Pablo Neruda e Insetti


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Neruda poesie - (1967) La barcarola - 2^ parte

LE NOVITÀ

Sesto episodio:

R. D.

I. CONVERSAZIONE MARITTIMA

Incontrai Rubén Darío nelle strade di Valparaíso,
allampanato doganiere, singolare usignolo che nasceva:
era egli un’ombra nelle crepe del porto, nel fumo marino,
un magro studente dell’inverno separato dal fuoco del suo compleanno.

Sotto il largo cappotto tremava il suo lungo scheletro
e portava tasche ripiene di specchi e cigni:
era arrivato a prendersi gioco della fame nelle acque del Cile,
e nelle abbandonate cantine o invincibili depositi di merci,
attraverso magazzini immensi che solo custodivano il freddo,
il povero poeta passeggiava con il suo Nicaragua fragrante, come se portasse nel petto
un limone dai picciuoli azzurri o il ricordo in matraccio giallo.

Compagno, gli dissi: la nave ritornò al fragoroso stupore dell’oceano,
e tu, esiliato di mani d’oro, contempla questo amaro edificio:
qui cominciò l’universo del vento
e arrivano dal Polo le grandi navi cariche di nebbia mortuaria.
Non lasciare che il freddo tormenti i tuoi cigni, né rompa il tuo specchio sacro,
la pioggia di giugno minaccia il tuo soave cappello,
la notte di antartici occhi naviga coprendo la costa con il suo matrimonio di spine,
e tu, che propizi la rosa che lega l’aroma e la neve,
e tu, che origini nel tuo cuore di zafferano la bollicina e il canto chiarissimo,
esigi un cammino che tagli il granito delle cordigliere
o si sottometta al vestito di fumo o di pioggia di Valparaíso.

Fai fuggire le nebbia del sud della tua America amara
e sebbene Balmaceda sostenga i suoi guanti d’argento sulle tue mani,
fuggi montato sulla raffica della tua serpentina chimera!
E corri a cantare con il tuo fiume di marmo l’illustre sonata
che si sviluppa nel tuo petto dal tuo Nicaragua natale!

Scontroso era il fumo degli arsenali, e odorava l’inverno
di sfrenate violette che si stingevano macchiando l’appassito crepuscolo:
aveva l’inverno l’odore di un tappeto bagnato da anni di pioggia
e quando il fischio di una rauca nave incrociò come un condor stanco il recinto dei moli,
sentii che mio padre poeta tremava, e un impercettibile lamento
o meglio vibrazione di campana che dall’alto prepara il rintocco
o forse commozione minerale della musica avvolta nell’ombra,
qualcosa vidi o ascoltai perché l’uomo mi guardò senza guardarmi o udirmi.

Io sentii che salii verso la sua torre il lampo di un brivido.

Io credo che lì costellato rimase, attraversato da raggi di luce inaudita
ed era tanto il fulgore che portava sotto i suoi vestiti logori
che con le sue due mani oscure intendeva coprire il suo lignaggio.
E non ho visto silenzio nel mondo come quello di quell’uomo addormentato,
addormentato che andava e cantava senza voce per le strade di Valparaíso.

II. LA GLORIA

Oh chiara! Oh magra suonata! Oh cascata di gruppo cristallino!

Sorse dall’idioma volando una raffica di ali d’oro
e allora la nebbia del mondo retrocede all’infame cantina
e la chiarezza del favo supera un torrente di trilli
che decretano la legge di cristallo, il grappolo di neve del cigno:
il pampino di giada ondeggia i suoi segni interrogativi
e Flora e Pomona rifiutano gli sfilacciati cappotti
estraendo dalla strada il fulgore dei loro seni di madreperla marina.

Oh grande tempesta del Tritone encefalico! Oh tromba del cielo infinito!

Tremò Echegaray foderando gli ombrelli di ferro allacciato
che lo protessero dalle ire erotiche della primavera
e per la prima volta la statua giacente di Jorge Manrique si risveglia:
le sue labbra di marmo sorridono e alzando una mano inguantata
indirizza una rosa odorosa a Rubén Darío che arriva a Castilla e inaugura la lingua spagnola.

III. LA MORTE IN NICARAGUA

Perde le forze in León il leone e lo soccorrono e lo corteggiano,
gli album caricano le rose dell’imperatore defoliato
e così lo lasciano alla sua finanziera di tristezza
lontano dall’amore, consegnato al cognac dei filibustieri.

È come un immenso e sonnambulo cane che trotta e zoppica
per sale ripiene di commuovente ignoranza
e lui firma e saluta con mani assenti: si avvicina la notte dietro i vetri,
i monti riducono l’ombra e invano le dita fosforiche
del bardo pretendono la luce che si estingue: non c’è luna, non arrivano stelle, la festa finisce.

E Francisca Sánchez non prega ai piedi gialli del suo minotauro.

Così, cacciato dalla sua patria mio padre, tuo padre, poeta, è morto.

Estrassero dal cranio le sue cervella sanguinanti i crudeli nani
e lo portarono a spasso per esposizioni e hangar sinistri:
il povero sperdutello lì solo tra decorati, non ode logore parole,
finché nell’onda del ritmo e del sogno cadde l’elemento:
tornò alla sostanza aborigena delle ancestrali regioni.

E le pietre preziose che portò alla storia, la rosa che canta nel fuoco,
l’alto suono del suo campanile, la sua luce torrenziale di zaffiro
tornò all’abitazione nella selva, tornò alle sue radici.

Così fu come il nostro, l’errante, l’enigma di Valparaíso,
il benedettino assetato delle Baleari,
il profugo, il povero pastore di Parigi, il trionfante perduto,
riposa nella sabbia dell’America, nella culla degli smeraldi.

Onore alla sua chitarra eterna, alla sua torre indelebile!

CONTINUA LA BARCAROLA:

SOLITUDINI

Era rotonda la luna e estatico il cerchio scuro
del crivellato silenzio governato da un palpitante vivaio:
il latteo infinito che incrocia come un fiume bianco l’ombra,
le mammelle del cielo aspettarono la estesa sostanza o Andromeda
e Sirio giocarono lasciando seminato di seme celeste la notte del Sud.

Fragranti stelle aperte che volate senza fretta e fardelli
verso la misteriosa consegna del viaggio degli universi,
vespe metalliche, elettrici numeri, prismatiche rose con petali di acqua e di neve,
e lì folgorando e pulsando la notte elettronica nuda e vestita, popolata e vuota,
riempie di nazioni e terreni aridi, pianeti e un cielo dietro un altro cielo,
lì, incorruttibili brillavano gli occhi perduti del tempo con utensili del mondo,
cucine con fuoco, ferri di cavallo che videro ruotare l’ombroso cavallo, martelli, livelle, spade,
lì circolava la notte nuda nonostante l’australe abbigliamento, i suoi gialli gioielli.
E io, stremato dal viaggio, con il cuore costellato
chinai la testa e chiudendo gli occhi guardai quello che potei,
uno scuro frammento del ferro notturno, un gelsomino penetrante del cielo.

A chi appartiene la mia fronte o il mio esame remoto?
Di cosa mi servì l’arbitrio, la rauca avvertenza della volontà sotterrata?
Perché mi disputano la terra e l’ombra e a quali materiali che ancora non conosco
sono destinati le mie ossa e la distruzione del mio sangue?

E ancora più misterioso di una nascita infinita di api
il giorno prepara le sue uova d’oro, i suoi stabili favi dispone nell’utero oscuro del mondo
e nella chiarezza, sopra il mare richiamò la balena bestiale e dipinse con un nero pennello
una linea notturna nell’aurora che esce dal mare tremulo
e cammina nel labirinto il fermento del tifo che è imprigionato
e escono dal bagno alla strada i piedi simultanei di Montevideo
e scendono scale a Valparaíso i vestiti azzurri della folla
verso i mercati e gli uffici, gli imbarcaderi, farmacie, navi
verso la ragione e il dubbio, gli impegni, la tenera routine degli innocenti:
un giorno, un dolore tra due antiche notti piene di stelle o pioggia,
una rottura di sole sovrano che scatena esplosioni di spighe.

Settimo episodio:

LORD COCHRANE DEL CILE

I. PROLOGO

LA VOCE DI LORD COCHRANE:
“Un tenete che perde un braccio riceve una pensione di 91 lire.
Un capitano che perde un braccio riceve 41 lire.
Un tenete che perde una gamba, 40 lire.
Un tenente che perde entrambe le gambe in battaglia riceve 80 lire.
“Ma,
Lord Arden gode di una sinecura di 20.358 lire sterline,
Lord Campden riceve 20.536 lire.
Lord Buckingham, 20.683 lire.
Cioè,
quello che si da a tutti i feriti della flotta britannica
ed alle vedove e figli dei morti in combattimento
non basta neppure alla sinecura di Lord Arden.
Gli Welleslley ricevono 34.720 lire all’anno.
Cioè,
ricevono una somma
uguale a 426 coppie di gambe di tenenti
e la sinecura di Lord Arden equivale a 1022 braccia di capitano di vascello!”

UNA VOCE:
“Cochrane, questa è un’insolenza – la pagherà!”

II. IL PROCESSO

Vive la nebbia come un grande octopus gonfio di gas giallo
e cade la sua gelatinosa bretella aggrovigliando la insigne testa.
È Londra, la Casa Rotonda e Giustizia è la bocca del polipo.
La bestia fa scivolare per strade d’ombra le sue braccia, i suoi passi, i suoi piedi scivolosi,
cercando a Tomás, il Marinaio, cercando il suo collo nudo:
perché la Giustizia agonizza nella sua Casa Rotonda e esige alimento,
alimenti del mare, cavalieri dell’acqua e del fuoco.

La Giustizia dorata ti cerca e ha fame di carne marina.

Tomás, marinaio, alza la tua spada da guerra!
Sfoga il tuo braccio salato e dividi le braccia del polpo d’oro!
Respingi le crudeli ventose che cercano dietro la nebbia!
Nascondi, Tomás, la tua sembianza magra di falco oceanico!
Difendi la prua agitata della tua imbarcazione orgogliosa!
Proteggi gli occhi di aquila che aspetta la mia patria nella sua culla
e lascia perduto nella nebbia l’octopus dalla bocca gialla!

III. LA NAVE

La nave è la rosa più dura del mondo: fiorisce nel sole tempestoso
e si apre nel mare la corolla dei suoi imponenti pistilli.
Sibilante è il vento sui petali,
l’onda alza la rosa sulla torre dell’acqua
e l’uomo decide il cammino, tagliando il grande smeraldo.
La mia patria chiamò il marinaio: Guardatelo sulla prua del secolo!
Se il tempo non volle muoversi nei vecchi orologi stanchi
egli fa del tempo una nave e dirige questo secolo all’oceano,
al largo e sonoro Pacifico, seminato dagli arcipelaghi,
e dove una spada di pietra magra appesa alle cordigliere
aspetta le mani di Cochrane per combattere le tenebre.

La mia patria è la spada di pietra delle cordigliere andine.
La mia patria è il mare oppresso che aspetta Tomás Marinaio.

IV. CORO DEI MARI OPPRESSI

Lord del mare, vieni a noi, siamo acqua e sabbia oppresse!

Lord del mare, siamo popoli bloccati e muti!

Lord del mare, ti chiamiamo cantando alla lotta!

Lord del mare, la catena spagnola ci chiude le acque!

Lord del mare, ci lega i sogni la notte spagnola!

Lord del mare, nel porto ti aspettano il pianto e l’ira!

Lord del mare, ti reclamano i Mari del Sud!

V. LO SGUARDO

Contemplate il Falco che prepara con occhi di fuoco tranquillo
il volo violento che incrocia come una scintilla l’ombra!

VI. IL SUD DEL PIANETA

(Il mio popolo da poco si svegliava e i poveri allori macchiati di sangue e di pioggia
giacevano nelle strade confuse dell’alba: la mia patria
avvolta in indumenti di neve, come un monumento che ancora non inaugurano,
dormiva e sanguinava, senza voce, sperando).

Minerale e marina è la mia patria come una figura di prua,
tagliata dalle dure mani di dei terribili.
Nell’Araucania la selva non ha altro idioma che i tuoni verdi,
il nord lunare ti offre la sua fronte di sabbia assetata,
il sud la corona del fumo che nasce dalle cicatrici vulcaniche,
e la Patagonia cammina piegata dal vento
finché le steppe della Terra del Fuoco alzano l’ultima stella
e incendiano con mani immobili il Polo Sud nel cielo.

VII. LA TRISTEZZA

L’uomo maledice all’improvviso l’aurora da poco scoperta
e rompe le nuove bandiere colpendo il fratello e uccidendo i suoi figli:
così successe allora, così succede adesso e così succederà, per disgrazia.
E non c’è più amara campana nel mondo che quella che annuncia
con la libertà l’agonia di quelli che la costruirono.
Carrera, Rodríguez, O’Higgings, condividono la gloria e l’odio
e un panno di lutto minaccia di coprire il destino dei stendardi.

VIII. UN UOMO NEL SUD

Arrivò il marinaio! I mari del sud accolsero l’uomo che fuggì dalla nebbia
e il Cile gli stende le sue mani oscure mostrando il pericolo.
E non è arrogante il guerriero che quando la sua nave riceve i quattro regali,
la Croce Stellata del cielo del sud, il trifoglio di quattro diamanti,
e cala gli occhi sulla mia povera patria stracciona e sanguinante,
comprende che qui il suo destino è fondare un’altra stella nell’ampio vuoto,
una stella nel mare che difenda con fulmini di ferro la culla degli offesi.

IX. LE NAVI NACQUERO

Lord Cochrane studia, esamina, dirige, risolve, raccoglie a caso per strada
gli uomini che la terra amara, bagnata di sangue, gli consegna,
li fa salire sulla nave, battezza i loro occhi terrestri con acque navali,
guida le braccia cilene del mare fino ad allora immobile,
colloca l’insigne ammiraglio e la nuova bandiera nell’aspro vento.
Le navi nacquero. Gli occhi di Cochrane navigano, indagano, spiano.

X. PROCLAMA

Cileni del mare! All’assalto! Sono Cochrane. Io vengo da lontano!
Già ho imparato le arti del fuoco e il lusso della simmetria!
Il sangue di Arauco è onore ai miei equipaggi!
Avanti! La terra del Cile di guadagni o ti perda nell’acqua!
A me, marinai! Io non garantisco la vita di nessuno,
ma la vittoria di tutti! A me, marinai del Cile!

XI. TRIONFO

Valdivia! La polvere spazzò le insegne della Spagna!
Callao! Le prue del Cile del sud rubarono le uova dell’aquila!
E furono aperti i mari al viaggio di tutti gli uomini!
Si aprì come cassa di musica il globo oceanico,
le isole della Polinesia Sacra e Segreta sorsero cantando e ballando
e una chiocciola istituisce sulla costa selvaggia il miele, la verità e l’aroma delle profezie.

XII. ADDIO

Lord Cochrane, addio! Il tuo naviglio ritorna al combattimento
e appena sigillò la vittoria le porte dei tuoi possedimenti,
appena il fumo del camino saluta la pace del tuo orto
naviga un’altra volta il tuo destino verso la libertà di un’altra terra.

Addio, marinaio! La notte spoglia il suo corpo di argento marino
e sopra le onde australi scivola ancora il tuo vascello.
Le mani oscure del Cile raccolgono la tua insegna caduta nella nebbia
e alzano nell’alto dei campanili e delle cordigliere
il tuo scudo di padre guerriero, la tua eredità di mare valoroso.

La notte del sud accompagna la tua nave e alza la sua coppa di stelle
per il navigante e il suo errante destino di liberatore dei popoli.

XIII. COCHRANE IN CILE

E adesso domando al vuoto, al passato di ombra, chi era
questo cavaliere irrequieto della libertà e delle onde?

È questo colui che i suoi nemici rivestono di oscuri colori?

È questo il deviato che nasconde un borsa d’oro nella selva di Londra?

È questa la spada espulsa dalle abbazie patrizie?

È questo colui che ancora il feroce nemico persegue attraverso i suoi libri?

Ammiraglio, i tuoi occhi si aprono uscendo dal mare ogni giorno!

Con il tuo invulnerabile splendore si illumina il magro emisfero
e nella notte i tuoi occhi si chiudono sopra le cordigliere del Cile!

CONTINUA LA BARCAROLA:

BOSCO

Ora verde, ora splendida! Sono ritornato a dire sì
al pertinente silenzio, all’ossigeno verde,
al nocciolo rotto dalle piogge di allora,
al padiglione di orgoglio che assume la araucaria,
a me stesso, al mio canto cantato per gli uccelli.

Ascoltate, è il trillo ripetuto, il vetro
che in puro cielo chiama, combatte, modifica,
è un filo che l’acqua, il flauto e il platino
sostengono nell’aria, di ramo in ramo puro,
è il gioco simmetrico della terra che canta,
è la strofa che cade come una goccia di acqua.

UCCELLI

Oh delicata cascata di musica silvestre!

O bollicina lavorata dall’acqua nella luce!

Oh suono metallico del cielo trasparente!

Oh cerchio del mondo convertito in purezza!

Ora di piedi affondati nella torta del bosco,
vecchi legni vittime dell’umidità, rami
lebbrosi come statue di esploratori morti,
e nell’alto si corono la selva con stelle
che nella coppa dell’
ulmo fabbricano la fragranza!

Luce verde, genitale, della selva! È strano
fissare nella carta questi segni: qui
non c’entra soltanto il muschio, la presenza dell’albero,
l’inimicizia del lago che dondola il suo universo
e più in là dei boschi violenti come uragani,
e più in là di tutto questo stupore fragrante
i vulcani armati dall’invincibile neve.

Povero mio essere! Povero minuscolo straniero
arrivato dai libri e dalle carrozzerie,
nipote delle sedie, fratelli dei letti,
povero dei cucchiai e delle forchette!
Povero me, abbandonato dalla natura!

Il picchio si avvicinò al mio quaderno,
sgranò contro di me la sua feroce risata
e come pietra che cadde dal cielo
ruppe le vetrerie dell’infinito.
Addio
treno torrenziale, lampo sonoro!

Sistemo la carta, inseguo il tafano,
cammino verso il basso affondando nel tappeto del muschio
e lascio dietro queste montagne cristalline.

Dal lago Rupanco al centro dell’isole Altuehuapi, circondato da acqua e silenzio,
emerge come una corona fragrante e florida intrecciata dai mirti,
eretta da roveri, maitene, alberi della cannella,
colihue, copihue
e dal fogliame dei noccioli spezzati da tagliatori celesti,
popolata dalle gigantesche pinete irsute delle araucarie,
mentre le api nell’affollamento nuziale dei fiori dell’
ulmo
crepitano aleggiando la luce increspata della monarchia nella selva
sopra colossali felci che muovono lo smeraldo freddo dei loro ventagli.

Oh smantellato silenzio di quel continente piovoso
sotto le cui campane di pioggia nacque la verità del mio canto,
qui nell’ombellico dell’acqua recupero il tesoro bruciato
e torno a piangere e a cantare come l’acqua sulle pietre silvestri.

Oh pioggia del lago Rapanco perché mi smentisci nel mondo,
perché abbandoni il mio lignaggio di tavole marce per l’acquazzone?

Adesso cammino calpestando le verdi insegne del muschio
e nei sogni gli scarabei pullulano sotto il mio scheletro.

PUCATRIHUE

A Pucatrihue vive
la voce, il sale, l’aria.

A Pucatrihue.

A Pucatrihue cresce
il pomeriggio come quando
una bandiera
nasce.

A Pucatrihue.

A Pucatrihue un giorno
si perdette e non tornò
dalla selva.

A Pucatrihue.

A Pucatrihue credo
non so perché né quando
nacquero
le mie radici.

Le persi per il mondo.
O le lasciai dimenticate
in un albergo oscuro,
tarlato, d’Europa.

Le cercai tuttavia,
e soltanto trovai le miniere,
i vecchi scheletri
di marmo giallo.

Ahi, Delia, le mie radici
stanno a Pucatrihue.
Non so perché, né come,
né dove, quando, ma
stanno a Pucatrihue.

Si.

A Pucatrihue.

IL LAGO

(Parla il lago Rupanco
tutta la notte, solo.

Tutta la notte lo stesso
linguaggio rumoroso.

Perché, per chi
parla
il lago?

Soave suona nell’ombra
come un salice bagnato.
Con che cosa, con chi conversa
tutta la notte il lago?

Forse parla da solo.

Il lago
conversa con il lago?

Le sue labbra si sommergono,
si baciano sotto l’acqua,
le sue sillabe sussurrano,
parlano.

Per chi? Per tutti?
Per te?
Per nessuno.

Raccolgo sulla riva
di mattina, fiori
danneggiati.

Petali bianchi di
ulmo,
aromi rifiutati
dal viaggiatore dell’acqua.

Forse furono corone
di spose annegate.

Parla il lago, conversa
forse con qualcosa o qualcuno.

Forse con nessuno o niente.

Forse sono di un altro tempo
le sue parole
e nessuno capisce adesso
l’idioma dell’acqua.

Qualcosa vuole dire
l’insistenza sacra
del lago, della sua voce
che si avvicina e si placa.

Parla il lago Rupanco
tutta la notte.
Ascolti?
Sembra che chiamasse
quelli che già non possono
parlare, udire, tornare,
forse a nessuno,
a niente.)

SOLTANTO DI SOLE

Oggi, questo momento, questo oggi scoperchiato, qui fuori,
la felicità offerta allo spazio come una campana,
il contatto del sole con la mia meditazione e la tua fronte
e le reti rotonde che alzò il mezzogiorno
col sole come un pesce palpitando nel cielo.

Beneamata, questo lontano è fatto di spighe e ortiche:
lavorò la distanza la corda del rancore e dell’amore
finché percossero la nave i cani bavosi dell’odio
e consegniamo al mare un’altra volta la vittoria e la fuga.

Conserva l’aria, amore mio, violenta, l’iniziale del dolore sulla terra,
al passare riconosce i tuoi occhi e toccò il tuo sguardo di nuovo
e sembra che il vento di aprile contro la nostra arroganza
se ne vada senza tornare e senza andarsene mai: è lo stesso:
è lo stesso che aprì lo sguardo totale di vetro di questo giorno,
rovesciò nel rettangolo un grappolo di api
e creò nello zaffiro la moltiplicazione delle rose.

Benamata, il nostro amore, che cercò le intemperie, naviga
nella luce conquistata, nel vertice delle sfide,
e non c’è ombra che si trascina nei dormitori del mondo
che copra questa spada conficcata nella spuma del cielo.

Oh, acqua e terra sei tu, sortilegio di orologeria,
convenzione della torre marina con la creta del mio territorio!

Beneamata, la fortuna, il colore dell’amore, la statua del sud nella pioggia,
lo spazio per te riunito per soddisfazione dei miei baci,
la grandiosa onda fredda che rompe il suo sfarzo acceso di amaranto,
e io, oscurato dal tuo splendore cereale,
oh amore, mezzogiorno di sale trasparente, Matilde nel vento,
possediamo la forma di frutta che la primavera elabora
e persisteremo nei nostri doveri profondi.

Ottavo episodio:

SANTOS RIVISITATO
(1927-1967)

I

Santos, È in Brasile, ed ha quaranta anni.
Qualcuno accanto a me dice “Pelé è un superuomo”,
“Non sono un tifoso, ma alla televisione mi piace”.
Prima era selvatico questo porto e odorava
come una ascella del Brasile caloroso.
“Caio de Santa Marta”. È una nave ed è un’altra, mille navi!
Adesso i frigoriferi formano cattedrali
di un bel grigio, e sembrano
giochi di dadi di dei i bianchi edifici.
Il caffè e il sudore crescono fino a creare le prue,
il pavimento, le abitazioni rettilinee:
quanti grani di caffè, quante gocce salmastre
di sudore? Forse il mare
si riempirebbe, ma la terra no, mai la terra, mai soddisfatta,
affamata sempre di caffè, assetata
di sudore negro! Terra maledetta, spero
che scoppi un giorno, di alimenti, di cacchi masticati,
e di eterno sudore di uomini che già morirono
e furono rimpiazzati per continuare a sudare.

II

Quel Santos di un giorno di giugno, di quaranta anni di meno,
torna a me come un triste odore di tempo e banana,
con un odore di banana putrida, letame d’oro,
e una rabbiosa pioggia calda sopra il sole.
I tropici mi sembravano infermità del mondo,
ferite pullulanti della terra. Addio
nozioni! Imparai il calore
come si imparano le lacrime, di soprassalto:
imparai i mesi del monsone e la insensata
fragranza del mango di Mandalay (penetrante
come freccia veloce di avorio e guancia),
e rispettai i tempi sporchi dei miei simili,
scuri come io stesso, idolatri come tutti gli uomini.

III

Quando tu facesti, quando io feci il viaggio dell’amore,
amore, Matilde, il mare o la tua bocca rotonda
sono, siamo l’ora che emanò allora,
e ogni giorno corre cercando l’anniversario.

IV

Santos, oh disonore dell’oblio, oh pazienza
del tempo, che non soltanto passò
ma che portò navi bianche, verdi, sottili
e il tremore della foresta si fece ferruginoso.

V

Capisco che ho ascoltato la sfera ponendo l’orecchio in un punto
e a volte odo soltanto un rumore di maree o api:
perdono se non potei e a tempo ascoltare questa locomotiva
o il fragore spaziale della nave che esplode nel suo uovo di acciaio
e che sale sibilando tra costellazioni e temperature:
perdonino se alcuni giorni non vidi la crescita degli edifici
perché stavo guardando crescere un albero, perdono.
Tratterò con rispetto quelle città che fuggirono dalla mia anima
e si armarono di dure pareti, ascensori altezzosi,
lasciandomi fuori nella pioggia, dimenticato negli anni assenti,
adesso che torno da allora mi tolgo il cappello, e sorrido
salutando questo grande splendore senza desiderio né invidia:
sentendomi vivo come una arancia tagliata conserva nella sua metà d’oro l’intatto vestito di ieri
e nell’altra parte rispetto il cemento crescente.

CONTINUA LA BARCAROLA:

ANDATA E RITORNO

Celebro il messaggio indiretto e la coppa della tua trasparenza
(quando a Valparaíso incontrasti i miei occhi perduti)
perché io alla distanza chiusi lo sguardo cercandoti, amata,
e mi tormentai io stesso lasciandoti sola.

Un giorno, un cavallo che incrocia il cammino del tempo, un falò
che lascia sulla sabbia carboni notturni come bruciature
e sconquassato, senza vedere né sapere, prigioniero della mia breve disgrazia,
aspetto che torni non appena sei partita dalle nostre spiagge.

Celebro questi passi che non distinsi dai tuoi passi delicati,
la farina incitante che tu risvegliasti nelle panetterie
e in quella goccia di pioggia che mi dedicavi
scoprii, nel raccoglierla sulla costa, il tuo volto racchiuso dall’acqua.

Non devo scendere dalle dune né vedere l’alveare della pescheria,
non capisco perché spiare le balene che l’autunno attira a Quintay
dalle loro spaziose abitazioni e procreazioni antartiche:
la natura non può mentire ai suoi occhi e aspetto:
aspetta, ti aspetto. E se arrivi, l’ombra metterà nel suo emisfero
una chiarezza di violette che non conobbe la notte.

Nono episodio:

PARLA UN PASSANTE DALLE AMERICHE
CHIAMATO CHIVILCOY

I

Io cambio rotta, impiego, bar e nave, capello,
negozio e moglie, lancinante, ex professo non esisto,
forse sono
mexibiano, argentuayo, bolivio,
caribian, panamante, colomvenecilenomalteco
:
imparai nei mercati a vendere e comprare camminando:
mi iscrissi ai partiti dispari e cambiai di camicia stimolato
dalle necessità rituali che lasciano alla merda la ripugnanza
e confesso di sapere più di tutti senza aver appreso:
quello che ignoro non vale la pena, non si paga nella piazza, signori.

Abituato a scarpe rovinate, cravatte logore, attenzione,
almeno lo pensino porto un gran solitario a un dito
e mi stirano da dentro e di fuori, mi profumano, mi curano, mi pettinano.

Mi sposai in Nicaragua: domandino loro al generale Allegado
che ebbe l’onore di essere suocero del suo servitore, e più tardi
in Colombia fui sposo legittimo di una Jaramillo Restrepo.
Se i miei matrimoni terminano cambiando di clima, non importa,
(Parlando tra uomini: La mia creola di Tambo! Qualcosa di serio nel letto).

II

Vendetti burro e chancaca nei porti peruviani
e medicamenti da un villaggio all’altro della Patagonia:
sto arrivando da vecchio nelle brutte pensioni senza soldi, passando per ricco,
e passando per povero tra ricchi, senza aver guadagnato né perduto niente.

III

Dalla finestra che mi appartiene nella vita
vedo lo stesso giardino polveroso di terra meschina
con cani erranti che orinano e continuano a cercare la felicità,
o escrementatori e erotici gatti che non si interessano delle vite altrui.

IV

Io sono quell’uomo rodato da tanti chilometri e senza esistenza:
sono pietra in un fiume che non ha nome sulla mappa:
sono il passeggero degli autobus consumati di Oruro
e sebbene appartenga alle birrerie di Montevideo
sulla Boca andavo vendendo chitarre del Cile
e senza passaporto entravo e uscivo dalle cordigliere.
Suppongo che tutti gli uomini lascino bagagli:
io vado a lasciare come eredità lo stesso che il cane:
è quello che portai tra le gambe. i miei beni sono quelli.

V

Scompaio appaio con un altro sguardo: è lo stesso.
Sono un eroe imperituro: non ho inizio né fine
e la mia moralità consiste in un piatto di pesce fritto.

CONTINUA LA BARCAROLA:

SPIEGAZIONE

Per questo paese, per queste giare di creta:
per questo giornale sudicio che vola col vento nella spiaggia:
per queste terre sgretolate che aspettano un fiume in inverno:
voglio chiedere qualcosa e non so a chi chiederlo.

Per le nostre città pestilenti e violente, dove tuttavia ci sono
scuole con campane e cinema pieni di sogni,
e per i pescatori e per le pescatrici degli arcipelaghi del sud
(dove fa tanto freddo e dura tutto l’anno)
voglio chiedere qualcosa ora, e non so che chiedere.

E già sa che i vulcani erranti delle età precedenti
si unirono qui come tendoni di circo
e rimasero immobili sul territorio:
quelli che qui sono nati ci abituarono al fuoco
che illumina la neve come una coda di cometa.

Ma dopo la terra si trasforma in cavallo
che si scuote come se si scottasse vivo
e cadiamo ruzzoloni dal pianeta alla morte.

Voglio chiedere che non si muova la terra.

Siamo tanto pochi quelli che qui siamo nati.

Siamo tanto pochi quelli che soffriamo
(e meno ancora lo diciamo qui nelle cordigliere),
ci sono tante cose da fare qui tra la neve e il mare:
anche i bambini scalzi passano da inverno a inverno:
non hanno tetti contro la pioggia, mancano di vestiti e cibo:
e così si spiega che io abbia qualcosa da chiedere
senza saper bene a chi né come farlo.

(Quando la memoria di quello che fui si cancella
con la ripetizione dell’onda sulla sabbia
e non ricordo nessuno che lo fa o non lo fa,
voglio che mi perdonino anticipatamente,
non ebbi mai tempo di fare o non fare niente:
perché la vita intera me la passai chiedendo,
perché gli altri qualche volta potessero
vivere tranquilli.)

Decimo episodio:

L’ASTRONAUTA

I

Se mi trovai in queste regioni riconcentrate e calcaree
fu per errore di padre o di madre sul mio pianeta:
mi annoiarono tanto gli uni come gli altri inclementi:
tirai un bidone ai puri, scatenai certa pazzia
e continuai a fare regali alagli ostili.

II

Arrivai perché mi invitarono a una stella da poco aperta:
Leonov mi aveva detto che attraverseremmo colori
di zolfo immenso e amaranto, fuoco furioso di turchese,
zone insolite d’argento come specchi effervescenti
e quando mi trovai solo sopra la calvizie del cielo
in questa zona simile alla estensione di Antifagasta,
alla solitudine di Atacama, alle alture della Mongolia,
mi denudai per vivere nel calore del mondo vergine,
del mondo vecchio di una stella che agonizzava o che nasceva.

III

Non mi mancava il vestito né il linguaggio, raccolsi
un soavissimo, metallico fiore, una rosa la cui rugiada
cadde perforando il suolo come un torrente di mercurio
e per quell’alveo ascoltai di grotta in grotta la rugiada
discendere le scalinate di cristallo addormentato e consumato.
Consumato da chi? Dai sogni? Dalla vita con cognome?
Da animali o persone, elefanti o analfabeti?
E subito mi sorpresi a cercare ancora con tristezza
la identità, la storia, il conto di quello che lasciai sulla terra.

IV

Forse qui con queste rughe, sotto queste croste steppose,
sotto il vulcanico stendardo delle ceneri celestiali
esistette o esiste l’invidia che mi morse per le strade
terrestri, come un caimano da quaranta code putride?
Qui allora prospererà il cannibale parassitario,
il cinico, il frivolo chiacchierone sostenuto dai suoi cosmetici?

V

Ma incontrai soltanto le ossa del silenzio carbonizzato:
cercando discesi gli strati di mortifera astrologia:
iguane morte forse erano le vestigia di polvere,
età che si triturarono e restava solo il fulgore
e era tutta la stella quella come una antica farfalla
dalle ancestrali ali che appena toccare svanivano
ed appariva allora un foro di metallo,
una grotta nel cui passato brillavano le pietre del freddo.

VI

Mi persi per le gallerie del sole forse abbattuto
e sulla luna senza cuore con i suoi specchi tarlati
e come nella sicurezza del mio paese insicuro
qui nel mezzo mi guidavano i piedi della scoperta.

Ma non trovai come lodare l’alabastro che scorreva
liquefatto, per le gole di pietra pomice astringente,
e come, con chi parlare del tesoro scuro che figgiva
con il fiume di giaietto per le strade cicatrizzate?

VII

Poco a poco il silenzio mi fece un Robinson pauroso
senza vestito ma senza fame, senza sete perché per i pori
la luce minerale nutriva e umidificava, ma poco
a poco il pianeta mi staccò dalla mia lingua,
e errai senza idioma, oscuro, per le sabbie del silenzio.

Oh solitudine spaziale del silenzio! Si dissolve
il rumore del cuore e quando di soprassalto
udii un silenzio sotto l’altro silenzio maggiore:
dimagrii fino ad essere soltanto silenzio in quel quartiere del cielo
dove caddi e fui sotterrato da un alveo silenzioso,
da un gran fiume di smeraldi che non sapevano cantare.

CONTINUA LA BARCAROLA

LE OFFERTE

Da oggi ti proclamo estiva, figlia d’oro, tristezza,
quello che chiede il tuo essere piccolo dell’antico universo.

Beneamata, ti do o ti nego, nella coppa del mondo:
nonostante quello che esplora la larva nel suo tunnel stretto
o quello che decifra l’astronomo nella pace parabolica
o quella repubblica di tristi statue che piangono accanto al mare
o il peso nuziale dell’ape carica di oro odoroso
o la collezione delle foglie di tutto l’autunno nei boschi
o un filo dell’acqua sulla pietra che c’è nel mio paese natalizio
o un sacco di frumento trascinato da quattro ladroni affamati
o un trono di vimini tessuto dagli eleganti ragni di Angol
o un paio di scarpe tagliate in pietra di luna
o un uovo nato dal condor delle cordigliere del Cile
o sette sementi di erba fragrante cresciuta sulla riva del fiume Ralún
o il fiore speciale che si apre nelle nubi a causa del fumo
o il rito degli araucani con un cavallino di pertica nella selva
o quel treno che persi in California e trovai nel deserto di Gobi
o l’ala dell’uccello di fuoco nella cui ancestrale battuta di caccia
andavo perduto nel sud e dimenticato per tutto l’inverno
o la matita marina capace di scrivere sulle onde
o quello che tu chiedi o quello che non chiedi ti do o ti nego
perché le parole stanno aprendo il castello, e chiudiamo gli occhi.

Undicesimo episodio:

LA MASCHERA MARINA

Scivola nell’umida somma la luna
sorteggiando il salone con la sua sussurrante uscita
gli uccelli del soave solstizio i voli si alzarono
e il sole dell’aurora sorgeva nella zuppa del mare
la zuppa del mare zuppa nera passò per l’ombra
sembra che si apra una cassa se sale l’aurora
come un ventaglio chiuso è il sole nel suo cielo
uscì dalla cassa la luce della cassa di Jacaranda
uscì profumata la luce uscì arancione la luce uscì luce
ventaglio era allora sopra splendore era fredda speranza
e io cancello che cancello la nave e non volo né corro né nuoto
io nella prua celeste d’accordo azzurrina amaranto d’accordo
d’accordo con il ventaglio crescente d’accordo pioveva all’improvviso
e statua di sale trasparente nella pioggia o violacea signora
offrì il mio crepuscolo al vento alla notte che mi divorava
e seguii seguii sola nella notte nel giorno nudo turgido
era il mare della nave la rotta la linea la stessa salamoia
e un altro giorno un’altra crepa nelle mie mani nel mio vestito
io non guardo i porti ho chiuso gli occhi al male
amo il solo elemento la luce che trapassa le lance del freddo
cresce il sole allo zenit uva a uva fino a essere un grappolo
e di notte l’ombra fa scivolare la luna nel vino
il mare alcool del pianeta la rosa che bolle e l’acqua che arde io seguo io sommo
non muovo gli occhi non canto non ho parole non sogno
mi muovono mi cantano mi suonano mi sommerge l’onda
spruzza solleva la mia sventurata testa nell’eterna intemperie
io vivo nel grande movimento del mondo sulla nave
sono parte incessante della direzione dell’essenza
non ho contratto firmato con gocce di sangue né regina né schiava
io so che armatori riempiti pagarono dolori con dollari
la barca la bianca vestita la Venere della baleniera
le vele al vento sopra la folla del mare fino al Cile
ma quelle monete caddero nei salvadanai del padre artigiano
e subito girarono pagando feretri bottiglie scarpe scuole o fiori
io fui liberato e entrai nella nave senza debito di sangue
non compro l’aurora non salgo non muovo le braccia non regno
e soltanto obbedisco al battito di acqua sulla prua come una mela
obbedisce alla linfa che sale e naviga nell’albero della primavera
il sangue cetaceo lo sperma violetto dell’assassinato nelle onde
non vedo né il cerchio freddo del duro petrolio nel vento
né il pesce strappato a una mano e partito per una beccata
senza dubbio un cammino di sangue solcò la salamoia
udii lo spaventoso silenzio dopo le fiamme dell’artiglieria
sul territorio innocente altri uomini vestiti d’oro
con maschere bianche mettevano in catene i loro simili
correvano ululando mogli tra i castighi morivano d’amore e di violenza
le reti salivano colme di oscuri sguardi e mani ferite
io vidi dissanguarsi i fiumi dei territori e seppi come piangono le pietre
oh raggio del mare spaventa i tuoi occhi castiga i crudeli
diceva la terra e il mare continuò e portò il movimento al mio petto
e io mi associo al cammino i miei occhi non sanno piangere
sono soltanto una forma nella luce una vertebra dell’allegoria.

LA BARCAROLA TERMINA:

SOLO DI SALE

(All’improvviso il giorno rapido si trasformò in tristezza
e così la barcarola che cresceva cantando
si calma e rimane la voce senza movimento.)


Saprete che in quella regione che attraversavo con paura
contraeva la notte i rumori segreti, l’ombra selvatica,
e io mi trascinavo con gli autobus nel misterioso universo:
Asia scura, tenebra del bosco, cenere sacra,
e la mia gioventù tremante con ali di mosca
saltava da qui a là per regni oscuri.

All’improvviso si immobilizzarono le ruote, scesero gli sconosciuti
e lì mi fermai, occidentale, nella solitudine della selva:
lì senza uscire da quel carro perduto nella notte,
con venti anni di età aspettando la morte, rifugiato nella mia lingua.

All’improvviso un tamburo nella selva, una fiaccola, un rumore del percorso,
e quelli che predestinai come miei assassini
ballavano lì, sotto il peso dell’oscurità della selva,
per intrattenere il viaggiatore perduto in remote regioni.

Così quando tanti presagi conducevano alla fine della mia vita,
gli alti tamburi, le trecce floride, le scintillanti caviglie
danzavano sorridendo e cantando per uno straniero.

Ti canto questo racconto, amor mio, perché l’insegnamento
dell’uomo si compie malgrado lo strano abbigliamento
e lì si fondarono in me i principi dell’alba,
lì si risvegliò la mia ragione alla fraternità degli uomini.

Fu in Vietnam, in Vietnam nell’anno millenovecentoventotto.

Quaranta anni dopo la musica dei miei compagni
arrivò il gas assassino bruciando i piedi e la musica,
bruciando il silenzio rituale della natura
incendiando l’amore e uccidendo la pace dei bambini.

Maledizione all’atroce invasore! dice adesso il tamburo riunendo
il piccolo paese al nodo della sua resistenza.

Amor mio, cantai per te i trascorsi del mare e del giorno,
e fu sonnolenta la luna della mia barcarola nell’acqua
perché lo ordinò il sistema della mia simmetria
e il bacio incitante della primavera marina.
Ti dissi: a portare per il mondo dei viaggi i tuoi occhi amati!
La rosa che sul mio cuore stabilisce il suo paese fragrante!
E, dissi, ti do inoltre il ricordo di picari e eroi,
il tuono del mondo accompagna con il suo potere i miei baci,
e così la barca traghettatrice scivola sulla mia barcarola.

Ma anni impuri, il sangue dell’uomo distante
ricade nella schiuma, ci macchia nell’onda, colpisce la luna: sono nostri,
sono i nostri dolori quei distanti dolori
e la resistenza dei distrutti è parte concreta della mia anima.

Forse questa guerra se ne andrà come quelle che ci condivisero
lasciandoci morti, uccidendoci con quelli che uccisero
ma il disonore di questo tempo ci tocca la fronte con dita bruciate
e chi cancellerà l’inflessibile che provò il sangue innocente?

Amor mio, lungo la lunga costa
da un petalo all’altro la terra costruisce l’aroma
e già lo stendardo della primavera proclama
la nostre eternità non per breve e meno lacerante.

Se la nave nel suo dominio mai ritorna con dita intatte,
se la barcarola continuava la sua rotta nel tuono marino
e se la tua cintura dorata versò la sua bellezza nelle mie mani
qui sottomettiamo in questo ritorno del mare, il destino,
e senza più esame adempiamo con la fiammata.

Chi ode l’essenza segreta della successione,
della successiva stazione che ci riempie di sole o di pianto?
Sceglie la terra silenziosa una foglia, l’ultima ramificazione
e cade nell’altezza gialla come il testimone di un avvenimento.

L’uomo si arrampicò sui suoi motori, si fecero terribili
le opere dell’arte, i quadri di piombo, le tristi statue di filo,
i libri che si dedicarono a contraffare il lampo,
i grandi affari si fecero con macchie di sangue nel fango delle risaie,
e della speranza di molti rimase uno scheletro imprevisto:
la fine di questo secolo pagava nel cielo quello che ci doveva,
e mentre arrivava alla luna e lasciava cadere attrezzi d’oro,
non sapemmo noi stessi, i figli del lento crepuscolo,
se si scopriva un’altra forma di morte o avevamo un nuovo pianeta.

Da parte mia o da parte tua, adempiamo, condividiamo speranze e inverni
e fummo feriti non soltanto dai nemici mortali
ma dai mortali amici (per questo sembrò più amaro),
ma non mi sembra più dolce il mio pane o il mio libro tra tanto:
aggiungiamo vivendo la cifra che manca al dolore
e continuiamo ad amare l’amore e con la nostra diretta condotta
sotterriamo i bugiardi e viviamo con i veritieri.

Amor mio, la notte arrivò galoppando sulle estensioni del mondo.

Amor mio, la notte cancella il segno del mare e la nave scivola e riposa.

Amor mio, la notte incendiò il suo istituto stellato.

E nel vuoto dell’uomo addormentato la moglie navigò sveglia
e discesero i due nel sonno per i fiumi che portano al pianto
e crebbero di nuovo tra gli animali oscuri e i treni carichi di ombra
finché non arrivarono a essere pallide pietre notturne.

È l’ora, amor mio, di allontanare questa rosa ombrosa,
chiudere le stelle, sotterrare la cenere nella terra:
e nella ribellione della luce, svegliare con quelli che svegliarono
o continuare nel sonno raggiungendo l’altra sponda del mare che non ha altra sponda.


Riferimenti

La barcarola. Canzone molto di moda all’inizio del secolo. Può considerarsi anonima.

L’inizio de
La Barcarola apparve pubblicato come frammento con il titolo di “Amori: Matilde” nella quita parte del Memorial de Isla Negra, Sonata crítica. Nelle successive edizioni del Memorial de Isla Negra saranno soppressi i versi che andarono a formare parte del libro La Barcarola.

Ñuble, Quinchamalí. Nella provincia di Ñuble, città di Chillán, nacque Matilde Urrutia, la compagna del poeta. Quinchamalí è un villaggio di questa regione dove si lavora la più bella ceramica popolare del Chile.

Pillanlelbún, Rengo, Rancague, Renaico, Loncoche, Quirihue. Città o villaggi del sud del Cile.

Datitela. Casa della famiglia mántaras sulla spiaggia dell’Uruguay.

“La Chascona” e “La Sebastiana”. Case costruite dal poeta a Santiago e Valparaíso.

Terremoto en Chile. Si tratta del terremoto del 1965 che colpi specialmente la zona di Valparaíso. La residenza del poeta soffrì danni considevoli. Pablo Neruda e Matilde seppero la notizia della catastrofe vicino a Lisbona. Il poeta Aragon, dalla Francia, dedicò con questo motivo e questo tema la sua straordinaria Elégia a Pablo Neruda, Gallimard, 1954.

Rue de la Huchette. Strada del Quartiere Latino che sbocca nel Boulevard Saint Michel a Parigi.

Rubén Azócar (1901-1954). Scrittore cileno, autore del romanzo Gente en la isla. Una grande amicizia lo unì a Pablo Neruda.

Boroa, Lota, Talagante, Angol. Paesi del sud del Cile.

Temuco. Città dell’infanzia del poeta.

Ancud. Porto di Ancud, capitale della provincia di Chiloé.

Tengo el as! Tengo el dos! Tengo el tres! Tengo el rey con la espada en la mano! Ritornello di una canzona creola.

Nahuelbuta. Cordigliera cilena.

Joaquín Murieta. Bandito cileno, Personaggio della leggenda popolare. Visse e morì in California durante l’epoca della scoperta dell’oro.

Arica, Antofagasta, Taltal, Coquimbo, Valparaíso, Quillota. Porti e città del nord cileno.

José Manuel Balmaceda. Presidente del Cile, Periodo 1886-1891.

Lord Thomas Cochrane. Decimo conte di Dundonald (1775-1860). Navigatore scozzese. Fu il primo ammiraglio della Marina del Cile. Le sue azioni di guerra più famose – El Callao, Valdivia – permisero il traffico e commercio di tutele nazioni al sud dell’Oceano Pacifico. Fu perseguitao e incarcerato in Inghilterra prima di entrare al servizio del Cile. Il prologo di questo episodio, “Lord Cochrane de Chile”, è la trascrizione quasi letterale di uno dei suoi discorsi alla Camera dei Comuni (The Autobiography of e Seaman, Londra, Richard Dentley, 1860). Il poeta vuol dire con la trascrizione nel poema di questo discorso di Cochrane, che le persecuzioni sofferte dal grande navigatore ebbero origine politica.

Bernardo O’Higgings (1766-1802), José Miguel Carrera (1785-1821), Manuel Rodríguez (1786-1818. Notabili cileni. Padri della patria.

Lago Rupango. Lago dell’estremo australe del Cile.

Pacatrihue. Villaggio cileno.

José Gervasio Artigas (1774-1850). Notabile uruguayano. Lottò per la separazione dell’Uruguay da quelle che era stato il Vicereame di Río de la Plata, raggiungendo i suoi propositi.

Santos. Porto del Brasile.


Sito Internet di Antonio Giannotti - agg. nr. 39 del 31 lug 2008 | postmaster@antoniogiannotti.it

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