e allora,
compagno,
mi riportasti
alla vita,
una sola parola
mi mostrò all’improvviso
quanto potessi fare
e quanto potei
avanzare con la mia forza e la mia tenerezza,
navigare con la nave del mio canto.

Ritornai più vero,
arricchito,
presi quanto avevo
e quanto hai,
quanto tu camminasti
sulla terra,
quanto videro
i tuoi occhi,
quanto
lottò il tuo cuore giorno dopo giorno
si dispose al mio fianco,
numerosa,
ed alzai la farina
del mio canto,
il fiore del pane accrebbe il suo aroma.

Grazie ti dico,
critica,
motore chiaro del mondo,
scienza pura,
segno
della velocità, olio
dell'eterna ruota umana,
spada di oro,
pietra
della struttura.
Critica, tu non porti
la spessa goccia
sporca
dell'invidia,
la personale falce
o l'ambiguo, crespato
tarlo
del caffè rancoroso:
non sei neanche il gioco
del vecchio mangiatore di spade e la sua tribù,
né la perfida
coda
del feudale serpente
sempre attorcigliata nel suo squisito ramo.
Critica, sei
mano
costruttrice,
bolla del livello, linea di acciaio,
palpitazione di classe.

Con una sola vita
non imparerò abbastanza.

Con la luce di altre vite
vivranno altre vite nel mio canto.

ODE ALLA CROCE DEL SUD

Oggi 14 aprile.
vento
sulla costa.
notte
e vento,
notte
oscura
e vento,
si commosse l’ombra,
s’inalberò il cipresso
dalle stelle,
gli occhi della notte
rovesciarono
polvere morta
nello spazio
e tutto rimase limpido
e tremante.

Albero
di spade
fredde
fu l’ombra
stellata,
coppa
dell’universo,
raccolto
di
platino,
tutto
ardeva
nelle alte
solitudini
marine,
in Isla Negra
camminando
a braccetto
della mia amata,
e essa
allora
sollevò appena un braccio
sommerso
nell’ombra
e come un raggio di ambra
diretto
dalla terra al cielo
mi mostrò
quattro stelle:
la Croce del Sud immobile
sopra le nostre teste.

In un istante
si spensero tutti
gli occhi
della notte
e vidi solamente fisse
nel cielo solitario
quattro rose azzurre,
quattro pietre gelate,
e le dissi,
prendendo
la mia lira
di poeta
di fronte al vento
oceanico, tra le increspature
dello onde:
Croce
del Sud, dimenticato
vascello
della mia patria,
spilla
sopra il petto
della notte turgida,
costellazione marina,
luce
delle case povere,
lampada errante, rombo
di pioggia e velluto,
tranciatrice dell’altitudine,
farfalla,
posa le tue quattro labbra
sulla mia fronte
e conducimi
nel tuo notturno
sonno
e traversata
alle isole del cielo,
ai pendii
dell’acqua della notte,
alla rosa
magnetica,
madre delle stelle,
al tumulto
del sole, al vecchio carro
dell’aurora
coperto di limoni.

E non mi rispose
la Croce del Sud:
continuò, continuo a viaggiare
spazzata
dal vento.
Allora lasciai la lira
in un angolo,
nel cammino,
e abbracciai la mia mata
e nell’avvicinare i miei occhi
ai suoi occhi,
vidi in essi,
nel suo cielo,
quattro punte
di diamante accesso.

La notte e il suo vascello
nel suo amore
palpitavano
e baciai una per una
le sue stelle.

ODE AL GIORNO INCONSEGUENTE

Argentato pezzo
di coda
arancione,
giorno del mare,
cambiasti
ogni ora
il vestito,
la sabbia
fu celeste,
azzurra
fu la tua cravatta,
in una nube
i tuoi piedi
erano schiuma
e dopo
totale
fu il volo verde
della pioggia
sui pini:
una raffica di acciaio
spazzò
le speranze
dell’Ovest,
l’ultima o la prima
rondine
brillò bianca e azzurra,
come un revolver,
come un orologio notturno
solamente il cielo
conservò una lancetta
di platino,
turgido e nero il mare
coprì il suo cuore
con velluto
mostrando improvvisamente
l’innevato anello
o l’increspata
rosa del suo radiante delirio.

Tutto questo
lo guardai
inquietamente fisso
nella mia finestra
scambiando le scarpe
per andare per la sabbia
piena d’oro
o immergermi nell’umidità, tra le foglie
dell’eucalipto rosso,
curvi come pugnali di Corinto,
e non posso
sapere
se l’Arcobaleno,
che come una bandiera messicana
crebbe verso Cartagena,
era annuncio
di dolce luce
o torre di tenebre.
Un frammento
di nuvola
come resto volante
di camicia
girava
nell’ultima soglia
del panico celeste.

Il giorno
tremò da lato a lato,
un lampo
corse come una lucertola
tra i paramenti
della selva
e d’improvviso cadde tutta la rugiada
perdendosi nella polvere
il diadema selvaggio.
Tra le nubi e la terra
improvvisamente
il sole
depositò il suo uovo sodo,
bianco, liscio, ostinato,
e un gallo verde
e alto
come un pino
cantò, cantò
come se sgranasse
tutto il mais del mondo:
un fiume,
un fiume biondo
entrò per le finestre
più oscure
e non la notte, non la tempestosa
chiarezza indecisa
si stabilì sulla terra,
ma semplicemente
un giorno in più,
un giorno.

ODE AL DIZIONARIO

Lombo di bue, pesante
caricatore, sistematico
libro spesso:
da giovane
ti ignorai, mi vestì
la sufficienza
e mi credetti completo,
e tronfio come un
melanconico rospo
detti un parere: “Ricevo
le parole
direttamente
dal Sinai muggente.
Sottometterò
le forme all’alchimia.
Sono mago”.

Il gran mago taceva.

Il Dizionario,
vecchio e pesante, col suo giacchetto
di pelle logora,
rimase silenzioso
senza mostrare le sue provette.
Ma un giorno,
dopo averlo usato
e messo in disuso,
dopo
averlo dichiarato
inutile e anacronistico cammello,
quando per tanti mesi, senza protesta,
mi servì da poltrona
e da cuscino,
si ribellò e piantandosi
sulla mia porta
crebbe, mosse le sue foglie
e i suoi nidi,
mosse l’elevazione del suo fogliame:
albero
era,
naturale,
generoso
melo, meleto o manzanero,
e le parole
brillavano nella sua coppa inesauribile,
opache e sonore
feconde nella fronda del linguaggio,
cariche di verità e di suono.

Scelgo una
sola delle
sue
pagine:
Caporal
Capuchón

che meraviglia
pronunciare queste sillabe
con aria,
e più sotto
Cápsula
vuota, attendendo olio o ambrosia,
e vicino a essa
Captura Capucete Capuchina
Capraio Captatorio
parole
che si inseriscono come soavi uve
o che alla luce esplodono
come germi ciechi che attesero
nel magazzino del vocabolario
e vivono un’altra volta e danno la vita:
una volta di più il cuore le brucia.

Dizionario, tu non sei
tomba, sepolcro, feretro,
tumulo, mausoleo,
tu sei preservazione,
fuoco nascosto,
piantagione di rubini,
perpetuità vivente
dell’essenza,
granaio dell’idioma.
E è bello
raccogliere nelle tue file
le parole
della stirpe,
la severa
e dimenticata
sentenza,
figlia della Spagna,
indurita
come vomere di aratro,
ferma nel suo limite
di antiquato attrezzo,
preservata
con la sua bellezza esatta
e la durezza di medaglia.
O l’altra
parola
che lì vedemmo perduta
nelle righe
e che immediatamente
si fece saporita e liscia nella nostra bocca
come una mandorla
o tenera come un fico.

Dizionario, una mano
delle tue mille mani, una
dei tuoi mille smeraldi,
una
sola
goccia
dei tuoi versanti verginali,
un chicco
dei
tuoi
magnanimi granai
al momento
giusto
alle mie labbra conduce,
al filo della mia penna,
al mio calamaio.
Dalla tua spessa e sonora
profondità di selva,
dammi,
quando lo necessito,
un solo trillo, l’abbondanza
di un’ape,
un frammento caduto
della tua antica legna profumata
per una eternità di gelsomini,
una
sillaba,
un tremore, un suono,
una semenza:
di terra sono e con parole canto.

ODE A DON DIEGO DE LA NOCHE

Don Diego
de la Noche,
buon giorno,
Don Diego,
buona notte:
io sono
un poeta perduto.
Quella porta
era
un foro.
La notte
mi colpì il naso
con il suo ramo
che io presi per una
creatura eccellente.
L’oscurità è madre
della morte
e in essa
il poeta perduto
navigava
finché
una stella di fosforo
salì o scese – non seppi –
nelle tenebre.
Stavo io in cielo,
morto?
A chi
dovevo dirigermi,
allora?
Il mio unico
amico celeste
morì tanto tempo fa
e cammina con armatura:
Garcilaso.
Nell’inferno,
come due civette,
Baudelaire e Edgar Poe,
forse
ignorano il mio nome!

Guardai la stella
ed essa
mi guardava:
la toccai
ed era fiore,
era Don Diego,
e nella mano
il suo profumo
mi rimase agganciato
trapassandomi
l’anima.

Terrestre
stella,
grazie
per
i tuoi
quattro
petali
di chiarezza fragrante,
grazie
per
la tua bianchezza
nelle tenebre,
grazie, stella, per i tuoi quattro raggi,
grazie, fiore,
per i tuoi petali,
e grazie
per le tue quattro
spade,
Cavaliere.

ODE ALL’EROSIONE NELLA PROVINCIA DI MALLECO

Tornai alla mia terra verde
e ora non c’era,
ora non
c’era
la terra,
se ne era andata.
Con l’acqua
verso il mare
se ne era andata via.
Folta
Madre
mia,
tremuli, vasti boschi,
province montagnose,
terra e fragranza e humus:
un uccello che fischia,
una grossa
goccia
cade,
il vento
sul suo cavallo
trasparente,
maitenes, noccioli,
tempestose
raulíes,
cipressi
argentati,
allori che nel cielo
sciolgono il loro aroma,
uccelli dal piumaggio
bagnato dalla pioggia
che un grido oscuro
davano
nella
fecondità
dei folti alberi,
foglie
pure, compatte,
lisce come lingotti,
dure come coltelli,
snelle
come lance,
ragni
della selva,
ragni miei,
scarabei
il cui
piccolo
fuoco errante
duplicava una goccia
di rugiada,
patria
bagnata, cielo
grande, radici,
foglie, silenzio verde,
universo
fragrante,
padiglione
del pianeta:
adesso,
adesso
sente
e tocca
il mio cuore
le tue cicatrici,
rubata
la cappa germinale
del territorio,
come se lava o morte
avessero rotto
la tua sacra sostanza
o una falce
sul tuo materno volto
avesse scritto
le iniziali dell’inferno.

Terra
che darai ai tuoi figli,
madre mia,
domani,
così distrutta,
così devastata
la tua natura,
così disfatta
la tua matrice materna,
che
pane
ripartirai
fra gli uomini?

Gli uccelli cantori,
nella tua selva
soltanto sillabavano
il filo
perpetuo
della grazia,
erano preservatori
del tesoro,
figli del legname,
rapsodie piumate
del profumo.
Essi
ti prevennero.
Essi
con il loro canto
vaticinarono
l’agonia.
Sordo
e chiuso
come
parete
di morti
è il rozzo orecchio
del
latifondista
inerte.
Venne
a bruciare
il bosco,
a incendiare le viscere
della terra,
venne
a seminare
un
sacco
di fagioli
e a lasciarci
una eredità
gelata:
l’eternità della fame.
Sarchiò col fuoco
l’alto
livello
dei
mañios,
il baluardo
del rovere,
la città del
raulí, il rumoroso
alveare degli
ulmos,
e adesso
dalle radici bruciate,
se ne va la terra,
niente la difende,
brusche
buche,
ferite
che ormai niente o nessuno
può cancellare dal suolo:
assassinata
fu la terra
mia,
bruciata fu la coppa originaria.

Andiamo
a contenere la morte!

Cileni di oggi,
arauchi
della lontananza,
adesso,
proprio adesso, adesso,
a fermare la fame
di domani,
a rinnovare la selva
promessa,
il pane
futuro
della patria
stretta!
Adesso
a stabilizzare radici,
a piantare
la speranza,
a sottomettere i rami
al territorio!

È questa
tua
condotta di soldato,
sono questi
tuoi doveri rumorosi
di poeta,
la tua pienezza profonda
di ingegnere,
radici,
coppe verdi,
ancora
le chiede del fogliame,
e con
il canto
della voliera,
che tornerà al cielo,
ritornerà alla bocca dei tuoi figli
il pane che ora fugge con la terra.

maitene: albero celastraceo dai fiori purpurei a forma di campanula e dalle foglie moltog gradite dal bestiame (Maytenus chilensis)

raulí: albero di grande altezza, il cui legno viene impiegato nelle costruzioni (raylin)

mañiu: albero dal legno eccellente simile al larice (Podocarpus cilena)

ulmo: albero sempreverde dai fiori bianchi e dal legno utilissimo; ha uso medicinale; la corteccia si usa per conciare (Eucryphia cardifolia)


Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 61 del 24 agosto 2009 | postmaster@antoniogiannotti.it

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