- 1968 - Le mani del giorno - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1968 - Le mani del giorno

LE MANI DEL GIORNO (1968)


I
IL COLPEVOLE

Mi dichiaro colpevole di non avere
fatto, con queste mani che mi hanno dato,
una scopa.

Perché non ho fatto una scopa?
Perché mi hanno dato delle mani?

A cosa mi sono servite
se ho visto solo il rumore del cereale,
se ho avuto orecchie solo per il vento
e non ho raccolto il filo
della scopa,
ancora verde nella terra,
e non ho messo a seccare i teneri steli
e non li ho potuti raccogliere
in un aureo fascio
e non ho legato un bastone di legno
alla gonna gialla
fino a dare una scopa alle strade?

È andata così:
non so come
la vita mi è passata
senza imparare, senza vedere,
senza raccogliere e unire
gli elementi.

In quest'ora non nego
di aver avuto tempo,
tempo,
ma non ho avuto mani,
e così, come potevo
aspirare con ragione alla grandezza
se non sono mai stato capace
di fare
una scopa,
una sola,
una?

Il
IL VUOTO

E come si fa il mare?
Io non ho fatto il mare;
l'ho trovato nei suoi selvaggi
laboratori,
l'ho trovato pronto a tutto,
crepitante
pacifico,
atlantico di piombo,
mediterraneo
tinto di anilina:
tutto era bianco e profondo,
ribollente e permanente,
aveva onde, ovaie,
navi morte:
pulsava
il suo organismo.

L'ho misurato tra gli scogli
della terra stupita
e ho detto, non l'ho fatto,
non l'ho fatto io, né nessun altro:
in questo sono nessuno
un servitore inutile,
come un mollusco rotto
dai suoi denti. Il mare.

Non ho fatto il sale disperso
né il vento coronato
dalla raffica che rompe il candore,
no, non ho fatto
la luce dell'acqua né il bacio che fa rabbrividire
la nave con le sue labbra di battaglia,
né le demolizioni della sabbia,
né il movimento che avvolse in silenzio
la balena e le sue procreazioni.

Io sono stato allontanato
da questi infiniti:
non un solo dito dei miei simili
ha tremato nell'acqua urgendo l'esistenza
e sono venuto per essere testimone
della più tempestosa solitudine
senz'altro che occhi vuoti
che si sono riempiti di onde
e che si chiuderanno
nel vuoto.


III
A SEDERSI

Tutti seduti
a tavola,
nel trono,
nell'assemblea,
nel vagone del treno,
nella cappella,
nell'oceano,
nell'aereo, nella scuola, nello stadio
tutti seduti o sul punto di farlo:
ma non resterà ricordo
di una sedia
che abbiano fatto le mie mani.

Cos'è successo? Perché, se il mio destino
mi spinse a star seduto, tra altre cose,
perché non mi lasciarono
impiantare quattro gambe
di un albero morto
alla seduta, allo schienale,
all'uomo accanto
che lì dovette attendere la nascita
o la morte di una persona cara?
(La sedia che non avrei potuto fare, che non ho fatto,
trasformando in stile
la naturalezza del legno
e in oggetto chiaro
il rito degli alberi oscuri).

La sega circolare
come un pianeta
scese dalla notte
fin sulla terra.
E girò per i monti
della mia patria,
passò senza vedere dalla mia porta larvale,
si perse nel suo suono.
E fu così che camminai
nel profumo
della foresta sacra
senza aggredire con l'ascia il bosco,
senza prendere in mano
la decisione e la sapienza
di tagliare il ramo
ed estrarre
una sedia
dall'immobilità
e ripeterla
finché tutti fossero seduti.


IV
LE MANI NEGATIVE

Quando mai qualcuno mi ha visto
tagliare polloni, ventilare il grano?
Chi sono, se non ho fatto niente?
Il più comune dei mortali
ha toccato la terra
e vi ha fatto cadere qualcosa
ch'è entrata come la chiave
entra nella serratura:
e la terra si è spalancata.

Io no, non ho avuto tempo
né istruzione:
ho conservato le mani pulite
del cadavere urbano,
mi ha disdegnato il grasso delle ruote,
il fango inseparabile dei costumi chiari
è andato ad abitare senza di me le province silvestri:
l'agricoltura non si è mai occupata dei miei libri
e con niente da fare, perso nelle cantine,
ho riconcentrato le mie povere preoccupazioni
finché non ho vissuto che negli addii.

Addio, ho detto all'olio, senza conoscere l'oliva,
e anche alla botte, miracolo della natura,
ho detto addio, perché non capivo
come potevano aver fatto tante cose sulla terra
senza il consenso delle mie mani inutili.


V
L'OBLIO

Mani che solo vestiti e corpi
hanno trattato,
camicie e fianchi
e libri, libri, libri
finché sono state solo
mani d'ombra, reti
senza pesci, nell'aria:
hanno solo attestato
l'eroismo delle altre mani
e la fertile costruzione
che dita morte hanno innalzato
e dita vive proseguono.

Non c'è un prima nelle mie mani:
ho dimenticato i contadini
che nello scorrere
del mio sangue
hanno arato:
non avevano potere su di me le forti razze
di fabbri
che mano a mano hanno lavorato
ancore, martelli, chiodi,
cucchiai e tenaglie,
viti, rotaie, lance,
locomotrici, prue,
perché ferrovieri fochisti,
con la lentezza di mani sporche
di grasso e di carbone, diventassero di colpo
dèi del movimento
nei treni che attraversano la mia infanzia
sotto le mani verdi della pioggia.


VI
UNA CASA

Qualcuno tocca una pietra e poi esplode
la pietra e i pezzi
si amalgamano di nuovo:
è il compito
dei giovani dèi cacciati
dal giardino solitario.
È il compito di
rompere, ricostruire,
spezzare, unire, vincere
finché la roccia
non obbedì alle mani di Aguilera,
agli occhi di Antonio e Recaredo,
alla testa di don Alejandro.

Così si fanno le case sulla costa.
E poi entrano ed escono le impronte.


VII
IL FREDDO

Guardate le selci di Aconcagua:
brillano milioni d'occhi nella neve,
milioni di sguardi.

È assopito tuttavia
l'universo duro:
manca il rapido fulmine,
il movimento.

Poi delle mani
aprono il petto amaro
dell'altura
e due pietre si baciano,
s'intrecciano
finché una piccola scintilla cieca
ancora
senza direzione esce e vola
e un'altra cade e si unisce
al movimento
del fumo, là sulle cime
di Aconcagua.

Freddo, padre del fuoco!


VIII
IL CAMPANARO

Persino chi tornò
dal monte, dalla sabbia,
dal mare, dal minerale, dall'acqua,
a mani vuote,
persino il domatore
che tornò dal cavallo
in una bara, spezzato
e morto
o la donna dalle sette mani
che nel telaio
perse all'improvviso il filo
e tornò all'ovaia,
ridotta a uno straccio,
o addirittura il campanaro
che muovendo
nella corda
il firmamento
cadde dalle chiese
verso l'oscurità
e il cimitero:
anche tutti loro
se ne andarono
con le mani sciupate
non dalla morbidezza ma da qualcos'altro:
il tempo corrosivo,
la sostanza
nemica
del carbone, dell'onda,
del cotone, del vento,
perché solo il dolore insegnò a essere:
perché fare era il destino delle mani
e in ogni cicatrice c'è la vita.


IX
DESTINI

Del tuo destino dammi una bandiera,
una zolla, una spatola di ferro,
qualcosa che voli o passi, la cintura
di una stoviglia, il sole di una cipolla:
te lo chiedo benché non abbia fatto nulla.
E prima di congedarmi, voglio essere
preparato e arrivare con le tue fatiche,
come se fossero le mie, alla morte.
Lì alla dogana mi chiederanno
quante cose abbia coltivato, tagliato, assemblato,
rattoppato, completato, lasciato in movimento
tra mani affamate e mortali
e io risponderò:
ecco cos'ho fatto, cosa abbiamo fatto.

Perché sento che in qualche modo
ho condiviso quanto facevano
i miei fratelli o i miei nemici:
e loro, dal tanto nulla che ho cavato
dal nulla, dal mio nulla,
hanno preso qualcosa e la mia vita è servita.


X
IL VIAGGIATORE

Quando giovanissimo mi persi nel mondo,
attraversando, cencioso, le strade.
Era iraconda e aspra la notte,
la notte spinosa della foresta.

Scoprii uno smisurato piede di pietra:
un piede di pietra bianca come un monte
rotto alla caviglia, e il candore
del piede, di quelle dita sepolte,
di quella pianta sommersa tra radici,
non fu solo mistero per me.

Mi sentii rifiutato,
molto più sotterrato e amputato
del gran vestigio bianco
del dio assente nascosto nella selva.


XI
ASSENTI

Non c’è nessuno. Alcuni hanno battuto tutto il giorno
La stessa ruota finché adesso gira,
altri hanno coperto di lastex il mondo
fino a renderlo verde,
arancione,
viola
e giallo.

Questi tornano dal mare e sono già spariti.

Qui sono state senza mai fermare le mani
Scuotendo nell’aria il candore
Le lavandaie, ma sono già sparite.

E quelli che hanno mangiato il filo di ferro
O le locomotrici,
persino i sacerdoti
del crepuscolo,
tutti hanno preso la stessa nave,
tutti sono spariti tra tante onde
della notte
o con la polvere amara del deserto
o con la combustione delle stelle
o con l’acqua che va e più non torna
o con il pianto che cerca i morti,
tutti hanno fatto qualcosa, e adesso è notte.

Io navigavo smarrito
Nella solitudine che m’hanno lasciato

E siccome non ho fatto nulla,
guardo nell'oscurità verso tante assenze
che a poco a poco mi hanno reso ombra.


XII
STELLA DEL GIORNO

Oh sole pieno d'unghie,
animale d'oro, ape,
cane pastore del mondo,
perdona
lo smarrimento,
siamo già arrivati, tornati,
stiamo già aspettando
tutti insieme
nel recinto del giorno.

Se disobbedimmo quella notte,
se andammo nel sogno della luna
a risolvere il lutto e i pianeti,
se ci concentrammo
sulla nostra pelle
affamata
d'amore e di cibo,
eccoci qui
di nuovo
nell'ovile,
a obbedire
alle tue lunghe spatole di luce,
alle tue dita che s'infilano ovunque,
alla tua convivenza di sementi.

Si sono messi tutti a muoversi,
a correre. Cittadino,
il giorno è corto ed ecco lì il sole come un toro
che scalcia nell'arena:
corra a cercare la sua pala,
la sua palanca,
la sua madia,
il suo termometro,
il suo fischietto, il suo pennello o le sue forbici,
il suo cerotto,
il suo montacarichi, la sua scrivania politica,
le sue patate al mercato:
corra signora, corra
signore,
per di qui, per di là, muova le mani,
che va via la luce.

Il sole ha riempito di pioli la gioia,
la speranza, la sofferenza,
è andato in giro con i suoi raggi
a delimitare, assegnare terre,
e ciascuno deve sudare,
prima che se ne vada
con la sua luce altrove
a cominciare e cominciar di nuovo
mentre quelli che stanno qui sono rimasti
immobili, a dormire,
fino a lunedì mattina.


XIII
IL FIGLIO DELLA LUNA

Tutto qui sta vivendo,
facendo,
facendosi
senza il contributo della mia pazienza
e quando posero queste rotaie,
cento anni fa,
io non toccai questo freddo:
non alzò il mio cuore bagnato
dalle piogge del cielo di Cautín
un solo movimento
che aiutasse
a estendere le strade
della velocità che andava nascendo.

E neanche misi un dito
nella strada
del pubblico spaziale che i miei amici
lanciarono verso Aldebarán sontuoso.

E dagli organismi egoisti
che solo udirono, videro
e seguirono
io patii umiliazioni che non racconto
perché nessuno continui a singhiozzare
con i miei versi che non hanno più pianto
solo energia che riversai sulla pagina,
sulla polvere, sulla pietra del sentiero.

E siccome camminai tanto senza rompere
i minerali né tagliare legna
sento che il mondo non mi appartiene:
che è di chi ha inchiodato e tagliato
ed eretto questi edifici,
perché se la malta, che nacque
e durò sorreggendo i progetti,
l'hanno fatta altre mani,
sporche di fango e sangue,
io non ho il diritto di proclamare
la mia esistenza: sono stato un figlio della luna.


XIV
LA MANO CENTRALE

Toccare l'azione, vivere la trasparenza
del cristallo nel fuoco,
circolare nel bronzo
fino a cantare per bocca di campana,
allegria profumata
della tavola che geme
come un violino
nella segheria,
polvere del pane
che viaggia
da una rumorosa
conversazione di spighe
fino alla macchina
dei fornai,
toccare la disgrazia
del carbone
nella sua morta cascata
sottoposto alla pulsazione
degli scavi
fino a spezzarsi, fuggire,
allearsi e rivivere
nell'acciaio
prendendo l'unità
della purezza, la colomba ovale
del nuovo movimento:
azione,
azione di sangue:
circolazione del fuoco:
circuito delle mani:
rosa dell'energia.


XV
CICLO

XIV
LA MANO CENTRALE
Toccare l'azione, vivere la trasparenza
del cristallo nel fuoco,
circolare nel bronzo
fino a cantare per bocca di campana,
allegria profumata
della tavola che geme
come un violino
nella segheria,
polvere del pane
che viaggia
da una rumorosa
conversazione di spighe
fino alla macchina
dei fornai,
toccare la disgrazia
del carbone
nella sua morta cascata
sottoposto alla pulsazione
degli scavi
fino a spezzarsi, fuggire,
allearsi e rivivere
nell'acciaio
prendendo l'unità
della purezza, la colomba ovale
del nuovo movimento:
azione,
azione di sangue:
circolazione del fuoco:
circuito delle mani:
rosa dell'energia.


XV CICLO
Si ripete una volta, più verso il fondo
l'umida primavera:
mette le dita tra le radici,
tocca l'uomo nascosto.

Io dormivo laggiù,
io dormivo.

Apre le sue labbra verdi,
si alza:
è uomo, o pianta, o fiume,
è avida cintura,
è bocca d'acqua.

Giunse l'ora,
esisto,
sono di luce e di sabbia.

Chi viene a vedermi? Nessuno!

Io sono nessuno.

E perché quest'aria azzurra?

Io sono azzurro.

Sul ramo una rosa?

Io l'accendo.


XVI
ADDII

Non accesi che una carta amara.

Non fu mia la colpa di quel Buongiorno
che si diedero il tuono e la rosa.

Non feci io il mondo, non feci gli orologi,
non feci le onde e neanche mi aspetto
di trovare nelle spighe il mio ritratto.

E a forza di perdere dove non andai
restai pian piano assente
senza sprecare alcuna preferenza
ma un monte di sale sgretolato
da un bicchiere d'acqua dell'inverno.

Si chiede il viaggiatore se sostenne
il tempo, andando contro la distanza,
e torna dove cominciò a piangere:
torna a sprecare la sua dose di io stesso,
torna ad andarsene con tutti i suoi addii.


XVII
INTORNO AI COLTELLI

È questa l'anima gentile che aspettavo,
questa è l'anima di oggi, senza movimento,
come se fosse fatta di luna
senz'aria, quieta nella sua bontà terribile.

Quando cadrà una pietra
come un pugno
dal cielo della notte
in questo bicchiere l'accoglierò:
nella luce rigogliosa
accoglierò l'oscurità viaggiante,
l'incertezza celeste.

Non ruberò che questo movimento
dell'erba del cielo,
della notte fertile:
solo un colpo di fuoco,
una caduta.

Liberami, terra buia, dalle mie chiavi:
se ho potuto aprire e frenare
e tornare a chiudere il cielo duro,
testimonio che non sono stato niente,
che non sono stato nessuno,
che non sono stato.

Ho solo aspettato la stella,
il dardo della luna,
il raggio di pietra celeste,
ho aspettato immobile nella società
dell'erba che cresce in primavera,
del latte nella mammella,
del miele pigro e peregrino:
ho aspettato la speranza,
ed eccomi qui
convinto
di aver patteggiato con la tempesta,
di aver accettato l'ira,
di aver aperto l'anima,
di aver sentito entrare l'assassino,
mentre conversavo con la notte.

Adesso ne arriva un altro, disse latrando il cane.

E io con i miei occhi di freddo,
con il lutto argentato
che mi ha dato il firmamento,
non ho visto il pugnale né il cane,
non ho sentito i latrati.

Ed eccomi qui quando nascono i semi
e si aprono come labbra:
tutto è fresco e profondo.

Sono morto,
sono assassinato:
sto nascendo
con la primavera.

Ho qui una foglia,
un orecchio, un sussurro,
un pensiero:
rivivo un'altra volta,
mi fanno male le radici,
i capelli,
mi sorride la bocca:
mi alzo
perché è uscito il sole.

Perché è uscito il sole.


XVIII
RITORNANDO

Così dunque, buongiorno,
terra sola,
solitudine di questo sole disabitato
che con la sua nave
naviga dalla neve alle spighe:
appena si svegliarono
gli uccelli cantori
prese la sua decisione il chiaro giorno
e la sua campana la natura.

Per questo, buongiorno,
alla stabilità, allo spessore
dello spazio imperioso
dove non stai cessando d'essere uomo
mentre ti rinnega e ti accarezza
l'eternità di mani trasparenti.


XIX
UCCELLO

Qui sull'albero canta.

È un uccello solo, cocciuto,
pieno di acqua che cade,
di luce folle che sale,
di gutturale cristallo,
di trillo interminabile.

Perché?

E la domanda canta.


XX
IL SOLE

Già si sa: la pioggia
lavò e cancellò i nomi.

Nessuno si chiama nulla.

L'acqua impose,
infine,
un inizio,
una stella spenta
in cui
non
hanno nome
i giorni
né i regni,
né il fiume.

Questo non si sapeva
finché tutti
andando e tornando
dai loro
doveri
indicavano le piazze
con il dito
e controllavano nelle librerie
la storia e la geografia
della regione cancellata
dalla pioggia.

Finché il sole scese
dalla sua frontiera
e si mise a scrivere
nomi
gialli
sopra tutte le cose
di questo mondo.


XXI
IL PIANTO

Dice l'uomo: per strada ho sofferto
di andare senza vedere, di assenza con presenza,
di consumare senza essere, dello smarrimento,
degli ostili occhi passeggeri.

Dice inoltre l'uomo
che odia il suo quotidiano di lavoro,
il suo ti guadagnerai il pane, la sua triste guerra,
i suoi vestili d'oro il ricco, il colonnello la sua spada,
il suo piede stanco il povero, la sua valigia il viaggiatore,
la sua cravatta impeccabile il cameriere,
il banchiere la sua gabbia, la sua uniforme il gendarme,
il suo convento la suora, la sua arancia l'ortolano,
le sua carne il macellaio, l'odore di farmacia
il farmacista, il suo mestiere la meretrice,
mi dice l'uomo che fuggiasco vaga
nel fluviale giro dell'odio che ha riempito
la strada con i suoi passi
rapidi, insaziabili, equivoci, amari
come se tutti portassero il peso sulle spalle
di un'invisibile ma dura mercanzia.

Perché, stando al racconto del passante,
sì turbò il coraggioso e odiò il coraggio,
e fu scontenta dei suoi piedi la bellezza
e odiò il pompiere l'acqua con cui spegneva il fuoco
e alla fine un fastidio di alghe nell'oceano,
un borgo di braccia intrinseche che chiamano,
un agitato golfo di maree vuote
è la città, e l'uomo non sa più che piange,


XXII
CHI HA CANTATO CANTERÀ

Io l'anteriore, figlio di Rosa e di José
sono. Il mio nome è Pablo per Arte di Parola
e devo stabilire le mie ingiustizie:
i debiti che lasciai insoluti con me stesso.

Succede che una volta, quando ormai non nascevo,
quando forse non ero o non ero destinato
ad alcun corpo, incerto
tra la non esistenza e gli occhi che si schiudono,
tra conti di caos, nella lotta
della materia e della luce
quel po' di vita che ebbi fu un'esitazione,
fui vivo senza alcun progetto,
fui morto ancor prima di nascere,
e tra i muri che traballavano
entrai nel buio per vivere.

Per questo, mi scuso per la tristezza
dei miei allegri errori,
dei miei sogni cupi,
mi scuso con tutti perché superfluo:
non sono riuscito a usare le mani
nelle falegnamerie o nel bosco.

Vissi un'epoca radiosa e sporca,
vagai sopra le onde industriali
mangiando la cenere dei morti
e sia quando mi son rivolto a Dio
sia a un generale, tanto per intenderci,
se n'erano andati tutti con le loro porte:
non potei che tornarmene al mio canto.

Canto, cantai, cantando
e ho fatto i numeri
perché possiate sommare, voi che vivete
sommando,
perché tagliate tutto
voi sottrattori:
quando tutti i giorni mi uccidevano
mi sono abituato a nascere, e naturalmente
questo è il mio mestiere, e non ha importanza.


XXIII
I SOVRANI

Sì, sono colpevole
di quanto non ho fatto,
di quanto non ho seminato, tagliato, misurato,
di non essermi istigato a popolare terre,
di essermi mantenuto nei deserti
e della mia voce che parla con la sabbia.

Altri avranno
più luce nel loro prontuario,
io avevo destinato tante cose
a crescere di me, come dalla legna
si tagliano cantando le assi,
che senza parlare della mia anima
ma molto più tardi
avrò una cattiva reputazione
perché non ho costruito
un orologio: non ho fatto il mio dovere:
si sa che un orologio è la bellezza.

La conchiglia non la può fare
se non la bestia stessa
intima, nel suo silenzio,
ed è prerogativa degli scarabei
l'errante ed enigmatica struttura
dei sette lampi che ostentano.

Ma l'uomo che esce con le sue mani
quasi fossero guanti morti
muovendo l'aria finché si disfano
non si merita
la tenerezza
che riserbo al minuscolo oceanide
o al minimo colosso coleottero:
loro presero dalla loro stessa essenza
la propria costruzione e sovranità.


XXIV
ENIGMA CON UN FIORE

Una vittoria. È tardi, non sapevi.
Giunse come giglio al mio arbitrio
il bianco stelo che trafigge
l'eternità immobile della terra,
spingendo una debole forma chiara
fino a perforare l'argilla
con lampo bianco o sperone di latte.
Muta, compatta oscurità del suolo
nel cui precipizio
avanza il fiore chiaro
finché la bandiera della sua bianchezza
sconfigge il fondo indegno della notte
e dal chiarore in movimento
si spargono attonite sementi.


XXV
28325674549

Una mano fece il numero.
Unì un sassolino
all'altro, un tuono
a un altro tuono,
un'aquila caduta
a un'altra aquila,
una freccia all'altra
e nella pazienza del granito
una mano
fece due incisioni, due ferite,
due solchi: nacque il
numero.

Crebbe il numero due e poi
il quattro:
vennero fuori tutti
da una mano
il cinque, il sei,
il sette,
l'otto, il nove, lo zero
come uova perpetue
di un uccello
duro
come la roccia,
che mise tanti numeri
senza consumarsi, e dentro
al numero un altro numero
e un altro dentro all'altro,
prolifici, fecondi,
amari, antagonisti,
numerando,
crescendo
sulle montagne, negli intestini,
nei giardini, nei sotterranei,
cadendo dai libri,
volando sopra Kansas e Morelia,
coprendoci, accecandoci, uccidendoci
dai tavoli, dalle tasche,
i numeri, i numeri,
i numeri.


XXVI
LA LUNA

Io racconto tante cose alle mie mani
che non hanno ricordi se non di pura seta,
la morbidezza di seni o di anfore,
che senza lotta ottennero,
senza chiudersi serbarono:
senza spargere
sementi,
raccogliendo la notte ogni giorno,
il gomitolo dell'aria,
filando e sfilando la matassa
nella mia magra inettitudine:
oh mani,
ho detto,
alzando le braccia alla luna,
che chiarore è mai questo?

L'hai fatto tu?


XXVII
IL CORO

Ero nell'esercizio
dell'autunno extrapuro,
quando marcisce il manto
dell'ossigeno,
vacilla il mondo tra l'acqua e l'ombra,
tra l'oro e il fiume,
e si ascolta, nascosta, una campana
come un pesce di bronzo nell'altura.
Bisogna parlare,
bisogna emettere il suono,
non importa
che sbagli il vento:
sono anni d'umidità,
secoli di terra muta,
bisogna raccontare cos'è successo in autunno.
Non c'è nessuno:
ferisci il tuo patrimonio silenzioso,
la tua campana gialla,
innalza la tua profondità
al coro,
che salgano le tue radici
al coro:
l'oblio è pieno
di germi che cantano
con te:
un grande autunno arriva
nel tuo paese
in un'onda di rose pallide:
qualcuno ha dissotterrato
tutto questo profumo:
è l'odore del corpo della terra.

Andiamo.


XXVIII
IL CORPO DELLA MANO

Una mano è un corpo,
un corpo è una mano,
cosa facciamo
con la mano del corpo
o il corpo
della mano?
Raccogliamo
da terra e mare:
sappiamo
fino al fondo,
viviamo
corpo a corpo,
e mano a mano è andata la vita,
raggiungere, possedere,
toccare, intrecciare
e salutare.


XXIX
NASCITA NOTTURNA

Oh notte zenitale,
diretta, retta
con il tuo fino a ieri inaccessibile
soffitto,
oggi sei polverone
o bacio azzurro,
colpo di folgori,
trasparente tenebra!

Allattami,
notte,
lasciami scuotere,
svuotare il liquido
delle tue mammelle notturne,
sprofondami nel tuo grembo
orizzontale, tra le popolazioni
della tua maternità, per le dimore
delle tue fredde torce:
andare addormentato nel viaggio della sfera
come un neonato, rabbrividendo
al contatto con la dismisura,
tra le lanterne del tuo litorale.


XXX
IL FONDO

Potente del mare, sconosciuto
autore del movimento,
causa sul fondo, canto,
pacata furia o chioma rotta
o igneo motore
nell'acqua
sepolto
come il vulcano che ordina il suo silenzio.

È vero che le mie mani navigarono
per la vastità, adesso
confesso il mio credo:
è l'abisso,
sono le mani
del mare
che mi hanno fatto,
che hanno educato
con i loro guanti verdi
le mie dita
che continuano a ricordare
la libertà dell'acqua.


XXXI
IL VIAGGIATORE

Uomo per la penombra mi serve,
donna per la penombra,
in questa mezza terra
sono vinto:
io ho bisogno della luce più oscura:
so che altri popolano
l'ombra indeclinabile,
che la stendono
come se fosse tappeto
e di altri è la luce, l'alfabeto.

Io non riposo
a questa latitudine:
sono appena arrivato:
voglio proseguire il viaggio.


XXXII
LA CERIMONIA

Cos'hai fatto delle tue mani,
albero morto?
Le hai lasciate
appese
all'autunno?
Le hai trascinate
per la strada
della morte gialla?

Oh lento nido
delle fronde, il vento
è arrivato con il suo violino
e poi il fuoco.

Io ho visto la cerimonia:
dura una vita
intera:
sei terra, sei seme,
sei tatto,
sei tronco,
sei foglie,
sei trillo,
sei oro,
sei nudo, sopra
l'inverno,
non hai mani,
sei
di nuovo
fango,
silenzio nero,
ombra.




XXXIIII
PRECOCE

Io sono il mattinale: qui è arrivata
tardi la malafede.

Io avevo filato e sfilato il giorno
fresco, argentato ancora per la nascita,
e quando Pavín Cerdo o i suoi parenti
lettera con lebbra imprimono nello stagno,
che fargli, era ormai tardi.

Sono rimasto precoce e mattiniero..


XXXIV
L'USO DEI GIORNI

Il giorno è liscio, levigato,
è un'agata, è un limone,
è un'uva scivolosa:
la sua servitù fu partire.

A forza di uscire la notte,
a forza di tornare,
divenne ambra il giorno,
divenne materia pura.
Come nei coltelli consumati
si assottigliano il manico e la lama,
cambiano al tatto,
ho visto questo giorno tornare
da un lungo viaggio nella notte
trasformato in un coltello azzurro,
in attrezzo della luna.


XXXV
IL SIGILLO DELL'ARATRO

In questo negozio
voglio comprare mani,
voglio lasciare
le mie:
non mi servono.

Voglio sapere
se con già tanti anni
posso
cominciare daccapo,
lavorare daccapo,
continuare.
Voglio toccare con altro tatto
il mondo,
i corpi,
le campane,
le radici,
nascere
in altre dita,
crescere in altre unghie,
ma
soprattutto
tagliare legna, dominare metalli,
costruire arsenali, acquedotti,
e macinare la terra finché la polvere
e il fango non ci infondano,
a forza di arare, il sigillo triturato
della nostra povera eternità terrestre.


XXXVI
SONO DOMANDE

È stato usato il corpo?

Era tuo?

Non era vestigia, non era un'uniforme,
non è stato scheletro della simmetria,
non è stato il mantello impune dello spirito?

E se coppa assetata o arma bianca
è stato il tuo nudo, dimmi,
a me, tra le mie tenebre:
l'hai riempita di sangue in primavera?

O hai cercato un altro corpo in cui morire?


XXXVII
SEME

Perché quel grido non ha parola
è solo sillaba color del sangue.

E circola nella piega di un desiderio
come una densa sorgente calda:
solfato di calce rossa, sole segreto
che apre e chiude le porte genitali.


XXXVIII
È COSÌ IL DESTINO

Ma la mano cerca di fare e invano vola
cercando di ghermire: vuole prendere, toccare,
vuole essere corpo e morire corpo a corpo.

Fu in questa luce e nell'altra
cercando tra il sonno e la veglia
un'altra mano, altra rosa, altro fianco
e dopo essere sopravvissuto all'amore,
quando s'aprì e rimase senza sostanza, ormai morta,
uscì a cercare gli arnesi di ogni giorno,
uscì a trovare il pane di ogni strada
e toccò così le macchine e il fango,
il cemento e la pioggia, la carta e il petrolio,
quanto scorre nelle acque, quanto porta il vento,
la vita, cioè la morte: cioè, la vita.


XXXIX
SOFFOCHIAMO

Ah, sia permesso al felice di soffrire
senza batterlo in faccia con l'ortica,
senza negargli il nome né il vino,
senza lasciar che suoni altra tristezza:
che getti nel suo piatto la tua anima:
è nostro dovere farci carico degli altri
e affondare, passando il guado, nel sangue altrui.

È bene che le stesse acque ci portino,
perdendoci tutti, salvandoci tutti.


XL
IN VIETNAM

E chi ha fatto la guerra?

Dall’altro ieri sta suonando.

Ho paura.

Suona come un sasso
contro il muro
come un tuono con sangue,
come un monte moribondo
È il mondo
Che io non ho fatto.
Che tu non hai fatto.
Che hanno fatto.
Chi lo minaccia con dita terribili?
Chi vuole decapitarlo?
Vero che sembrava lì lì per nascere?
E chi lo ammazza ora perché nasce?
Ha paura il ciclista,
l'architetto.
Si nasconde la mamma con il bambino e i seni,
nel fango.
Dorme nella grotta questa mamma e d'improvviso
la guerra,
viene grande la guerra,
viene piena di fuoco
e già cadono morti,
morti
la madre con il latte e con il figlio.

Sono morti nel fango.

Oh dolore, da allora
fino a oggi
c'è toccato stare con il fango
fino alle tempie
a cantare e sparare? Santo Dio!
Se te l'avessero detto
prima di essere, prima di quasi essere,
se almeno
ti avessero sussurrato
che i tuoi parenti o i tuoi non parenti,
figli di quella risata d'amore,
figli di sperma umano,
e di quella fragranza
di nuovo lunedì e di camicia fresca
dovevano morire così improvvisamente
e senza saper mai di che si tratta!

Sono gli stessi,
che vengono a ucciderci,
si, sono gli stessi
che verranno a bruciarci,
si, gli stessi,
i vincenti e i vanagloriosi,
i sorridenti che giocavano tanto
e che vincevano tanto,
adesso
nell’aria
vengono, verranno, vennero,
a ucciderci il mondo.

Hanno lasciato uno stagno
di padre, madre e figlio:
cerchiamo
lì dentro,
cerca le tue proprie ossa e il tuo sangue,
cercali nel fango del Vietnam,
cercali tra tante altre ossa:
adesso bruciate non sono più di nessuno,
sono di tutti,
sono le nostre ossa, cerca
la tua morte in quella morte,
perché gli stessi ti stanno minacciando
e hanno in sorte per te lo stesso fango.


XLI
MALGRADO

In Ecuador esce una puttopittrice
scrivendo il mio nome nella sua immondizia
e oggi il mondo albeggiava
perché in qualche posto buio, buio
si è scorta una stella.

Tutti sono venuti ad adorare la luce:
era solo una goccia di rugiada.

Però la goccia di rugiada ha lavorato:
tutto s'è fatto trasparente:
e gli impiegati sono accorsi
trafelati nel punto della luce;
gli invalidi andavano a cercare
le gambe che avevano perduto:
le pernici hanno lasciato nei loro nidi
uova tondeggianti piene di fumo
finché non è stato così grande il profumo
e si sono compiute le speranze
in modo tale che la terra
si è trasformata in un onomastico.

Che tristezza, in Ecuador
una puttopittrice triste
a grattarsi una verruca
in un giorno tanto cereale!


XLII
UNO SCARABEO

Arrivai anche allo scarabeo
e lo interrogai sulla vita:
sulle sue abitudini autunnali,
sulla sua armatura lineare.

Lo cercai nei laghi perduti
nel Sud nero della mia patria,
lo trovai tra la cenere
dei vulcani rancorosi
o salendo dalle radici
verso la sua stessa oscurità.

Come hai fatto il tuo vestito duro?
I tuoi occhi di zinco, la tua cravatta?
I tuoi pantaloni di metallo?
Le tue forbici contraddittorie?
La tua sega d'oro, le tue tenaglie?
Con che resina è maturata
l'incandescenza della tua specie?

(Io avrei voluto avere
un cuore di scarabeo
per perforare lo spessore
e lasciare la mia firma nascosta
nella morte del legno).
((E così il mio nome qualche volta
forse rinascerà di nuovo
per nuovi canali notturni
per poi uscire alla fine del tunnel
con altre ali a venire)).
((Niente più bello di te
muto insondabile scarabeo,
sacerdote delle radici
rinoceronte della rugiada)),
gli dissi, ma lui non mi parlò.

Lo interrogai e non rispose.

Così sono gli scarabei.


XLIII
J.S.

Per distrazione morì Jorge Sanhueza.
Vagava tanto pallido per strada
Che a poco a poco si smarrì in se stesso.
Ed ora come trovare
le lacrime mancanti!

La verità fu la sua assenza
e capimmo
perché si fosse ritirato un poco,
un po’ ogni giorno, fino ad insegnarci
il gioco della morte, della sua morte.

Se si è nascosto dietro lo stipite di una porta
a mezzaluna della notte, o magari
se ne sta dietro una finestra buia
facendoci credere di non esistere più,
io non lo so, tu non lo sai, è così:
continueremo a fingere di non saperlo.


XLIV
SCRIBACCHINI

Il Mapús, il Mapís si preoccupa
mi dicono, della mia ombra:
vive nella mia ombra poveretto e se la mangia.

Oh verme cupo,
ami la mia povera ombra che io lascio
seduta e legata al mio cappello
perché ho dimenticato, abbiamo dimenticato
che il dovere di avere un'ombra
ci è dato insieme alla luce:
e così ho lasciato nei cinema di provincia
(all'ingresso) la mia ombra adolescente:
poi l'ho persa di nave in nave,
per ritrovarla infine
tra nude ceste di arance
o sulla riva del mare in inverno.

Pensare che ogni volta che la perdevo,
la mia povera ombra ha ululato abbandonata
e un personaggio del Turkestan, con la coda,
vestito di piume
e con il naso appuntito da forbice
riempiva di vermi la sua anima con la mia ombra,
corrodendo il suo succo d'aloe e il suo sciroppo,
contorcendosi dentro al gilet
fino a versare la mia ombra nel suo calamaio
per scrivere al suo macabro suocero
fino a scansare fatiche inutilmente
e delirare nella sua meschinità.


XLV
COSTRUZIONE A MEZZOGIORNO

Oh colpo nella mattina
bell'edificio che erge la sua speranza:
il rumore ripetuto
tra il sole e i pini
di febbraio.

Qualcuno costruisce, canta
la squadra,
un secchio cade, il sole
passa di mano in mano
nel bagliore dei martelli
e nelle sabbie di Punta del Este
cresce una casa nuova
goffa, senza accendere e senza parlare,
finché il fumo dei muratori
che a mezzogiorno mangiano carne arrosto
dispiega una bandiera
di resa.

E la casa torna
alla pace della pineta e della sabbia
come se pentita di nascere
si congedasse dagli elementi
e si ritrovasse di colpo trasformata
in un piccolo pugno di polvere.


XLVI
IL COLPO

Inchiostro che mi trattieni
goccia a goccia
e che conservi la traccia
della mia ragione e della mia iniquità
come una lunga cicatrice che appena
si vedrà, quando il corpo sarà addormentato
nel discorso delle sue distruzioni.

Forse avrei fatto meglio
a riversare in una coppa
tutta la tua essenza, e poi gettarla
in una sola pagina, macchiandola
con una sola stella verde
e a far si che questa
sola macchia fosse tutto
quello che ho scritto nel corso della vita,
senza alfabeto né interpretazioni:
un solo colpo scuro
senza parole.


XLVII
LE DODICI

E scoccheranno per me le stesse dodici
che scoccano in fabbrica,
per me
invitato felice
delle sabbie,
festeggiato dalle sette schiume
del grande oceano misericorde,
per me,
scoccheranno le stesse dodici,
le stesse scampanate
del prigioniero tra le sue quattro mura,
le stesse dodici ore
dell'assassino accanto al suo coltello,
le stesse
dodici
sono per me e per l'incancrenito
che vede salire la malattia azzurra
fino alla bocca bruciante?

Perché non scoccano le mie dodici di sole puro e sabbia
per altri molto migliori di me stesso?

Perché le dodici del giorno felice
non si dividono invitando tutti?

E chi ha disposto per me questa gioia
ogni volta più amara?


XLVIII
AL PONTE CURVO DELLA BARRA MALDONADO,
IN URUGUAY

Tra acqua e aria brilla il Ponte Curvo:
tra verde e azzurro le curve
del cemento, due seni e due sime,
con la nuda unità
di una donna o di una fortezza,
sorretta da lettere di calcestruzzo
che scrivono sulle pagine del fiume.

Tra l'umanità delle rive
oggi ondula la forza della linea,
la flessibilità
della durezza,
l'obbedienza impeccabile
del materiale severo.

Per questo, io, poeta
dei ponti,
cantore di costruzioni,
con orgoglio
celebro
l'atrio
del Maldonado, aperto
al passaggio passeggero,
all'unità errante della vita.

Lo canto,
perché non una piramide
di ossidiana insanguinata,
né una vuota cupola senza dèi,
né un monumento inutile di guerrieri
si accumulò sulla luce del fiume
ma questo ponte che fa onore all'acqua
giacché l'ondulazione della sua grandezza
unisce due solitudini separate
e non pretende esser altro che un sentiero.


XLIX
CASA DI MÁNTARAS A PUNTA DEL ESTE

Quante cose cadono dal pino,
baffi verdi,
musica,
pigne come macigni
o armadilli
o come libri da sfogliare.

Mi è caduto in faccia anche
il petalo sottile
che conteneva un seme nero:
era un'ala imenottera
del pino,
una trasmigrazione
di morbidezze
in cui il volo si univa
a alle radici.

Cadono
gocce dall'albero,
punteggiature,
vocali, consonanti,
violini,
cade pioggia,
silenzio,
tutto cade dal pino,
dall'aria verticale:
cade l'aroma,
l'ombra crivellata
dal giorno,
la notte chiara
come latte di luna,
la notte nera
come quell'assenza.

Albeggia.

E cade
un nuovo giorno
dall'alto del pino,
cade con il suo orologio,
con le sue lancette,
e i suoi fori,
e imbrunendo cuciono
gli aghi del pino
un'altra notte alla luce,
un altro giorno alla notte.


L
RITRATTI MORTI

Faticai molto per restare immobile
e ancora adesso continuano a scuotermi!
(Mi sussurrò si defunto, e si assopì).

Ah tanto ci muoviamo noi umani
che quando il movimento s'arrestò
oli altri proseguirono con la tua ombra,
spargendola, Signore, nelle loro battaglie.

(E, gli altri siamo noi stessi
che non lasciamo in pace i morti
lavando e strofinando la loro memoria,
innalzando senza tregua quanto è rimasto
di loro: un patrimonio di ritratti,
di baffi e barbe che pettiniamo
perché i morti se ne stiano insieme a noi).

Tanto che ci costò questo movimento
infernale, di uccidere fino a morire,
e quando ormai ci credevamo immobili
bisogna uscire di continuo per strada
nella risurrezione dei ritratti.


LI
È SEMPLICE

Muta è la forza (mi dicono gli alberi)
e la profondità (mi dicono le radici)
e la purezza (mi dice la farina).

Nessun albero mi ha detto:
Sono più alto di tutti.

Nessuna radice mi ha detto:
lo vengo da una maggiore profondità.

E mai il pane ha detto:
Non c'è niente come il pane.


LII
LA PIOGGIA

Piove a Punta del Este sopra il verde
come se si cercasse di lavare,
di pulire la cima dei pini.

Si inorgoglisce il verde con la pioggia,

Sopra l'orgoglio piove in altro modo.

Piove piangendo adesso tra i pini.


LIII
MORALTTÀ

Che la ragione non mi accompagni oltre
dice il mio compagno, (e lo accompagno
perché amo, come nessuno, la pazzia).
Torna il mio compagno alla ragione
(e ancora io accompagno il mio compagno
perché senza ragione non sopravvivo).


LIV
NON TUTTO È OGGI NEL GIORNO

Qualcosa di ieri è rimasto nel giorno d'oggi,
frammento di stoviglia o di bandiera
o semplicemente una nozione di luce,
un'alga dell'acquario della notte,
una fibra che non s'è consumata,
pura tenacità, aria di oro:
qualcosa di quanto è trascorso persiste
diluito, morendo nelle saette
dell'aggressivo sole e le sue lotte.

Se ieri non continua
in quest'abbagliante indipendenza
del giorno autoritario
che viviamo,
perché come un prodigio di gabbiani
è tornato indietro, come se esitasse
e mescolasse l'azzurro con l'azzurro
che già scompare?

Rispondo.
Dentro alla luce
circola la tua anima
riducendosi fino a che si estingue,
crescendo come un tocco di campana.

E tra morire e rinascere
non c'è tanto
spazio, e non è così dura
la frontiera.

È rotonda la luce come un anello
e ci muoviamo nel suo movimento.


LV
L'OMBRA

Ancora non torno,
non sono tornato,
viaggio dentro
la conflagrazione:
dentro questa
vena
proseguì il viaggio il sangue
e non posso arrivare
dentro me stesso.

Vedo le piante, le persone vive,
i rami del ricordo,
il saluto negli occhi delle cose,
la coda del mio cane.
Vedo il silenzio della mia casa, aperto
alla mia voce, e non rompo le pareti
con un grido di pietra o di pistola:
percorro il terreno che conosce i miei piedi,
tocco il rampicante che salì
sugli archi scuri di granito
e scivolo sulle cose,
sull'aria,
perché rimane la mia ombra altrove
o sono l'ombra di un cocciuto assente.


LVI
UN TALE, LA SUA STESSA BESTIA

Andò lo scrittore con la sua piccola bestia
sulle spalle, sempre
convinto che fossero le sue ali.

Girò vagamente nelle redazioni
mostrando i suoi sterili
scritti, volgarerotici
versi: non
interessò, ma, quando esibendo
le sue credenziali, gli si vide la bestia
montata sulla spalla,
glieli lessero, e venne destinato
a perpetuarsi nella maldicenza.

E gli pagarono ogni coltellata.

E brillò infine
ma non firmò chiara ombra,
costellazione o petalo o grandezza:
venne frettolosamente contrattato
per mordere, con gloria e spasso,
e si mise così a negare
tutto quello che era stato
finché la bestia sulla spalla,
prima inavvertita,
divenne la sua faccia
cancellando l'uomo che la sorreggeva.


LVII
LE MANI DEI GIORNI

A caso dalla rosa
nasce l'ora iraconda
o gialla.
Lamina di vulcano, petalo d'odio,
gola macellala,
così è un giorno, e l'altro
è teneramente,
sì, decisamente, epitalamio.


LVIII
IL PASSATO

Non torneranno le larghe giornate
che ribadirono, passando, la gioia.

Un rumore di fermenti
come vino cupo nelle cantine
fu la nostra età. Addio,
addio, scivolano
tanti addii come le colombe
nel cielo, verso il Sud, verso il silenzio.


LIX
IL VINO

Questo è il mio bicchiere, vedi
brillare il sangue
dietro il filo del cristallo?
Questo è il mio bicchiere, brindo
all'unità
del vino,
alla luce sgranata,
al mio destino e ad altri destini,
a quel che ho avuto e a quel che non ho avuto,
e alla spada dal colore di sangue
che canta col bicchiere trasparente.


LX
VERBO

Sgualcirò questa parola,
la storcerò,
sì,
è troppo liscia,
è come se un grande cane o un grande fiume
l'avesse ripassata con lingua o acqua
per molti anni.

Voglio che nella parola
si veda l'asperità,
il sale ferruginoso,
la forza sdentata
della terra,
il sangue
di chi ha parlato e di chi non ha parlato.

Voglio vedere la sete
dentro le sillabe:
voglio toccare il fuoco
nel suono:
voglio sentire il buio
del grido. Voglio
parole aspre
come pietre vergini.


LXI
IL CANTO

La mano nella parola,
la mano in mezzo
a quello che chiamavano Dio,
la mano nella misura,
nella cintura dell'anima.

Bisogna allarmare le casse della lingua,
spaventare fino a far volare
come gabbiani le vocali,
bisogna impastare
il fango
fino a farlo cantare,
sporcarlo di lacrime,
lavarlo con sangue,
tingerlo con viole
fino a far sgorgare il fiume,
tutto il fiume,
da un piccolo vaso:
è il canto:


LXII
ALTRI DÈI

Gli dèi bianchi dormono
nei libri:
l'amido si è rotto, il freddo
gli ha divorato gli occhi,
sopravvivono senza la luminosità d'allora
e resta appena un ricordo
d'amore tra le cosce.

La statua spezzata
non ha conservato nella cintura
i lampi.

Si è spento il candore.

Sappiate, però, eroi affaticati,
dalle ginocchia di marmo,
che il dio intransigente
delle isole marine
o l'irsuta, piumata,
sanguinosa
divinità dell'Africa,
accigliata nella sua veste
o nuda nella festa della specie,
fiera tribale o cuore totemico,
tamburo, scudo, lancia vissuta nella macchia
o vicino a neri fiumi che piangevano,
bruciano ancora, vivi,
attuali, ancestrali,
pieni di sangue e sogni e suoni:
ancora non si sono seduti sul trono
come spettri di marmo
nati dalla schiuma,
ma proseguono nel buio
la loro buia battaglia.


LXIII
INVERNO

Amico di quest'inverno, e di quello di ieri,
o nemico o guerriero:
freddo,
in pieno sole mi tocca
il tuo contatto
di arco innevato, di irritata spina.

Con queste dita, però,
goffe, vaghe
quasi si muovessero nell'acqua,
devo sviluppare questo giorno d'inverno
e riempirlo di addii.

Come afferrare nell'aria il pennacchio
con queste dita fredde
da morto nella bara,
e con i piedi immobili
come posso rincorrere il pesce
che a nuoto attraversa il cielo
o entrare nel maggese
appena bruciato, con scarpe grosse
e con la bocca aperta?

Oh intemperie del freddo, con il secco
volo di una pernice di macchia
e con la povera brina e le sue stelle
straziate tra i campi!


LXIV
IL MALATO PRENDE IL SOLE

Cosa fai tu, quasi morto, se il nuovo lunedì
filato dal sole, fragrante di bacio,
s'appende al suo cielo illustre
e si mette a disturbare la tua crisi?

Tu stavi guarendo dalla tua malattia,
dalle tue supposizioni laceranti
alla cui estremità il tunnel
senza uscita, il buio con il suo verdetto finale
ti aspettava: il silenzio
del cuore o di altra
viscera minacciata
ti ha sprofondato nella certezza dell'addio
e hai chiuso gli occhi, abbandonato
al dolore, al suo vento susseguente.

E oggi che disormeggiato dal letto
vedi così tanta luce che l'aria non la contiene
pensi che sì, se fossi morto
non solo non sarebbe successo niente
ma che non ci sarebbe mai stata tanta festa
come nel bel giorno del tuo funerale.


LXV
IO NON SO NIENTE

Nel perimetro e nell'esattezza
di scienze inesatte, sono qui, compagni,
senza saper spiegare questi vocaboli
che si traducono a poco a poco in cielo
e che provano robuste esistenze.

A niente ci è valso
affondare lo struzzo nella testa,
o scavarci buchi nella terra,
«Non c'è niente da sapere, si sa tutto».
«Non seccateci con la geometria».

Quel che è certo è che un'astratta incertezza
procede da ogni caos che torna
ogni volta a essere ordine,
e che strano, tutto
inizia con le parole,
nuove parole che si siedono sole
a tavola, senza previo invito,
parole detestabili che ingoiamo
e che si infilano nei nostri armadi,
nei nostri letti, nei nostri amori,
fino a essere: fino a iniziare
un'altra volta l'inizio con il verbo.


LXVI
SOBBORGHI
(Canzone triste)

Camminando per San Antonio alta
vidi la quiete della povertà:
cigolavano i cardini spossati,
le porte stanche volevano
andare a singhiozzare o a dormire.
Sotto i vetri rotti
nelle finestre, qualche fiore,
un geranio amaro e assetato,
portava a spasso per la strada
il suo arancione fuoco sporco.

I bambini di quel silenzio
dai loro occhi neri mi videro
come guardando da dentro un pozzo,
dalle acque dimenticate.

D'un tratto entrò nella strada il vento
come se cercasse la sua casa.
Si mossero le carte morte,
la polvere, pigramente,
cambiò di posto, si agitò
uno straccio nella finestra rotta
e tutto rimase com'era:
la strada immobile, gli occhi
che mi guardarono dal pozzo,
le case che sembravano
non aspettare nessuno, le porte
ormai demolite e nude:
tutto era duro e polveroso:
era morto, era vivo,
voleva morire e nascere.

Si preparava per il fuoco
la legna della povertà.


LXVII
IL REGALO

Da quante dure mani
deriva l'attrezzo,
la coppa,
e persino la curva insigne
del fianco che poi insegue
ogni donna con il suo disegno!

È la mano che forma
la coppa della forma,
porta avanti la gravidanza della botte
e la linea lunare della campana.

Chiedo mani grandi
che mi aiutino
a cambiare il profilo dei pianeti:
stelle triangolari
servono al viaggiatore:
costellazioni come dadi freddi
di luce quadrata:
mani che estraggano
fiumi segreti per Antofagasta
finché l'acqua corregga
la sua avarizia perduta nel deserto.

Voglio tutte le mani degli uomini
per impastare montagne
di pane e raccogliere
dal mare tutti i pesci,
tutte le olive
dall'olivo,
tutto l'amore che ancora non risveglia
e lasciare un regalo
in ciascuna delle mani
del giorno.


LXVIII
LA BANDIERA

Dà un pizzico di fuoco alla tua chitarra,

alzala infiammo:

è la tua bandiera.

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