- 1970 - La spada di fuoco - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1970 - La spada di fuoco

1970 - LA SPADA DI FUOCO


Cacciò, quindi, fuori l'uomo e
pose all'oriente del giardino del-
l'Eden dei cherubini, e una spada
di fuoco che si volgeva ad ogni
parte per custodire la strada del-
l'albero della vita.

Genesi, III,-24


Argomento

In questa favola si racconta la storia di un fuggitivo dalle grandi devastazioni che distrassero l'umanità, fondatore di un regno situato nelle spaziose solitudini magellaniche, si decide ad essere l'ultimo abitante del mondo, finché appare nel suo territorio una fanciulla evasa dalla città aurea dei Cesari.
Il destino che li portò a confondersi leva contro di essi l'antica spada di fuoco del nuovo Eden selvaggio e solitario.
Nel momento in cui si manifesta la collera di Dio e avviene la sua morte, sulla scena illuminata dal grande vulcano, questi esseri adamici prendono coscienza della loro stessa divinità.



I

II poeta incomincia a cantare

Nella cordigliera necessaria, è certo,
sotto il vulcano dalle sette lingue, là
dove da ogni parte la voce vertiginosa
dell'acqua, figlia nivea, è discesa,
nulla può nascere, se non i giorni nel bosco,
tremanti di freddo e di rugiada.

La volontà dei motori si consumava lontano:
il fumo dei treni andava verso le città,
e io, l'ostinato, il minatore del silenzio,
trovai la zona ombra, il giorno zero,
dove il tempo sembrava ritornare
come un vecchio elefante, o arrestarsi,
forse per morire, forse per continuare,
ma tra notte e notte si preparava il seguente,
il giorno successivo come una goccia.

Inizia qui questa nera sonata.

II

Rhodo e Rosía

Rhodo, petreo patriarca, la vide senza vederla, era
Rosía, figlia cesarea, contadina.

Ampia di seni, breve di bocca e d'occhi,
andava in cerca d'acqua ed era un'anfora,
andava a lavar biancheria ed era pura,
attraversava la neve ed era neve,
era statica come il ventischio,
era invisibile e fragrante Rosía Radice.

Rhodo la destinò, senza saperlo, al silenzio.

Era il cerchio glaciale della natura:
da Aysén al Sud la Patagonia inflisse
le desolate clausole dell'inverno terrestre.

La testa di Rhodo viveva nella bruma,
di cicatrice in cicatrice vulcanica,
senza sosta a cavallo, inseguendo
l'odore, la distanza, la pace delle praterie.

IlI

Apparizione

E fu lì dove lei apparve nuda
tra nevi e fiamme, tra guerra e rugiada,
come se sotto il tetto dell'uragano si accendesse
un volo di colombe perdute nel freddo
e una di esse cadesse contro il petto di Rhodo
e lì fosse esplosa la sua bianchezza.

IV

Dalle guerre

Rhodo il guerriero era emigrato
dagli arenili del Gran Deserto:
visse l'età delle lance verdi, il tuono
della cavalleria, la direzione del fulmine.

Il sangue fu la bandiera del terribile.

La morte l'abbrunì in modo lento
come terra notturna,
finché decise di dedicarsi al silenzio,
alla profondità sconosciuta,
e cercò terra per un nuovo regno,
acque azzurre per lavare il sangue.

(All'estremo del Cile si rompe il pianeta:
il mare e il fuoco, la scienza delle onde,
i colpi del vulcano, il martello del vento,
la dura raffica col suo filo furioso,
tagliarono terre e acque, le separarono: crebbero
isole di fosforo, stelle verdi, canali invitati,
selve come grappoli, roche gole:
in quel mondo di fragranza fredda
Rhodo fondò il suo regno.)

V

Le statue

Le sue settanta mogli s'eran trasformate in sale,
e per i monasteri della natura,
fuoco e rancore, Rhodo contemplò le statue
disseminate nella notte forestale.

Lì età colei che partorì i suoi occhi erranti:
Niobe la rossa, senza più voce né occhi
eretta nel suo oblio di alabastro.

E pure lì prigioniera, Rama, la delicata,
e Beatrice dalla chioma così interminabile
che quando si pettinava pioveva a Rayaruca:
cadeva dalla sua testa pioggia verde,
fibre oscure discendevano dal cielo.
E Rama, colei che rubava la frutta,
arrampicata sull'eccitante tormenta come su un albero
popolato di mele e di lampi.
E Abigail, Teresara, Dafne, Leonessa,
Dolceluce, Lucia, Biancofiore, Loreto,
Cascabela, Cristina, Delgadina,
Incarnazione, Remedios, Caterina, Granata,
Petronilla, Doralisa, Dorata, Dorotea,
lì sotto la volta di quarzo, giacevano
mute, ferruginose, bruciate dalla neve
o innalzavano gambe e seni coperti di muschio,
rose dalle radici di alberi imperiosi.

VI

II solitario

Rhodo, nella solitudine, tra le morte,
copriva il suo cuore con liane indomabili:
nulla voleva di quello splendore:
non aveva colpa per quelle statue spezzate:
esse avevano accompagnato il suo passato
e le loro forme erano nate
come rocce d'agata o come corpi
di cascata nella selva: l'insistenza
che con un fulmine immobile distrugge come il mare.

Ma egli era giunto nell'Araucaria con un compito:
la salute della selva: la verginale essenza
del primo uomo e il suo primo dovere
fu solo un'infinita solitudine.

VII

La terra

Sopra i fogliami di Traihuàn
vola la lentezza dei flamencos
verso le acque di Pichivar e di Longoleo.
La bandurria macchia con canto di cucchiaio
la dolcezza fluviale di queste oceanie,
l'uccello carpentiere distribuisce tra i raulíes
una corrispondenza con gocce di rugiada,
il puma apre gli occhi e svolge la paura:
tutto vive nella selva fredda che assomiglia alla morte:
entro ogni ombra cresce un volo,
gli artigli vivono tra le radici.

VIII

L'amore

Rosía nuda nell'agricoltura intricata,
Rosía bianca e azzurra, fine di petali,
chiara di cosce, cupa di capelli,
s'apri perché Rhodo entrasse in essa
e un rantolo o un tuono
manifestò la terra:
il fiume torrenziale salutava la luna:
due stirpi contrarie s'erano confuse.

E d'improvviso il gigante della gran cordigliera
e la fragranza figlia della neve
si sentirono ignudi e si destinarono:
eran di nuovo due innocenti perduti,
morsi dal serpente di fuoco,
di nuovo soli nel giardino originale.

La rugiada del nuovo giorno si complicò nell'erba,
la nuziale, argenteria che congelò la rugiada
coprì l'immenso letto di Rosía terrestre,
e lei dischiuse nuovamente nel sonno la sua delizia
perché Rhodo penetrasse in essa.

Così fu procreato nella luce fredda
un nuovo mondo interno
come un favo selvatico
e di nuovo l'origine dell'uomo risalì
tutto il fiume segreto delle età morte
a spargere e cantare e tremare e fondare
sotto la possente ombra bianca
dei vulcani e delle lor pietre magnetiche.

IX

Il ritrovamento

II fondatore trattenne il suo passo: Rosía Verde
sembrava un pezzo staccato dalla luna:
un corpo orizzontale caduto dalla notte:
un silenzio nudo tra le foglie.

Rhodo amò di nuovo con tormento,
con cauta furia, con dolore:
ogni ombra nei suoi occhi gli sembrava un ripudio,
e l'immobilità della sua sposa campestre
fece dubitare Rhodo della felicità:
A chi aveva riservato la dolce la sua morbidezza di muschio?
A chi aveva destinato le sue anteriori mani?
A che stava pensando con gli occhi chiusi?
Pretendeva il possesso del suo corpo e del suo miele,
di ogni suo minuto e di ogni suo pelo,
possesso del suo sonno e delle sue palpebre,
del suo sesso fin nel profondo, dei suoi piedi contadini,
di tutto il suo passato, del suo giorno successivo,
delle sue orme sottili nella neve
e mentre più la tenne, divorandola
nell'abbraccio corpo a corpo che li annichiliva,
meno egli sembrava consumarla,
come se la leggiadra dei boschi, l'orfana,
la ragazza casuale con aroma di legna
avesse aperto una ferita come un pozzo ai suoi piedi
e lì cadesse il tuono che egli aveva portato al mondo.

Rhodo riconobbe la sua sconfitta baciando
sulla bocca di Rosía il suo stesso amore selvaggio
e lei vibrò come se la bruciasse
un raggio d'oro che aveva acceso il suo sesso
e passeggiò l'incendio sopra la sua anima.

X

Le fiere

Si desideravano, si raggiungevano, si distruggevano,
s'infiammavano, si spezzavano, cadevano bocconi
l'uno dentro l'altro, in una lotta a morte,
s'impigliavano, s'inseguivano, si odiavano,
si cercavano, si distruggevano d'amore,
tornavano a temersi e a maledirsi e ad amarsi,
si rifiutavano chiudendo gli occhi. E i pugni
di Rosía battevano il muro della notte,
senza dormire, mentre Rhodo dal suo crudele osservatorio
vigilava il pericolo delle fiere sveglie
sapendo che egli recava il puma nel suo sangue,
e un leone agonizzante ululava nella notte senza sonno
di Rhodo, e il mattino gli portava
la sua sposa ignuda, coperta di rugiada,
fresca di neve come una colomba,
incerta ancora tra l'amore e l'odio,
e lì i due incerti risplendevano di nuovo
mordendosi e baciandosi e trascinandosi al letto
dove la furia rimaneva svenuta.

XI

L’uomo

Centotrent'anni aveva Rhodo, il vecchio.
Rosía senza età era una pietruzza
che il vento stesso di Nahuelbuta amara
avrebbe levigato come una mandorla intatta:
era bella e serena come una pietra bianca
tra le braccia di Rhodo, il millenario.


XII

La conoscenza

Donna, disse il signore silvestre,
perché sappiamo che siam nudi?
Tutti i frutti ci appartenevano
e i sette vulcani iracondi han saputo
che senza i tuoi occhi non potevo vivere,
che senza il tuo corpo entravo in agonia
e senza il tuo essere mi sentivo perduto.

Ora la cittadella senza muraglie,
le cascate di sale, la luna sui cipressi,
la selva di rabbiose radici, il silenzio,
le morve stellate, la solitudine vuota,
acquatica, vulcanica, quella che cercai malgrado
e contro me stesso, il regno amaro,
tempestoso, fondato a sole e pioggia,
con le statue morte del passato
e il rumore della primavera nelle api dell'olmo,
il folto che il canto del chucao trapana
come riso o singhiozzo o esalazione o fuga
e i ghiacciai di Ralún, dove inizia
il terribile arcipelago con le sue campane di freddo,
Donna mia, Evarosa, Rosafiore,
s'accommiatano da me, perché sappiamo.

È la selva dell'albero della vita. Il grappolo
di ogni pianta, il peso della frutta selvatica,
ci nutrì d'improvviso, e rimanemmo ignudi
fino a morire d'amore e di dolore.

XIII

La colpa

II dolore fu come un sangue nero
che salì per le vene senza sosta
quando il godimento scendeva dall'albero della vita:
lì stavano i due figli terribili dell'amore sventurato,
in una selva
che d'improvviso s'uni, pietra e rampicanti,
per soffocarli senza rumore d'acqua tra le foglie,
per dar loro tormento in ogni bacio,
per spingerli verso l'uscita glaciale.
Incominciarono con lo sfuggirsi e il chiamarsi,
con l'aggredirsi in piedi e amarsi in ginocchio,
col mordere ogni angolo dei loro corpi amati,
col ferirsi senza tregua fino a morire ogni giorno
senza comprendere, circondati dai boschi ostili
che condivisero qualcosa e non sopravvissero,
qualcosa bevvero che gli bruciò il sangue
e la natura, neve e notte,
li insegui di neve in neve e di notte in notte,
di vulcano in vulcano, di fiume in fiume,
per dar loro la vita o distruggerli insieme.

XIV

II poeta interroga

Colui che conta questa storia ora ti chiede, viandante,
se Dio non visitò le sue patagonie,
se lì, nell'ultimo Eden, quello dei dolori,
nessuno apparve seduto nel cielo,
chi o che cosa, tuono o albero o falso dio,
dettò di nuovo il castigo per gli amanti?

XV

Sopravvissuti

Che cosa era accaduto sulla terra?
È questo l'ultimo uomo o il primo uomo?
In terre sventurate o felici?
Perché fondar l'umanità di nuovo?
Perché saltava il sole di ramo in ramo
fino a cantare con gola d'uccello?
Che debbo fare, diceva il vento,
e perché devo convertirmi in oro,
diceva il grano, non val la pena
giungere al pane senza mani né bocca:
il vuoto terrestre
sta attendendo fuori
o dentro l'uomo:
tutte le guerre ci uccisero tutti,
non restò mai alcun sopravvissuto.

Dalla prima guerra
a pietra e poi
a coltello e a fuoco
nessuno restò vivo:
la morte volle ripetere il suo alimento
e inventò nuovi uomini bugiardi
e questi ora con i loro macchinari
tornarono a morirsi e a morirci.

Caino e Abele caddero molte volte
(assassinati un milione di volte)
(un milione di mascelle
e di dolori)
morirono a revolver e a pugnale,
a veleno ed a bomba,
furono avvolti nello stesso crimine
e sparsero ogni volta tutto il loro sangue.
Nessuno poteva vivere di essi
Perché l'assassinato era colpevole
che suo fratello fosse l'assassino
e l'assassino era morto:
quel guerriero primo
morì anche lui quando uccise il fratello.

XVI

La solitudine

Rhodo lasciando indietro ciò che si chiama il passato
cessò d'essere il complice del crimine, d'un crimine,
di ciò che era stato e non stato, degli altri, di tutti,
e quando si vide macchiato di sangue
remoto o anteriore o presente o futuro
ruppe il tempo e giunse al suo destino,
tornò a essere primo uomo senz'anima insanguinata,
non fuggì: era più semplice di questo:
era di nuovo solo il primo uomo
perché ora nessuno lo amava:
lo ricacciarono le strade oscure,
i palazzi deserti,

Più non poteva entrare nelle città
perché tutti se n'erano andati.
Più nessuno ormai, nessuno aveva bisogno di lui.
E non sapeva bene se era farina oppure cenere
ciò che restava nelle panetterie,
se pesci o serpenti
sul mercato dopo l'incendio,
e se gli scheletri dimenticati nei fossati
erano solo carbone o soldati che arsero.
Il redivivo si mangiò i territori,
primavere ferite, province calcinate:
non ebbe paura, era
uscito da se stesso:
era una creatura
appena creata dalla morte,
era il suono d'una campana rotta
che l'aria sferza come il fuoco,
era condannato a vivere
fuori dell'aria oscura:
e poiché quest'uomo non aveva cielo
cercò l'intricata rosa verde
del territorio segreto:
nessuno lì aveva ucciso una colomba,
né un'ape, né un nardo,
le volpi color fumo bevevano con gli uccelli
sotto la grandezza vergine del nocciolo:
l'albatros regnava sopra le acque dure,
l'uccello carpentiere lavorava nel freddo
e una gran lingua chiara che leccava il pianeta
scendeva dal vulcano verso i ghiacciai.

XVII

Il regno desolato

Guardate il recinto selvaggio
di Rhodo, il fondatore,
l’azione, il vaneggiare
tra fogliame e bestie,
iI Paradiso d'acqua e solitudine
e le statue dell'amore passato
abbandonate persino dai loro sogni:
fino a che l'uomo solo ebbe bisogno di donna
e come ombra prese la sua scienza
di cacciatore maledetto e dimenticato.
più non poteva nascere dal suo corpo
perché nessuno comandava nel suo cielo.
Egli era il suo stesso cielo verde.
Il re della foresta
si convertì in mendico.
Cercò l'amore tentoni nel bosco.
Così accaddero le cose.

XVIII

Qualcuno

Si muoveva, era un uomo,
il primo uomo.
Si fece gli occhi per difendersi.
Si fece le mani per difendersi.
Si fece il cranio per difendersi.
Poi si fece le budella
per conservarsi.

Tremò di paura, solo
tra il sole e l'ombra.

Qualcosa cadde come frutto morto,
qualcosa corse nella luce come un rettile.
Gli nacquero i piedi per fuggire,
ma crebbero nuove minacce.

Ed ebbe tanta paura che trovò una donna
simile a un riccio, a una castagna,
Era un essere commestibile,
ma quell'uomo ne aveva bisogno;
perché erano i due unici,
erano i rinati della terra
e dovevano amarsi o distruggersi,

XIX

Rosía liberata

Quando si abbattè la città d'oro
ignorata nella selva, i Cesari morirono
sotto il peso metallico dei lor stessi castelli.

Il terremoto distrusse l'orgoglio,
la selva tornò a divorare
con liane e radici lo splendore giallo,
e come il mare innalza l'amarezza nell'onda,
così la terra innalzò il suo parossismo
ricuperando di nuovo spazio puro.

Lì rimase vuota come un anello d'oro
che cade e rotola da un dito morto
la segreta città che i conquistatori
non raggiunsero; sconfisse la cupidigia,
ma cadde inghiottita dalla terra.

Dalle macerie auree uscì una luce dorata,
sola sopravvissuta, Rosía selvatica,
figlia imperiale dei dinasti morti,
esperta nei frutti della selva,
dalle mani trasparenti e dai capezzoli d'oro.

Fuggì dalla città distrutta,
attraversò le brusche acque, ruppe
la densa ostilità delle spine:
alberi che dormivano, rocce come denti,
animali irsuti, fuoco bianco di lava,
e camminò fino a tornare alla purezza,
all'animale perduto tra le foglie.

XX

Due

I risorti, l'antico uomo
e la giovane donna scintillante
furono due nemici nella selva,
erano i due draghi che s'incalzavano,
nella notte i quattro occhi fosforescenti
che si temevano, e il rancore e l'amore
li divorava senza lasciarli dormire.
Si chiamavano attraverso milioni di foglie,
attraverso il generale silenzio dei boschi.
Si chiamavano come si chiamano le radici
crescendo nell'oscurità l'uno verso l'altro.

Tutto ferveva di spine che sorgevano.
II mondo era una coppa di terrore
e i piedi che avanzavano verso gli altri piedi
o la bocca che apriva la notte con un bacio
trovavano la durezza compatta dell'ombra
e gli amanti andavano smarriti
senza conoscere che si appartenevano:
senza assaggiarsi o mordersi né bruciarsi
nell’estasi.

Oh poveri entrambi, oh uomo e donna
destinati a essere uno solo, di nuovo,
di nuovo a fondare la stirpe umana
e senza saperlo, sotto l'albereto
e non saperlo, con la Croce del Sud
appena lavata sulle loro teste,
e non sapere di ferirsi nel roveto
dell'amore nemico che li avrebbe accesi.

XXI

Inverno nel sud

Quell'inverno color di ferro
cadde senza tregua sopra il sole antartico
spegnendo fin l'ultimo palpito della luce:
pietra e fogliame si vestirono di neve,

bestie selavatiche trapanavano
l’oscurità con colpi sotterranei
e la pioggia d'ali nere cadeva
sul tetto di Rhodo e di Rosía.

I fiumi si vestirono di vestigia, legni,
radici calcinate, cavalli sparsi,
nidi d'immensi uccelli che il fiume trasportava
come se li portasse in un altro pianeta.

La tempesta non aveva medaglie;
un cielo senza fine e senza lampi,
non trascorreva, somigliava un muro
tranquillo nella furia, dispiegato
come il metallo d'un ventaglio atroce
sopra il tamburo battuto dal vento.
L'Eden ricuperato rabbrividiva di pianto,
si affinava come delirio di violino,
minacciava come i denti della selva,
con gli occhi selvaggi dell'acqua regionale,
e i due destinati a ripopolare il regno
si abbracciarono, immobili sotto il terrore del mondo.

XXII

L'amore

Nessuno conosce come i due soli,
i destinati, i penultimi, quelli che si trovarono
senza altro simile che loro stessi,
nessuno può pensare, lungi dalle origini,
che una donna e un uomo ricostruiscano la terra.

E la coppia in piena solitudine, aggredita
da odio e da tempeste della natura
soffrì e continuò sotto il fogliame nero
cercando l'infinita chiarità esterna
finché solo in se stessi e nel loro fuoco,
corpo a corpo, e a colpi di braccia e di baci
andarono trovando una galleria lunga come la vita
che li unì, sigillandoli, in un solo cammino,
allarmati, feriti, spiati dal bosco
che con occhi maligni spiava,
fino a continuate a cadere nella gioia
con il peso totale della terra nelle loro ossa.

Il timore, l'amore, il dolore li colpivano
e da un incendio all'altro si svegliarono
per camminare senza sapere, fino a perdersi.

XXIII

I costruttori

Rhodo, il rifondatore, sopravvissuto,
e Rosía, la rosa della terra perduta,
non immaginarono i loro sovrumani doveri:
persistere e creare il regno puro,
passo a passo, scavando, senza passato,
costruendo di nuovo lo splendore
senza sangue né cenere.
Ma l'Eden amaro
delle montagne, la pazza solitudine dei fiumi,
la minaccia nevosa dei sette vulcani,
lo spazio che apriva ancora una volta la bocca,
inghiottendoli, portandoli tra spina e spina
come in un'unica guerra senza reggimenti,
senz'altro tamburo che il tuono, e davanti
e dietro, in alto, in basso,
quel regno irsuto che continuava verso il Polo,
e loro due soli, palpitando, perduti
sull'immenso della loro sovranità,

XXIV

La vergine

Lei gli disse: Fui pietra d'oro
della città d'oro, fui legno
della verginità e fui rugiada.
Fui la più occulta della città segreta,
fui la volpe selvatica o la lepre lampo.

Son qui più immobile del muro di metallo
sostenuta da un rampicante o amore,
innalzata, trascinata, combattuta
dall'onda che cresce dalle tue mani d'uomo.

Quando facevi il mondo mi chiamasti
a esser donna, e accorsi
con i nuovi sensi che allora mi nacquero.

Io non sapevo che avevo sangue.

E fui donna dacché mi toccasti
e mi facesti crescere come se tu mi avessi
fatta nascere, perché da dove
se non da te uscirono le mie ciglia,
nate dai tuoi occhi, e i miei seni
dalle tue mani affamate, ed il mio corpo
che per la prima volta s'accese fino a bruciarmi?
E la mia voce non veniva dalla tua bocca?

Non ero io l'acqua del tuo stesso silenzio
che s’andava riempiendo di foglie morte del bosco?

Non ero io quel frammento di corteccia che cade
dall'albero e che perde, condannato
a un'unita perduta, il suo aroma solitario?

Oh Rhodo, abbracciami fino a consumarmi,
sotto il fogliame delle selve oscure!
Il tuo amore è come un tuono sotterraneo
e più non so se iniziamo il mondo
o se viviamo la fine del tempo.

Baciami fino al dolore e fino a farmi morire.

XXV

Il grande inverno

È l'epoca della neve sola nella steppa,
del sibilo corporeo contro il vulcano australe
quando il vento fa della sua gola buccina
e ora per ora piange la pioggia nei raulíes.

Circondato è l'amore senza porte né pareti,
la notte ostile, la solitudine fragrante,
le armi nemiche della selva,
la prateria dal sonno bianco e crudele
e più in alto come il dio della durezza
il vulcano incominciò a mostrare il suo sangue.

Neve, sangue cupo, fuoco scapigliato
circondarono il recinto degli ultimi
e quella che fuggì da un regno distrutto
e quello che uscì per fondare un dominio orgoglioso
improvviso rimasero soli con l'amore.

E furono oppressi dalla loro gioia terribile.

XXVI

I distruttori

Perché lo spazio li investì
fino a sotterrarli in un solo essere,
nell'unità del fuoco inseguito,
e mai l'amore ebbe tanta solitudine
come se invece di fondare di nuovo il mondo
uomo e donna li si fossero destinati
a divorarsi come due aquile affamate.

Perché di tanta amara geografia,
regno, estensione, scoperta, fatica,
come una maledizione della natura
si convertirono in dèi abbandonati,
vinti dalla furia del lampo,
annichiliti dall'amore ostile.

XXVII

La catena

Non parlavano che per desiderarsi in un grido,
non camminavano che per avvicinarsi e cadere,
non toccavano che la pelle di ognuno,
non mordevano che le loro rispettive bocche,
Non guardavano che i loro stessi occhi,
non bruciavano carbone ma le loro vene,
e frattanto il regno spieTato tremava,
cresceva la crudeltà del vento patagónico,
rotolavano le mele crudeli del ghiacciaio.

Non c'era nulla per gli amanti.
Erano presi dal loro parossismo
e prigionieri nel loro stesso Eden.

Da ogni passo verso la solitudine
erano tornati con catene.

Tutti i frutti erano proibiti
ed essi avevano tutto divorato
persino I fiori del loro sangue.

XXVIII

Parla Rhodo

Egli le disse: Son caduto
nella tua insondabile trasparenza. Vedo
intorno a me, come nell'acqua,
sotto un cristallo, altro cristallo.

E affogo in un pozzo cristallino.

Perché sei giunta e da dove sei giunta?
Non puoi tornare ora alla cenere
della città d'oro. Dove vado senza te
e dove vado se finisce il mondo?

Se il tuo riposo non mi da riposo
che farò io col fuoco di Dio?

Se i miei figli non usciranno dalla tua cintola chiara
quale gioia noi daremo alla terra?

Io, Rhodo, distrussi la strada
per non tornare. Ho cercato e amato
la pace disabitata e l'ho riempita
di castelli, d'amore immaginario,
finché tu, Eva di carne e d'ossa,
Rosía terrena, rosa nutritiva,
nuda, incerta, sola, apparisti
e senza chiamarti entrò la tua nascosta bellezza
nel mio letto selvaggio.
lo ti rinnego,
torna alla tua città defunta,
torna al tuo bruciato potere

E Rhodo continuò: Non separare
il tuo corpo dal mio, non per un minuto.
Vivi tra i miei due occhi, cavalca
il mio. naso, lascia che dorma
la tua chioma tra le mie gambe, lascia impigliate
le tue dita per sempre nel mio desiderio,
e che il tuo ventre ondeggi sotto il mio
fino a che il fuoco del sangue discenda
fino ai tuoi piedi, incatenata mia.

XXIX

Parla Rosía

Lei, Rosía, dolce e selvaggia, dice
rivolgendosi a Rhodo, senza parole:

Son nata dal tuo scoppio.
Da un lampo tuo son venuta al mondo.
La mia capigliatura era la notte,
la confusione, la solitudine, la selva
che non mi appartiene. Oh uomo mio,
ampia è la tua ombra ed è il tuo sole penetrante
che mi rivelò dai piedi
alla mia fronte, la piccola luna
che ti attendeva, amore, scopritore della mia anima.

Non sei tu gran specchio, Rhodo, in cui io mi guardo
e per la prima volta so chi sono?
Non un ramo di spine pericolose
né una goccia di sangue sospesa sulla spina,
ma un albero intero con frutti scoperti.
Quando tu, primo uomo, posasti una mano
sul mio ventre e quando
le tue labbra conobbero i miei capezzoli
cessai d'essere la goccia di sangue abbandonata,
o il ramo spinoso caduto nella strada:
si sollevò il fogliame del mio corpo
e la musica percorse il mio sangue.

XXX

Continua a parlare Rosía

E continuò Rosía: Mi vidi chiara,
mi vidi verde, nell'acqua dello specchio
e seppi che ero ampia come la terra per
riceverti, uomo, terrestre mio.
come uno specchio tu riflettevi la terra
con l'estensione di tanti terreni e dolori
che non mi stancai di guardarmi nei tuoi occhi
e viaggiai per le tue grandi vene navigatrici.

Oh esteso amore, t'ho portato la fragranza
d'una città bruciata, e la dolcezza
delta sopravvissuta, di colei che non trovò
nessuno nel folto di un mondo richiuso
e andò errante, sola con la mia eredità
di pesante purezza, di cenere sacra,

Chi m'avrebbe detto che terminava
il mondo e incominciava con noi
di nuovo il castigo dell'amore, il grappolo
dell'ira abbattuta dalla conoscenza?

XXXI

Parla Rhodo

Dice Rhodo; «Forse siamo due alberi
incastelIati a colpi di vento,
fortificati dalla solitudine,
Forse qui avremmo dovuto
crescere verso la terra,
sommergere l'amore nell'acqua nascosta,
cercare l'ultima profondità
fino a sotterrarci nel mio bacio oscuro.
E che ci conducessero le radici. »

Ma questo fu per inizio o per fine?

Io so, amor mio, che la tua eternità
è mia, che fìn qui siamo giunti
misurati, perseguitati e trionfanti,
ma si tratta di nascere o di morire?

Dove può condurci l'amore
se questa gran solitudine ci spiava
per nasconderci o per rivelarci?

Quando ormai ci rendemmo e passammo
attraverso lo specchio
al più ampio del piacere sorprendente,
quando tu ed io dovemmo rinunciare
ai regni perduri che ci allattarono,
quando ormai scoprimmo
che questa asprezza ci apparteneva
e che ormai ci avevano destinati
la terra, l'acqua, il cielo, il fuoco,
e tu, la sola, la maledetta mia,
la figlia dell'oro morto della selva,
ed io, il tuo fondatore disilluso,
io il povero diavolo che imitava Dio,
quando ci ritrovammo accesi
dalla scintilla amara che ci brucia,
fu per consumarci,
per inventare di nuovo la morte?

O siamo immortali
esseri sbagliati, dèi nuovi
che sopravviveranno dal miele?

Nessuno può udirci dalla terra.

Tutti se n'andarono, e questo era la gioia.

Ora che faremo per riunire
L’arnia, il bestiame, l'umanità perduta,
e dalla nostra povera purezza condividere
altro pane, altro fuoco senza pianto,
con altri esseri simili a noi,
gli incalzati, i deserti, i fuggitivi?

A chi da oggi daremo il nostro sogno?
Dove andremo a ritrovarci in altri?
Siamo venuti a vivere o a perire?
Dal nostro amore ferito
deve far scaturire la vita un fulgore di frutto
o scendere nella morte dalle nostre radici?

XXXII

Il luttuoso

Rosía, chiudi i tuoi occhi passeggeri;
stanca, risolvi la luce e accendi il vino;
addormentati e lascia cadere le foglie dei tuoi sogni,
chiudi la bocca e lascia che baci il tuo silenzio.

Non ho amato mai altro che ombre che trasformavo in statue
e io non sapevo di non vivere.
Il mio orgoglio m'andava trasformando in pietra,
finché tu, Rosía. risvegliandoti
nuda, risvegliasti il mio sangue e i miei doveri.

Fasciai la monarchia luttuosa nei monti
e compresi che tornavo a soffrire.
Benché il tuo amore m'abbia restituito al dolore
aprì la porta della gioia pura
perché ci ritrovassimo caduti
nel giardino più aspro e selvaggio.

XXXIII

La spada si prepara

Quando nacque il vulcano non sapeva
di chiamarsi Morte.
Cresceva con alcuni tuoni
e volava la neve
sulla sua testa
come molte colombe che morissero.

Lì crebbe e crebbe
più alto, più, più alto,
ed ebbe un corpo azzurro
come un imbuto
e ora, sovrano,
una corona,
diadema o rosa d'acqua.

Dentro terra cieca,
tempo ferruginoso
lavorarono
preparando la silice,
lo zolfo, la furia:
tutto era selce, viscere vive,
palpito cellulare, artigli di fuoco,
tutto dormiva nella minaccia
della spaventosa ferriera.

Si stabilirono l'onde di lava,
gli statuti di chiodi ardenti:
da pietra a pietra si fece la milizia
del vulcano nero che saliva al cielo,
del vulcano bianco che sarebbe disceso,
del vulcano rosso, signore della Terra.

XXXIV

II pianto

Perché, gli occhi di Rosía si bagnarono
allora,'come se vedessero attraverso la pioggia?

Perché come due pietre nell'acqua
velarono il fulgore della loro allegria?

Da dove compariva quel tormento?

Era oppressione il peso della tristezza invisibile?

Era roco il lamento che udiva Rosía.

Dentro il suo stesso essere segreto
udì un crescere di campane;
l'acqua suonava nella sua profondità.

Palpitavano gli occhi di Rosía
come due gravi uccelli prigionieri,
come due gocce di luce abbrunata.

XXXV

Il dolore

Verso il mare, verso il mare, disse il crescente.
verso l'onda! Disse colei che non conosceva
il mare, l'esiliata dei Cesari.

Lei credeva in una cataratta di sale,
in un albero esteso, di foglie orizzontali,
in un abisso di vivente azzurro.
Rhodo, l'errante, conobbe il suo appuntamento.
L'ora della terra finita.
S'era staccato il frutto nero
dall'albero della sete, dall'agonia:
non poteva più costruire cantando.

Perché era giunta la destinata a lui?

Perché la sua forza che destinò al dolore
si ritrovò nell'amore con la sventura?

Lui non voleva incominciare il mondo.

Recava solo secoli alle spalle
e se evase dal disastro delle razze
cadute e bruciate, se resisté alla notte
e all'errante durezza del deserto
quando accolse il corpo di Rosía
tornò a trovare la solitudine.
L'uomo
aveva disposto i! suo destino
e un Dio intruso ripeteva il dolore.

Aveva predisposto il suo lignaggio
di sole cupo e di luna ereditaria:
lui solo per non tornare all'uomo:
lui, il povero immortale con tutto il mondo addosso.

Ma dalla cittadella perduta,
dall'avvenimento abbandonato
in mezzo alla selva, aurea virtù,
Rosía, chiarità sopravvissuta,
giunse al ridotto e risvegliò l'addormentato.

XXXVI

Lo spazio

La selva antartica dormiva
con la fredda pigrizia dei piedi della terra:
le teste conifere non si dicevano nulla
nell'alto del fogliame raccolto
e impigliato in un nodo di pugnali
che tagliavano, il vasto cielo immobile
fatto d'azzurro, d'acciaio, di vulcani ostili.
Quell'inverno edenico
cadeva goccia a goccia,
freddo a freddo.

Cadeva il tuono sugli amanti
come un castigo celeste.
Chi è? si domandavano
e tra la pietra entrava un lampo.

Oscura era la mano di Dio,
dure erano le sue dita,
e non c'era crepuscolo,
ma il parto perduto
di quell'aurora che non giungeva mai,
del puma che nasceva,
del terrore avvolto dalla nebbia
tra gli aghi del cielo.

XXXVII

Vulcano

II vulcano perforava il peso
della montagna, accumulava
la sua collera ferruginosa,
colpiva, colpiva le pareti,
formava un fiume verticale.
Sotto, più sotto, il fuoco
lavorava come un'ape
fino ad accendersi e innalzarsi:

pietra e zolfo, stella e fango,
antracite e polvere da sparo, rame,
si scatenavano e ardevano,
ma più sotto ancora
il mortaio cercava metalli,
scavava ombre e lingotti,
accumulava la durezza.

Nessuno ancora poteva udire
il rantolo del sotterraneo:
neppure una bolla di neve
tradiva quella minaccia
e tuttavia ancora, ancora
in basso, in basso s'impastava
l’incendio con l'agonia:
la panetteria del fuoco,


XXXVIII

La silvestre

Rosía era di madreperla e d'oro
alla luce delle fronde
e così si vide d'improvviso
diminuita, erba o rana,
insetto verde, rosa brutta
nelle mani di Rhodo.
Chi sono,
si disse, e perché mi sono perduta,
e in questo labirinto di radice e di rami
non son neppure il frutto dello splendore, né il canto
del fiume tremante quando spunta il vento!

Oh dolore, che l'ultima sulla terra
sia io col mio volto di primavera immobile
e non la torrenziale fosforescente,
la bellezza che Rhodo doveva ricevere
nel suo regno, nell'Eden finale.

Io vissi raccogliendo mele gialle,
montando i cavalli patagonici
e non c'è gelsomino né aurora sulle mie guance:
il vento Sud mi separò con la sua spada,
la neve ruppe la mia chioma,
la pioggia era il mio vestito migliore
e se nuda crebbi nelle intemperie
fu la mia razza segreta che educò la mia pelle,
che formò le mie mani metalliche e agresti.

Oh amore, non ho potuto esser tenera come il latte,
spinosa, invece, come la castagna polare.

Ma quando tu giungi sale in me una fragranza
di bosco verde, e mi converto in rosa.

XXXIX

Vulcano

Frattanto il vulcano cercava ferro;
smantellava il fondo della terra, aggrediva
il granito, liquidava il sale:
affondava, affondava nel sottosuolo aperto
fino a cadere e raggiungere e raccogliere
l'igneo pesce o la tigre dell'incendio.

XL

Il fiore azzurro

Rhodo recise un fiore e Io lasciò sul suo letto.
Era un fiore di razza violetta,
semiazzurro, socchiuso come un occhio
della profondità, del mare distante.

Rhodo lasciò quel fiore sotto Rosía
e lei dormì sopra il fiore azzurro.

Tutta quella notte sognò il mare.

Un'onda rotonda se la portò nel sogno
verso una roccia di colore azzurro.

Lì lei attendeva per anni e per secoli
Di tra la schiuma ripetuta
E il dondolio dei chacalotes.
Sola
e Rosía finché poi il cielo
discese dalla sua statura
e la coprì con una nube azzurra.
Quando si svegliò dal sonno, sotto le anche chiare
e tra le gambe un fiore caldo;
tutto il suo corpo era una luce azzurra.

XLI

La chiarità

Oh amata, oh chiarità sotto il mio corpo,
oh dolce tu, dall'asperità staccata,
sei tutta la notte con la sua azione costellata
e il peso della luce che l'attraversa.

Sei la pace del frumento che si prepara a essere.

Oh amata mia, accoglimi e raccoglimi ora
in quest'ultima isola nuziale che trema
come noi col palpito della terra.

Oh amata dalla cintura simile alla musica,
dai seni ingranditi nell'Eden glaciale,
dai piedi che camminarono sulle cordigliere,
Oh Eva Rosía, il regno non attendeva
che il freddo scoppio della tormenta, il volo
di tortore selvatiche, ed eri tu che venivi,
sovrana perduta, fuggitiva dal cielo.

XLII

Vulcano

Le montagne ignivore
tacciono lì, laggiù.

Scavano,
scricchiolano,
spaccano. Dal cratere
innalzano
verso il cielo
una coppa terribile
di zolfo e cicatrici,
di selenio e sienite:
fenditure per dove
cadrà lava nera
e feldispato,
arterie
granulari
della scoria,
che lavorano
nel fango
fino a essere tuono,
colonna di cenere,
lunga coda di ciclo.
Ardendo lì come nella gabbia
la nera tigre
che io vidi in Birmania,
lì presso il letto dì Rosía e di Rhodo
vicino al sogno bagnato
all'infinita tempesta, il fumo
voleva nascita,
s’univa la caligine col vapore nascente,
respirava il vulcano,
ronzava coi suoi artigli
sotto terra,
con occhi gialli.

XLIII

La colpa

C'era qualcosa nel frutto
o nella conoscenza,
un sintoma, un verme
che rodeva.

Rhodo e Rosía si coprirono
di grigie pelli, cercarono il fiume,
e costruirono una barca fresca,
dura come lui e curva come lei:
il legno era dolce
sotto le dita: pura
fu la nave,
larice e ulmo, con ascia di pietra
elevata e tesa.

Era la prua come nuova luna,
il corpo come un pesce del Rio Roto,
e i due ultimi sposi del mondo,
Adamo antico ed Eva errante,
Rhodo e Rosía, dormirono in essa
il casto sonno dopo l'amore.
Essa sopra l'oscuro suo braccio destro,
lui con la mano sinistra tra i suoi seni,
e fu quel sonno il viaggio
della nuova nave sopra l'acqua,
sopra le acque che si ripetevano
dagli abbondanti ghiacciai
fino all'oceano che nessuno attende.

Ma loro non sapevano
perché erano appena nati.

XLIV

La speranza

Rhodo scordò il passato,
le api, le ruote
della guerra, il miele,
il sangue, il lutto
dell’uva

L'uomo ruppe il tempo.

Era morto il mondo.

Era solo.

Solo col fulgore
d'un nuovo giorno fervente e calmo.

Fuggì da tutti i morti
e seppe che non solo la sola solitudine
era il destino:

doveva difendere due corpi suoi
e continuare la vita sulla terra.

XLV

Vulcano

Era sempre notte
e intrico;
pioveva
con le gocce del diluvio,
con le campane del cielo:
i settecento laghi
s'increspavano
sibilando, e il mondo prese
odore di fumo bruciato,
di pube verde,
di legna.

Dove se n'erano andati
il sole con la sua marea,
la luna col suo sogno,
il mare con la sua ferreria?

Un numero andava crescendo
dentro la terra:
come un germe terribile
s'andava unendo la pietra al silenzio,
la minaccia al fogliame.
Cresceva a cento per mille,
zolfo, fango,
centomila moltiplicava
la fiammata segreta,
qualcosa si frantumava
moltiplicando il fuoco.

XLVI

La selva

Rosía si svegliò sola: un rumore
minerale, divorante,
la circondava. Acqua e musica
cadevano con le foglie
del giorno scosso:
la figlia selvatica corse con piedi rosei
dall'alba ferruginosa.

Che aroma, che rumore,
che numero cantava,
che porta stava per nascere
o per crepitare?

Come una fiamma
Rosía,
era l'unica chiarità che correva.

Emanava luce come un uccello incendiato.

XLVII

La nave

Rhodo levigava l'albero maestro,
appuntiva la prua.

Toccherai l'oceano, Rosía,
l'unica strada che palpita,
la libertà marina dal pericolo.

Sì,
verso il mare
sarebbe rotolato il destino,
il mare nudo,
senza bene, senz'occhi, senza peccato,
senza giudice, senza male, senza fine,
il mare

XLVIII

Vulcano

II vulcano raccoglieva
ogni stella
di sotto,
la batteva fino a darle
cuore di pugnale, pugno di morte.
Impastava i fiumi
della lava,
indagava incendi,
spiava solfati,
tremava:
la fiamma trascinatrice
era solo seme,
il seme a lutto
del sole, del sole insanguinato.
Scavava,
riscavava,
anche senza fuoco ardeva
e senza bocca tuonava:
era una pentola che bolliva
senz'acqua, senza vapore:
era il fulmine sotterrato
nell'utero amaro
della terra.

XLIX

Parla l’adamico

Rhodo disse: Voglio la tua bocca per seminarla nel mare;
La tua chioma è la prua della mia nave.

Voglio la tua bocca per liberarla nel vento.
Voglio che le tue braccia mi abbraccino:
sono due rampicanti.

Voglio i tuoi seni bianchi nel cielo
come due lune piene di rugiada.

Voglio il tuo ventre coricato in Dio.

Voglio il tuo sesso, la tua radice marina.

Voglio le tue gambe per due nubi nuove
e i tuoi fianchi per due chitarre.

E voglio le dieci dita dei tuoi piedi
per mangiarmene una ogni giorno.

L

Vulcano

Era un aguzzo monte
E sulla punta
S’era formata una costellazione,
un diadema di farina impalpabile,
nube forse, coronazione dell’orbe,
passione, colomba, luna.

Sopra il vulcano
una presenza
sempre

Là tremava una stella,
la più alta del cielo,
o un fantasma caduto
dall’ombra polare, la veste
del cuore antartico
il ramo congelato dell’aurora,
la notte che mutava vestito,
o una ruota semplicemente,
una riga, una linea,
un asterisco,
un diamante,
o d'improvviso un combattimento
di lampi neri,
di profezie,
di confusione azzurra e d'acciaio.

Oh montagne d'America
senza nome,
popolate di rancore,
di minerali,
di lava sotterranea!

Oh silenzio che attende
di diffondersi,
di estendersi
verso la distruzione
e la nascita!

LI

II mare

Dice Rosía senza muovere le labbra
dalla sua immobile non conoscenza:

II mare che non conosco son io stessa,
forse, il mio essere remoto
rivelato tra le braccia del mio amato,
sotto il suo corpo, quando
sento che dalla mia profondità
salgono da me le onde possenti
come se io fossi padrona del mare,
del mare che non conosco e son io stessa.

Questa frequenza cieca,
questa ripetizione del parossismo
che mi sta per uccidere e mi dà la vita,
l'ondeggiamento che scoppia
e torna e sorge e cresce
finché si abbatte la luce
e nel vuoto cado,
nell'oceano:

LII

Animali

I sauri verdi nascosti
nella verzura, i leoni
dalle due teste, le tribelias
nate nei pantani
attraversavano sibilando la vigilia
o risalivano all'origine:
alla caverna delle stirpi.

Lì arrivano i polytálamos
riuniti dall'argilla
per l'edificazione corale,
ma il salamandro luttuoso
del ghiacciaio, figlio del freddo,
palpitò col suo velluto
scomparendo nel bosco.

L'astrolante levò il suo volo
di penne che tintinnavano
e si scorse lo splendore
di una forbice arancione
presso il suo volo di metallo.
Le spore svolgevano
legnosi e teneri anelli
che aprivano le dita giganti
delle felci di Vulcania.

Si forma il porfido, l'insetto
s'arrampica e distende ali recenti,
la larva rompe una strettoia,
l'animale si sviluppa.
Le piante inghiottono luce,
l'umidità s'avvicina al fuoco,
si amalgamano i minerali,
compare il sole scarlatto,
il cervo porta la sua monarchia
a brillare tra le foglie
e un sussurro di crescita
empie di musica la terra.

LIII

La fuggitiva

Rhodo e Rosía: ecco i due ritrovati,
i due perduti, i presenti.

Perché? Più non era il vincitore o il vinto,
ma lo scopritore che nell'impervio,
nell'esteso, nel confine del limite,
nel Polo inclinato dal vento,
trovò di nuovo una mano minuscola,
un corpo breve graffiato di spine,
una donna esterna che usciva
forse e ancora una volta dal suo corpo o dal suo sogno.

Veniva o non veniva dalla città cesarea
intrecciata dall'origine del mondo
o dalla tenera favola o dalla storia?

Chi era, bruco o fiore, farfalla o camelia?

E lui stesso, il solitario fondatore,
doveva rinunciare al territorio,
lui doveva uccidere la sua solitudine,
la sua finale costruzione, il suo regno amaro?

LIV

Due

E lei, legnaiola,
fiamma ribelle dell'incendio, lampada
appena accesa nelle tenebre,
lei la transitoria, la donna,
doveva persistere o perire?

Rosía, colei che mai vide il mare,
la vergine fuggita dalla cittadella,
nacque o sopravvisse per quest'uomo luttuoso
coperto di radici e di ricordi?
Adamo
delle sventurate guerre dell'uomo,
delle nazioni convenite in polvere,
delle città ratte cicatrici,
Rhodo, l'eroe dell'ultima fuga
che trovò un altro pianeta nel suo pianeta,
era l'inizio della sua stirpe o la fine?

Perché sopravvivevano? Dov'era
la libertà? Questa solitudine
di timpani popolati di campane che scricchiolano
rompendo l'infinito petto del ghiacciaio
era lo spazio aperto, intricato, ostile,
il suo Eden, l'eternità del suo recinto?
Oppure verso l'Oceano,
verso la luce estesa, contadina,
lei, Rosía, l'appena giunta,
doveva volgere i suoi piedi silvestri?

LV

La morte e la vita

Rhodo nel bosco, dov'era
lui, il bosco era assenza.
Lei forse dietro le felci,
lei forse chiusa in se stessa,
lei dentro lui, chiusa in lui,
cagliata in pietra pura!

Perché giunsero e da dove giunsero
a vivere l'amore agonizzante?

E chi era lei e perché veniva
se l'uomo senza destino l'attendeva?

Se quella figlia della tempesta
apparteneva a un mondo distrutto?

E qual era la colpa del dolore
e perché uniti i due esiliati
eran portati di nuovo al desiderio
e precipitaci nel castigo?
Si attendeva da essi il grappolo
di figli che continuassero l'uomo e le sue guerre?
Gli eredi dell'uva amara?

LVI

Lo smarrimento

Oh amata mia, avvicinali e allontanati.
Vieni a baciarmi, vieni a separarmi.
Vieni a bruciarmi e a dividermi.
Vieni a non continuarmi, al mio smarrimento.

Vieni, oh amore, a non amarmi, a distruggermi,
perché incateniamo la sventura
con la felicità sterminata.

LVII

Vulcano

Le grandi bestie del bosco,
i puma, i guanacos,
gli uccelli riuniti,
le bisce,
le rane, le cantaridi,
i lombrichi, le vespe
amaranto,
le formiche, le volpi,
i sauri,
sentirono
che cresceva
il fumo
sotto terra,
seppero
prima dell'uomo o della donna,
seppero
prima che il vento lo sapesse:
qualcosa
cresceva
sotto
le loro ali e i loro piedi, i corpi lisci,
i ventri, i piumaggi, le squame:
aroma,
odor magnetico,
rosa esplosiva,
grandezza sotterrata:
qualcosa
vibrava, rinasceva
nel folto,
nella pazienza silvestre.

Carbone, silice rossa,
miniera,
zolfo o luce calcarea,
lavoravano
e il miele
lo disse all'ape,
l'ape lo ripetè
nel fogliame
dell’ulmo, e il fogliame
lo raccontò alle radici,
e queste all'acqua,
l'acqua, al vaporoso
nembo del ghiacciaio,
il ghiacciaio al ghiaccio,
questo alla rugiada,
la rugiada all'erba
e l'erba, voce breve del mondo,
lo disse ai piedi della donna Rosía
e i piedi di Rosía sollevarono
il rintocco oscuro che salì
al cuore della donna Rosía
empiendolo di paura:
era il rintocco dell'oscurità,
del sotterraneo che voleva ardere,
delle tenebre che l'incalzavano.

LVIII

La paura

Disse trovando Rhodo: Ho paura.
T'amo con tutta la paura sotterranea,
con la cattiveria del castigo.
Ho paura
del papavero
che vuoi mordere,
del fulmine che prepara il suo serpente
nell'albero segreto del vulcano:
ho paura della sua luce spaventosa,
da giorno puro trasformarlo in cenere.

Dove andiamo?
E perché siam venuti?

lersera, Rhodo, mi lasciasti sola.
Non mi bastava il ricordo,
non solo era l'assenza
del tuo abbraccio:
Mi occorreva il bacio del tuo corpo
sopra il mio corpo. Nelle tenebre
tutto s'accommiatava
dal mio sonno.

Era la selva che piangeva,
erano gli animali del presagio,
tu, mio amore, mio amante,
dove
dormivi
sotto la minaccia,
sotto la luna insanguinata?

LIX

La nave

Rhodo solleva una mano invisibile.

« La nave mi chiamò,
la nave ha paura:
mi disse: all'acqua pura,
al sale ripetuto,
alla tormenta,
andiamo!

Ma se cade sopra me la mano
del vulcano vendicativo,
il viaggio sarà un rito di faville,
di scintille che arderanno e cadranno
nelle mani del fuoco. »

Questo mi disse la nave.

Dormii tutta la notte
tra la nave e le stelle fredde,
attendendo,
finché un gran silenzio mi restituì alla tua vita,
alla dimora,
e attendo senza partire
la decisione del fuoco.

LX

Vulcano

Non v’è giorno, luce, non v’è nulla. Solo
Il silenzio verde esiste,
l’attesa verde.

La selva ritirò il suo linguaggio e fuggirono
i suoni nel folto.
Non v'è spavento come questo.
La disperazione della speranza.

Chi?
Chi giungerà?
Il fumo?

Perché il nero scarabeo si nasconde
in una goccia di luna?

Perché anche il quarzo trema
senza unire la luce in cui lavora
al suo sguardo trasparente?
Perché s'allontana il passo
del roditore, e gli stormi
delle bandurrias coi loro piedi metallici
battono la porta del cielo?

LXI

La fuga

I due amanti interrogavano la terra;
lei con occhi che ereditò dal cervo;
lui con i piedi che consumò nelle strade.

Andavano da un lato all'altro dei boschi,
cercavano la frontiera del pericolo,
spiavano di notte ogni stella
per leggere le lettere del palpito
e al vento chiedevano del fumo,

Fu muschiosa ed errante quella vita.
degli ignudi e rapido
era l'incontro dell'amore:
percorrevano distanze come paesi o nubi
solo per giacere, intrecciarsi, partire,
e restare impigliati nella nuova distanza,
nel pericolo di quella bocca bianca
che con tutta la neve dell'altezza
voleva parlare con la lingua del fuoco.

LXII

Aquila azzurra

Il volo dell'aquila azzurra è trasparente.

Uomini! Vi riunirò solo per il miracolo.

Vive sulla luce questa presenza;
due ali come due pallottole, due speroni, due trecce
che ascesero portando sangue e polline
e l'aquila lineare di quella latitudine.
Sale il suo turbine, rompe l'anima celeste,
divora il filo insigne dell'altezza
e ciò fosse macchia o meteora
o splendore diretto della velocità
rimane fisso, rigido nell'aria
e le sue penne azzurre s'integrarono
e si restituirono all'azzurro.

Così scompare in piena luce
l'uccello puro, centro dell'anello,
occhio dell'universo, pesce del cielo,
che continua dalle radici
l'esalazione, la direzione, la vita.

Verticale è la sua azione, la sua anima è violenta,
fino ad essere equilibrio trasparente.

LXIII

Vulcano

II vulcano è un albero volto al basso,
Sopra stanno le radici di neve,

Ma sotto costruisce il suo fogliame,
foglia per foglia, zolfo a zolfo:
minerale sminuzzato fino a essere fiore,
petalo a petalo di profondo fuoco,
e ogni ramo affondato,
nella durezza
scava perché fiorisca il fuoco.

Cresce e cresce verso il basso
l'albero vivo che arde,
sciogliendo, aggiungendo,
amalgamando
la spada del castigo.

LXIV

Suonata

Rosía, ti amo, intricata mia,
ragno forestale, luna del bosco,
solitaria nata dal disastro,
pesca bianca tra i pungiglioni.

Ti amo dall'origine dell'amore
fino alla fine del mondo, fino a morire,
ti amo nell'occupazione dei miei doveri,
ti amo nella solitudine che lascia il giorno
quando abbandona il suo vestito d'oro,
e non so se incontrarti fu la vita
quando ero solo col vento,
con le rocce, solo nelle montagne
e nelle praterie, o se tu giungevi
per la certezza della morte.

Perché l'amore originale, le tue mani
venivano da un incendio a commuovermi,
da una città perduta e per sempre
ora disabitata, senza i tuoi baci.

Oh fiore della Patagonia,
donzella dell'ombra, chiave chiara
dell'oscura regione, rosa dell'acqua,
chiarità della rosa, sposa mia.

Domando, se il mio regno è terminato
in te, cosa faremo, per rinunciare
e per incominciare, per esistere,
se il termine dei giorni s'avvicinasse
al nostro amore lasciandoci nudi,
senz'altri più, eternamente soli
nella felicità o nella sventura?

Ma tu mi basti, come una coppa
d'acqua del bosco destinata a me:
avvicinati alla mia bocca, trasparente,
voglio bere la luce che ti illumina,
fermarmi nei tuoi occhi, e rimanere
morto nel lutto della tua chioma.

LXV

Vulcano

Lacrime di ferro ebbero
i neri occhi del vulcano,
artigli rossi gli uscivano,
lunghi palpiti arteriali,
denti di macchina malvagia:
era ardente la sua perfidia.

Si preparava nel dolore
l'ira del parto planetario,
negli ovari della furia
il tuono voleva scoppiare:
la lava bolliva nella sua zuppiera,
ruggivano le tigri di pietra,
ardeva il sotterraneo azzurro,
e per una fessura invisibile
uscì un fildiferro di fumo duro
come se volesse legare
l'incertezza con la paura:
allora vibrò la terra
anticipando il rantolo
dell'oscurità che scoppia
in forma di fuoco e di luce.

LXVI

Gli uni

Al mare dice Rosía,
al mare che non conosco,
a sommergere la chiave del mio amore,
a cercarla di nuovo sotto l'onde!

Oggi non t'avvicinare, uomo,
al mio fianco
oggi lasciami nell'oscurità
a cercare me stessa.

Perché m'hai amato, Rhodo?
Perché io ero l'unica,
colei che usava dalla mia solitudine
verso la tua solitudine

Chi destinò il destino?
Chi mi salvò dalla città distrutta?

Chi m'ordinò nelle tenebre
di camminare, camminare, rompermi occhi e piedi,
attraversare il silenzioso palpito
della natura,
pietra e spina, denti e cautela,
fino a giungere a te, mio esiliato?

Io fui l'ultima donna; caddero
le mura sui miei morti
e così formammo l'ultima coppia
finché entrai nel tuo abbraccio,
nella tua misura smisurata,
e forse siamo i primi,
i due primi esseri,
i due primi dèi.

LXVII

Vulcano

I nudi del freddo,

la nipote dei Cesari,
contadina,
l'atterrito
che fuggiva dalla terra e dalla guerra,
il fondatore di un impossibile regno,
videro la scossa
del pianeta.
Come una sola foglia
tremò il mondo:
un tuono
seppellito:
un clamore
sordo:
un tamburo
della terra:
un ampio rumore
che viene dal basso,
da dove?
Un suono
circolare, un annuncio
d'immensa bocca amara
o di campana morta,
allora
s'illuminò la coppa
del vulcano
di fiamme, splendore
o vino ferreo,
e prima una lacrima
di lava
cadde come soffrendo
dalla torre del vulcano nudo.

LXVIII

L'ombra

È 'ampio cammino della luce,
della bianchezza, della nuova neve,
osi tratta del sintoma
dell’odio?

Forse era l'ora dell'espulso?

La vita, un giardino perduto,
la morte, alfine, tra gli altri morti,
l'ora giunta per essere mortali?

Era l'ora
arancione
della calcinazione e del castigo?

Era l'ora senza giardino,
senza selva,
senza ritorno?

LXIX

La storia

Oh amore, pensò l'angosciato
che per la prima volta sulla lingua
sentì il sapore della morte,
oh amore, mela della conoscenza,
miele sventurato, fiore dell'agonia,
perché devo morire se ora nacqui,
se appena si confondevano le vene,
se sogno e sangue si determinarono,
se tornai a essere ingiusto come l'accumulato,
il pover'uomo, il fratello, l'ancora,
e quando ormai mi son spogliato di Dio,
quando la chiarità della povera donna,
Rosía, prediletta dagli alberi,
Rosía, rosa della morsicatura,
Rosía, ragno delle cordigliere,
quando mi sorprese la semplicità
e da fondatore di un triste regno
giunsi alle pure braccia di una figlia d'oro,
d’un'esiliata, fuggendo dal disastro,
e giunse la corteccia, il rampicante rosso
a coprirmi fino a darmi silenzio e grandezza,
allora, nel sacco della sconfitta, oppresso
dal mio stesso destino, liberatore alfine
della mia stessa prigione, quando sono uscito alla luce
dei tuoi baci, oh amore, giunse l'annuncio,
la campana, l'orologio, la minaccia, la terra
che crepita, l'ombra
che arde.

Oh amore, abbracciati al mio corpo
davanti al fulgore della spada di fuoco!

LXX

Avvento

Essa sentì crescere dentro di sé
non la ragione, ma una rosa dura,
una passione come una croce di pietra,
un grido vegetale dalle sue radici.
Dalla terra irta sboccia il fumo,
incerta torre, pronta
a cadere, tromba di tuoni,
fiume dei dolori.

LXXI

La spada di fuoco

Salì il sangue del vulcano al cielo,
s'abbatté la fenditura,
ignea cenere, lava roditrice,
lingua nascosta, ora sparsa,
luna calda trasformata .in fiume.

Salì la spada ardente sopra
la bocca nevosa
e un rantolo del fuoco
ruppe l'oscurità,
poi il silenzio
durò un secondo
come una mano gelida
e scoppiò la montagna
il suo parto di pianeta:
Fango e rocce discesero, da dove?
Dove si riunirono?
Cosa volevano rotolando?
Perché venivano?
Perché veniva il fuoco?
Tutto ardeva,
il vento diffuse
la notizia accesa
e un tuono soffocato parlò tutta la notte
come una gran gola strangolata.

Oh paura accesa
della natura!
Oh morte della terra!
Il vulcano affamato
usciva a divorare per le strade.
Il vulcano rotto
sgranò i suoi grappoli,
il suo carico amaro,
suo sacco di sventura.

II vulcano morto
riviveva ruggendo,
nasceva agonizzando
nella gran gioia
che distrugge.

Saltò il lievito
delle panetterie del sottosuolo.
Gemeva Dio
come un carcerato
che fu bruciato vivo.
Si scioglieva Dio
nelle sue sconfitte
e dalla sua passione, tortura e morte,
Dio, morto per sempre,
minacciò gli uomini con la sua spada di fuoco.

LXXII

La nave e i passeggeri

La nave era ormai piena di uccelli,
piena di volpi, piena di serpenti.
La leonessa bruciata portò i suoi piccoli,
l'aquila si sedette sulla prua,
i piccoli cervi dagli occhi verdi
dormono presso il giaguaro divoratore,
i colibrì ballano nella nube
di cenere mortale che va cadendo,
le talpe dei monti tormentano
e costole della nave,
le farfalle tessono i loro sudari,
le vespe dal cuore azzurro,
i formichieri di milizia nera,
i sauri vestiti da draghi,
gli ultimi cavalli,
i gatti e i cani del bosco,
le lepri e i cigni,
i chucaos dal grido avvolto di pioggia,
le palombe calzate di carminio,
i cinghiali con i loro denti,
i chingues col lampo sulla schiena,
le anitre simili all'ambra,
le galline del freddo,
i luttuosi uccelli dello sterco,
l'anatra gialla,
la biscia,
la lucertola inanellata,
la mantis orante, pregando,
l'ape degli ulmos,
la pulce del coniglio,
il cóndor con la sua cassa di sepolcro,
il pipistrello pallido,
erano lì a riempire
l'imbarcazione. E quella
nave
sembrava un grappolo
di teste, di penne spaventate,
di artigli procellari,

Non v'era posto per gli umani:
Per Rhodo e per Rosía che arrivavano
brucianti e sanguinanti alla loro nave,
alla nave che fecero con le loro mani,
che fecero con i loro sogni
dei duri legni
che nessuno conosceva,
senza chiodi né martelli:
con mani e con denti:
con tenerezza e purezza.

LXXIII

Il viaggio

La nave!
La nave verso il destino!
Quale destino?
Verso il mare!
Cos'è il mare?

Il sogno fu la nave
tagliata con la fragranza,
amore, acqua, legno,
lì i fuggitivi
s'abbracciarono
prima, poi, allora.

Da che fuggivano?
Dal bosco?
Dalla terra o dal cielo,
dall'essere insieme o dalla solitudine?

Avevano lavorato, amandosi, intrecciandosi
di nascosto, caduti nella sabbia,
tra gli alberi come in case chiuse
d'assenti, case di foglie:
Tutto era stato giaciglio per i due erranti,
tutto era bacio, bocca rumorosa,
selva, palpito, copula, silenzio,
finché l'aurora si decise
a fermare la notte, ed entrò il tuono
a ruggire e bruciare: sorse dal tempo
la spada del castigo
e di nuovo, uomo e donna, camminarono:
camminarono i condannati.

LXXIV

Vulcano

Correva l'uomo, correva la lava,
correva l'acqua, correva la lava.

Volava il vento bruciante, il fuoco
scendeva rodendo roccia,
spaventando fiumi
s'abbatteva il fuoco,
il vulcano palpitava
e dente a dente rimordeva,
seguiva quelli ch'erano fuggiti,
gli uccelli,
l'aria per farla infuriare,
l'acqua per annichilirla.

Il vulcano vivo,
viveva, risorto,
mordeva con i petali
del fumo,
uccideva con integrità terribile.

LXXV

II viaggio

La nave si sciolse, la nave
d'animali oscuri,
di colombe e di cani fuggitivi.
E lì, tra gatti e uccelli,
i nudi del freddo,
Rhodo e lei, i soli
che uscivano
dal gran deserto verde,
dalla pioggia,
dal regno nero della solitudine.
Ed ora
li raggiungeva il fuoco,
li mordeva la morte,
li seguiva il silenzio
calcinato.

LXXVI

La nave

Nave, arranca, attraversa
la rosa di cenere!
Nave del Sud, rotonda come luna o mela,
popolala dalla paura,
avanza! Ardono i laghi,
crepita il volto dell'inverno,
galoppano i cavalli del vulcano.

Avanza, nave dei delicati,
dei risorti,
di quelli che vogliono essere,
nave di Rhodo,
rosa di Rosía.
Avanza verso la luce litorale,
verso l'azzurra milizia dell'onda,
verso i sette oceani e le loro valide isole,
nave del Sud, fragranza
della pura freschezza
dei boschi,
verso tutti i numeri del mare,
oh nave, navighiamo!

LXXVII

Vulcano

Lì viene il bruciante,
il fiume di zolfo,
la lingua che divora,
si trascina,
scricchiola e continua
a calcinare:
gli alberi sentirono
il morso
di un muso di fuoco,
i germogli, le radici
scoppiavano,
i dolci animali
erano superati
dall'arteria incandescente:
scende la morte ignea,
la bragia bruciante
estirpa ogni vita
col suo corso sulfureo,
con la sua falce rossa;
arde la scoria
sopra la coppa delle araucarie,
la lava rompe rocce,
il lento incendio corre
e segue la nave.
Ti brucia il paradiso,
t'insegue l'inferno.

Allontanati, uomo,
si brucia il regno!

Sei l'espulso dalla selva.

Il grande amore si paga
con la carne e l'anima,
col fuoco.


LXXVIII

La nave

L'imbarcazione salta dalle lagune
e naviga
tra i ghiacciai, i coltelli
di neve e di potere.

Un occhio della terra è acqua azzurra,
un'altra laguna è verde come erba,
un'altra è di color di puma,
e la nave spicca,
scricchiola e corre e fugge.

Il vulcano l'insegue
con la sua onda implacabile,
coi suoi artigli ardenti,
e la nave
passa nevi e pantani,
cade nei burroni,
sale i monti in un filo d'acqua,
procede
sgangherandosi:
Già la bruciano le fiamme,
già se l'inghiotte la cenere:
ruggiscono le fiere, muoiono le api,
s'agitano i pesanti animali,
tremano le farfalle
nell'incinerazione della bellezza.

LXXIX

Gli dèi

L'uomo si chiama Rhodo
e la donna Rosía.

Guidavano la nave,
dirigevano il mondo della nave:
d'improvviso lì, presso la cascata
e vicino a morire, con le ciglia
bruciate e i corpi scorticati,
e gli occhi amari di dolore,
solo lì compresero
che erano dèi,
che quando il vecchio Dio sollevò la
colonna
di fuoco e di maledizione, la spada ignea,
lì mori l'antico,
il maledicente,
colui che aveva fatto e malediceva la sua opera,
il Dio senza nuovi frutti
era morto e ora
l'uomo era passato a esser Dio.
Può morire, ma deve nascere
interminabilmente :
non può fuggire: deve popolare la terra,
deve popolare il mare: solo i nuovi dèi
morsero la mela dell'amore.

LXXX

Vulcano

La spada liquefatta
scende tra le rocce
offendendo.
L'alluvione di bragia,
la lenta stella che consuma e brucia,
discende rodendo.
Arde la vita,
si rompe il minerale,
cadono i vegetali oppressi
dalla cenere ardente
e il sole di lava continua
a distruggere.
Le arnie si spaccano e spargono
scintille di miele e di fuoco.
Entra la raffica nelle tane
calcinando gli artigli che dormivano:
alla nave, alla nave
si dirige
il castigo.

L'imbarcazione discende
tra l'alba e il ghiacciaio
col suo carico spaventato:
le bestie mute
al comando dell'uomo,
dell'uomo e della donna autorizzati
a salvare il mondo:
governatori della nuova nave,
progenitori della salvezza,

LXXXI

La cataratta

Il fiume apre d'improvviso le acque
e un suono dì tuono, di pianto, d'oceano,
giunge a Rosía e la risveglia e corre
la donna verso Rhodo e precipitano
nave, bestie, amore, nell'abisso:
la cataratta li solleva in bilico
e li fa cadere dal suo cielo,
li inonda, li perde, li fa naufragare,
li ricupera e li affonda,
li precipita nella vertigine, nella schiuma,
nel fulmine d'acqua, nel colpo,
li raccoglie nelle sue mani di vapore,
li allaccia nell'arcobaleno.

La nave cade e procede:
è morta e redivive.
Come pietra che cade si sommerge,
vola e poi come penna d'uccello,
si sbriciola forse e un dito d'acqua
sostenne la sua struttura procellaria.
Le teste bestiali si disperdono,
Rhodo e Rosía muoiono e non muoiono
finché un nuovo nume come un braccio
li porta distrutti verso il mare,

La vendetta del fuoco resta indietro.

Il vulcano abdica alla sua profezia.

LXXXII

La luce

La bocca di lui sulla sua bocca.

La mano di lei sulla pelle dell'uomo.

Dormirono quarant'ore di luce

e quaranta d'ombra. .

il mare li sosteneva.

L'aria azzurra, senza macchia,

senza pioggia, senza cenere.

Il sole centrale col suo fuoco rotondo.

L'estensione dell'oceano,

il suo stimolo profondo,

e la vasta libertà del giorno.

LXXXIII

I nuovi dèi

Poiché il mondo era morto
i due maltrattati,
gli espulsi,
sfuggiti all'ultimo castigo,
senza Dio, senza nessuno, senza Eden, caduti
con un grappolo di animali pazzi
in mezzo all'oceano,
Rhodo e Rosía, umani e divini,
morti d'amore e di conoscenza,
battuti, scorticati, figli della catastrofe,
erano di nuovo il destino.

La libertà del mare li sollevava
nel suo spazioso ventre:
ondeggiavano senza rotta e senza dolore
in una nave sola,
di nuovo soli, ma ora padroni
delle loro arterie, padroni
delle loro parole, dèi
comuni, liberi nel mare.

LXXXIV

Il passato

Oh statue nella selva, oh solitudine,
oh città distrutta nel fogliame,
indietro, indietro maledizione, maledizione,
Eden prestato da un Dio assente,
avvolto nella sua cupidigia, minacciante!

Perché quando fondarono l'amore
e si estesero come vegetali
sopra la terra naturale, giunse
la legge del fuoco con la sua spada
per vincerli, per incenerirli.

Ma ormai avevano appreso il mestiere
di metallo e di legno, erano divini:
il primo uomo era il primo divino,
la prima donna la sua rosa dea:
più non avevano per dovere morire,
ma di moltiplicarsi sopra il mare.

LXXXV

Alba

Rhodo pose il suo corpo in Rosfa,
Rosía ricevette la carezza ondeggiando
ed entrambi una volta ancora s'infransero, distanti,
vicini, infinitamente puri,
si percorsero con la bocca e il midollo,
s'immersero nell'onda che toccava un abisso,
si aprirono per seminarsi e rivivere,
caddero bocconi, si spensero, morirono.

LXXXVI

Qui termina e incomincia questo libro

Dice Rhodo: Io mi consumai
in quel regno che volli fondare
e più non sapevo di essere solo.
fu mia nozione rompere quell'eredità
di sangue e società: disabitarmi.
E quando dominai la pace terribile
delle praterie, dei ghiacciai,
mi ritrovai più solo della neve.

Fu allora: tu giungesti dall'incendio
e con l'autorità della tua tenerezza
incominciai a continuarmi e a estendermi.

Tu sei l'infinito che incomincia.

Così semplice tu, erba abbandonata
di cespuglio, mi risvegliasti
e io ti risvegliai, quando i tuoni
del vulcano decisero di avvisarci
che il termine si compiva
io non volli estinguerti né estinguermi.

LXXXVII

Dicono e vivranno

Dice Rosía: Rompemmo la catena.
Dice Rhodo: Mi darai cento figli.
Dice Rosía: Popolerò la luce.
Dice Rhodo: Ti amo. Vivremo.
Dice Rosía; Su quella sabbia
scorgo ombre.
Dice Rhodo: Siamo noi stessi.
Dice Rosía: Si, noi, finalmente.
Dice Rhodo: Al principio: noi.
Dice Rosía; Voglio vivere.
Dice Rhodo Io voglio mangiare.
Dice Rosía: Tu mi desti la vita.
Dice Rhodo; Andiamo a fare il pane.
Dice Rosía: da tutta la morte
giungemmo all'inizio della vita.
Dice Rhodo: Non ti sei vista?
Dice Rosía: Sono nuda. Ho freddo.
Dice Rhodo: Lasciami l'ascia.
Porterò la legna.
Dice Rosía: Sopra questa pietra
attenderò per accendere il fuoco.


NOTA
La città dei Cesari

Nel Sud del Cile, in un luogo della Cordigliera delle Ande che nessuno può precisare, esiste una città incantata di straordinaria magnificenza. Tutto in essa è oro, argento e pietre preziose. Nulla può uguagliare la felicità dei suoi abitanti, che non devono lavorare per sopperire alle necessità della vita, né sono soggetti alle miserie e ai dolori che affliggono il comune dei mortali. Quelli che giungono lì perdono la memoria di ciò
che furono finché restano in essa, e se un giorno la lasciano si dimenticano di averla vista. .
LA CITTÀ DEI CESARI sta incantata nella Cordigliera delle Ande, sulla riva di un gran lago.
Il pavimento della città è d'argento e d'oro massicci.
Per meglio assicurare il segreto della città, lì non si costruiscono canotti né navi, né alcun tipo di ibarcazione. Colui che è entrato una volta nella città perde il ricordo della strada che a essa lo condusse.
Sebastiano Caboto, marinaio veneziano al servizio della Spagna, prima di partire alla scoperta delle «miniere vicine al fiume Paraguay», diede licenza al capitano Francesco Cesare perché, insieme a quattordici individui che lo seguivano, andasse a scoprire le miniere d'oro e d'argento che esistevano
«nell'interno». Cesare parti dal forte di Sancti Spiritus (edificato da Caboto sulla riva del fiume Carcarañá) nel novembre del 1528, e divise la sua gente in tre gruppi, che presero altrettante strade diverse. Due mesi e mezzo dopo, Cesare ritornò accompagnato da sette dei suoi compagni, e di quello che lui e i suoi raccontarono della spedizione si sa solo che dissero «che avevano visto grandi ricchezze d'oro e d'argento e di pietre preziose». «Se è esatto il fatto — dice Medina — è necessario supporre che raggiunsero i confini estremi dell'impero degli Incas, attraversando così tutta la pampa». (El veneziano Sebastian Caboto al servicio de Espana, I, 194).
Molte furono le spedizioni che nei secoli sedicesimo, diciassettesimo e diciottesimo si organizzarono per scoprire la Città dei Cesari, o «i Cesari», come più comunemente si diceva, e ancora «pochi anni fa partì una nuova spedizione capitanata da rispettabili abitanti dell'Arcipelago», scrive F. J. Cavada nel suo interessante libro Chiloé y los chilotes, 87-88. È inutile dire che fallirono tutte. Ma è curioso leggere le relazioni degli esploratori, nessuno dei quali insinua neppure il sospetto che possa trattarsi di una favola: tanta era la fede di quei meravigliosi avventurieri nell'assurda tradizione. Vi fu qualcuno — il P. Menéndez, francescano — che sul finire del secolo XVIII compì nientemeno che quattro viaggi in cerca dei famosi Cesari.

Dal libro di JULIO VICUNA CIFUENTES,
Mitos y supersticiones de Chile, Santiago, 1919.



Indice
dei termini mantenuti in lingua originale nella traduzione

bandurria = trampoliere
cascabela = che suona come un « cascabel », sonaglio, qui donna ridente
chacalote = « marsopla », porco di mate (cetaceo)
chinque = specie di puzzola
chucao = uccello simile al tordo, dal canto interpretato come segno di malaugurio
flamenco = fenicottero
guanaco = ruminante addomesticabile
mantis = insetto
raulí = albero del Cile simile al rovere e assai alto
ulmo = albero industriale e medicinale, di altezza anche di quaranta metri

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