- 1973 - La rosa separata - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1973 - La rosa separata

LA ROSA SEPARATA                  (1973)


INTRODUZIONE AL MIO TEMA

All’isola di Pasqua e alle presente
esco, sazio di porte e di strade,
per cercarvi qualcosa che non persi.
Il mese di Gennaio, secco,
sembra una spiga:
pende dal Cile la sua luce gialla
fino a che il mar non lo cancella
e io esco di nuovo, per tornare.

Statue che la notte costruì
e sgranò in un circolo concluso
perché non le vedesse altri che il mare.

(Ho viaggiato per recuperarle, erigerle
nel mio domicilio scomparso}.

Qui circondato di presente grige,
di bianchezza spaziale, di movimento
azzurro, acqua marina, nubi, pietra,
ricomincio le vite della mia vita.



I
GLI UOMINI

Io sono il pellegrino
dell'Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l'aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar.
Mi confesso: uccidemmo
i velieri a cinque alberi e dalla carne verminosa,
uccidemmo i libri pallidi di marinai calanti,
ci trasferiamo in oche immense d'alluminio,
seduti correttamente, bevendo acide coppe,
scendendo in file di stomachi gentili.


II
GLI UOMINI

È la verità del prologo. Morte al romanticone,
all'esperto in incomunicazioni;
sono uguale alla professoressa di Colombia,
al rotario di Filadelfia, al commerciante
di Paysandú che riunì il danaro
per giungere fin qui. Arrivammo da strade differenti,
da idiomi disuguali, al Silenzio.


IlI
L’ISOLA

Antica Rapa Nui, patria senza voce,
perdona a noi chiacchieroni del mondo
che d'ogni parte siam venuti a sputar sulla tua lava,
siam giunti pieni di conflitti, di dissidi, di sangue,
di pianto e digestioni, di guerre e di pesche,
in piccole file d'inimicizia, di sorrisi
ipocriti, riuniti dai dadi del cielo
sopra la tavola del tuo silenzio.

Una volta di più siam venuti a macchiarti.

Saluto prima il cratere, Ranu Raraku, le sue palpebre
di fango, le vecchie labbra verdi:
è ampio, e alti muri lo cingono, lo chiudono,
ma laggiù l'acqua, meschina, sudicia, nera,
vive, comunica con la morte
come un'iguana immobile, sonnolenta, nascosta.

Io, apprendista di vulcani, conobbi,
ancor fanciullo, le lingue dell'Aconcagua,
il vomito acceso del vulcano Tuonante,
nella notte spaventosa vidi cadere
la luce del Villarica fulminando le vacche,
torrenziale, bruciando piante e accampamenti,
crepitare precipitando rocce nel rogo.

Ma se qui m'avesse lasciato la mia infanzia,
in questo, vulcano morto da mill'anni,
in questo Ranu Raraku, ombelico della morte,
avrei ululato di terrore e avrei obbedito:
avrei trascorso la mia vita in silenzio,
sarei caduto nel terrore verde, nella bocca del cratere sdentato,
trasformandomi in fango, in lingue dell'iguana.

Silenzio depositato nella conca, terrore
della bocca lunare, c'è un minuto, un'ora
pesante come se il tempo trattenuto
s'andasse a trasformare in pietra immensa:
è un momento, presto
il tempo dissolve anche la nuova statua impossibile,
e resta immobile il giorno, come un carcerato
dentro il cratere, dentro il carcere del cratere,
dentro gli occhi dell'iguana del cratere.


IV
GLI UOMINI

Siamo maldestri noi passanti, ci investiamo coi gomiti,
coi piedi, i pantaloni, le valige,
scendiamo dal treno, dal jet, dalla nave, scendiamo
con vestiti stropicciati e cappelli funesti.
Siamo colpevoli, siamo peccatori,
giungiamo da hotels chiusi o dalla pace industriale,
questa è forse l'ultima camicia pulita,
abbiam perduto la cravatta,
ma anche così, fuor di noi, solenni,
figli di puttana considerati nei migliori ambienti,
o semplici taciturni che nulla dobbiamo a nessuno,
siamo gli stessi e la stessa cosa davanti al tempo,
davanti alla solitudine: poveri uomini
che si guadagnaron la vita e la morte lavorando
in modo normale e burotragico,
seduti o ammassati nelle stazioni della metropolitana,
sulle navi, nelle miniere, nei centri di studio, nelle carceri,
nelle università, nelle fabbriche di birra,
(sotto i vestiti la stessa pelle assetata),
(i capelli, gli stessi capelli, suddivisi per colore).


V
L'ISOLA

Tutte le isole del mare le fece il vento.

Ma qui, il coronato, il vento vivo, il primo,
fondò la sua casa, chiuse le ali, visse:
dalla minuscola Rapa Nui distribuì i suoi domini,
soffiò, inondò, manifestò i suoi doni
verso l'Ovest, verso l'Est, verso lo spazio compatto
fino a che stabilì dei germi puri,
fino a che incominciaron le radici.


VI
L'ISOLA

Oh Melanesia, spiga possente,
isole del vento genitale, create,
poi moltiplicate dal vento.

D'argilla, boschi, fango, da seme che volava
nacque la collana selvaggia dei miti:
Polinesia: pepe verde, sparso
nell'area del mare dalle dita erranti
del padrone di Rapa Nui, il Signor Vento.
La prima statua fu d'arena bagnata,
egli la formò e la disfece allegramente.
La seconda statua la costruì di sale
e il mare ostile l'abbattè cantando.
Ma la terza statua che fece il Signor Vento
fu un moai di granito, e questo sopravvisse.

Quest'opera che lavorarono le mani dell'aria,
i guanti del cielo, la turbolenza azzurra,
questo lavoro fecero le dita trasparenti:
un dorso, l'erezione del Silenzio nudo,
lo sguardo segreto della pietra,
il naso triangolare dell'uccello o della prua
e nella statua il prodigio d'un ritratto:
perché la solitudine ha questo volto,
perché lo spazio è questa rettitudine senz'angoli,
e la distanza è questa chiarità del rettangolo.



VII
L'ISOLA

Quando proliferarono i colossi
e camminarono eretti
fino a popolare l'isole di nasi di pietra
e, attivi, destinarono discendenza: figli
del vento e della lava, nipoti
dell'aria e della cenere, percorsero
con grandi piedi l'isola:
mai lavorò tanto
la brezza con le sue mani,
il ciclone col suo crimine,
la persistenza dell'Oceania.

Grandi teste pure,
alte di collo, gravi di sguardo,
gigantesche mandibole erette
nell'orgoglio della loro solitudine,
presenze,
presenze altere,
preoccupate.

Oh gravi dignità solitarie
chi ardì, chi ardisce
domandare, interrogare
le statue interrogatrici ?

Sono l'interrogazione disseminata
che supera la strettura esatta,
la piccola cintura dell'isola
e si dirige al grande mare, al fondo
dell'uomo e della sua assenza.

Alcuni corpi non riuscirono a ergersi:
le loro braccia rimasero ancora senza forma, sigillate
nel cratere, dormendo,
ancora coricate nella rosa calcarea,
senza sollevar gli occhi verso il mare
e le grandi creature dal sonno orizzontale
sono le larve di pietra del mistero:
qui le lasciò il vento quando fuggì dalla terra:
quando cessò di procreare figli di lava.



VIII
L'ISOLA

I volti sconfitti nel centro,
rotti e caduti, coi loro grandi nasi
affondati nella crosta calcarea dell'isola,
i giganti chi indicano ? Nessuno ?
Una strada, una strana strada di giganti:
lì rimasero rotti quando avanzarono, caddero
e lì resta il loro peso prodigioso caduto,
baciando la cenere sacra, ritornando
al magma natale, malconci, coperti
dalla luce oceanica, dalla breve pioggia, dalla polvere
vuIcanica, e più tardi
da questa solitudine dell'ombelico del mondo:
la solitudine rotonda di tutto il mare riunito.

Sembra strano veder vivere qui, dentro
il circolo, contemplare le aragoste
rosee, ostili cadere nelle casse
dalle mani dei pescatori,
e questi, affondare i corpi nuovamente nell'acqua
aggredendo le grotte della loro mercanzia,
veder le vecchie rammendare i pantaloni sciupati
dalla povertà, vedere tra i fogliami
il fiore d'una donzella che sorride a se stessa,
al sole, al mezzogiorno tintinnante,
alla chiesa del padre Englert, lì sotterrato,
sì, sorridendo, colma di questa gioia remota
come una piccola brocca che canta.



IX
GLI UOMINI

A noi insegnarono a rispettar la chiesa,
a non tossire, a non sputare nell'atrio,
a non lavare i panni sull'altare
e non è così: la vita rompe le religioni
e quest'isola in cui abita il Dio Vento
è l'unica chiesa viva e veritiera:
vanno e vengono le vite, morendo e fornicando:
qui nell'Isola di Pasqua dove tutto è altare,
dove tutto è officina dell'ignoto,
la donna allatta la sua nuova creatura
sugli stessi gradini che calpestarono i suoi dèi.

Venite qui, a vivere! Ma anche noi?
Noi, passanti che abbiam sbagliato la stella,
naufragheremmo nell'isola come in una laguna,
in un lago in cui tutte le distanze finiscono,
nell'avventura immobile più difficile dell'uomo.



X
GLI UOMINI

Sì, simili disillusi, prima di tornare
all'ovile, all'alveare delle tristi api,
turisti convinti di tornare, compagni
di strada nera con case d'antichità
e latte di immondizie, fratellastri
del numero trentatremila quattrocento ventisette,
piano sesto, appartamento a, bi o ci
davanti al negozio « Astorquiza, Williams e Compagnia »
sì, povero fratello mio che sei me,
ora che sappiamo che non resteremo
qui, neppure condannati, che sappiamo
fin da oggi, che questo splendore ci va grande,
la solitudine ci stringe come il vestito d'un bimbo
che cresce troppo o come quando
l'oscurità s'impadronisce del giorno.



XI
GLI UOMINI

Si vede che siamo nati per ascoltarci e osservarci,
per misurarci (quanto saltiamo, quanto guadagnamo, guadagnamo, eccetera),
per ignorarci (sorriderci), per mentirci,
per raccordo, per la differenza o per
mangiare insieme.
Ma che nessuno ci mostri la terra, acquistammo
oblio, oblio verso i sogni d'aria,
e solo ci restò un sapore di sangue e di polvere
sulla lingua: inghiottimmo il ricordo
tra vino e birra, lungi, lungi da quella:
lungi da quello, dalla madre, dalla terra della vita.



XII
L'ISOLA

Austeri profili di cratere lavorato, nasi
nel triangolo, volti di duro miele,
silenziose campane il cui suono
se n'andò verso il mare per non tornare, mandibole, sguardi
di sole immobile, regno
della gran solitudine, vestigio
verticali:
io sono il nuovo, l'oscuro
son di nuovo il radiante:
son venuto forse a rispendere,
voglio lo spazio igneo
sena passato, il furgore,
l’Oceania, la pietra e il vento
per toccare e vedere, per costruire di nuovo,
per sollecitare in ginocchio la castità del sole,
per scava con le mie povere mani insanguinate il destino.



XIII
GLI UOMINI


Giungemmo fin laggiù, fino laggiù
per intendere l’orbite di pietra,
gli occhi spenti che ancora continuano a guardare,
i grando volti disposti per l’eternità.



XIV
GLI UOMINI

Come siam lontani, lontani, lontani,
ci allontaniamo dalle dure maschere
erette nell'alto silenzio e ce n'andremo
nel loro orgoglio avvolti, nella distanza.

Perché siamo venuti all'isola?
Non sarà il sorriso degli uomini fioriti,
né saran i fianchi crepitanti d'Ataroa la bella,
né i ragazzi a cavallo, dagli occhi impertinenti,
ciò che tornando con noi recheremo,
ma un vuoto oceanico, una povera domanda
con mille risposte di labbra sdegnose.



XV
GLI UOMINI

II passante, il viandante, il soddisfatto,
torna alle sue ruote a rotolare, ai suoi aerei,
ed è finito il silenzio solenne, è necessario
lasciare indietro quella solitudine trasparente
d'aria brillante, d'acqua, d'erba dura e pura,
fuggire, fuggire, fuggire dal sale, dal pericolo,
dal solitario circolo nell'acqua
da dove gli occhi vuoti del mare,
le vertebre, le palpebre delle statue nere
morsero lo spaventato borghese delle città:

Oh Isola di Pasqua, non mi prendere,
c'è troppa luce, sei molto lontana,
e quanta pietra e acqua:
too much for me! Ce n'andiamo!



XVI
GLI UOMINI

Lo stanco, l'orfano
delle moltitudini, l'io,
il triturato, quello del cemento,
l'apatrida dei ristoranti pieni,
colui che voleva andare sempre più lontano.
non sapeva che fare nell'isola, voleva
e non voleva restare o ritornare,
il vacillante, l'ibrido, l'impigliato in se stesso
qui non ebbe posto: la rettitudine di pietra,
lo sguardo infinito del prisma di granito,
la solitudine piena lo espulsero:
se n'andò con le sue tristezze a un'altra parte,
ritornò alla native agonie,
alle indecisioni del freddo e dell'estate.




XVII
L'ISOLA

Oh torre della luce, triste bellezza
che dilatò nel mare statue e collane,
occhio calcareo, insegna dell'acqua estesa, grido
della procellaria luttuosa, dente del mare, sposa
del vento d'Oceania, oh rosa separata
dal tronco del roseto spezzato
che la profondità convertì in arcipelago,
oh stella naturale, diadema verde,
sola nella tua solidaria dinastia,
irraggiungibile ancora, evasiva, deserta
come una goccia, come un'uva, come il mare.



XVIII
GLI UOMINI

Come qualcosa che esce dall'acqua, qualcosa d'ignudo, d'invitto,
palpebra di platino, crepitazione di sale,
alga, pesce tremante, spada viva,
io, fuori dagli altri, mi separo
dall'isola separata, me ne vado
avvolto nella luce
e sebbene appartenga ai greggi,
a quelli che entrano ed escono in branco,
al turismo egualitario, alla prole,
confesso la mia tenace adesione al terreno
sollecitato dall'aurora dell'Oceania.



XIX
GLI UOMINI

Torniamo frettolosi ad attendere nomine,
esasperanti pubblicazioni, discussioni amare,
fermenti, guerre, malattie, musica
che ci attacca e colpisce senza tregua,
entriamo nei nostri battaglioni di nuovo,
benché tutti s'unissero per dichiararci morti:
siam qui di nuovo col nostro falso sorriso,
dicemmo, esasperati davanti al possibile oblio,
mentre là nell'isola senza palme,
là dove si stagliano i nasi di pietra
come triangoli tracciati a pieno cielo e sale,
là, nel minuscolo ombelico dei mari,
lasciammo dimenticata l'ultima purezza,
lo spazio, lo stupore di quelle compagnie
che innalzano la loro pietra nuda, la loro verità,
senza che nessuno ardisca amarle, convivere con esse,
questa è la mia codardia, qui ne lascio testimonio:
non mi son sentito capace che di transitori
edifici, e in questa capitale senza pareti
fatta di luce, di sale, di pietra e di pensiero,
come tutti ho guardato e abbandonato preso da terrore
la limpida chiarità della mitologia,
le statue circondate dal silenzio azzurro.



XX
L'ISOLA

Da altri luoghi (Ceylon, Orinoco, Valdivia)
uscii con liane, con spugne, con fili
della fecondità, con rampicanti
e nere radici dell'umidità terrestre:
da te, rosa del mare, pietra assoluta,
esco pulito, versando la chiarità del vento:
rivivo azzurro, metallico, evidente.



XXI
GLI UOMINI

Dai boschi, dalle ferrovie d'inverno,
io, conservatore di quell'inverno,
del fango
in una strada affaticata, miserabile,
io, poeta oscuro, ho ricevuto in fronte il bacio della pietra
e le mie angosce si son purificate.



XXII
L'ISOLA

Amore, amore, oh separata mia
da tante volte mare come neve e distanza,
minima e misteriosa, circondata
d'eternità, ringrazio
non solo il tuo sguardo di donzella,
la tua bianchezza nascosta, rosa segreta, ma
lo splendore morale delle tue statue,
la pace abbandonata che hai posto nelle mie mani:
il giorno fermo sulla tua gola.



XXIII
GLI UOMINI

Perché se ci ritrovassimo lì
come gli elefanti moribondi
disposti all'ossigeno totale,
se armati i soddisfatti e gli affamati,
gli arabi e i bretoni, quelli di Tehuantepec
e quelli di Amburgo, i duri di Chicago e i senegalesi,
tutti, se comprendessimo che lì tengono le chiavi
della respirazione e dell'equilibrio
fondati sulla verità della pietra e del vento,
se così fosse e corressero le razze spopolandosi
le nazioni,
se navigassimo in frotta verso l’Isola,
se tutti fossero saggi di colpo e accorressimo
a Rapa Nui, la uccideremmo,
la uccideremmo con immense orme, con dialetti,
sputi, battaglie, religioni,
e anche lì terminerebbe l'aria,
cadrebbero al suolo le statue,
diventerebbero legni sporchi i nasi di pietra
e tutto morirebbe amaramente.



XXIV
L'ISOLA

Addio, addio, isola segreta, rosa
di purificazione, ombelico d'oro:
torniamo gli uni e gli altri agli obblighi
delle nostre luttuose professioni e uffici.

Addio, che il grande oceano ti protegga
lungi dalla nostra sterile rozzezza!
È giunta l'ora d'odiare la solitudine:
nascondi, isola, le chiavi antiche
sotto gli scheletri
che ci rimprovereranno finché saran polvere
nelle loro grotte di pietra
la nostra inutile invasione.

Ritorniamo. E questo addio, prodigato e perduto
è uno in più, un addio
senz'altra solennità che quella che lì resta:
l'indifferenza immobile nel centro del mare:
cento sguardi di pietra che guardano verso l'interno
e verso l'eternità dell'orizzonte.

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