Pablo Neruda e Insetti


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Un'altra vita comincia (1956-1962)

Un'altra vita comincia
(1956-1961)
Niente fu uguale nell'opera di Neruda a partire dal doppio trauma provocato dalle rivelazioni di Kruschov sulla gestione staliniana del potere sovietico nel XX Congresso del PCUS (marzo del 1956) e per Budapest coi carri armati dell'Armata Rossa (novembre). Il cambiamento fu radicale ma non nel senso che avrebbe fatto felici i politici e la stampa di destra (nazionale ed internazionale). E dato che la pressione di tali eventi pubblici venne ad esasperare quella di un terremoto privato - la rottura con Delia del Carril -, la vita/poesia di Neruda ricomincerà con un semplice invertire la proporzione degli ingredienti: più Matilde, meno utopia. Per adesso.

I. CON MATILDE E SENZA UTOPIA
(1956-1959)

Romanzo dei Carrera
ROMANCE DE LOS CARRERA. CANTO A BERNARDO O'HIGGINS. (Pagine 1007-1009.) Il musicista cileno Vicente Bianchi aveva messo la musica (di canzonetta) al poema-danza "Manuel Rodríguez" di Canto general, IV, OCGC *, vol. I, pp. 520-521, e l'aveva registrato per l’Odeón con la sua orchestra e col gruppo folcloristico di Silvia Infantas y los Baqueanos. Il disco ebbe molto successo di vendite (continua ad essere popolare fino ad oggi) e Bianchi chiese a Neruda altri testi su eminenti dell'Indipendenza. Era inevitabile cominciare con O'Higgins e con Carrera, che in vita non si capirono innestando fazioni rivali dentro le forze patriottiche, e che generarono anche morti, almeno fino al 1973 in una certa storiografia cilena, sorde adesioni di rivalità tra seguaci di O'Higgins e Carrera (non conosco la situazione attuale). Ovviamente Neruda si muoveva al di sopra di tali giochi ma, dato il suo gran interesse per la storia interna cilena, non nascose il suo fascino personale verso l'aristocratica figura dell'ussaro sfortunato (Carrera) né la sua simpatia "ideologica" verso Bernardo, figlio naturale del vicerè Ambrosio O'Higgins e della cilena Isabel Riquelme, e per tale causa oggetto di arrogante disprezzo in certi settori dell'aristocrazia creola. Queste due anime di Neruda si manifestano nei testi che scrisse specialmente per Bianchi, dato che i poemi di Canto general dedicati ad O'Higgins e Carrera non si prestavano per canzoni leggere. Con gli stessi interpreti - Silvia Infantas y los Baqueanos con l'orchestra di Vicente Bianchi - entrambi i poemi e le musiche di Bianchi furono registrate in Santiago il 5.10.1956, pubblicati nel disco Odeón 51016 (78 rpm) e dopo raccolti nel LP Música para la historia de Chile, Odeón 36056 (1959). Neruda accettò, con questi poemi destinati a musica di consumo popolare, una specie di transazione: da una parte ridusse l'ambizione epica con cui aveva trattato gli stessi temi in Canto general, conservando tuttavia un tono di serietà tanto nella canzone malinconica (Carrera) come nella briosa canzonetta (O'Higgins); d'altra parte, allentò il rigido lemma che aveva governato la sua poesia moderna dal prologo di El habitante y su esperanza nel 1926: "preferisco non fare niente piuttosto di scrivere ballabili o divertimenti." Segno della nuova vita che comincia. E visto il nuovo ruolo di Matilde nella vita del compagno: amministratrice degli affari pratici (economici) del poeta, non solo compagna del soldato.

Per sapere e raccontare
questa storia vera
la dovremo piangere:
non ce n'è un'altra più compassionevole,
non ce n'è un’altra più abbagliante
in tutta la patria intera,
come la storia a lutto
della fratelli Carrera.

Principe delle strade,
bello come un garofano,
inebriante come il vino
era don José Miguel.
Un carico sul suo petto
aprì una sorgente livida,
passano e passano gli anni,
la ferita non si è chiusa.

Chi fu il primo che disse
libertà nella nostra terra
senza re e senza tiranni?
Don José Miguel Carrera.
Pomeriggio triste di Mendoza:
condotti per la sua fortuna,
uno alla volta arrivarono
i fratelli alla morte.

Spartito per piano con musica di Vicente Bianchi
Santiago, Southern Music International, 1956. Versi in
Zig-Zag, Santiago, 8.9.1956, raccolti in FDV, pp. 94-95.


Canto a Bernardo O'Higgins

Chi sarà questo uomo tranquillo,
semplice come un sentiero,
coraggioso come nessuno,
Bernardo ti chiameremo.
Solo Bernardo ti chiami,
figlio del campo e del paese,
bambino triste, rovere solo,
lampada di Chillán Viejo.

Ma la patria ti chiama e vieni
e si spiega il tuo nome,
Bernardo O'Higgins Riquelme,
come se fosse una bandiera
al vento delle battaglie
ed in primavera,
al vento delle battaglie
ed in primavera.

O'Higgins, c'insegnasti
e continui ad insegnarci,
che patria senza libertà
è pane, ma pane amaro.

Di te ereditiamo la lotta
orgoglio dei cileni,
il tuo cuore acceso
continuerà a combattere.

Spartito per piano con musica di Vicente Bianchi,
Santiago, Southern Music International, 1956. Versi
raccolti in
El Siglo, Santiago, 18.9.1959, ed in FDV, pp. 92-93.


America per la poesia!
AMÉRICA PARA LA POESÍA! (Pagine 1009-1014.) Paragonando la teorizzazione poetica di queste dichiarazioni con quelle di testi precedenti, come il "Mi país, como ustedes saben... (1949) ed "A la paz por la poesía" (1953), si notano immediatamente novità significative: per cominciare, silenzio sull'idea della faccenda letteraria come contribuzione al compimento del progetto rivoluzionario mondiale e, invece, accentuazione del discorso su "una originalità americana in materia di poesia."

SULLA POESIA

E bene, che cosa penso io della poesia? Dunque, penso che c'è una specie di mito su di essa, una specie di alone fantasmagorico con cui si è voluto avvolgerla. Il brutto è che tutto questo è molto pericoloso per i poeti. Si è caricato tanto il linguaggio della critica, attribuendo alla poesia virtù segrete di ombra e di mistero che i poeti che nascono portano un carico fittizio sulle loro spalle, fatto più di carta che di verità.
Ed in fin dei conti non è possibile nessuna esagerazione: la poesia di oggi deve avere lo stesso senso che ebbe sempre: quello di qualcosa che non stette mai né più su né più sotto all'essere umano che stette sempre ubicato all'altezza dell'uomo. Non c'è novità in ciò.
Naturalmente, c'è qualcosa da chiedere ai lettori di oggi: che abbiano anche quell'appetito poetico e quella semplicità di cuore che si richiede per un contatto vero con la poesia.
Il mio amico Ilyá Ehrenburg mi racraccontava una volta che in una certa occasione, in cui si presentava davanti all'auditorium un giovane poeta cio molto piacevano le ragazze della sua terra, aveva ricordato che nell'Antichità i contadini recitavano poemi davanti alle vacche che si rifiutavano di essere munte. La tradizione racconta - diceva Ehrenburg - che le vacche, in contatto con la poesia diventavano più docili... Ed Ehrenburg terminava, tra sorrisi: "Spero che le ragazze di oggi abbiano tanto buon gusto come le vacche."
Sì, che la poesia aiuti fino ad affinché le vacche dìano più latte. Ma che contemporaneamente, non perda intimità coi sentimenti degli esseri umani. Che non smetta di esserci poesia in quello, suo più elevato - suo unico - senso, e senza fare mistero, né stregoneria. Perché penso che è molto più facile scrivere poesia difficile che poesia semplice.
Ai giovani poeti dico loro che comprendo i loro problemi e la loro propensione all'oscurità, perché so che finalmente cercheranno la strada verso una poesia che non abbandoni la sua qualità ma che serva alle necessità interiori dell'individuo e della società. Questo è un ideale che non è perito: al contrario, egli continua ad essere un grande stimolo. Se non la finalità stessa dell’espressione poetica.

NELL'ANIMA DELL'AMERICA

Credo in un'originalità americana in materia di poesia. Credo fermamente in essa.
C’è, per me, una differenziazione totale nel linguaggio della poesia moderna spagnola e americana.
Quando, prima della guerra civile spagnola, convissi coi poeti spagnoli nella loro terra, questi mi accolsero fraternamente. In quel tempo i miei amici poeti andavano a pubblicare una rivista. Manolo Altolaguirre, allora, mi offrì la direzione: "Tu sei l'unico - mi disse - che può farlo."
Perché mi chiamavano per la direzione? Per caso, perché la mia poesia era migliore, perché il mio posto dentro la poesia era più alto di quello loro? Ovviamente che no. Mi offrivano la direzione perché la mia poesia era differente.
C'è tutta una continuità, una linea estesa che afferma questa espressione americana. Esiste già una tradizione dietro ciò.
Nomi? Non è necessario. Le influenze più sicure stanno nella terra e non nei libri.
Dopo molto tempo, lessi l'antica poesia dei maya, il loro meraviglioso Popol Vuh. Questo libro quasi magico, racconta la storia dell'uomo, dalla sua creazione, come l'immaginarono i maya. Il Popol Vuh non hanno potuto distruggerlo i conquistatori né il tempo. Quelli, per bocca di un vescovo, ordinarono di bruciarlo. Nel mio
Canto general lo ricordo. Posso portarlo ora qui?

Il vescovo alzò il braccio,
bruciò nella piazza i libri
a nome del suo Dio piccolo
facendo fumo le vecchie foglie
consumate dal tempo oscuro.

Ed il tempo? Neanche i secoli furono più voraci del fuoco. Oggi il Popol Vuh sta al nostro fianco scoprendoci l'incantesimo della sua poesia.
C’è, dunque, una linea di continuità nella poesia americana, dalle sue origini fino ad oggi, passando per tutta la sua storia.
Si domanderà: E che relazione può esserci per esempio tra José Mármol e Vicente Huidobro? La stessa che c'è in tutta la nostra poesia: il fatto che a poco a poco, deliberatamente o no, si va cercando la radice di quello che siamo. Ogni gran poeta è un capitolo di quella ricerca.
Per questa lotta per la nostra espressione deve aiutarci molto la conoscenza di quelle culture, ancora le più primitive.
Ho letto da poco poemi di amore degli araucani. Ben conosciuto è che essi non rappresentavano una delle civiltà più precosi della nostra America precolombiana. Tuttavia, i loro poemi di amore sono meravigliosi. Mi meravigliai leggendoli.

LA SCOPERTA UN'ALTRA VOLTA

Ricordo che in una rivista brasiliana di architettura si lanciava la seguente domanda: "È morta l'arte?." La domanda era senza dubbio inquietante.
Portinari, il gran pittore brasiliano, rispondeva molto disperato sulla strada che questa stava prendendo. Ed un gran scultore astratto, molto bben addentro alla sua concezione dell'arte, alzava nella sua risposta la bandiera di un'universalità ottenuta per l'abbandono della ricerca della nostra espressione caratteristica.
Diceva: "Perché fare tanto problema sull’americano? La gente del nostro continente vive come gli europei. Non ci differenziamo in niente dai francesi, dei belgi, dei cecoslovacchi. Se esaminiamo una scultura primitiva brasiliana, non ci emozioniamo." Penso che questa non è verità. Come spiegheremmo, seguendo questa teoria, il legame stretto che esiste tra i giovani europei e l'arte grecolatina? In questo non esiste la rivelazione celestiale. Il clima multiplo di quella Europa, materiale e spirituale, che diede l'arte grecolatina, ha influenza anche sulle esperienze dei giovani attuali. Per quel motivo sono legati a essa.
Dobbiamo scoprire un'altra volta all'America. Scoprire, non inventare, dentro il vaticinio che andarono rivelando la terra ed i poeti che da sempre a lei si avvicinarono.
Che cosa fu la nostra America? Questo è il punto interrogativo. Perché non credere che i vecchi monumenti della cultura americana possono rivelarci messaggi che a nessuno più che a noi possono trasmettere?
Con ciò guadagneremmo di tirar fuori l'arte plastica dalle cornici dell'astrazionismo decorativo per portarlo ad una estensione e profondità incommensurabilmente maggiore.

L'ARTE ED IL POPOLO

Essere autentici, questa è la chiave. Il contatto col popolo può insegnarcelo. Sono poeta che ho contatto permanente con ciò, non solo per ragioni di dottrina, ma anche per ragioni di vita. Molto spesso leggo i miei poemi davanti a grandi gruppi di minatori, di lavoratori del carbone e del salnitro. Ciò mi obbliga a palpitare coi suoi problemi e con le sue speranze. Ciò mi insegna a cercare la sostanza affettuosa dell’americano.
Non rinnego per quel motivo Apollinaire, o qualunque altro. Ed in questo momento penso ad Apollinaire, non solo perché si realizza un anniversario della sua morte, bensì perché fu un enorme poeta.
Nessuno può ignorare queste influenze. Stiamo come in una altipiano per raccogliere tutti i venti.
Ma prima bisogna essere, se no non usciremo dal mero riflesso.

LA LETTERATURA ARGENTINA

Sono nell'Argentina, e voglio parlare della sua letteratura come un semplice collega transandino. D'altra parte, vecchi vincoli mi legano alla vostra letteratura. Non sono estrano ad essa.
Penso che nella sua poesia - per esempio - esiste una gran ricchezza. Fare nomi significa sempre lasciare qualcuno nell'involontaria dimenticanza. Ma parlando di poesia argentina attuale, il ricordo di José Pedroni, di Ricardo Molinari, di Raúl González Tuñón, di Oliverio Girondo, appare improvvisamente. Nella rivista che pubblico attualmente in Cile, si è pubblicato recentemente, un lungo poema di León Benarós, realizzato nel verso popolare del romanzo. Volli farlo, non solo per i suoi valori intrinseci come poesia, ma anche perché si trattava di una ricerca di espressione originale sommamente interessante.
In altri generi, penso a Borges, scrittore che ammiro per le sue grandi qualità letterarie; ad Alfredo Varela, al saggista Héctor P. Agosti, ed in molti più che rivelano la maturità letteraria del paese argentino.
Ma continuo a pensare ad un nome, come quello del più grande scrittore argentino, a quello di José Hernández.

LA GIOVANE LETTERATURA

Deplorevolmente non conosco la giovane letteratura argentina. Sono incapare di parlare di essa. Conosco invece quella della mia patria, e posso dire che esiste una serie di valori nuovi altamente stimabili.
Per esempio, José Donoso, romanziere, autore di
Veraneo. Si tratta di un libro non sociale, ma nonostante tutto, molto buono.
O Efraín Barquero, poeta di 22 anni, autore di
La piedra del pueblo. E finalmente, un caso eccezionale, quello di Víctor Manuel Reinoso, di solo 10 anni di età ed operaio delle miniere di Chuquicamata. Di lui pubblicai sulla mia rivista un poema, per me uno dei migliori poemi degli ultimi tempi.

CONOSCERCI DI PIÙ

Dobbiamo conoscerci di più. Dobbiamo cancellare le barriere che si creano fittiziamente. L'America è una, e noi, argentini, cileni o di qualunque altro paese, siamo anche americani.
Ci sono molte cause che si intromettono per evitarlo. Più forte deve essere la nostra resistenza.
Per esempio, il lavoro nefasto delle agenzie di stampa internazionali che operano nel nostro continente.
I loro cavi non parlano altro che delle bombe che gli Stati Uniti pensano di inaugurare quell'anno, o delle questioni delle attrici di Hollywood. Non si dice mai che è apparso un nuovo libro in Ecuador, e che compiono anni Rómulo Galiziani o Gabriela Mistral. Il nostro dovere è abolire la notizia-merce. Bisogna creare la notizia-verità.
Ma questo solo non basta. Stiamo vivendo gli ultimi giorni del colonialismo in America e nel mondo intero. Dobbiamo accelerare questa morte, alzando il senso di indipendenza, sommandoci al movimento generale dei popoli.

Dichiarazioni alla rivista argentina Plática, aprile del
1956, riprodotte in
El Siglo, Santiago, 8.7.1956.


Il cuore del Cile è in lutto [per Gabriela]
EL CORAZÓN DE CHILE ESTÁ ENLUTADO [POR GABRIELA]. (Pagine 1015-1016.) La Empresa Periodística allusa è il quotidiano El Mercurio, secondo come già affermò Neruda in qualche testo anteriore.

Non credo che si sia letto molto né compreso abbastanza la letteratura che Gabriella Maestrale creó e che ora lascia al paese del Cile come segnato patrimonio e straordinaria eredità. Bisogna entrare con riposo e con impeto nella sua poesia e nella sua prosa tanto ricche e tanto dure, come gole rocciose del nostro territorio, piene di vittoriosi legni, tralci increspati, visite di uccelli.
Alla precipitata ed eroica corrente delle sue prime poesie succedè un stile lavorato, la lezione di una gran lavoratrice. Fece il miracolo che è forse l'unica soluzione dello stile: lavorò la sua difficoltà e la sua debolezza e potè accentuare così il naturale ed il più vero della sua espressione. La sua prosa sovraccaricata con tanti sali magnetici si redense ed arrivò ad essere pittorica ed aperta come un'imbarcazione colma di fragrante abbondanza.
Così Gabriela Mistral andò fondando la sua opera, non solo di intuizioni, ma anche di apprendistato costante.
Quanto alla persona scomparsa, la grandezza di questa semplice maestra rivela le forze nascoste nel popolo cileno.
Ella non dimenticò mai la sua origine, e la sua conversazione allegra e maliziosa aveva gran sapore popolare. Non si inalberò mai con gli usurpatori né sfruttatori. Quando la credettero ingenua felicitandosi col presidente per realizzare in Cile la riforma agraria, stava chiedendo quella riforma col suo peculiare linguaggio campagnolo.
Fu una convinta della pace e scrisse pagine che non dimentichera nessuno per il tema del nostro tempo. Non li dimenticheranno nella Empresa Periodística alla quale consegnò la sua preziosa collaborazione per trenta anni, e che esonerò la nostra poetessa per il suo amore per la pace dal mondo.
In questo paese in cui ci sono leggi di previdenza per tutti, benché queste leggi siano inconseguenti e capricciose, gli scrittori non hanno previdenza sociale, pensione né aiuto economico alcuno.
Penso che il migliore monumento per la nostra gran scrittrice sarebbe la promulgazione della Legge "Gabriela Mistral" di stimolo ai nuovi valori letterari e di rispetto all'opera di quelli che come lei fissano per il mondo la dimensione vera, la profondità e l'altezza della nostra patria.
Il cuore del Cile è in lutto.
Io faccio arrivare le mie condoglianze al popolo stesso, ai poveri del Cile da dove sorse la risplendente patrizia scomparso. Ai bambini che cantò e che proseguono come nel suo poema immortale, coi piedi scalzi, ai minatori e muratori che popolarono con vasai e tessitori, la sua poesia. Ed anche le mie condoglianze alla terra di Cile che conserverà l'immobile figura di chi cantò con semplicità e con grandezza i fiumi e gli alberi, il vento ed il mare della patria.
Il vento, il mare, gli alberi, tutto quello che canta nella nostra terra, canteranno ricevendola per sempre, l'unico coro degno di Gabriella.

Nota di omaggio a Gabriela Mistral nella sua morte
(10.1.1957), edita in
El Siglo, Santiago, 11.11.1957.


Mi rifiuto di masticare teorie

Mi dice l'editore ed amico Enio Silveira che a questo libro della mia poesia, tradotto generosamente per tre poeti fratelli del Brasile, devo aggregare alcune parole antecedenti.
In questo caso, come quando uno si alza per obbligo a brindare tra i commensali di un lungo tavolo, non so che cosa dire né da dove cominciare. Ho già 53 anni e non ho saputo mai che cosa sia la poesia, né come definire quello che non conosco. Non ho potuto neanche consigliare nessuno su questa sostanza oscura e contemporaneamente abbagliante.
Da bambino e da grande fui molto più tra fiumi ed uccelli che tra biblioteche e scrittori.
Assunsi anche il dovere antico dei poeti: la difesa del popolo, della povera gente sfruttata.
Questo ha importanza? Io credo che sono fascini comuni a tutti quelli che hanno scritto, scrivono e scriveranno poesia. L'amore, è chiaro, ha a che vedere con tutto questo e deve mettere sul tavolo le sue lettere di fuoco.
Spesso inizio a leggere disquisizioni sulla poesia, quelle che non riesco mai a finire. Una quantità di persone eccessivamente istruite si sono disposte ad oscurare la luce, a trasformare il pane in carbone, la parola in vite. Per separare il povero poeta dai suoi parenti poveri, dei suoi compagni di pianeta, gli dicono ogni tipo di affascinanti bugie. "Tu sei mago - gli ripetono -, sei un dio oscuro". A volte, noi poeti crediamo tali cose e le ripetiamo come se ci avessero regalato un regno. In realtà, questi adulatori ci vogliono rubare un regno pericoloso per loro: quello della comunicazione cantante tra gli esseri umani.
Questo mistificare e mitizzare la poesia produce abbondanza di trattati che non leggo e che detesto. Mi ricordano gli alimenti di certe tribù polari, che alcuni masticano largamente affinché altri li divorino. Io mi rifiuto di masticare teorie, ed invito a chiunque ad entrare con me ad un bosco di roveri rossi nel Sud del Cile, dove cominciai ad amare la terra, in una fabbrica di calze, in una miniera di manganese, lì mi conoscono gli operai, o in qualunque parte dove si può mangiare pesce fritto.
Non so se gli uomini devono dividersi tra naturali ed artificiali, tra realisti ed illusionisti: credo che basti mettere in un lato quelli che sono uomini ed agli altri quelli che non lo sono. Questi ultimi non hanno niente a che vedere con la poesia o, per lo meno, coi miei canti.
Vedo che ho parlato troppo e troppo poco, in piedi, nella punta di questo tavolo brasiliano in cui mi chiesero di brindare con alcune parole. Non le negai - rompendo la mia svogliatezza verso prologhi e dediche - perché si tratta del Brasile, paese poetico, terrestre e profondo, che amo e che mi attrae.
Io mi allevai nel Sud dell'America, sotto la pioggia fredda che per 13 mesi dell'anno (dicono i cileni del Sud) cade su paesi, montagne e strade, fino a bagnare gli arcipelaghi sparsi nel Pacifico, superare le solitudini della Patagonia e congelarsi nell'Antartide pura.
Perciò, il raggiante Brasile, che come un'infinita farfalla verde chiude ed apre le sue ali nella mappa dell'America, mi elettrizzò e mi lasciò sognando, cercando i segni del suo magnetismo misterioso. Ma quando scoprii la sua gente dolce, il suo popolo fraterno e poderoso, si completò il mio cuore con una terra indelebile.
A questa terra e questo paese dedico con amore la mia poesia.

Prologo per un'antologia in portoghese (Rio de Janeiro)
aprile 1957. Riprodotto in
PNN, pp. 142-143.


Nostro gran fratello Mayakovski
NUESTRO GRAN HERMANO MAYAKOVSKI. (Pagine 1018-1020) Il primo paragrafo mi arriva ambiguo e contraddittorio, per cui non escludo qualche errore nell'unica fonte alla mia portata, cioè nella versione PNN che qui riproduco. Ma neanche escludo la deliberata intromissione dello spirito ludico ed irriverente di Estravagario, per allora (agosto del 1957) in plieno processo di composizione.

Non mi dichiaro nemico irriducibile delle grandi discussioni letterarie, ma confesso che la discussione non è il mio elemento: non nuoto in lei come il papero nell'acqua. Sono amico appassionato delle discussioni letterarie. La poesia è il mio elemento.
Benché sia difficile parlare di Mayakovski senza discuterlo, e benché il gran poeta volasse nella discussione (perché tutte le piume ci sono nel regno della poesia) come un'aquila nel cielo, voglio parlare di Mayakovski con amore e semplicità, senza coinvolgermi né nella sua vita feconda né nella sua morte sfortunata.
Mayakovski è il primo poeta che incorpora il partito ed il proletariato attivo nella poesia e fa di questi fattori alta materia poetica. Questa è una rivoluzione trascendentale e nel piano universale della letteratura è un apporto, come quello di Baudelaire o Whitman alla poesia contemporanea. Con questo voglio dire che l’apporto di Mayakovski non è dogmatico, bensì poetico. Perché qualunque innovazione di contenuto che non sia digerita ed arrivi ad essere parte nutrice del pensiero, non cessa di essere bensì è uno stimolante esterno del pensiero. Mayakovski fa circolare dentro la poesia i duri temi della lotta, i monotoni temi della riunione, e questi temi fioriscono nella sua parola, si trasformano in armi prodigiose, in gigli rossi.
Non vuole dire con questo che tutta la poesia debba essere politica né di partito, ma dopo Mayakovski, il vero poeta che nasce ogni giorno ha una nuova strada per scegliere tra le molte strade della vera poesia.
Mayakovski ha un fuoco proprio che non può estinguersi. È un poeta abbondante e ho la sensazione che, come Federico García Lorca, nonostante la maturità della sua poesia, avesse molto da dire ancora, molto da creare e cantare. Mi sembra che le opere di questi due giovani poeti, morti in piena illuminazione, sono come un principio di giganti, e che dovevano ancora misurarsi con le montagne. Con questo voglio dire che solo essi avevano la chiave per superarsi, e, ahi per noi, quelle chiavi si persero, tragicamente sepolte nelle terre della Spagna e della Russia.
Mayakovski è un poeta di vitalità verbale che arriva all'insolenza. Prodigiosamente dotato, ricorre a tutti gli inganni, a tutte le risorse del virtuoso. La sua poesia è un catalogo di immagini repentine che rimangono brillando con orme fosforescenti. La sua poesia è tanto insultante, offensiva, come riempie di pura tenerezza. È un essere violento e dolce, organicamente, figlio e padre della sua poesia.
A questo si uniscono le sue condizioni satiriche.
Le sue satire contro la burocrazia sono devastatrici ed ora si continuano a rappresentare nei teatri sovietici con successo crescente. La sua sarcastica lotta contro la piccola borghesia arriva alla crudeltà e l'odio. Possiamo non essere d’accordo, possiamo detestare la crudeltà contro gente deformata dai vizi di un sistema, ma i grandi satirici arrivarono sempre all'esagerazione più delirante. Così fu Swift, così fu Gógol.
Dopo quaranta anni di letteratura sovietica in cui si sono iscritti molti libri buoni e molti libri brutti, Mayakovski continua ad essere per me un poeta impressionante, come una torre. È impossibile smettere di vederlo in tutte le parti della nostra terra, si scorgono la testa, le mani ed i piedi di questo gigantesco ragazzo. Scrisse con tutto, con la sua testa, con le sue mani, col suo corpo. Scrisse con intelligenza, con saggezza di artigiano, con violenza di soldato nella battaglia
In questi giorni di omaggi e di riflessione in cui celebrarci con amore e con orgoglio questo anniversario della Rivoluzione di ottobre, mi trattengo durante il tragitto un minuto e mi inchino davanti alla figura ed al la poesia del nostro gran fratello Mayakovski.
In questi giorni in cui egli avrebbe cantato come nessuno, alzo alla sua memoria una rosa, una sola rosa rossa.

Testo letto a Pechino, agosto 1957, per un atto di
omaggio a Mayakovski. Raccolto in
PNN, pp. 94-96.


Recabarren

Quando si arriva al nord si entra nella luce di Recabarren che partì da queste sabbie ad illuminare tutto il corpo della nostra patria.
Molti effimeri anniversari si celebrano. Arriverà un grande autunno in cui cadranno le foglie dai falsi eroi, di quelli che ammazzarono ed usurparono, di quelli che, solamente, rovesciarono il sangue e le lacrime.
Recabarren è il nostro eroe, il difensore, il costruttore, quello che arrivò a darci coscienza ed a darci il pane della verità.
Recabarren, il nostro, è il più grande leader dei lavoratori di tutto l'emisfero e nelle nostre terre americane può confrontarsi, unicamente, con la sua carta e la sua azione, al grandioso Lenin.
Prendiamo nota della sua grandezza che ora conosce e comprende solo il nostro popolo e che domani sarà patrimonio comune di tutti i popoli americani, di tutta l'America e di tutta l'aurora.

Antofagasta, 21 dicembre 1957

Edito in libretti
Hacia, num. 37,
Antofagasta, Cile, 10.3.1961.


Il nostro inno
NUESTRO HIMNO. (Pagina 1021.) Poema privato, celebrativo e giocherellone. Festiva parodia dei briosi inni che studenti e sportivi cantano abitualmente in Cile, il testo è indice della nuova situazione degli amanti che ora vivono riuniti e sentendosi "squadra" vittoriosa e felice. Conservato tra i testi intimi della coppia, Matilde lo pubblicò per la prima volta su FDV, p. 96, senza data. Ma i riferimenti geografici percorrono chiaramente la storia dell'amore tra Pablo e Matilde: il primo incontro in qualche appartamento di Via Monijtas in Santiago (1946?); gli incontri successivi in Messico (strada Reforma) in diversi posti del recente mondo socialista (Praga, Romania, la nuova Pechino), a Parigi, in Svizzera (Nyon, sulle rive del lago Lemano) ed in Italia (Capri ed Ischia) tutto ciò tra il 1949 ed il 1952.; più tardi il periplo asiatico ed europeo del 1957 (Ceylon, India, una Pechino meno allegra questa volta, Leningrado, Stoccolma, e l'immancabile Parigi) fino a ritornare a La Chascona con la sua cascata ed in piena espansione. Avendo conto di tutti questi dati, la scrittura del "himno" bisognerebbe datarla all'inizio del 1958. Molto riusciti e suggestivi i versi " ya nos conocen los puertos de Praga / y una ventana en el mar de París (già ci conoscono i porti di Praga / ed una finestra nel mare di Parigi)" che danno il migliore tocco nerudiano ad un testo senza pretese.

Da Monijtas fino a strada Reforma
da Berlino fino al lago Lemán
dalla Romania all'isola di Capri
va il nostro amore nella sua marcia trionfale.

L'isola di Ischia ci diede il suo tesoro
e ci baciamo nel gran canale
tutta la terra è la larga strada
del nostro amore nella sua marcia trionfale.

Attraversiamo il sole dell'India
in Leningrado la luce di avorio
a Stoccolma la luna e la neve
e l'allegria della nuova Pechino.

Ricorderemo la Ceylon nella notte
non dimenticheremo il suo odore di gelsomino
ci conoscono già i porti di Praga
ed una finestra nel mare di Parigi.

Fino a che in mezzo al Cile fiorito
di una cascata ascoltando il rumore
con pietra e sonni facemmo un nido
ed in La Chascona sta ardendo l'amore.

Poema privato, raccolto solo in FDV, p. 96,
senza data. Scritto all'inizio del 1958.


Galo spense la sua esistenza

Si è estinta la vita di un eroe del paese.
Il nostro buon compagno Galo, il nostro caro compagno ha compiuto il suo alto e puro destino e ci ha lasciati soli. La nostra lotta continuerà, c'è fuoco, c'è conoscenza, ci sono disciplina, onore e sacrificio nelle nostre file per continuare la sua direzione, ma io e molti comunisti avremo d'ora in poi una sensazione di solitudine perché il nostro buon cmpagno non è oramai con noi. Ci abituiamo a pensare a lui nei momenti duri della nostra vita, nell'ora dell'azione, in ogni ora: nell'indecisione e nella vittoria. Eravamo abituati a che pensasse a noi, a tutti noi e non smettiamo mai di cercarlo nell'ombra per chiedere il suo consiglio, apprendere dalla sua saggezza, educarci nella sua tempera serena.
Forse questa pompa finale, questo silenzio, questo dolore con cui lo licenziamo sarà stata l'unica esteriorità di un eroe che volle solo essere oscuro. Volle che il paese brillasse che tutti gli uomini ascendessero e per questo spense la sua propria esistenza fino ad essere incarnazione stessa della lotta, fino ad essere egli stesso, ragione e cuore del partito.
La sua vita fu colma di grandi allegrie e severe sofferenze. Lo sviluppo vittorioso del movimento operaio, la coscienza ogni volta maggiore del popolo cileno, alla quale egli ed il nostro partito contribuirono con direzione decisiva, furono le sue grandi allegrie.
E quando lo Sputnik si alzò scrivendo nel cielo e nella storia il nome glorioso dell'Unione Sovietica, anche Galo González condivise l'allegria universale. La crescita del socialismo che abbraccia oltre a mille milioni di esseri umani, la creazione fresca e feconda dei paesi liberati del capitalismo: la lotta valorosa degli uomini dell'Asia e dell'Africa per la loro indipendenza, le ultime immense gioie che riempirono la vita del nostro compagno venerato.
I suoi dolori non furono minori: l'illegalità di tanti anni in cui fu tuttavia più intenso il suo lavoro della stampa del popolo cileno, l'impunità di quelli che ordinario dall’alto l'azione dagli assassini dell'intelligenza furono amarezze infinite che forse diminuirono il corpo del nostro capitano indomabile e spunto.
Il trionfo del popolo cileno nella battaglia per il pane, la dignità, la cultura, la lotta per la pace del mondo, la liberazione e la maturità della nostra patria, la fedeltà al Partito Comunista del Cile: questa è l'eredità luminosa di Galo González.
Questa eredità la riceviamo con dolore e con orgoglio. Con dolore perché il buon camerata ci ha lasciato, e con orgoglio perché compieremo il nostro dovere verso la sua memoria e verso il nostro paese.

Parole nella funzione funebre di Galo González,
dirigente massimo del Partito Comunista
del Cile, in
El Siglo, Santiago, 11.3.1958.


Jorge San Martín ed il fuoco
JORGE SAN MARTÍN Y EL FUEGO. (Pagine 1023-1024.) " Soy anticrítico de arte, no tengo teorías ni sistema, sino ojos y manos y recuerdos para ver y tocar y amar (Non faccio critica all’arte, non ho teorie né sistema, bensì occhi e mani e ricordi per vedere e toccare ed amare)": un'autoreferenza molto caratteristica della fase inaugurata con Estravagario.

Voglio richiamare l'attenzione con una campana chiara, affinché accogliamo con attenzione ed ammirazione gli smalti ceramici di Jorge San Martín, esposti in questi giorni a Santiago.
Sono anticritico di arte, non ho teorie né metodo, bensì occhi e mani e ricordi per vedere e toccare ed amare.
E così un gran artista è per me, nativo come la natura, corrente come un fiume, e così è questo San Martín, cileno e sorprendente, aggiungendo che è anche celestiale come il cielo e vulcanico come i vulcani.
Poche volte ho visto tanto abbagliante poesia in colori, forme e sogni.
È riuscito, questo poeta del fuoco, a che il fuoco adempia ai suoi doveri dimenticati, ha ricordato al fuoco la sua carta dirigente, e questo antico autore di festival e sfortune, ha obbedito a San Martín, ricreando in ceramica il suo splendore e agonia, tutta la sua pompa intrasferibile.
Non può lasciarsi questa arte passare come passante sconosciuto. È tanta la sua forza che d'ora in poi ci si imporsi e rimarrà nella mappa del Cile con naturale potere. Perché la bellezza delle sue creazioni ha anche qualcosa del mare cileno con la sua fosforescenza verde e la pulizia delle sue opere grandi, ma pulisci; turbolente, ma chiare, praticate con pulizia marina.
Do il benvenuto ed il mio abbraccio fraterno a questo Jorge San Martin che arricchisce la nostra stella. D'ora in poi contiamo su un nuovo fulgore.

Santiago, 14 maggio di 1958

La Nación, Santiago, 16.5.1958.


È deceduta la Ley Maldida, il Cile continua a vivere
HA FALLECIDO LA LEY MALDITA CHILE SIGUE VIVIENDO (Pagine 1024-1028.) Riproduzione di un messaggio letto per radio celebrando la deroga di quella chiamata "Legge di Difesa della Democrazia", imposta per González Videla nel 1948 che tra le altre arbitrarietà pose fuori legge il Partito Comunista cileno e permise di imprigionare e relegare nel campo di concentramento di Pisagua molti sindacalisti e dirigenti operai. La frase che apre l'ultimo paragrafo, " Esto es lo que nos sostiene: la historia de la patria (Questo è quello che ci sostiene: la storia della patria)", e l'assenza di allusioni all'Unione Sovietica ed al processo rivoluzionario mondiale, sono indicative delle varianti di ottica che stanno cercando stabilità nella scrittura di Neruda dal 1957. Leggasi anche in questa chiave il successivo " Intervención durante el XI Congreso del Partido Comunista de Chile", p. 1028-1031.

Sono di quelle persone estranee alla radiodiffusione, ho ancora davanti al microfono la sensazione di parlare alla notte ed il vuoto. Non mi piace parlare in pubblico, ma se lo faccio voglio vedere il viso del pubblico, ed attraverso i visi il cuore del pubblico. Perché, chi sta ascoltando uno alla radio? Una donna, un bambino, un avvocato, un operaio, un amico, un nemico? Bisognerebbe incominciare dicendo: cari amici o cari nemici?
Racconto al vento della notte quello che sento oggi, quello che ho sentito in questo ieri famoso, in questo oggi indimenticabile. Caro vento, ascoltami, ti darò una notizia affinché la porti al di sopra delle città, delle isole, degli alberi, verso tutti gli uomini, verso tutte le donne, verso il sonno di tutti i bambini. Questa è la notizia che voglio che ti porti: è stata abrogata la legge inumana, la legge contro la democrazia.
Non ti sembrerà poco, caro vento della notte? A noi i cileni ci sembra più che un sogno, ci sembra un risveglio. Un risveglio della coscienza. E questo atto entra nella storia e con esso entra nel grembo della storia il nome del presidente della Repubblica, Carlos Ibáñez del Campo, che promulgò la legge ed il nome collettivo del parlamento democratico del Cile che diede la maggioranza necessaria per finire con l'infamia.
Vento, nessuno come tu conosci la nostra patria, la terra cilena, tanto difficile da esplorare e tanto facile da ammirare ed amare. La nostra terra è soave ed aspra, giardino e deserto, nevi e grappoli, costa arrivare a tutte le sue ripiegature: l'oceano e la cordigliera la custodiscono come leoni colossali. Ed in tutte le sue ripiegature, in tutta la sua estensione e nella sua profondità albergò la sofferenza. Bisogna ricordarlo in questa ora differente. Ricordare i bambini trasportati in carri da animali da Coronel, ricordare quelli torturati nelle prigioni, i cileni ammucchiati negli arenili di Pisagua, ricordare i cari morti nel campo di concentramento. I loro nomi sono molti, ma i più vicini dei nostri eroi, quelli che furono perduti per sempre, assassinati da quella Ley Maldida, si chiamarono Ángelo Veas e Félix Morales. L'ultima volta che vidi Ángelo Veas era intendente di Tarapacá. C'erano allora difficoltà per la somministrazione di farina e pane. Egli si alzava prima dell'alba ed entrava ad ogni panetteria a vigilare la corretta ripartizione del pane di ogni giorno. La sua ossessione era che niente ostacolasse, che niente turbasse, neanche il pane, i compiti del nuovo governo. Fu quello stesso governo quello che dopo poche settimane gli mandarono a Pisagua ed alla morte. Félix Morales lo vidi per l’ultima volta inerpicato su una lunga scala, che dipingeva con pazienza infinita un ritratto del nuovo presidente. Il nuovo presidente lo tirò fuori dalla sua scala per inviarlo a Pisagua ed alla morte.
Molte volte parlai di essi, scrissi poemi che furono tradotti ad altre lingue e così, in lontani paesi ricevono anche onore ed amore i sacrificati di Pisagua. Che in questa notte, vento, tu agiti la sabbia sotto la quale riposano e porta ad essi questa notizia e questa allegria, e continua e vola, balla e per altre nazioni, vento, porta questo giubilo e racconta come il Cile recuperò la sua dignità e come il nostro popolo non fu mai ingannato né vinto.

Il nostro popolo... i cileni... Sono appena ritornato del Nord Chico, e mi sento tanto orgoglioso come se avessi scoperto un'altra volta gesta e vittorie. Erano proclami di Salvatore Allende e potei vedere in quelle strade solitarie come scendevano i contadini dai monti secchi a conoscere, a vedere, ad abbracciare il prossimo presidente del Cile. Tra Illapel ed Los Vilos, tra Paihuano ed Ovalle, nelle colline di Monte Grande, per quelle strade assetate, all'improvviso una bandiera di Cile che si agitava che muoveva la sua stella bianca nella solitudine: era un gruppo di uomini bruciati, somiglianti alla terra che asperattano il candidato del paese. Dappertutto stava fiorendo la terra del Nord Chico: erano fiorite le bandiere.
In Vicuña era tanto grande la folla che la piazza non poteva contenerla. Centinaia di fantini con l'abito e la gagliardia dei veri
huasos, centinaia di madri campagnole con figli che erano contenuti nelle loro braccia e nelle gonne ed una moltitudine più grande di uomini e di giovani, di lavoratori di tutti i mestieri, ed inoltre bande e torce, razzi e fanalini, e balli e grida e esultanza e canzoni... Vicuña riviveva e sulla notte solenne, mentre Allende era ascoltato con fervore, vegliando sulla sua propria terra nativa, anche Gabriela Mistral riviveva. Perché devo dirlo, io la conobbi, io la conobbi più che nessuno, perché mi unì a lei la fraternità, l'ammirazione e la poesia, posso dirlo, ho autorità per farlo: ella non sarebbe stata con un altro candidato. Ella sarebbe stata con noi, col suo popolo, con Salvatore Allende.
Il 4 settembre, tutto quello paese congregato, tutti gli uomini dimenticati nelle strade del Cile, segnano un'altra volta una vittoria. Si avvicina l'ora di quelli che alzarono le bandiere, l'ora del risveglio della coscienza. L'estrema destra sente un terrore sacro e muove con gran intensità le sue tasche, le tasche in cui hanno accumulato, come in una tomba oscura, il prodotto delle loro imprese. Non c'è dubbio che quelle imprese sono state redditizie, si sono creati enormi ricchezze, ma per profitto esclusivo di genti voraci ed insaziabili. È una vergogna come vivono i nostri contadini, è miserabile la vita dei minatori, è insopportabile ed indigno che centinaia di bambini cileni non abbiano alimentazione adeguata, né scuola, né scarpe. L'unica soluzione è la candidatura nazionale di Salvatore Allende. Non voglio dire niente delle altre candidature, non voglio coprirli con obbrobriose frasi: i muri di Santiago sono coperti con iniquità che dopo il 4 di settembre saranno quello che sono oggi: spazzatura. La candidatura del paese non necessita altro che di affermazioni. Possiamo togliergli ogni visione critica, ogni sentimento personale, ogni negazione dell'avversario e tuttavia continuerà a vivere.

Perché continuerà a vivere? Perché significa la continuità storica delle lotte per l'indipendenza e l'onore, per il pane e la cultura di tutti i cileni. Questa lotta comincia prima del 1810, è la corrente del popolo che lotta e fiorisce nell'indipendenza, illumina i visi degli eroi popolari e nazionali, dei padri della patria, dei guerriglieri insorti. La candidatura del popolo viene dal pensiero di Lastarria, dalla ribellione di Bilbao, dagli insegnamenti di Sarmiento, dalla tragica luce di Balmaceda, dai versi di Pezoa Veliz, dell'indomabile eleganza di Recabarren, dal popolo vicino ad Aguirre Cerda. Questo è il filo che conduce la nostra speranza. Questo filo cucì le camicie rotte di soldati e minatori, rattoppò i pantaloni stracciosi dei pescatori e diede i punti che sorreggono la stella bianca, l'azzurro, ed il sangue della nostra bandiera.
Questo è quello che ci sostiene: la storia della patria. Il Cile non può retrocedere, darsi ai commissionari, ai feudali, ai negriero, neanche si svende il Cile, non si vende pezzo per pezzo all'imperialismo. Commerceremo con tutte le nazioni, saremo amici di tutti i paesi, vogliamo la conoscenza dell'umanità intera ed in questo scambio con la cultura del mondo, fondamentale per un paese piccolo e remoto come quello nostro, si gioca il destino della patria. Per quel motivo non c'intimorirà neppure la più gigantesca portaerei.

Vento, quello è quanto volevo che soffiassi per strade e montagne, per queste terre ed il mare. Ho la fede di quelli che conoscono e basano la loro azione e la loro meditazione sulla nostra propria famiglia che è il nostro paese. Perciò questi giorni sono gloriosi: è deceduta la Ley Maldida: Il Cile continua a vivere. Settembre darà la vittoria al suo popolo.

El Siglo, Santiago, 3.8.1958.


A Carlos Mondaca

Carlos Mondaca, la sua poesia, mi porta indimenticabili memorie, gelsomini che continuano a fiorire attraverso il tempo oscuro.
Poesia emozionale ed emozionante di un vero, clamoroso poeta i cui accenti abbracciarono l'inabbracciabile, il cui giardino elevò silenziosa edera, misteriosa fragranza che ci turbò e persiste.

Ottobre 1958

Fascímil nel Bolletín del
Istituto Nacional,
num. 59, Santiago, 3° trimestre 1958.


Intervento durante il XI Congresso del Partito Comunista del Cile
(22.11.1958)

Non crediate, cari ccompagni, che vi legga un lungo discorso, né un'interessante relazione. Voglio salutare solamente tutti voi, in maniera informale e secondo il mio proprio stile.
Ho sempre pensato che noi apportiamo al partito non solo i compiti concreti bensì la nostra forma di compierli, cioè, la nostra personalità. Le differenti maniere, stili, personalità, arricchiscono la lotta del nostro partito.
In primo luogo, voglio salutare i delegati dei differenti paesi del continente americano. Attraverso essi voglio salutare gli scrittori comunisti, compagni di lotta, che qui non sono presenti. Specialmente, voglio che portino un saluto a Juan Marinello, di Cuba. Da tempo, mio compagno Juan, specchio dell'intelligenza combattente, vive e lavora e lotta nell'illegalità.
Voglio che porti il delegato del Paraguay un saluto per gli scrittori paraguaiani confinati e perseguiti, come il giovane poeta Eloy Romero.
Chiedo ai delegati dell'Argentina, le cui emozionanti parole non dimenticheremo gli scrittori, che portino ad Alfredo Varela, imprigionato prima da Perón, poi da Aramburu ed ora da Frondizi, il nostro ricordo e la nostra stima per la sua inalterabile condotta.
Da questa tribuna del Partito Comunista di Cile saluto gli scrittori ed intellettuali spagnoli, specialmente Rafael Alberti e la sua compagna María Teresa León. Vada per essi il nostro fraterno ed affettuoso abbraccio.
Prego il delegato del Venezuela che trasmetta agli scrittori comunisti, ritornati alla patria e la lotta dopo molti anni di persecuzioni ed esili, le nostre congratulazioni e la nostra comune speranza.
Questa enumerazione incompleta rivela il fatto straordinario che gli scrittori hanno accompagnato in ogni momento il popolo nelle sue lotte.

Gli ultimi anni non sono stati un'epoca idilliaca per gli scrittori comunisti. La nostra epoca produce conflitti, a volte acuti, drammatici, tra il passato ed il presente. Ci saranno nuovi conflitti dopo, tra il presente ed il futuro. Il caso Pasternak è uno di essi.
Questo poeta di alta qualità si mantenne isolato, solitario, nel mezzo della vita socialista. La guerra riempì di sangue la terra sovietica, gli invasori portarono morte e distruzione, arrivò la pace e l'uomo sovietico non ricostruì solo la sua terra, le città, le fabbriche, le scuole, non solo arò e mietè il grano della terra, ma alzò la sua energia e la collocò tra le stelle.
E nel frattempo Pasternak, rinchiuso nella sua torre di avorio, non fu commosso per questa grandezza, né per questa sovraumana vittoria. Si mantenne immobile ed il suo ultimo libro ferì ed offese i più grandi costruttori del nostro tempo.
Pensiamo che la polemica del premio Nobel sia finita. Ma le sue conseguenze politiche persisteranno.
L'anima degli scrittori è disputata tra il passato e per il futuro.
I colonialisti che torturano il nobile paese dell'Algeria, i padroni nordamericani di Porto Ricco e del rame e del salnitro del Cile, cercano scrittori, devono giustificarsi, stabilire davanti alla coscienza della nostra epoca che anche essi hanno della loro parte la parola scritta.
Il futuro incita con molta maggiore forza ai promotori del pensiero. E questo non è un atto di disperazione e di corruzione, né di subornazione, come succede con le tentazioni del capitalismo. Si tratta di una corrente interminabile dell'intelligenza. Stettero con le lotte del paese e col futuro dell'uomo Cervantes ed Ercilla, Tolstói e Zola, Víctor Hugo e Mayakovski e molti altri.
Noi scrittori comunisti abbiamo scelto, seguendo il cammino dei nostri paesi, la tradizione infrangibile del più alto umanesimo. E questa strada la seguiremo nonostante la minaccia, la calunnia e la diserzione di alcuni combattenti.

Nello sviluppo del nostro congresso abbiamo visto come recuperava vita il lungo territorio della nostra patria. La lotta dei cileni per il loro pane, i loro diritti e la loro libertà, è tanto interminabile come il nostro territorio.
L'azione del nostro partito, gli uomini delle nostre file, torneranno domani a stabilire tra gli arenili del nord o le nevi del sud, gli insegnamenti e le esperienze che abbiamo acquisito in questi dibattiti. Gli scrittori avranno qui un materiale tanto abbondante che non possono disprezzare. Abbiamo visto come in una tenuta, nella periferia di Santiago, si rinchiudono i lavoratori che non possono uscire senza essere fermati dopo le 11 dalla notte. Ma i nostri compagni stanno rompendo la reclusione e l'oscurità di questo Medioevo tanto prossimo a noi.
Ascoltando il delegato dell'Araucanía, il mio compaesano Millanao, mi commossero i suoi racconti. Perché abbandonati sono i padri araucani della patria. Tre secoli fa si iscriveva più sulla razza eroica che in questi giorni, malgrado l'Unione Sovietica ci abbia insegnato in una maniera più definitiva e sorprendente il progresso dei popoli rimasti più indietro sotto la fioritura del socialismo, segnalando così un compito per i nostri giovani scrittori comunisti.
La stampa, la radio, gli scrittori mercenari al servizio del Dipartimento di Stato hanno stretto il cerchio, abbaiando e minacciando, seducendo o corrompendo, hanno tentato di produrre crepe tra noi, hanno calunniato e mentito con audacia.
Non importa. La nostra fermezza fa parte della difesa delle conquiste del popolo. Gli scrittori fanno parte integrale di questa lotta ed il suo scoraggiamento o il suo valore diminuiranno o alzeranno le bandiere della vittoria.
Queste bandiere che ereditiamo da Recabarren, sostenute fino ad oggi vittoriosamente dal nostro partito, sono le bandiere del popolo e degli scrittori, bandiere di lavoro, di lotta e di liberazione.

Che cosa posso dirvi di più, compagni?
Il delegato di Malleco chiese che i giornali ed opuscoli per i contadini fossero stampati con lettere grande, affinché così potessero sillabarsi alla luce delle candele nelle capanne.
Quello che più mi commuovebbe come scrittore è che alla luce delle candele, nella notte del campo del Cile, si leggessero qualche volta i miei versi. E perciò ti prometto, compagno di Malleco, di scrivere ogni volta con lettere più chiara e più grande la mia semplice poesia.

El Siglo, Santiago, 23.11.1958.


Questa Sara Vial è gorgheggiante...

Questa Sara Vial è gorgheggiante, nacque forse per snocciolare l'aurora, annunciando i raggi ed il rapimento del giorno.
Questa Sara Vial è dolce come l'acqua del Sud, tra Carahue e Boroa, acqua in cui cade la selvaggia
murtilla e la riempie di aroma chiaro che trascorre.
È antica e disuguale, reminescente e focosa, bambina antica con piano a lutto e cuore eccessivamente elettrico.
È vera e canterina questa soave e serena e salice Sara!
Lascio in queste lettere il mio affetto per la sua naturale poesia, la mia predilezione per quello che ella ha di mattutina campana, pura, cristallina, delicata nel più alto della torre della rugiada.
Che continui e salga, che toccchi e turbi e canti!

Nota-prologo a Sara Vial, La ciutad indecible,
poemi, Valparaíso, Imprenta Victoria, 1958.


Prologo per Matilde Ladrón de Guevara

Il Cile è terra di canto e di anfore.
Sotto i salici si incrociano le chitarre e le donne cantano. Nelle terre del nord, del centro e del sud, da Atacama fino a Quinchamalí, passando per Pomaire, le donne alzano il fango, definiscono la forma, precipitano le crete.
Molte donne cilene scelsero questi mestieri. E quanto ci creó Gabriela Mistral lo lasciò vivo tra cielo e suolo, tra canti e stoviglie.
Sommamente celestiali e piuttosto terrene sono le donne del Cile.
Qui stanno i sonetti di Matilde Ladrón de Guevara, che in molto la ritraggono, per quanto i suoi occhi feroci ed il suo pieno profilo furono cesellati nella schiuma.
Questi sonetti furono arrotondati come anfore silvestri, elaborati nella preziosa creta e le mani bianche di Matilde li fecero rifulgere come supremi smeraldi.
Dovevano trattenere il vino dalla terra fiorita, e perciò hanno forma palpitante, perché la raffica del vino ha ali celestiali.
Io presento quella che canta e le sue anfore.
Canti ed anfore ferme e fini, che si sostengono con eleganza arrogante tra terra e cielo.
La presento e mi ritiro, perché a questa ora ho un appuntamento con l'oceano del Cile, con la notte marina.
Durante il lungo litorale, mi porto questi sonetti ed alzo ognuno di essi, come se fossero bicchieri: Salute, oh notte oceanica dagli occhi inespugnabili.

Isla Negra, dicembre 1958

Prologo a Matilde Ladrón de Guevara,
Desnuda,
Buenos Aires, Losada, 1960.


Saluto alla città [Caracas 1959]
SALUDO A LA CIUDAD [CARACAS 1959]. EL VIAJE DE REGRESO A CHILE [ABRIL 1959]. (Pagine 1033-1035.) Questi due testi riguardano il viaggio che Pablo e Matilde fecero in Venezuela all'inizio del 1959. La data 23 di gennaio, evidenziata da Neruda in entrambi i testi, sembra rimettere alla contemporanea presenza di Fidel Castro a Caracas, ampiamente evocata in (CHV, pp. 438 e ss).

Non pensai mai che un onore tanto grande potesse ricadere sulla mia poesia, sull'azione errante dei miei canti. Celebro di ricevere tale distinzione quando si concedono gli alti premi della cultura venezuelana. Questo onore diventa più alto con le parole del chiarissimo poeta Juan Liscano. Non protesto davanti al suo fraterno teatro di burattini. Lo conserverò per esaminarmi in quello specchio e continuare essendo fedele alla dignità della poesia ed alle inseparabili lotte del paese.
Questa mattina scesi dal monte Avila. Lassù ha Caracas la sua corona verde, i suoi smeraldi bagnati, ma la città era fuggita. Il suo posto era stato occupato per una cospirazione di farina, di vapore, di fazzoletti celesti, e bisognava cercare la città persa, entrare in lei dal cielo e trovarla finalmente nella nebbia legata alle sue cordigliere, eretta, intricata, tentacolare e sonora, come alveare straripante eretto per la volontà dell'uomo. I fondatori scelsero con occhio di aquila questa valle rugosa per stabilire in essa la primavera di Caracas. E dopo, il tempo fece allo stesso modo la bellezza di case recintate che proteggono il silenzio, ed edifici di pura geometria e luce, dove si stabilisce il futuro. Come americano essenziale, saluto in primo luogo la città abbagliante, allo stesso modo le sue colline popolari, le sue viuzze colorate come bandiere, i suoi viali aperti a tutte le strade del mondo. Ma saluto anche la sua storia, senza dimenticare che di questa città madre uscì come un ramo torrenziale di acque eroiche il fiume dall'indipendenza americana.
Salute, città di lignaggi tanto duri che fino ad ora sopravvivono, di eredità tanto poderose che ancora continuano a germinare, città delle liberazioni e dell'intelligenza, città di Bolivar e di Bello, città di martirii e nascite, città che il 23 gennaio scorso appena sgranato nel grano del tempo uscì come uno splendore di aurora per i Caraibi e per tutta nostra l'America amata e dolorosa!
Ma tutta questa bellezza e la storia stessa, l'alloro e gli archivi, le finestre ed i bambini, gli edifici azzurri, il sorriso color ciliegia della bella città, tutto questo può sparire. Un pugno di essenza infernale, di energia scatenata può fare ceneri e finire le costruzioni e le vite, un solo pugno di atomi può finire Caracas e Buenos Aires, Lima e Santiago, la poderosa New York e l'argentata Leningrado.
Scendendo dalle cime e contemplando la palpitante bellezza della città che mi conferisce ora l'onore di essere il suo amico, pensai alla distruzione che ci minaccia. Che minaccia tutto quello creato dall'uomo e persegue con stigmate maledette i suoi discendenti, perciò pensai che come i consigli comunali americani furono la culla della nostra libertà, possono al presente o nel futuro elevare l'avvertimento contro la morte nucleare, e proteggere così, non solo la nostra città, bensì tutte le città, non solo la nostra vita, bensì l'esistenza dell'uomo sulla terra.
Un'altra volta ringrazio per la fraternità con cui mi ricevette il Consiglio comunale Municipale della città di Caracas. Grazie, perché così mi sento autorizzato per continuare la mia strada difendendo l'amore, la chiarezza, la giustizia, l'allegria e la pace, cioè, la poesia.

Testo letto il 4 febbraio di 1959 nel Consiglio
Comunale di Caracas. Pubblicato in Juan
Liscano
et al, Fuoco de hermanos a Pablo
Neruda, Caracas, Editoriale Arte, 1960, ed
in
PNN, pp. 377-378.


Il viaggio di ritorno in Cile [aprile 1959]

Scoprii il Venezuela il 23 di gennaio del 1959. Io venivo da australi terre dominate dal comportamento del Pacifico, insorgemti schiume, deliziosi pesci. Il regno del Venezuela brillava ad ogni luce. Il primo uomo che vidi mi regalò un lampo. La seconda persona mi perseguì con un arcobaleno. Un terzo mi si avvicinò con un airone di fuoco, ibis scarlatto o
corocoro come in quelle regioni lo denominano.
In un modo o nell’altro il Venezuela era luce.
E così andai camminando tra moltitudini che celebravano il fine delle tenebre, o ballerini di
joropo che facevano tremare il colore bianco o semplicemente strade silenziose.
Anche i poeti erano luminosi. Con una sola strofa o un solo bicchiere, tagliamo l'incomunicabilità e ricevei tale splendore di poesia che giro alla mia patria in questo oscuro inverno risplendente di quanta luce mi dettero i miei fratelli.
La fraternità non può ringraziarsi, perciò in mezzo al mare che mi restituisce al Cile brindo alla poesia del Venezuela ed alzo verso voi, compagni cari, un bicchiere di luce.

Edita in Juan Liscano et al, Fuoco de
hermanos a Pablo Neruda,
quaderno
di omaggio, Caracas, Editoriale Arte, 1960.


I lupi vestiti da agnelli buddisti
o indegnità in un cinema centrale

Ha indovinato il cinema Windsor, situato nel cuore di Santiago, con la tenera e meravigliosa storia di ladri romani chiamata
Los desconocidos de siempre quello che sta accadendo in questi giorni. Il nuovo realismo italiano, un tanto decaduto, ha prodotto una nuova opera, che se non ha la grandiosa concezione di Miracolo a Milano, è una lezione di allegria in piena zona delle sfortune, un canto alla nascosta bontà.
Ma per deplorevole imprevidenza - o sotto la pressione dalle compagnie straniere - questo cinema offende alla cultura del nostro paese, con un atto di insolita insolenza. In un cortometraggio di propaganda del Dipartimento di Stato, prendendo come pretesto la bellezza dell'Alto Tíbet, snaturalizza l'uscita del Dalai Lama da Lhasa e con astuta lode alle religioni di oriente calunnia, avvilisce ed attacca la Repubblica della Cina Popolare, paese di 600 milioni di abitanti col quale comincia a commerciare il nostro paese.
Gli imperialisti nordamericani riuscirono a che abbandonasse il Tibet un capo religioso retrogrado e fanatico, ma non raggiunsero in questa scaramuccia altro che il disprezzo del paese cinese unito al Tíbet ed i tibetani da secoli di nazionalità e storia comune. Perciò davanti al fallimento della sua avventura, approfittano di lei per mistificare attraverso lo schermo cinematografico.
I proprietari di questo teatro non dispongono di materiale cinematografico per mostrare al Cile come la flotta nordamericana fece ammainare la nostra bandiera in Valparaíso ed onorano un gruppo di marinai selvaggi ed ebbri della marina yankee. Neanche hanno un cortometraggio che mostri la fucilazione dei cadetti messicani da parte delle truppe nordamericane nel castello di Chapultepec. Sono sicuro che non dispongono di materiale cinematografico che racconti ai cileni l'invasione da parte della soldatesca nordamericana del Nicaragua, Cuba, Guatemala, Porto Ricco, né l'appropriazione con la violenza di Texas, Nuovo Messico, California, etc. Neanche, ed è una pena, può mostrare il cinema Windsor, per illustrare al "mondo libero", le mitragliatrici che il governo degli Stati Uniti consegnò a Batista, a Pérez Jiménez del Venezuela; a Rojas Pinilla della Colombia, per assassinare centinaia di migliaia di venezuelani, colombiani e cubani. È triste pensare che neanche questo cinema, tanto gradevole, ci mostri come poco fa il Dipartimento di Stato insignì questi tiranni: nominò dottore honoris causa González Videla e "Tacho" Somoza (Università della Columbia) ed in realtà questo farebbe anche un buono film come
Los desconocidos de siempre, con picari creolo nella troupe. Senza parlare che un film sensazionale potrebbe mostrarci il bombardamento dell'indifeso Guatemala da parte di aeroplani nordamericani dalle basi di Panama che detengono con la forza e contro il diritto dei paesi americani. In questo momento, come film di mistero, potrebbe esibire questo cinema un cortrometraggio con l'invio attuale di denaro ed armamenti che ricevono i despoti Trujillo e Somoza, per continuare le catene ed i dolori dell'America Centrale.
No, non ha questo materiale eccezionale il cinema Windsor.
Ma nel frattempo, in nome della verità e del rispetto, lo preghiamo col maggiore decoro di ritirare dal suo schermo un breve cortrometraggio che non è solo bugiardo e perverso, ma è destinato ad incitare il Cile all'odio, alla Guerra Fredda e l'ignoranza del mondo contemporaneo. Questi sentimenti possono albergarsi nei politici attuali degli Stati Uniti delNordamerica, ma non sono né possono essere condivisi dal paese del Cile.

El Siglo, Santiago, 19.5.1959.


Su questi antichi versi di Nicomedes Guzmán
SOBRE ESTOS ANTIGUOS VERSOS DE NICOMEDES GUZMÁN. (Pagine 1037-1038.) I "libros tremendos" di Guzmán a cui allude il testo erano i romanzi neorealisti che gli avevano dato fama in Cile, in particolare Los hombres oscuros, 1939, ed La sangre y la esperanza (1943).

Quando Nicomedes Guzmán scaricò i suoi libri tremendi, la bilancia crollò perché non ricevè mai un sacco tanto vero. Non era un sacco di gioielli. La verità pesava come una pietra. I dolori riempivano quelli libri straccioni e abbaglianti che ci erano gettati sulla coscienza.
Ma sempre in Guzmán esistè la finestra sottomarina e nessuna sfortuna imprigionò il suo spazioso cuore. Per la finestra coltivata oltre a siffatto smeraldo entrarono in lui incomprensibili sogni, ed oggi questo piccolo volume di versi riappare con gli adolescenti tesori.
Con piacere ripresento queste righe fugaci, più tenere che il pane puro, soavi come il giovane vino.
La sua sussurrante dolcezza sembrava non convivere con le cicatrici che ci impresse
La sangre y la esperanza, ma è segno di grandezza che lo scrittore che ci rivelava l'inferno delle strade del Cile abbia un altro bollo di errante delirio, sogni e ceneri che lo aggregano all'infinita dimensione della poesia.
Non c'è unità dell'uomo e della vita senza che diventino presenti la realtà ed il sortilegio. Questo librettino dimenticato dal suo autore lo dentifica un'altra volta come scrittore vittorioso: una volta per la coscienza inappellabile ed un'altra per i sogni irrinunciabili.

Isla Negra, settembre 1959

Prologo a Nicomedes Guzmán,
La ceniza y el sueño,
poemi, 2.a edizione, Santiago, Ediziones del Grupo
Fuego, 1960.


Prologo per Héctor Suanes
PRÓLOGO PARA HÉCTOR SUANES. (Pagine 1038-1039.) Quella di Suanes fu la prima edizione di Alturas de Maccbu Picchu in volume autonomo (Santiago Ediciones Librería Neira, 1947 – e non 1948, come sbaglia secondo abitudine il nostro poeta). Prima di essere incorporato in Canto general, il poema era stato pubblicato in due parti dalla Revista Nacional de Cultura di Caracas, num. 57 (luglio 1946) e num. 58 (agosto 1946) ed integralmente dalla rivista Expresión di Buenos Aires, direttore Héctor P. Agosti, nel suo numero 1 (dicembre 1946).

Héctor Suanes è un editore errante ed un buon osservatore della terra. Lo conobbi - incisivo ed smisurato - quando assalì la prima edizione delle mie
Alturas de Macchu Picchu nel 1948. Erano tempi larvari, con un governo schizofrenico e non era impunita la poesia. I giornali importanti accettavano gli annunci pagati dell'apparizione del canto, ma purché in essi non si indicasse il mio nome che non si dicesse chi io ero, e mi abituai alla vigliaccheria degli importanti ed al coraggio scarno dell'uomo che ora presento.
Allora egli si mise nella accerchiata Bahía e ruppe i segreti, liberò le colombe nere, incatenò ricordi, e con sagome disegnate dalla semplice ed abile Hortensia Oehrens ci regala questo libro di missionario e di scopritore. Perché qui nel Sud freddo nessuno sa quello che contiene Baia e Suanes con Oehrens ci danno le chiavi di quella città - la più diurna e la più notturna -, uccello sacro, imbarcazione purissima, cupola della più rosata America.
Gabriela Mistral sosteneva che senza indio è insipido il nostro territorio, affermazione che cadeva come pietra nell'occhio dal ministero. Ma senza negro, l'America non ha cadenza né zolla, non è divertente. La profezia di brutti presagi ci portò una terra con baschi e tedeschi, un futuro abbastanza pietroso senza queste feste con santi ed aromi, senza questa esalazione verso la fortuna.
È Jorge Amado lo rivelatore della sua terra, ma noi meridionali non leggiamo a fondo le lettere splendide del Brasile, e perciò Suanes ci fa devoto favore lasciandoci in ginocchio nell'altare maggiore della città misteriosa e precipitandoci nel viso la sua emulsione ancestrale.
Questo bel libro ci lascia un incitamento di ombra e luce alle quali non eravamo abituati, affinché si costruisca in noi l’abbagliante incitamento di Bahía.

Isla Negra, settembre di 1959

Prologo a Héctor Suanes,
Bahía, ciutad de leyendas,
Santiago, Edizioni Librería Neira, 1963.


Nemesio Antúnez

Devo parlare geograficamente del pittore Nemesio Antúnez. La gran bellezza è un'esplorazione aerea, lunatica e terrestre. Soprattutto terrestre.
Se qualcuno arriva al dilatato e stretto recinto del Cile troverà nella sua prima estensione il Nord Grande, le regioni desertiche del salnitro, del rame: intemperie, silenzio e lotta. E nell'estremo del Sud della mia patria, le grandi latitudini fredde che saltano dal silenzio patagonico fino al Capo Horn mille volte sorvolato dall'albatro errante, e dopo, la risplendente Antartide.
Nemesio Antúnez, pittore, è parte del nostro territorio, tra quegli estremi. Tra Tarapacá ed Aysén situeremo il longitudinale Antúnez. Né tanto secco come il terra salnitrica, né tanto freddo come il continente innevato. Le isole, manifestazioni floreali, la loro assorta fecondità corrisponde alla cintura centrale dove si uniscono le uve cariche di zucchero coi pesci, molluschi e frutti salati della costa. Antúnez ha quella trasparenza lacustre, la fecondità di un mondo aurorale, tremulo di nascite in cui polline, frutti, uccelli e vulcani convivono nella luce.
Non c'è disordine in questa creazione organica né neanche miseria rettilinea. Il colore è nato dalla profondità e dopo si è acceso nel suo proprio zenit trasformato dalle stazioni, vincolato alla cangiante natura. La sua staticità è solo la maschera dell'acqua profonda: un misterioso battito circolatorio creó questa trasparenza.
Le terre Antúnez non sono spazi vuoti. Uomini e cose si integrarono teneramente in questa continua esistenza e hanno vita, espressione, aroma propri ed incancellabili.
Nemesio Antúnez lo conobbi verde, lo conobbi quadrettato, fummo grandi amici quando era azzurro. Mentre era giallo io mi misi in viaggio, me lo trovai violetta, e c'abbracciamo vicino alla Stazione Mapocho, nella città di Santiago; lì corre un fiume magro che viene dalle Ande, le strade verso le cordigliere sostengono pietre colossali, trillano gli uccelli freddi del mezzogiorno di inverno, c'è all'improvviso fumo di boschi bruciati, il sole è un re scarlatto, un formaggio collerico, ci sono cardi, muschio, acque assordanti, e Nemesio Antúnez del Cile è vestito con tutte questi cose, vestito all'interno ed esternamente, ha l'anima piena di cose sottili, di patria cristallina. È delicato nei suoi oggetti perché nel campo cileno si tesse fine, si canta fine, si impasta terra fine, e contemporaneamente è spolverato col polline e con la neve di una torrenziale primavera, dell'alba andina.

Settembre 1959

Testo raccolto in PNN, PP - 131-133 - Prima in
Nemesio
Antúnez
, catalogo di esposizione, Lima, Instituto de Arte
Contemporáneo, 1960.


Donna

Prima dell'uomo, la donna, la madre,
durante l'uomo, la donna, la moglie,
dopo l'uomo, la donna, l'ombra.

Ombra dell'uomo, chiarezza dell'uomo,
lavoratrice dura nei tuoi lavori,
amorosa, stellata come il cielo
nel ciclo tenace della tenerezza,
donna coraggiosa delle professioni,
operaia delle fabbriche crudeli,
dottoressa luminosa vicino ad un bambino,
lavandaia dei vestiti altrui,
scrittrice che cingi
una piccola piuma come spada,
donna del morto che cadde nella miniera
seppellito dal carbone sanguinante,
solitaria donna del navigatore,
compagna del carcerato e del soldato,
donna dolce che irriga i suoi roseti,
donna sacra che della miseria
moltiplica il suo pane con pianto e lotta,

donna,

titolo di oro e nome della terra,
fiore palpitante della primavera
e lievito sacro della vita,
è arrivata l'ora dell'aurora,
l'ora dei petali del pane,
l'ora della luce organizzata,
l'ora di tutte le donne unite
che difendono la pace, la terra, il figlio.

Amore, dolore e lotta si riuniscono
nei vostri riuniti cuori
e la mia parola è questa:
la terra è grande e soffre:
sta dando una luce il futuro:
aiutiamo la nascita
dell'uguaglianza e dell'allegria.

Testo letto nel Congresso Latinoamericano
di Donne ed edito in
El Siglo, Santiago,
22.11.1959.


Parole cerimoniali a Salvatore Quasimodo
PALABRAS CEREMONIALES A SALVATORE QUASIMODO. (Pagine 1043-1045.) Per Neruda il Nobel della Letteratura del 1959 fu anche motivo di orgoglio personale perché Quasimodo era stato il traduttore del primo volume delle sue poesie pubblicato in Italia: Poesie di Neruda, un'antologia bilingue realizzata nel 1952 dal più prestigioso editore italiano - Einaudi, di Torino - ed illustrata inoltre da uno dei massimi pittori italiani del secolo XX: Renato Guttuso. Detta antologia che incluse testi di Veinte poemas de amor, Residencia en la tierra, Tercera residencia e Canto general, è stata ristampata innumerevoli volte fino ad oggi, dal 1965 in formato tascabile e senza le illustrazioni di Guttuso.

Tutta la terra dell'Italia conserva le voci dei suoi antichi poeti nelle sue pure viscere. Pestando il suolo delle campagne coltivate, attraversando i parchi dove l'acqua scintilla, attraversando le sabbie del suo piccolo oceano azzurro, mi sembrò di continuare a pestare diamantine sostanze, cristalleria segreta: tutto il fulgore che conservarono i secoli. L'Italia diede forma, suono, grazia ee estasi alla poesia dell'Europa, la tirò fuori dalla sua prima forma informe quando andava vestita con saio ed armatura. La luce dell'Italia trasformò gli straccioni paramenti dei buffoni e la ferramenta delle canzoni di gesta in un fiume abbondante di scolpiti diamanti.
Per i nostri occhi di poeti appena arrivati alla cultura, qui dove le antologie cominciano coi poeti dell'anno 1880, al più tardi, ci stupisce vedere nelle antologie italiane la data di 1230 e tanti, o 1310 o 1450, e tra queste date, i terzetti abbaglianti, l'appassionato abbigliamento, la profondità e la pietra preziosa dell'Alighieri, Cavalcanti, Ariosto, Tasso, Poliziano.
Questi nomi e questi uomini prestarono luce fiorentina al nostro dolce e poderoso Garcilaso de la Vega, al benigno Boscán, insegnarono a Góngora e tinsero con un dardo di ombra la malinconia di Quevedo, modellarono i sonetti di William Shakespeare dell'Inghilterra ed infiammarono le essenze della Francia, alzando le rose di Ronsard e Du Bellay.
Perciò, nascere nelle terre dall'Italia per un poeta è difficile impresa, impresa stellata che significa assumere un firmamento di risplendenti eredità.
Conosco da anni a Salvatore Quasimodo, e posso dire che, personalmente, rappresenta quella coscienza che ci sembrerebbe fantasmagorica per il suo pesante ed ardente carico.
Quasimodo è, in primo termine, un europeo che dispone, una scienza certa, della conoscenza, dell'equilibrio e di tutte le armi dell'intelligenza. Tuttavia, la sua posizione di italiana centrale, di protagonista attuale di un intermittente ma inesauribile classicismo, non l'ha trasformato in un guerriero incarcerato dentro alla sua forza. Quasimodo è un uomo universale per eccellenza, che non divide il mondo bellicosamente in Occidente ed Oriente, ma che considera come assoluto dovere contemporaneo cancellare le frontiere della cultura e stabilire, come doni indivisibili la poesia, la verità, la libertà, la pace e l'allegria.
Poco potrei dire dell'opera del mio eminente compagno. Mi mancano gli studi del critico e gli attrezzi dell'analisi, del paragone e della definizione. Devo dire, tuttavia, che questa poesia vespertina contiene una lucida ombra ed una scoppiettante malinconia. Né l’una né l'altra condizione significano la notte totale o la dolorosa agonia. In Quasimodo si uniscono i colori ed i suoni di un mondo malinconicamente sereno e la sua tristezza non significa la sconfitta insicurezza di Leopardi bensì il raccoglimento germinale della terra nel pomeriggio, quando profumi, voci, colori e campane proteggono il lavoro dei più profondi semi. Amo il linguaggio raccolto di questo gran poeta, il suo classicismo ed il suo romanticismo e soprattutto stupisco in lui la sua propria impregnazione nella continuità della bellezza, come il suo potere di trasformare tutto in un linguaggio di vera e commovente poesia.
Ho battezzato queste parole come
cerimoniali, perché l’aver concesso un'alta distinzione, ci fa riunire intorno alla sua assenza, leggere davanti a lui che non ci ascolta queste parole nel suo omaggio ed accendere nel suo onore una nuova lampada di amicizia che illumini la sua nobile poesia ed il suo carattere arrogante e coraggioso. Alla luce di quella lampada leggeranno i suoi versi gli uomini di tutti i paesi.
Al di sopra del mare e della distanza alzo una fragrante corona, fatta con foglie dell'Araucania e la lacio volare nell'aria di questa sala. Che gliela porti il vento e la vita e la lasci cadere sulla fronte da Salvatore Quasimodo. Non è la corona di alloro che tante volte vediamo nei ritratti di Francisco Petrarca. È una corona dei nostri boschi inesplorati, di foglie che non hanno ancora nome, inzuppate dalla rugiada delle aurore australi.
È il simbolo della nostra ammirazione, della nostra stima, della nostra gioia, perché un'altra volta esce dall'Italia lo splendore universale ed il canto interminabile della sua antica, nuova, pura, alta, fresca e serena poesia.

Parole cerimoniali in omaggio al premio Nobel
di Letteratura 1959, Biblioteca Nazionale, Santiago,
27.11.1959. Testo edito in
Atenea, num. 386,
Concepción, Cile, ottobre-dicembre 1959.



Prologo per poemi a Mariátegui
PRÓLOGO PARA POEMAS A MARIÁTEGUI. (Pagine 1045-1046.) Mi raconta lo ispanoamericanista italiano Antonio Melis (Università di Siena), specialista in letteratura peruviana e particolarmente in Mariátegui: questo prologo l'aveva promesso di passaggio Neruda per Lima, probabilmente nel 1957, e siccome il testo non arrivava al figlio maggiore di Mariátegui, di nome Sandro perché era nato in Italia, viaggiò appositamente a Santiago per ricordare al poeta la sua promessa.

Questa è un'antologia incompleta. Su Mariátegui continuerà a cantare il mare. Lo faranno di meno le nostre praterie, le nostre desolate pianure. Il vento nelle altezze superiori lo ricorda. Il nostro piccolo uomo scuro che cresce a scossoni ha bisogno di lui perché egli c'aiutò a dargli nascita. Egli cominciò da darci luce e coscienza.
I poeti continueranno a cantare la sua partenza, le sue opere, la sua cristallina contribuzione. Qui ci sono solo alcuni falci che alzano cantando il cereale che ci trasmise. Qui si sono solo alcune note di flauto di canna, di lira, di chitarra, che lo chiamano ancora. Egli dalla sua assenza accorre, accorre sempre. Perché è vivo. Risplende dietro le antiche pietre peruviane, cammina per vie e strade, sale per le impalcature, continua il suo pensiero. Nel gioco della vita e la morte Mariátegui tirò fuori - non per caso - il viso o la croce della vita. Altri, vociferanti, inauditi, sono gaudenti ma non viventi. Egli, delle sue proprie, dolorose cellule costruì tanto che quello che facciamo e faremo ha in lui le sue fondamenta. Fu un esaminatore che insegnava, fu un maestro che mise le mani nel lavoro e nell'uomo per amalgamarli ed avviarli nella storia.
Perciò i poeti elevarono il canto fino alla sua altezza. Fino alla sua silenziosa presenza, fino alla sua prestigiosa assenza, fino alla sua dimensione crescente.
Io dico: maestro, fratello, ti seguiremo cantando, continueremo a chiamarti. Così non staranno soli i nostri paesi nella loro dura ascensione alla libertà e la dignità.

Casa La Chascona, Santiago del Cile, 1959

Prologo a
Poemas a Mariátegui, Lima, Editorial Amauta,
1959, volume IX delle
Obras completas di J. C.
Mariátegui che include facsimile del manoscritto di Neruda.


II.
VIVA CUBA !
(1960-1961)

Sonetto ingiusto
SONETO INJUSTO. (Pagina 1047.) Mi racconta Aída Figueroa in una lettera personale datata in Santiago il 24.8.1958: "Correva l'anno 1952 e si era già deciso il ritorno di Pablo perché si giudicava che le condizioni politiche del paese lo rendevano possibile. Ma c'erano ancora un processo giudiziario ed un'ordine di detenzione pendenze contro Pablo, situazione che bisognava sgombrare. Il partito [comunista] pensò a mio padre Rafael Figueroa González, avvocato penalista, radicale, affinché rappresentasse Pablo in questo tema. Galo González [allora segretario generale del PCCh] mi chiese che domandassi a mio padre se accettava il caso, ed egli accettò. Si concertò una riunione tra Galo e mio padre nella nostra casa di strada Estrella Solitaria 4831, in Ñuñoa, alla quale io assistei. Conversarono del tema e mio padre accettò di assumere i tramiti per risolvere la situazione di Pablo. Alla fine Galo domandò: "Sig. Figueroa, quali sarebbero i suoi onorari"? E mio padre: "Un sonetto classico del poeta dedicato alla mia persona." Ed in quello rimasero. Poi gli anni passarono e mio padre non riceveva il sonetto ed io lo ricordavo discretamente a Pablo, ma niente. Fino a che nell'estate del 1960 facemmo un viaggio - Sergio Insunza ed io - sulla nostra vecchia Buick con Pablo e Matilde al sud del Cile. A Pablo era già successo di sfogliare i suoi vecchi pagamenti. Facendo una sosta [un’altra per riposare] durante il tragitto, arriviamo al fondo dei miei genitori, Nancahue, che si incontra da Traiguén verso la costa, dove riposiamo un paio di giorni. Mio papà prese l’occasione al volo e disse a Pablo: "questo è il luogo, questo è il posto... ed il sonetto rimane qui." Vedemmo come Pablo cominciò a ruminare parole ed a mescolare le rime: Figueroa, Boroa, loa, proa, fino a che l'ultimo giorno, poco prima di proseguire il nostro viaggio, con la maggiore semplicità consegnò a mio padre una carta col famoso "Soneto injusto" che ti invio qui, famoso perché ha a che vedere con la mia famiglia e con me, naturalmente." Fino a qui la lettera. Allora il sonetto era inedito. Adesso no, perché Aída lo incluse nel suo recente e saporito libro A la mesa con Neruda (Barcellona, Grijalbo Mondadori, 2000), p. 28, dove riporta un'opportuna osservazione: "Arriviamo fino a Puerto Saavedra e fu cosa molto fortunata l'essere arrivato lì prima del gran terremoto [maggio 1960] che cancellò totalmente quel porto ed i ricordi materiali che Pablo conservava di lui", p. 29.

Per Don Rafael Figueroa
che protegge gli ultimi
boschi cileni


Per Nancahue, nel focolare di Figueroa,
ritornò la mia infanzia a rivivere con me.
Nella sua altezza la casa era una prua.
La terra era un oceano di grano.

Presi la piuma e cominciai la lode
all’eredità ed al vino dell'amico:
era un'altra volta la terra di Boroa,
i giorni senza tristezza né punizione.

Cercai allora i boschi della mia infanzia,
lo spessore carico di fragranza,
e scorsi un esercito di pini.

Allora, senza
raulí né noccioli
chiusi gli occhi, allungai le mani
come un palo bruciato durante il tragitto.

Nancahue, 12 febbraio 1960

Sonetto compreso in Aída Figueroa
A la mesa con Neruda, p. 28.


Prologo per González Urízar

Presentare un poeta e più ancora un giovane poeta non è solo cercare una certa aureola, vapore o emanazione nei suoi lavori, bensì verificare con probabile certezza la sua intimità con la poesia.
Poche volte ho conosciuto tanto stretto amante come questo Fernando González Urízar, di tanto antica e palpitante rosa, e nel suo onore e splendore ha sgranato queste collane, taciturne, strazianti ghirlande, ha trattato e tergiversate ragioni ed incantesimi, ha disposto di estreme unzioni e di tramonti assorti per cantare, cantare, cantare come l'uomo comanda.
Questo è, ha vissuto e stravissuto la poesia più intima e più larga, stringendo ed estendendo senza fine non solo il cuore bensì la conoscenza.
Poesia singolarmente spezzata, cerca una chiarezza propria, un ritmo che ordini la sua respirazione e stabilisca finalmente i maggiori doni dell'allegria.
Presento con alcuni parole Fernando González Urízar, ma basta aprire alcune delle sue sillabe per vedere come escono volando inequivocabili ali da lui create, che ascenderanno notte e tenebre col nuovo nome che il poeta vuole dare alla luce.

Casa La Chascona, Santiago del Cile, febbraio 1960

Prologo a Fernando González,
Las nubes y los años,
poemi, Caracas, edizione della rivista
Lírica Hispana,
1960; 2.^ edizione: Santiago, Nascimento, 1961.


Sonetto a Vinicius di Morães

Non lasciasti doveri senza adempierli:
il tuo compito di amore fu il primo:
giocasti col mare come un delfino
ed appartieni alla primavera.

Quanto passato per non morire!
Ed ogni volta la vita che ti aspetta!
Per te Gabriela seppe sorridere.
(Me lo disse la mia morta compagna.)

Non dimenticherò che in questa traversata
portavi della mano l'allegria
come tuo fratello del paese lontano.

Dal passato imparasti ad essere futuro:
e sono più giovane perché in un giorno puro
io vidi nascere Orfeo dalla tua mano.

Scritto in alto mare il 27.3.1960. Il poeta e Matilde
viaggiavano verso l'Europa ed anche Vinicius di Morães
nella stessa nave. Raccolto in
FDV, p. 54.


Secondo sonetto a Vinicius

La sua luce amara ed il suo aspro alfabeto
finalmente, Vinicius, io ricostituisco
il verso che fu mio e che fu tuo
e perduto nonostante la tenerezza.

E che è tornato a suonare nella mia coscienza:
Vinicius, con
saudade e con sosinho,
con la rosa fresca ed il segreto
e col bicchiere dell'Aleijadinho

ti dedico di nuovo questo sonetto.
Una certa volta, una volta, solo è un bambino,
Mistral mi disse con la sua voce di abete:

ella ti amò e difende il suo affetto
nell’altopiano della trasparenza
perché la nostra verità sta nell'altezza.

Questo secondo sonetto fu scritto (anch’esso in alto mare)
per aver perduto il primo (che riapparve poco dopo.
Raccolto in
FDV, p. 55.


Sonetto ad Alberto Sánchez de Toledo

Da ammucchiati frati in gennaio
uscisti al mondo, uccello ombroso,
e andò crescendo, tra becchini,
Alberto, il raggio del tuo potere.

Fu troppo pastorale il tuo fiume
(il Tago incantato nei suoi acciai)
mentre in tanta morte e tanto freddo
nacque il pane dalle tue mani, panettiere.

E così da aspre rotaie ossidate,
da vittorie ed ossa e bestiami,
da starnuti che esplodono nella paura,

senza ostacoli si aprirono le viscere
e d'un colpo partorirono le Spagne
suo figlio: Alberto Sánchez, di Toledo.

Sonetto scritto a Mosca il 21.4.1960,
secondo
FDV, p. 53.


Sonetto senza titolo scritto a Pisa 1960

A Pisa ricordando il tuo sorriso
una cravatta di colore d’argento
salì - liscia ed argentata - alla mia camicia,
e calpesto Pisa dietro la mia cravatta.

Ho la luce di perla o fiore appassito
che brilla Pisa, il petalo d’argento
il colore della Torre che medita:
porto Pisa annodata alla mia cravatta.

E tutto il fiume pallido che corre
ed il pallido argento della Torre
e la cenere pallida di Pisa,

in tranquillo lampo d’argento
vanno dall'architettura alla mia cravatta,
vengono dalla tua tenerezza alla mia camicia.

Sonetto scritto a Pisa il 17.10.1960,
secondo
FDV, p. 51.


Questo libro adolescente
ESTE LIBRO ADOLESCENTE. (Pagine 1052-1053.) Il libro adolescente del titolo è Veinte poemas de amor del 1924, nucleo dell'antologia. Nel testo Neruda passa in rivista i principali elementi del suo mondo originario, del sud che vive anche in altri suoi libri, per esempio in Anillos ed in El habitante y su esperanza del 1926, ed anche nell'Álbum Terusa del presente volume (pp. 269-278). Il motivo di tanta malinconica remembranza si trova alla fine del testo: quel "cataclisma del Cile" allude alla catena di terremoti che nel maggio del 1960 distrussero precisamente il sud di Neruda, in particolare quello che in Valdivia e Puerto Saavedra assunse la forma di un apocalittico maremoto che precipitò furiose montagne di oceano sulle popolazioni della costa. Rispetto alla stessa tragedia, leggasi anche il poema lungo "Cataclismo" di Cantos cerimoniales, 1961 (OCGC, vol. II, pp. 1062-1069).

Questo libro fu scritto 36 anni fa e, benché separato da esso da tante distanze, non cessano di abitarmi la primavera marina che lo suscitò, l'atmosfera di quei giorni, le stelle di quelle notti.
Il tempo chiuse gli occhi di donna che in queste pagine si aprirono. Le mani, le labbra che in questo libro arsero furono consumate dal fuoco. I corpi di grano che si estesero nei suoi versi, quella vita, quella verità, quelle acque, tutto cadde sul gran fiume sotterraneo, palpitante, nutrito di tante vite, di tutte le vite.
Ma la nebbia, la costa ed il tumultuoso oceano del Sud del Cile, che in questo libro adolescente trovarono la loro strada verso l'intimità della mia poesia, ancora oggi assediano la mia memoria con la sua gerarchica schiuma, con la sua geografia minacciante.
Io crebbi ed amai in quelli paesaggi fluviali ed oceanici, nella più abbandonata gioventù. Lì, nel freddo litorale dei mari australi, in Puerto Saavedra o Bajo Imperial, qualcosa mi aspettava.
Bambino ancora, vestito di nero, irruppi in piena estate in un patio dove tutti i papaveri del mondo crescevano in condizione selvaggia. Prima appena avevo visto qualcuno - sangue o rubino - tra i cereali. Qui, a migliaia oscillavano i suoi lunghi fusti come magri serpenti eretti. Le avevo bianche, nuziali e marine, come anemoni del mare che li reclamava con bramiti di toro nero. Alcune aggregavano alle sue corolle un bordo purpureo come traccia di ferita. Altre erano violette, gialle, coralline o ramate, e perfino le avevo di un colore mai visto, i papaveri neri, inquietanti come apparizioni di quel patio solitario situato nella soglia dell'Antartide - il cui estremo dominio, per il resto, prenotava un ultimo e glaciale papavero: il polo Sud.
Quel porto era la fragranza lattea e velenosa di un milione di papaveri che mi aspettavano nel giardino segreto.
Il giardino dei Pacheco. I pescatori Pacheco, la scialuppa abbandonata...
Lì si scaricavano le grandi tempeste del Pacifico Meridionale e per molto tempo la gente del posto visse dei naufragi. Al fondo dell'orto, tra l'immensa moltitudine dei papaveri, giaceva la scialuppa di salvataggio di qualche barca naufragata. Steso sulla bancata della scialuppa, guardando verso l'alto un cielo indurito dal vento gelido, molte volte persi coscienza di me stesso: immobile, nel centro di una spirale azzurra e sotto il peso della verità nuda dello spazio, la mia ragione si dibatteva mentre vicino a me si agitavano le onde del mare.
Questi poemi furono scritti con aria, mare, spighe, stelle ed amore, amore... Da allora vanno per il mondo girando e cantando... Il tempo li spogliò dei loro primi paramenti... Il cataclisma del Cile, sempre sospeso come una spada di fuoco, si è abbattuto su Puerto Saavedra annichilendo i miei ricordi. Si sollevò e si addentrò nella terra il mare, lo stesso mare che risuona in questo libro, e la mareggiata investì le case ed i pini. I moli furono scardinati. Un'onda gigantesca sgozzò i papaveri. Tutto fu annichilito in questo anno 1960.
Tutto... Che la mia poesia preservi nel suo bicchiere quella primavera assassinata.

Parigi, novembre 1960

Prefazione di autore per la seconda edizione di
Tout
l'amour,
antologia bilingue, Parigi, Seghers, 1961.


Piccola storia
[dei "Venti poemi di amore"]
PEQUEÑA HISTORIA. (Pagine 1053-1056.) Non si conserva uno solo degli originali di quel tempo. Neruda non riuscì a sapere o non volle supporre che Albertina Azocar aveva conservato (e farebbe pubblicare dopo la morte dell'autore) gli originale di alcuni di quei Veinte poemas de amor e di altri testi di quel tempo. Degli originali conservati da Albertina, vedasi le edizioni siglate CMR, NJV = CYP, PAR.

GESTAZIONE

L'anno 1923 si pubblicò mio primo libero
Crepusculario; dopo mi dedicai a scrivere lunghi poemi di amore. Cambiai improvvisamente orientazione e mi proporsi scrivere poesie più intense e brevi. Molto presto mi sentii pieno di questi ritmi e finii il mio libro prima dell'estate del 1924, data in cui apparve la prima edizione dei Veinte poemas de amor y una canción desesperada. Non si conserva né uno solo degli originali di quel tempo. La mia vita aveva già la trepidazione ed il disordine della capitale del mio paese.

IL PAESAGGIO

Benché scritti a volte in Santiago del Cile, i
Veinte poemas hanno come sfondo il paesaggio del Sud, specialmente i boschi di Temuco, le grandi piogge fredde, i fiumi, ed il selvaggio litoraneo meridionale.
Il porto ed i moli che appaiono in alcuni dei versi sono quelli del piccolo porto fluviale di Puerto Saavedra, allo sbocco del Río Imperial. Posso annotare che il vecchio poeta Augusto Winter - autore del famoso poema dell'epoca: "La fuga dei cigni" - mi aiutò a copiare a macchina quasi tutto il libro. Io insistei che questo fosse copiato in carta straccia in formato quadrato. Decisi anche che i bordi delle pagine dovessero essere dentellati, per cui il povero Don Augusto, vittima dei miei capricci, facendo pressione con una sega sulla carta, lasciava ogni pagina meravigliosamente dentata. Il nobile poeta, con la sua barba bianca e gialla, celebrava tutte le mie stravaganze.
Più tardi, l'editore conservò il formato quadrato dei miei originali, promuovendo così una piccola rivoluzione nei libri di poesia di quello tempo.

I PERSONAGGI

Quando ricordo i visi amati nella mia gioventù, penso che è più di una la ispiratrice del libro.

L'EDIZIONE

Letti da me alcuni di questi poemi nella casa del romanziere Eduardo Barrios, questo sentì gran entusiasmo e portò il libro a Don Carlos George Nascimento chi lo pubblicò immediatamente.
Innumerevoli edizioni sono apparse dopo. Tra esse, numeroso piratesche, tronche ed erronee. Riconosco come le uniche autorizzate, quelle del mio attuale editore in lingua spagnola, Losada di Buenos Aires.

POLEMICA

Il poema 16 fu scritto come una parafrasi ad un poema di
El jardinero, del poeta bengalese R. Tagore, affezionato specialmente ad una ragazza gran lettrice di questo poeta. Pubblicandosi la prima edizione non si fece il chiarimento necessario per distrazione ed intenzione, poiché questo non sarebbe significato gran cosa. Al contrario, tutti i miei amici mi dicevano che converrebbe ad un oscuro poeta dare pretesto per un'accusa di plagio. Questa si presentò tardivamente, dopo che nella terza edizione, edita a Buenos Aires, nel 1933, il libro portava la nota che indicava questa forma di omaggio all'amore e la poesia.

ALTRI PUNTI POLEMICI

Si è ripetuto con insistenza il mio immaginario ripudio verso questo libro. Dico chiaramente che non è solo falsa questa diceria ma questi versi continuano ad avere per me un incendiato posto dentro la mia opera. Questo posto è pieno di ricordi ed aromi, trapassati da lancinanti malinconie giovanili, aperto a tutte le stelle del Sud.
Per opera del curioso destino, i
Veinte poemas continuano ad essere un libro di quelli che si amano. Per un miracolo che non comprendo, questo libro tormentato ha mostrato il cammino verso la felicità a molti esseri.
Che altro destino aspetta il poeta per la sua opera?

PAROLE FINALI

Scrivo queste righe solo per questa edizione.
Non sono amico delle didascalie nei libri, né delle confessioni d’autore. La poesia deve andare nuda per le strade, e deve avvolgersi solo con la moltitudine della natura.

1960

Prologo di Neruda ai suoi
Veinte poemas de amor y una
canción desesperada, edizione speciale denominato
"1.000.000 de ejemplares", Buenos Aires, Losada, 1961.


Pesce nell'acqua

Mi si domanda
spesso per strade di La
Habana, in ogni
angolo, in un negozio o in un angolo, mi si
domanda
sempre e quasi con le stesse parole,
la stessa domanda: Come
si
sente lei a Cuba,
Neruda? Ora che sto di fronte ad un pubblico invisibile
tanto immenso,
volevo rispondere una
volta
per tutte, a questa domanda tanto affettuosa
e tanto frequente, dicendo a tutti
i cubani: nell'anno 1960,
quasi incominciando l'anno 1961, mi sento
a Cuba
come il pesce nell'acqua.

Lunes de Revolución, La Habana, num. 88,
26.12.1960, ultima pagina.


Sonetto a César Martino
SONETO A CÉSAR MARTINO. A SIQUEIROS, AL PARTIR. (Pagiñas 1057-1058.) Presumo che Neruda e Matilde partirono da Cuba via Messico all'inizio del 1961, e che lì il poeta ritrovò al suo amico l'ingegnere César Martino, di Ciutad Guzmán che con María Asúnsolo e Carlos Obregón Santa Cilia, oltre altri messicani, fecero parte della commissione editrice di Canto general nel 1949-1950. Prima di lasciare il Messico scrisse il poema di protesta per il nuovo incarceramento di Siqueiros, con allusione al suo recente passaggio per Cuba. Di questo stesso periodo o poco posteriore è il poema elegiaco "C.O.S.C", scritto in memoria di Obregón Santa Cilia e compreso in Plenos poderes del 1962 (OCGC, vol. II, pp. 1121-1122).

Città Guzmán sulla sua chioma
di rosso fiore e florestale cultura
c’è un suono di campana oscura,
di campana sicura e vera.

Martino: la tua amicizia sta nell'altezza
come quel suono sulla prateria
e come sta sulla primavera
tremando l'ala della farina pura.

Di pane e primavera e rintocco
e di Città Guzmán imporporata
dall'arrivo di un fiore sicuro,

sta Martino, la tua amicizia formata,
fresca e futura come terra arata,
alta ed azzurra come campana dura.

Sonetto raccolto in FDV, p. o. Scritto
probabilmente in México D.F., al
principio di gennaio del 1961.


A Siqueiros, partendo

Qui ti lascio, con la luce di gennaio,
il cuore di Cuba liberata
e, Siqueiros, non dimenticare che ti aspetto
nella mia patria vulcanica e nevosa.

Ho visto la tua pittura imprigionata
che è come imprigionare la fiammata.

E fammi male partendo LA PREPOTENZA!
La tua pittura è la patria benamata,
Il MESSICO sta con te PRIGIONIERO.

México D.F., 9 gennaio 1961

Voglio esterndere quello che significa il bello e solidale omaggio di Pablo Neruda, ai miei compagni Demetrio Vallejo, Gilberto Rojo Robles, Filomeno Mata, Dionisio Encina, J. Encarnazione Pérez, Valentín Campa, Alberto Lumbreras ed altro compagni imprigionati dalla stessa repressione politica.

DAVID ALFARO SIQUEIROS


Cartello di protesta per la carcerazione di David Alfaro
Siqueiros: nella parte superiore del cartello c’è una foto di quel
pittore dietro le grate della prigione ed al lato stampati i
seguenti dati: "
PALAZZO NERO DI LECUMBERRI
/ Carcerato N.° 46.788 / Dal 9 di / agosto di 1960." Più sotto il
testo di Pablo Neruda ed una nota al piede firmata da Siqueiros.


Corona per il mio maestro

Quello che comprendo e quello che canto
Lo imparai da uomini e donne:
non so come ma so quanto
imparai di tutti gli esseri.

Quando al destro ed alla rovescia
mi coprì la saggezza
incominciai ad imparare un'altra volta
nella pampa, con Don Elías.

Camminammo gomito a gomito,
sale e salnitro, rame e pena,
e lo imparai di nuovo tutto
con Don Elías, nella sabbia.

Mi resi conto a tanta distanza,
dopo avere camminato e percorrere,
che era grande la mia ignoranza
e che avevo molto da imparare.

Dovevo imparare il dolore
in quel deserto giallo
ed imparare finalmente l'onore
con Don Elías, il semplice.

Entrai nelle case minute
fatte con tavole e carte
e con la mia nuova famiglia irsuta
mangiai nei tavoli senza tovaglie.

Per le remote officine
fui col mio maestro fecondo
e nella dura sera della pampa
cantavano i poveri del mondo.

Ora che questo uomo d’oro
finalmente si mise a riposare
comprenderanno che se non piango
è perché mi insegnò a non piangere.

Si sa che non aprì le labbra
Se non per dire la verità
e tutti sanno che fu un saggio,
un professore della bontà.

Fu perseguito e prigioniero
illuminava le prigioni:
come il sole nel mese di gennaio
dava la luce a gorgoglii.

L'avversario loda finalmente
la sua purezza ed il suo onore estremo:
oramai non lo possono perseguire
ora che lo seppelliremo.

Ora è un morto glorioso,
onore della cittadinanza,
e prima erano le prigioni,
o gli esili, per Elías.

Fu retto, fu grande, fu chiaro,
fu puro come un versante:
dal popolo e dal suo abbandono
uscì la suo forza combattente.

Così la lotta fu la sua gloria
e consegnò al paese la sua conquista.
Il suo epitaffio sarà la sua storia:
"Qui riposa un comunista".

Perché questa lotta non finisce
con una vita né con una morte,
questa bandiera non si inclina.

Ed il tuo cuore che germina
non ha fine, Elías Lafertte.

In aereo tra Iquique e Vallenar,
19 febbraio 1961

Testo letto nelle funzioni funebri di Elías Lafertte,
leader storico del movimento operaio e dei
comunisti cileni. Edito in
El Siglo, Santiago,
26.2.1961, e raccolto in FDV, pp. 62-64.


Nella Pampa con Don Elías

Mi sembra che il pubblico che ascoltò Lafertte non conoscesse mai al vero. Questa opportunità l'ebbi io viaggiando per il Nord Grande con Don Elías quando percorremmo la Pampa. La Pampa preferita da lui era quella di Tarapacá, la più povera: quella del proletariato più abbandonato. Parlando Lafertte, acquisiva dimensioni straordinarie che è molto difficile precisare. Si dirigeva verso gli operai con una conoscenza assoluta della loro mentalità e delle loro necessità.
Parlava loro di tutti i temi immaginabili, dalle ultime novità scientifiche, degli alimenti che mangiavano, dei vestiti che vestivano, dell'antica Pampa giacimento di salnitro. Questa gente della pampa lo ascoltava con una immensa devozione, era emozionante vedere tutti quei visi bruni e quegli occhi che potevano mantenere l’attenzione per ore mentre Lafertte parlava.

LA PAMPA

La sua vitalità sembrava inesauribile, io rimanevo stremato. Avevamo fatto 5 o 6 atti nello stesso giorno in piena Pampa: egli si coricava fresco ed alla mattina seguente era il primo ad alzarsi. Di una meticolosità esatta, nella sua valigia ci stava tutto e si vestiva in forma immacolata senza lasciare al caso nessun dettaglio. Alla mattina, alle 6, stava aspettandomi già alla porta per uscire e continuare la gita con la sua sciarpa bianca, ben vestito dalla testa ai piedi. Per me, uscire in gita con Lafertte era una festa, il suo spirito non riposava; uno spirito biricchino, poetico e di una straordinaria saggezza. Io l'ho chiamato da qualche parte "un gran saggio popolare", con un bagaglio inesauribile di cose e di fatti della vita, aveva un repertorio molto lungo di canzoni, di commedie di un altro tempo che recitava da un estremo all’altro, come essere
Flor de un dia. Questo drammone era il prediletto della mia famiglia in Temuco 40 anni fa e Don Elías lo recitava facendo i differenti personaggi con un'animazione straordinaria. Poteva intonare anche lunghi passaggi di La princesa del dólar, una delle sue operette favorite. Attraversando l'immensa Pampa desertica, niente gli sfuggiva, una gran pietra aveva un significato per lui, un'orma che si allontanava dalla strada voleva dire qualcosa, un monticello di rovine significava una storia di qualche officina già morta. Un uomo che con un fagotto alla spalla attraversava solitario all'imbrunire molto lontano da noi, non era nessun enigma, egli sapeva da dove veniva e verso dove si dirigeva.

LE PIETRE DI TALTAL

La sua strana umanità e la sua relazione con un poeta disordinato come me, può concretizzarsi per i lettori di
Ercilla con questo aneddoto. Arriviamo da Taltal, dopo una gita spossante, ed all'ora annunciata non si riuniva gente nel locale sindacale dove dovevamo parlare. Mentre si facevano le chiamate andai via per la spiaggia e cominciai a raccogliere alcune pietre nere e brillanti con cui mi riempivo le tasche, assorto nel mio compito. Così passò il tempo ed apparve Elías, dicendomi con grandi gesti: "Il sindacato è pieno e tu stai cercando pietre, come è possibile? Guarda che pietre brutte porti." Dopo questo andammo al locale del sindacato dove demmo l'atto politico. Il giorno dopo mi alzai presto, ma anche cosí in ritardo. Lafertte mi aspettava già e saliamo all'auto e marciamo per quella strada lunga. Durante il tragitto Lafertte mi domandò: "E le tue pietre?." Gli risposi: "Ebbi tanta difficoltà per uscire che mi sono dimenticato ed inoltre da te mi costarono un attacco ieri, cosicché non importa." Allora, malgrado avessimo percorso già un paio di chilometri, ordinò l'autista: "Ritorni immediatamente affinché portiamo le pietre di Pablo." E le portammo.

UN LEONE

In un'altra occasione arriviamo all'imbrunire ad un ufficio perso e povero: Piojillos. Parliamo in piena Pampa da un palco improvvisato. Nella Pampa c’è una affluenza straordinaria di bambini e ragazzini che vanno a tutte le riunioni politiche. Io leggevo i miei poemi, con questi ragazzi di una mobilità incredibile che ci si mettevano contemporaneamente tra le gambe, apparivano sopra ai tavoli per giocare con la bottiglia dell'acqua. Stavamo per incominciare a parlare agli abitanti della pampa quando notiamo scarsa attenzione ed un movimento di diserzione di una gran parte del pubblico composto specialmente da questo gruppo di ragazzini. Che cosa era acaduto? Un burattinaio errante, uomo strano, vecchio, alto, sgarbato e magro, era arrivato in quel posto per fare conoscere il suo spettacolo che era un vecchio leone che egli trascinava nel suo carrello. I ragazzi, dunque, ci abbandonarono nella loro totalità.
Io me lo spiegavo e mi sarebbe piaciuto anche andare a vedere il leone, ma Elías si sentì molto offeso per questo fatto. Finiamo il meeting che ebbe molto concorrenza e quando eravamo già seduti a mangiare nell’albergo, una grande moltitudine di ragazzi che venivano dallo spettacolo del burattinaio spuntavano i loro visi bruni e le loro mani invadendo il posto in cui mangiavamo e chiedendo con urla che io recitassi il mio poema "Canto a Stalingrado." Senza poter contenersi Elías si affacciò alla porta ed affrontandoli disse loro: "Andaste via dalla riunione per vostra volontà, andate ora a chiedere che il leone reciti il poema di Stalingrado." E ritornò iracondo a sedersi con me. Dieci minuti dopo io recitavo il poema per i bambini, presentato dal vecchio maestro che non conservava più niente della sua collera.


IL POLITICO

La semplicità e la volontà di Lafertte, come le sue condizioni riconosciute di onestà, sono presentate dal settore reazionario in una maniera ambigua. Sempre la destra tende a presentare le cose come una divisione tra la persona e la sua tendenza politica. A me stesso accade, perché il gran impegno della destra è dividere la mia parte politica della mia parte poetica.
In Lafertte è innegabile l'unità della sua persona con la sua tendenza politica. Sebbene il suo talento, la sua bontà e la sua gran conoscenza della vita umana e del nostro paese sono interessi impressionanti nell'apoteosica corsa del lottatore Lafertte, non è meno importante chiarire che tutte queste virtù ebbero all'interno come un scheletro di grande fermezza le sue convinzioni dottrinarie, la sua struttura di comunista. La sua onestà appurata non è una rarità: è un'esigenza generale e comune a tutti i nostri militanti. C'è una foto impressionante che
Ercilla dovrebbe pubblicare. Deve stare naturalmente nella casa della famiglia. Ci mostra uno dei primi meeting nella città di Iquique, nella piazza, e c’è Recabarren che protende il corpo dal chiosco verso la moltitudine, parlando, e dietro lui il giovane Lafertte che ascoltava.
Questa foto è storica e rivelatrice. Lafertte è naturalmente un discepolo del grandioso Recabarren, che per me è il più grande leader operaio, cioè, precursore della rivoluzione proletaria in tutto il continente americano. Ma in Lafertte questa attenzione manifestata nella foto significa anche la valorizzazione totale di un uomo come Recabarren dal primo istante in che lo conobbe e nel campo in cui naturalmente si vide per dedicarsi integramente alla causa del paese cileno. Ma questo denota in lui non solo una qualità di partenza e rivoluzionaria, bensì una condizione, una capacità di comprensione anticipata di una figura e di un movimento gigantesco.

LA CUECA

Lafertte era purificatamente nazionale, non poteva sopportare un altro ballo che la cueca, né altre canzoni che le nostre: faceva interrompere con un gesto molto indignato quando si sentivano le macchine parlanti che tuonavano nell'aria con rock and roll ed anche i tanghi lo rendevano nervoso. Che non abbiamo la cueca?, ruggiva. Che cosa è questo? ed insegnava alla gioventù che imparasse la nostra danza nazionale, specialmente ai giovani. La sua curiosità intellettuale lo portava ad essere sempre interessato alle ultime scoperte di medicina e questa curiosità era solamente superata per il suo interesse negli esseri umani, nelle masse semplici e fra queste quelle che più pesavano nei suoi sentimenti erano gli uomini del nord.
Non dimenticherò mai quando, arrivando nei giacimenti di salnitro, a molta distanza, vedemmo un piccolo gruppo nella solitudine del deserto. Con la sua vista di lince, Elías mi dicevo: "Lì stanno aspettandoci nel mezzo della strada." Si percepiva un gruppo di abitanti della pampa che dopo ci abbracciarono. E lì prendevamo la direzione della colonna ed immediatamente Elías camminava e dirigeva l'Inno Nazionale e la
Canción de la Pampa, il poema di Francisco Pezoa che lo scrisse a causa del massacro del 1907.
L' ho appena attraversata un'altra volta per proclamare che Lafertte non potè accompagnarmi oramai. Nel primo atto in Arica invece di proclamarlo dovetti annunciare la sua morte. Il destino mi portò allo stesso posto ed essere ascoltato dalla stessa gente che tante volte ci circondarono e che era come la creta o la farina che era fatto il cuore di Lafertte. Questa fu l'ultima grande impressione che ebbi.
Quando l'annunciai alla folla, gli abitanti della pampa di Tarapacá prima piansero in forma timida e dopo un immenso pianto della moltitudine si lasciò sentire mentre si alzavano le prime strofe del più triste
Internazional che io abbia ascoltato.

Ercilla, num. 1.344, Santiago, 22.2.1961.


Vivo Fidel! Viva Cuba!

Solo alcuni giorni fa, lord Bertrand Russell, illustre uomo di scienza, ci avvertiva da Londra: "Kennedy è più perverso di Hitler."
Alcuni ore fa il presidente nordamericano ha confermato le parole del saggio più illustre dell'Europa. Ha scatenato la distruzione e la morte tra i nostri fratelli di Cuba. Conoscevamo nel cinema il viso bestiale dello stupido Kennedy. Sorridevamo. Pensiamo forse che l'inerte paese nordamericano ha in questo microcefalo il presidente che si merita. Che si meritano gli Steinbeck, Hemingway, Capote, scrittori inerti, senza maggiore responsabilità davanti alla loro epoca che una bocca chiusa, una piuma morta ed una coscienza di cemento davanti agli avvenimenti del nostro tempo.
Ma ora, Kennedy, si è macchiato le mani di sangue, il viso e le scarpe. Sguazza nel nostro sangue. Già mai potremo vedere senza schifo ed odio il viso di questo assassino.
Con l'esecutore e boia del Guatemala, Foster Dulles, col cinico commerciante di petrolio Adlai Stevenson, pianificarono questa invasione, reclutando banditi di ogni specie, ammazzando ed incendiando indifesi nelle città di Cuba. Ed ora protetti dalla loro stupidità e dalla loro forza vogliono demolire totalmente la costruzione nuova e radiante che lì si stabilì. Questa banda di criminali che dirigono il governo degli Stati Uniti senza più rimorsi nell'anima come uno quelunue dei gangsters che in Nordamerica insegnano l'assassinio industriale, si credono avere autorità per insegnare al mondo la loro morale infame: l'aggressione contro la cosa più bella e fiorente dei nostri paesi latinoamericani. Questi nemici dell'America del Sud, dopo avere saccheggiato il Messico, Panama, Puerto Rico, Nicaragua, Guatemala, ci dichiarano nel 1961 una guerra totale, a tutti i nostri paesi, a tutti gli uomini, donne e bambini del continente. I massacratori hanno incominciato la loro guerra di colonizzazione. Qui in Santiago è arrivato già - insieme a traditori cubani reclutati - un inviato di Kennedy, nordamericano, ad investigare la nostra vita politica e stabilire la sua prossima base di sangue.
Non lo tollereremo. A questa guerra risponderemo con la guerra! Fuori dal Cile l'ambasciata di macellai nordamericani! Fuori dai nostri paesi gli invasori di Cuba!
Che il sangue che rovesciano oggi, sangue del paese fratello, cada sulle loro teste! Impariamo ad odiare gli assassini! Facciamo noi gli scrittori dell'America intero giuramento affinché siano vendicate nella nostra azione e pensiero le vittime dei briganti yankee. Insegniamo ai bambini, ed ai giovani, per generazioni e generazioni che i mostri infami del Nord America vissero offendendo, sfruttando e decimando i figli dell'America Latina. Lasciamo nei nostri libri il ritratto di Kennedy con sangue di Cuba sulla sua stretta fronte di cannibale!
E nel frattempo, sicuri che Cuba resisterà e vincerà, dimentichiamo - popoli e scrittori - divisioni e polemiche per affrontare il pericolo. Il dignità combattente di Cuba, ed il suo attuale martirio sono esempi per il mondo intero, ma lo sono più gravi ed ardenti per il nostro spirito americano.
Con Cuba in questa ora, per Cuba in questa prova tutte le nostre parole e la fermezza implacabile della nostra azione.
Onore a Fidel Castro, ai soldati, operai, intellettuali, contadini che difendendo la loro patria difendono l'onore delle nazioni dell'America!
Il crimine nordamericano ci ha rivelato il nostro proprio nemico, la sua ipocrisia e la sua perversità.
Vicino ai nostri fratelli di Cuba tutte le nostre bandiere, i nostri libri, le nostre armi e le nostre vite!

El Siglo, Santiago, 19.4.1961.


Addio a Lenka

Mi misi cravatta nera per congedarti, Lenka.
- Che tonto sei, tirati fuori la.
- Piangemmo ieri sera, ricordandoti, Lenka.
- Che pazzia! Ricorda meglio quanto ridevamo insieme.
- E che cosa posso dirti, Lenka!
- Raccontami un racconto, e taci.
- Per sapere e raccontare, Lenka, ti racconterò che oggi la terra somiglia alla tua testa cara, con oro disordinato e neve minacciosa. Tutto questo tempo in cui te ne andavi via ogni giorno lavoravamo a Isla Negra, dove quasi arrivasti a morire. Fu l'unico invito che non compiesti. Il tuo posto era vuoto.
Ma mentre andavi via ti avvicinavi e ti allontanavi a forza di dolore, ogni onda si rompeva nella sabbia col tuo nome. Era la tua vita che lottava e cantava. Ogni onda si spegneva con te e tornava a crescere. A fiorire ed a morire. Ogni movimento tra la terra e le mare eri tu, Lenka, che venivi a vedermi, tu eri che parlavi di nuovo, interminabilmente agitato per il vento del mondo. Eri tu che finalmente arrivavi dove ti aspettavamo, eri tu, amante errante, che vivevi e morivi sempre vicino e sempre lontano.
Pensare a te con tanta schiuma e cielo era dedicarti la cosa più alta. Ed il tuo ricordo sgorgare, il tuo misterioso ritratto. La tua grandiosa intelligenza ed i tuoi gesti viziati. Eri tanto lavoratrice, fannullona cara. Eri tanto fragile e tanto forte. Eri essenza di donne e lezione per un milione di uomini.
Ricordo quando perseguitavano me e tutto il popolo e si viveva un carnevale di mascherati, tu sostenevi la purezza del tuo viso bianco, il tuo casco d’oro alzando la dignità della parola scritta. Altri falsi maestri di giornalismo indicavano come mastini la pista della mia poesia, compivano il loro destino di buffoni e di delatori, mentre tu incarnavi la trasparenza della verità, della tua verità senza illusioni ma senza tradimenti.
- Stai passando già al mio elogio, Pablo, ti conosco.
- Perdonami, Lenka, se continuo ad essere troppo umano. Tu sei ora ancora più bella, sei un'onda di vetro con occhi azzurri, alta e risplendente che forse non tornerà a ripetere la sua schiuma d’oro e la neve sulla nostra povera sabbia.

Testo letto il 25.5.1961 nelle funzioni funebri della
giornalista cilena Lenka Franulic ed edito nei
quotidiani
El Siglo ed Última Hora, Santiago, 27.5.1961.


Sonetto punitivo per Germán Rodríguez,
avvocato antioperaio dell'intendenza di Valparaíso
SONETO PUNITIVO PARA GERMÁN RODRÍGUEZ, ABOGADO ANTIOBRERO DE LA INTENDENCIA DE VALPARAÍSO (Pagina 1069.) Una mattina di settembre del 1961, Neruda fu testimone oculare del fatto che determinò la scrittura di questo "sonetto punitivo". Per caso il poeta stava discorrendo con due amici sul balcone di un appartamento che dava sulla piazza Victoria, in Valparaíso, da dove poteva vedersi il viale Condell ed con essa la sede dell'Unione dei Professori. All'improvviso i tre amici videro come truppe di carabinieri discendevano da veicoli della polizia, invadevano l'edificio e cominciavano a tirare fuori maestri e maestre lì riuniti, battendoli brutalmente e trascinandoli ai furgoni. Più o meno 80 furono quelli catturati, altri poterono scappare per le scale contigue. Neruda telefonò al sindacato del magistero, per informarsi, ed immediatamente dopo a Volodia Teitelboim a Santiago a cui denunciò quanto successo (perfino prima che lo facessero la polizia e l'Intendenza di Valparaíso) a Sótero del Río, allora ministro dell'Interno del governo di Jorge Alessandri, evitandosi così che la cosa passasse sotto silenzio. Il contesto era uno sciopero nazionale dei professori della scuola primaria e secondaria in pieno sviluppo. L'avvocato Germán Rodríguez, alto funzionario dell'Intendenza di Valparaíso, apparentemente senza consultare l'intendente Luis Guevara aveva emesso l'ordine di arrestare i dirigenti e delegati provinciali del magistero riuniti nella sede di viale Condell. Ammucchiati nei veicoli, gli ottanta maestri furono portati al commissariato di Cerro Florida, dove rimasero cinque giorni in stato di arresto. - y los veremos en el paredón (e li vedremo sulla muraglia): la formula supponeva un ovvio riferimento alla drastica giustizia rivoluzionaria che, praticata dal nuovo governo cubano nei suoi primi anni, era per allora oggetto di viva discussione e di opposte valutazioni etiche e politiche.

Questo informatore, spione carcerario,
questo topo della giurisprudenza
ambì arrivare a segretario
di bordello, di presidio o di intendenza.

Per potere vivere questo arrivista,
questo Germán Rodríguez, questa ventosa,
fu sempre più servile questo papista,
fu molto più papista che il Papa.

Questo Germán Rodríguez, lacchè,
propose ai suoi padroni opportuni
di catturare maestri in mucchio.

E potè farlo. Ma nessuno ignora
che per questi boia arriverà l'ora
e li vedremo nella muraglia.

El Nano

Settembre 1961


Edito con pseudonimo in foglio volante di appoggio al
sciopero di professori. Valparaíso, 1961.


Parola

Nella confusione della prima luce e dell'ultima tenebra sempre la nuova voce dei nuovi poeti. Hanno la rugiada ombrosa della prima ora, l'ansietà e la purezza dell'abbandonata nascita.
Continuerà a ridere, a sentire, a cantare? Conquisterà e guadagnerà la luce di ogni giorno? Ruberà il fuoco? Si deciderà tra notte matura ed alba agonica?
Ogni giovane poeta merita di essere sentito tra le foglie del bosco.
A Miguel Búdnik Sinay, al suo giovane cantare desidero tutta la pazienza della luce che conduce alla sovranità del grappolo.

Valparaíso, ottobre 1961

Nota-prologo a Miguel Búdnik,
Cuento para un poema,
Santiago, Editoriale Alfa de Arancibia Hnos., 1961.


Tre sonetti punitivi per Rubén Azocar
TRES SONETOS PUNITIVOS PARA RUBÉN AZOCAR. (Pagine 1070-1072.) Un altro segno ludico della nuova fase (postmoderna) di Neruda è quello che vedo in questa autoparodia del "sonetto punitivo", fino ad allora abitualmente usato con seri propositi belligeranti - como un vulgar y celestial Paleta / beberás sólo Andina en tu planeta. (come una volgare e celestiale Paleta / berrai solo Andina nel tuo pianeta). «El Paleta» ("La Tavolozza") era il soprannome lodevole preso dal gergo popolare cileno (un tipo "paleteado" = una persona forte, capace ed affidabile) che la propaganda elettorale aveva abilmente affibbiato al presidente in esercizio, Jorge Alessandri Rodríguez (figlio di Arturo Alessandri Palma) famoso inoltre per essere un magnate zitellone e di austere abitudini (si diceva che non beveva vino né liquori, bensì solo Andina, cioè acqua minerale).

Primo sonetto punitivo che racconta come avendo aspettato un certo Rubén, anticamente chiamato Il Chato, ed ora presidente degli scrittori, questo non accorse al posto dove l'aspettavano i suoi amici, in Isla Negra, il giorno 10 novembre 1961.

Eri un falluto e caro Chato,
impegnato pappagallo e ipocrita,
in buone conto un saporito piatto,
un piatto tra fagiolo e cioccolato.

Dovette arrivare sonoro lo scarabocchio
diretto, oh Rubén! alla tua gola,
annoiati di aspettarti per tanto tempo
come soldati prima del combattimento.

Che cosa fa in Santiago il nostro presidente?
Continua a perdere il tempo con la gente
o viaggia in taxi alla ricerca di una sottana?

La verità è che il Chato non venne mai
commettendo un perfetto sproposito.
Perciò lo mandiamo al diavolo!

Secondo sonetto punitivo che enumera i manicaretti che detto Chato si perse con la sua assenza.

Perse pernici che gli piacciono tanto,
perse lo champagne che non conobbe mai,
perse whiskys di marche straniere
che ansia per ricetta e per incantesimo.

Perse un saporito piatto di vitella,
frutti di mare che sono lusso del
curanto
e per riassumere questo dolore
si perse una cucina di prima classe.

Per camminare tra tante poetesse
perse i
pejerrey e le lisa
ed il borgogna nascosto in un angolo.

Per Matilde e le sue mani malefiche
che conservavano per lui la primavera.
Tutto questo lo perse a causa di maleducazione.

Ed in questo terzo sonetto punitivo i suoi amici, per il fatto di averli lasciati ad aspettare, come si è raccontato, condannano il suddetto Azocar a diverse penalità in questo mondo e nell'altro.

Che continui essendo presidente
di tanti scrittori e pellicani,
di tanti portaborse contumaci,
di tante piume e tanto poca gente.

Che di fronte al battaglione delle donne
prosegui la tua giornale di Nueva Ola
pascolando tante Cármen e Ester
col tuo sempre disponibile bastone di comando.

Mai più avrai whiskys né cipolle,
né mangerai abbondanti granseole,
sarai ad un cielo austero condannato.

Come una volgare e celestiale Paletta:
berrai solo Andina nel tuo pianeta
dagli eterni Mason ben circondato.

Sonetti raccolti in Varas, pp. 68-70.


Cronaca rimata per una bomba di 50 megaton
CRÓNICA RIMADA PARA UNA BOMBA DE 50 MEGATONES. (Pagine 1071-1075.) "Il Percurio", Paluenda ed i Pewards sono trasparenti allusioni al quotidiano El Mercurio, al suo direttore Rafael Maluenda ed ai suoi proprietari, Agustín Edwards e famiglia.

Uomo del mare, minatore della terra,
che non ti spaventino le detonazioni:
semplice compagno delle strade,
delle abbandonate direzioni,
uomo e donna del pane di ogni giorno:
facciamo insieme i paragoni
delle bombe di ieri e quelle di oggi.
Esaminiamo queste esplosioni.
Ieri quelli che spianarono Hiroshima
si vantavano in tutte le nazioni
di avere bruciato vivi i bambini
ed essere morti 500 mila nipponici.
A sangue freddo lasciarono la bomba
cadere su indifese popolazioni
(rimase una cicatrice dove cantavano
i bambini, e morirono le loro canzoni,
e l'inferno cadde sull'amore
bruciando i poveri cuori:
quegli le cui braccia abbracciavano
non hanno braccia oggi, bensì moncherini,
e non hanno oramai bocca quei baci:
seppellì la cenere le passioni.
Ma Hiroshima morto è una bocca,
una bocca che dice: "Non perdonare").

Che cosa disse allora il Papa? Né un mormorio.
Il buon uomo continuò nelle sue preghiere.

Vogliono sapere voi se "
El Percurio"
rovesciò, come ora, lacrimoni?

Non conoscete voi Paluenda.
Non gli pagavano quelle emozioni.

E quello crimine orrendo e ripetuto,
assassinare tre generazioni,
lasciò freddi tutti quelli che ora
rovesciano lacrime e maledizioni.

Direte voi che questi coccodrilli
hanno ora teneri cuori
o che a furia di disturbare Cristo
arrivano a condividere le sue opinioni,
che, intenerito, ll Banco de los Pewards
ripartirà per le strade i suoi milioni.

Forse credete voi che cambiarono.
Mi disturba ammazzare le vostre illusioni.

Ma ora si tratta di un'altra cosa
e bisogna chiarire queste contraddizioni:
ora la Bomba non ha ammazzato nessuno,
perciò sono furiosi i bricconi:
né un uccello è caduto, né una pulce.
"Che criminali queste esplosioni."
"Fermate i barbari sovietici."
La sua crudeltà scuote i padroni:
lasciare cadere la Bomba in pieno Polo
dove non ci sono giapponesi né leoni!
Non ammazzare una mosca, che spaventosi,
i russi e le loro abominevoli azioni!

Infine, tutti si lamentano come vedove:
non soffrirono mai tante commozioni.
Ed in realtà, hanno già il loro cadavere:
è il mondo delle loro predilezioni:
già odora di morto quello che difesero
e singhiozzano per quel motivo a gorgoglii!
Sta l'intelligenza in un'altra parte,
la luce sta arrivando agli angoli,
l'Unione Sovietica dirige la musica,
vanno verso di lei i nostri cuori.

Eleva il libro, diffondono le loro spighe,
ha la forza e ha le ragioni,
perciò si spaventano i boia
e corrono nelle loro tane i topi.

Io dico qui tra tutti: avanti,
Africa, Cuba, amore, rivoluzioni,
i paesi non sono soli, compagno,
qui terminarono i bulli.
Pesta con passo forte verso il futuro,
con l'orgoglio delle tue convinzioni.
Non ruberanno oramai il Texas al Messico,
né pesteranno di Cuba le zolle,
non umilieranno il padiglione del Cile
gli ubriachi dei suoi equipaggi.
Qualcosa tremò, toccò la luna
un proiettile di socializzazioni,
due astronauti circumnavigarono
la terra abbattendo religioni,
ed ora per difendere il pane,
l'amore e la pace delle nazioni,
una bomba tanto grande come il sole
fece esplodere l'URSS nelle sue regioni.

La sua immensa fiammata non minaccia
l'essere umano, bensì i cannoni,
e senza volere ammazzare, ammazzò la guerra.

Ed ora finisco, sono le mie conclusioni:
la pace finalmente si sente difesa,
i paesi vinceranno le loro afflizioni,
l'URSS fece esplodere la primavera,
fiorisce il cielo con le sue invenzioni,
lottano contro la morte i suoi soldati,
amore e vita sono i suoi battaglioni.

Non sono gli assassini di Hiroshima
quelli che arrivano alle costellazioni.
Sono i tuoi propri fratelli quelli che hanno
la forza, la verità e le canzoni.

Avanti, semplice compagno,
ti difendono cinquanta megatoni.

Testo letto per un atto di omaggio all'URSS,
Teatro Caupolicán, 12.11.1961, ed edito in
El Siglo,
Santiago, 19.11.1961, ed in una cartellina di saluto di
Año Nuevo, Santiago, Imprenta Horizonte, 1961.



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