- 1958 - Stravagario - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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- 1958 - Stravagario

STRAVAGARIO             (1958)
 
                                                           no
                                                         ro
                                              cor
                                                  oc                                                                          
                                         cielo
                                           al
                                     salire
                                 Per
 
 
due ali,
un violino,
e tante cose
infinite, ancor non nominate.
certificati d'occhio lungo e lento.
iscrizioni sulle unghie del mandorlo,
titoli dell'erba nel mattino.
 
 
CHIEDO SILENZIO
 
Ora, lasciatemi tranquillo.
Ora, abituatevi senza di me.
 
lo chiuderò gli occhi.
 
E voglio solo cinque cose,
cinque radici preferite.
 
Una è l’amore senza fine.
 
La seconda è vedere l'autunno.
Non posso vivere senza che le foglie
volino e tornino alla terra.
 
La terza è il grave inverno,
la pioggia che ho amato, la carezza
del fuoco nel freddo silvestre.
 
La quarta cosa è l’estate
rotonda come un'anguria.
 
La quinta casa sono i tuoi occhi.
 
Matilde mia, beneamata,
non voglio dormire senza i tuoi occhi.
non voglio esistere senza che tu mi guardi:
io muto la primavera
perché tu continui a guardarmi.
 
Amici, questo e ciò che voglio.
E’ quasi nulla e quasi tutto.
 
Ora se volete andatevene.
 
Ho vissuto tanto che un giorno
dovrete per forza dimenticarmi,
cancellandomi dalla lavagna:
il mio cuore è stato interminabile.
 
Ma perché chiedo silenzio
non crediate che io muoia:
mi accade tutto il contrario:
accade che sto per vivere.
 
Accade che sono e che continuo.
 
Non sarà dunque che dentro
di me cresceran cereali,
prima i grani che rompono
la terra per veder la luce,
ma la madre terra è oscura:
e dentro di me sono oscuro:
sono come un pozzo nelle cui acque
la notte lascia le sue stelle
e sola prosegue per i campi.
 
E' che son vissuto tanto
e che altrettanto voglio vivere.
 
Mai mi son sentito sì sonoro,
mai ho avuto tanti baci.
 
Ora, come sempre, è presto.
La luce vola con le sue api.
 
Lasciatemi solo col giorno.
Chiedo il permesso di nascere.
 
E QUANTO VIVE?
 
Quanto vive l'uomo, infine?
 
Vive mille giorni o uno solo?
 
Una settimana o secoli?
 
Per quanto tempo muore l'uomo?
 
Cosa vuoi dire "Per Sempre" ?
 
Preoccupato da questo tema
mi dedicai a chiarire le cose.
Cercai i saggi sacerdoti,
li attesi dopo il rito,
li spiai quando uscivano
a visitare Dio e il Diavolo.
 
Si annoiarono con le mie domande.
Neppur essi sapevan molto,
eran solo amministratori.
 
I medici mi ricevettero,
tra una consulta e l'altra,
con un bisturi in ogni mano,
saturi di auromicina,
sempre più occupati ogni giorno.
Da quanto appresi per ciò che dicevano
il problema era il seguente:
mai eran morti tanti microbi,
tonnellate di essi cadevano,
ma i pochi che rimanevano
si rivelavano perversi.
 
Mi lasciaron così spaventato
che cercai gli affossatori.
Andai ai fiumi dove bruciano
grandi cadaveri dipinti,
piccoli morti ossuti,
imperatori ricoperti
di squame terrificanti,
dorme schiacciate d'improvviso
da una raffica di collera.
Erano rive di defunti
e specialisti cinerei.
 
Quando arrivò la mia occasione
rivolsi loro qualche domanda,
essi mi offriron di bruciarmi:
era tutto ciò che sapevano.
 
Nel mio paese gli affossatori
mi risposero, tra bicchieri;
- "Cercati una ragazza robusta",
e lascia stare queste sciocchezze.
 
Mai vidi persone più allegre.
 
Cantavano levando in alto il vino
alla salute e alla morte.
Eran grandi fornicatori.
 
Tornai a casa più vecchio
dopo aver percorso il mondo.
 
Non chiedo nulla a nessuno.
 
Ma so ogni giorno meno.
 
SE N'È ANDATA ORMAI LA CTITÀ
 
Come cammina l'orologio senza affrettarsi,
con tale sicurezza che si divora gli anni:
i giorni sono piccole ore passeggere
i mesi si stingono staccati dal tempo.
 
Se ne va, se ne va il minuto all'indietro sparato
dalla più immutabile artiglieria
e d'improvviso ci resta solo un anno per andarcene
un mese, un giorno, e arriva la morte al calendario.
 
Nessuno ha potuto fermare l'acqua che fugge.
non fu trattenuta dall'amore o dal penderò,
continua, continuò a correre tra il sole e gli esseri,
e ci uccise la sua strofa passeggera.
 
Finché alla fine cadiamo nel tempo, distesi,
e ci rapisce, e ormai ce ne andiamo, morti,
trascinati senza vita, fino a non esser neppur ombra,
né polvere, né parola, e lì rimane tutto
e nella città in cui più non vivremo
restano vuoti i vestiti e l'orgoglio.
 
SILENZIO
 
Ora conteremo fino a dodici
e rimaniamo tutti quieti.
 
Per una volta sulla terra
non parliamo in nessuna lingua,
per un secondo fermiamoci,
non muoviamo tanto le braccia.
 
Sarebbe un minuto fragrante,
senza fretta, né locomotive,
saremmo tutti uniti
in un'inquietudine istantanea.
 
I pescatori del freddo mare
non farebbero male alle balene
e il lavoratore del sale
guarderebbe le sue mani rotte.
 
Quelli che preparan guerre verdi,
guerre di gas, guerre di fuoco,
vittorie senza superstiti,
si metterebbero un vestito puro
camminerebbero coi loro fratelli
nell'ombra, senza far nulla.
 
Non si confonda ciò che voglio
con l'inazione definitiva:
la vita è solo ciò che si fa,
non voglio saperne della morte.
 
Se non potemmo essere unanimi
muovendo tanto le nostre vite,
 
forse non far nulla una volta,
forse un gran silenzio potrà
interrompere questa tristezza,
questo non intenderci mai,
e minacciarci con la morte,
forse la terra c'insegnerà
quando tutto sembra morto
e poi tutto era vivo.
 
Ora conterò fino a dodici,
tu tacerai e io me ne andrò.
 
RITORNO A UNA CITTÀ
 
Perché son venuto? - vi chiedo.
Chi sono in questa città morta?
 
Non trovo la strada ne il tetto
della pazza che mi amava.
 
I corvi, certo, sui rami,
il Monsone verde e furibondo,
lo sputacchio scarlatto
nelle strade sgretolate,
l'aria densa, ma dove,
dove ho abitato, chi fui?
Non comprendo che le ceneri.
 
Il venditore di bétel osserva
senza riconoscere le mie scarpe,
il mio volto appena risuscitato.
Forse suo nonno mi direbbe:
"Salam", ma invece avvenne
che cadde mentre volava,
cadde nel pozzo della morte.
 
In quel palazzo ho dormito
quattordici mesi e anni,
scrissi sventure,
morsi
l'innocenza dell'amarezza,
e ora passo e non c'è la porta:
la pioggia ha lavorato molto.
 
Ora mi rendo conto di esser stato
non solo un uomo, ma vari.
e quante volte son morto,
senza sapere come son rivissuto,
come se cambiassi vestito
mi son messo a vivere altra vita,
ed eccomi qui senza sapere
perché non riconosco nessuno,
perché nessuno mi riconosce,
se qui sono tutti morti
e in mezzo a tanto oblio
sono un uccello sopravvissuto,
oppure la città mi guarda
e sa che io sono un morto.
Vado per bazar di seta
e per mercati miserabili;
fatico a credere che le strade
siano le stesse, gli occhi neri
duri qual punta di chiodo
battono contro i miei sguardi,
e la pallida Pagoda d'Oro
con la sua immobile idolatria
più non ha occhi, più non ha
mani, più non ha fuoco.
 
Addio, strade sudice del tempo,
addio, addio amore perduto,
torno al vino di casa mia,
torno all'amore della mia amata,
a ciò che fui e a ciò che sono,
acqua e sole, terre con pomi,
mesi con labbra e con nomi,
torno per non tornare,
più non voglio sbagliarmi,
pericoloso è camminare
all'indietro, perché d'improvviso
è una prigione il passato.
 
CARTE DA GIOCO
 
Entro il Lunedì stanno
tutti riuniti i giorni,
formano un mazzo di carte
che risplende e fischia
tagliando il tempo con
coppe, bastoni, ori.
 
Martedì maligno, fante
dell'amore sventurato
viene ballando
con
il filo di una spada.
Imparziale, vestito
da re lontano, il Mercoledì
esce dalla settimana
con la signora Giovedì,
si nascondono, ardono
tra l'acqua e la sabbia,
clandestini, s'incontrano
sempre dal braccio in su,
sempre uniti sotto,
sempre coricati insieme.
 
Il Venerdì con la sua coppa
galoppa nella settimana
come dentro un anello
angusto, azzurro, eterno.
 
Sabato, dama nera
notturna, coronata
di cuori rossi,
danza, bella, sul trono
delle birrerie,
bagna i piedi della carta
cantando agli angoli delle strade:
copri con un ombrello
le tue gioie vermiglie
e canta fino a cadere
nella Domenica bianca,
come un regalo d'oro,
come un uovo in un piatto.
 
Vanno, vanno, sono andati.
 
 
Si son mescolati fino
a esser solo cartoncini,
fibre di luce, profili.
E il Lunedì appare.
 
Vanno, vanno, sono tornati.
 
FAVOLA DELLA SIRENA E DEGLI UBRIACHI
 
Tutti questi signori erano dentro:
quando lei entrò completamente nuda
essi avevan bevuto e presero a sputacchiarla
lei non capiva nulla era appena uscita dal fiume
era una sirena che s'era smarrita
gli insulti scorrevano sulla sua carne liscia
l'immondizia copri i suoi seni d'oro
lei non sapeva piangere perciò non piangeva
non sapeva vestirsi perciò non si vestiva
la tatuarono con sigarette e con turaccioli bruciati
ridevano fino ad abbattersi sul pavimento della bettola
lei non parlava perché non sapeva parlare
i suoi occhi erano color d'amore distante
le sue braccia costruite di topazi gemelli
le sue labbra tagliate nella luce del corallo
e d'improvviso uscì da quella porta
appena entrò nel fiume restò monda
splendette come una pietra bianca nella pioggia
senza volger lo sguardo nuotò nuovamente
nuotò verso mai più verso la morte.
 
REPERTORIO
 
Ti cercherò chi amare
prima che tu non sia fanciullo:
poi dovrai aprire la tua cassa
e mangiarti le tue sofferenze.
 
Possiedo regine rinchiuse,
come api, nel mio dominio
e tu vedrai a una a una
come si pettinano il miele
per vestirsi di mele,
per arrampicarsi sui ciliegi,
per palpitare nel fumo.
 
Ti serbo queste fidanzate selvagge
che tesseranno la primavera
e non conoscono il pianto.
 
Nasconditi nell'orologio
del campanile mentre sfilano
le accese d'amaranto,
le ultime bimbe di neve
le perdute, le vittoriose.
le coronate di giallo,
le infinitamente oscure,
le une, teneramente calme,
faranno una danza trasparente
mentre altre passeran ardendo,
fugaci come meteore.
 
Dimmi quale ancora vuoi ora,
più tardi sarebbe già troppo tardi.
 
Oggi credi tutto ciò che racconto.
 
Domani negherai la luce.
 
Sono colui che fabbrica sogni
e nella mia casa di penna e di pietra
con un coltello e un orologio
taglio le nubi e le onde,
con tutti questi elementi
ordino la mia calligrafia
faccio crescer esseri senza rotta
che ancora non potevano nascere,
 
Ciò che io voglio è che ti amino
e che tu non conosca la morte.
 
LA GRAN TOVAGLIA
 
Quando chiamarono a pranzo
si slanciarono i tiranni
e le cocottes passeggere;
era bello vederle passare
come vespe dal busto grosso
seguite da quelle pallide
e disgraziate tigri pubbliche.
 
L'oscura razione di pane
mangiò il contadino nel campo,
era solo ed era sera,
circondato di frumento,
ma non aveva altro pane,
lo mangiò con denti duri,
osservandolo con occhi duri.
 
Nell'ora azzurra del pranzo,
l'ora infinita dell'arrosto,
il poeta lascia la sua lira,
prende il coltello, la forchetta,
mette il bicchiere sul tavolo,
e i pescatori accorrono
al breve mare della zuppiera.
Le patate ardendo protestano
entro le lingue dell'olio.
D'oro è l'agnello sulle brage
e la cipolla si sveste.
E' triste mangiare in frac,
e mangiare in una bara,
ma mangiare nei conventi
è mangiar già sotto terra.
 
Mangiar soli è assai amaro
ma non mangiare è profondo,
è vuoto, è verde, ha le spine
come una catena d'ami
che cade dal cuore
e che t'inchioda dentro.
 
Aver fame è come tenaglie,
è come mordono i granchi,
brucia, brucia e non ha fuoco:
la fame è un incendio fredda
Sediamoci presto a mangiare
con tutti quelli che non han mangiato,
disponiamo le lunghe tovaglie,
il sale nei laghi del mondo,
panetterie planetarie,
tavole con fragole nella neve,
e un piatto come la luna,
dove tutti si pranzi.
 
Per ora non chiedo altro
che la giustizia del pranzo.
 
CON LEI
 
Com'è duro questo tempo, attendimi:
viviamolo con desiderio.
Dammi la tua piccola mano:
saliamo e soffriamo,
sentiamo e saltiamo.
 
Siamo di nuovo la coppia
che visse in luoghi irsuti,
in nidi impervi di roccia.
Com'è lungo questo tempo, attendimi
con una cesta, con la pala,
con le scarpe e la tua biancheria.
 
Ora abbiam bisogno di noi
non solo per i garofani,
non solo per cercar miele:
abbiam bisogno delle nostre mani
per lavare e accendere il fuoco,
e che osi il tempo duro
sfidare l'infinito
di quattro mani e quattro occhi.
 
NON COSÌ ALTO
 
Di tanto in tanto e a distanza
occorre fare un bagno di tomba.
 
Indubbiamente tutto va benissimo
e tutto va malissimo, indubbiamente.
 
Vanno e vengono i viandanti,
crescono i bimbi e le strade,
abbiam comprato alfine la chitarra
che sola piangeva nel negozio..
 
Tutto va bene, tutto va male.
Le coppe si empiono e tornano
naturalmente a esser vuote
e talvolta nel mattino
muoiono misteriosamente.
 
Le coppe e quelli che bevvero.
 
Siam cresciuti tanto che ora
non salutiamo il vicino
e tante donne ci amano
che non sappiamo come fare.
 
Che bei vestiti portiamo!
E che opinioni importanti.
 
Ho conosciuto un uomo giallo,
che si credeva arancione
e un negro vestito da biondo.
 
Si vedono, si vedon tante cose.
 
Ho visto festeggiati i ladri
da impeccabili signori;
questo accadeva in inglese.
E ho visto onesti, affamati,
cercare il pane nei rifiuti.
 
So che non mi crede nessuno.
Ma l'ho visto coi miei occhi.
 
Occorre fare un bagno di tomba
e dalla terra chiusa
guardare in alto l'orgoglio.
 
Allora s'impara a misurare.
S'impara a parlare, s'impara a vivere.
Forse non saremo così pazzi,
forse non saremo così saggi.
Impareremo a morire.
A esser fango, a non avere occhi.
A esser cognome dimenticato.
 
Vi sono poeti così grandi
che non passano da una porta
e negozianti veloci
che non ricordano la povertà.
Vi sono donne che non passeranno
per l'occhio di una cipolla
e vi son tante cose, tante cose,
e così sono e così non saranno.
 
Se volete non credetemi nulla.
 
Solo ho voluto insegnarvi qualcosa.
 
Son professore della vita,
vago studente della morte
e se ciò che so non vi serve
non ho detto nulla, ma tutto.
 
PUNTO
 
Non v’è spazio più ampio del dolore,
non v’è universo come quel che sanguina.
 
LA PAURA
 
Tutti mi chiedono di saltare,
di tonificarmi, di giocare al pallone,
di correre, di nuotare, di volare.
Benissimo.
 
Tutti mi consigliano riposo,
tutti mi destinano dottori,
guardandomi in certo modo.
Che succede?
 
Tutti mi consigliano di viaggiare,
di entrare, di uscire, di non viaggiare,
di morire e di non morire.
Non importa.
 
Tutti vedono le difficoltà
delle mie viscere sorprese
da radioterribili ritratti.
Non son d'accordo.
 
Tutti punzecchiano la mia poesia
con invincibili forchette
cercando, senza dubbio, una mosca.
Ho paura.
 
Ho paura di tutto il mondo,
dell'acqua fredda, della morte.
Sono come tutti i mortali,
improrogabile.
 
perciò in questi corti giorni
non voglio farne conto,
mi aprirò e mi chiuderò
col mio più perfido nemico,
Pablo Neruda.
 
PER LA LUNA DIURNA
 
Luna del giorno, tremante
come una medusa nel cielo,
che vai facendo sì presto?
 
Vai navigando o ballando?
 
E quel vestito da fidanzata triste
sfilacciato dal vento,
quelle ghirlande trasparenti
di naufragi o d'ornamenti,
come se ancor non fossi giunta
alla casa della notte
e presso la porta cercassi
perduta, nel fiume del cielo
una chiave color di stella?
 
Il giorno continua e svanisce
la tua corolla martirizzata
e arde come una casa
del Sud bruciante e di legna.
II sole coi suoi crini atomici
ribolle e galoppa infuriato
mentre la tua coda bianca passa
come un pesce per il cielo.
 
Torna alla notte profonda,
luna delle ferrovie,
luna della tigre tenebrosa,
luna delle birrerie,
torna al salone decorato
delle alte notti fluviali,
continua a far scivolare il tuo onore
sulla pazienza del cielo.
 
CERTA STANCHEZZA
 
Non voglio esser stanco solo,
voglio che ti stanchi con me.
 
Come non sentirsi stanco
di certa cenere che cade
sulle città in autunno,
qualcosa che più non vuoi ardere,
che s'accumula sui vestiti
e a poco a poco va cadendo
scolorando i cuori.
 
Son stanco del duro mare
e della terra misteriosa.
Son stanco delle galline:
mai abbiam saputo cosa pensano
e ci guardano con occhi asciutti
senza concederci importanza.
 
T'invito perché finalmente
ci stanchiamo di tante cose,
dei cattivi aperitivi
e della buona educazione.
 
Stanchiamoci di non andare in Francia
stanchiamoci perlomeno
d'uno o due giorni alla settimana,
che sempre si chiamano a un modo
come i piatti sulla tavola,
e che ci destano, perché?,
e che ci coricano senza gloria.
 
Diciamo alfine la verità
che mai siamo stati d'accordo
con questi giorni paragonabili
alle mosche e ai cammelli.
 
Ho visto dei monumenti
innalzati ai titani,
agli asini dell'energia.
Li tengono lì immobili
con le loro spade in mano
sopra quei tristi cavalli.
 
Sono stanco delle statue.
Non ne posso più di tanta pietra.
 
Se continuiamo a riempire
così con gli immobili il mondo,
come potran vivere i vivi?
 
Sono stanco del ricordo.
 
Voglio che l'uomo quando nasce
respiri i fiori nudi,
la terra fresca, il fuoco puro,
non ciò che tutti respirano.
Lasciate tranquilli quelli che nascono!
 
Fate posto perché vivano!
Non gli fate trovar tutto pensato,
non gli leggete lo stesso libro,
lasciate che scoprano l'aurora
e che diano un nome ai loro baci.
 
Voglio che ti stanchi con me
di tutto ciò che è ben fatto.
 
Di tutto da che c'invecchia.
Di ciò che han preparato
per affaticare gli altri.
 
Stanchiamoci di ciò che uccide
e di ciò che non vuol morire.
 
QUANTO SUCCEDE IN UN GIORNO
 
Tra un giorno ci vedremo.
 
Ma in un giorno crescono cose,
si vende uva nella strada.
cambia la pelle dei pomodori,
la ragazza che ti piaceva
non è più tornata in ufficio.
 
Hanno cambiato d'improvviso il postino.
Le lettere non son più le stesse.
Varie foglie d'oro ed è un altro:
ora quest'albero è un ricco.
 
Chi potrebbe dire che la terra
con la sua vecchia pelle cambia tanto?
Ha più vulcani di ieri,
il cielo ha nubi nuove,
scorrono i fiumi in altro modo
E inoltre quanto si costruisce!
Ho inaugurato centinaia
di strade, di edifici,
di ponti puri e snelli
come navi o violini.
 
Per questo quando ti saluto
e bacio la tua bocca fiorita
i nostri baci son altri baci,
le nostre bocche altre bocche.
 
Salve, amore, salve per tutto
ciò che cade e ciò che fiorisce.
 
Salve per ieri e per oggi,
per avantieri e per domani.
 
Salve per il pane e per la pietra,
salve per il fuoco e per la pioggia.
 
Per ciò che cambia, nasce e cresce,
si consuma e torna a esser bacio.
 
Salve per ciò che abbiamo d'aria
e per ciò che abbiamo di terra.
 
Quando la nostra vita inaridisce
ci restan solo le radici
e il vento è freddo come l'odio.
 
Allora cambiamo pelle,
unghie, sangue, sguardo,
e tu mi baci e io esco
a vender luce per le strade.
 
Salve per la notte e per il giorno
e per le quattro stagioni dell'anima.
 
ANDIAMO USCENDO
 
L'uomo disse di sì senza saper
determinare di che si trattava,
fu portato e fu sollevato,
mai più usci dal suo involucro,
è così che andiamo cadendo
entro il pozzo degli altri esseri
e un filo viene e ci s'avvolge al collo,
un altro ci cerca il piede e più non possiamo,
più non possiamo andare che nel pozzo:
nessuno ci toglie dagli altri uomini.
 
Ci sembra di non saper parlare,
sembra che vi sian parole che sfuggono,
che non ci sono, che se n'andarono lasciandoci
a noi stessi con trappole e con fili.
E d'improvviso ecco, più non sappiamo
di che si tratta, ma siamo dentro
e più non torneremo a guardare
come quando si giocava bambini,
ormai sono finiti questi occhi,
ormai le nostre mani escon da altre braccia.
 
Perciò quando tu dormi sogni solo
e libero corri per le gallerie
di un solo sogno che ti appartiene,
ahimè non vengano a rubarci i sogni,
ahimè non c'impiglino nel letto.
Proteggiamoci l'ombra
per vedere se dalla nostra oscurità
usciamo e tastiamo le pareti,
spiarne la luce per raggiungerla
e una volta per tutte
ci appartiene il sole di ogni giorno.
 
SOLILOQUIO NELLE TENEBRE
 
Capisco che forse ora
siamo gravemente soli,
mi propongo d'interrogare:
ci parleremo da uomo a uomo.
 
Con te, con colui che passa,
con quelli che nacquero ieri,
con tutti quelli che morirono
e con chi nascerà domani
voglio parlare senza che nessuno oda,
senza che stiano sempre sussurrando,
senza che si trasformino le cose
nelle orecchie della strada.
 
Bene, dunque, da dove e verso dove?
Perché t'è venuto in mente di nascere?
Sai che la terra è piccola
appena come una mela,
come una pietruzza dura,
e che si uccidono i fratelli,
per un pugno di polvere?
 
C'è terra per i morti!
 
Sai, ormai, o lo saprai,
che il tempo è un giorno appena
e un giorno è solo una goccia?
 
Come camminerai, come camminasti?
Sociale, gregario o taciturno?
Camminerai davanti
a coloro che nacquero con tè?
O con un trombone in mano
minaccerai i loro reni?
 
Che ne farai di tanti giorni
che ti restano e soprattutto
di tanti giorni che ti mancano?
 
Sai che nelle strade non c'è nesnmo
e neppure dentro le case?
 
Solo vi son occhi alle finestre.
 
Se non hai dove dormire
bussa a una porta e ti apriranno,
ti apriranno fino a un certo punto
e vedrai che dentro fa freddo,
che quella casa è vuota,
e nulla vuoi aver a che fare con te,
non valgon nulla le tue storie,
e se insisti con la tua tenerezza
il cane e il gatto ti mordono.
 
Arrivederci, finché mi avrai dimenticato!
 
Me ne vado perché non ho tempo
di fare altre domande al vento.
 
Ho tanta fretta che appena
posso camminare con decoro,
in qualche parte mi attendono
per accusarmi di qualcosa, e devo
difendermi da qualcosa:
nessuno sa di che si tratta,
si sa però che è urgente
e se non arrivo è chiuso,
e come mi difenderò
se busso e non m'aprono la porta?
 
Arrivederci, parleremo prima.
Oppure parleremo poi, non ricordo,
o forse non ci siam visti
né possiamo comunicare tra noi.
Ho quest'abitudine da pazzo,
parlo, non c'è nessuno e non mi ascolto
m'interrogo e non mi rispondo.
 
V.
 
Soffro per quell'amico che morì
e ch'era come me buon falegname.
Andavamo insieme per tavole e per strade,
per guerre, per dolori e per pietre.
Come gli si ingrandiva lo sguardo
con me, era un fulgore quell'ossuto
e il suo sorriso mi servì di pane,
cessammo di vederci e V. andò sotterrandosi
finché lo costrinsero alla terra.
 
Da allora quegli stessi,
quelli che lo perseguitarono mentr'era vivo,
lo vestono, lo scuotono,
lo decorano, non lo lasciano morto,
e il poveretto così addormentato
lo armano con le sue spine
e lo lanciano contro di me, per uccidermi,
per vedere chi misura di più, il mio povero morto
o io, suo fratello vivo.
 
Ora cerco a chi raccontar le cose
e nessuno v'è che intenda queste miserie,
questa alimentazione dell'amarezza:
ne occorre uno grande,
e quello più non sorride.
 
E' morto ormai e non trovo a chi dire
che non potranno, che non otterranno nulla:
lui, nel territorio della sua morte,
con le sue opere compiute,
io con le mie pene,
siamo solamente due poveri falegnami
con diritto all'onore tra noi,
con diritto alla morte e alla vita.
 
PARTENOGENESI
 
Tutti coloro che mi davano consigli
sono più pazzi ogni giorno.
Fortunatamente non gli feci caso
e se n'andarono in altra città,
dove vivono tutti insieme
scambiandosi i cappelli.
 
Erano tipi stimabili,
politicamente profondi,
e ogni errore che commettevo
li faceva tanto soffrire
che incanutirono, raggrinzirono,
cessarono di mangiar castagne,
e una malinconia autunnale
li lasciò alfine deliranti.
 
Ora io non so cosa essere,
se oblioso o rispettoso,
se continuare ad accettar consigli
o rimproverarli per il loro delirio:
non servo come indipendente,
mi perdo fra tanto fogliame,
non so se uscire o entrare,
se camminare o fermarmi,
se comprar gatti o pomodori.
 
Cercherò di comprendere
ciò che non devo fare e farlo,
cosi potrò giustificare
le strade che mi si perdono,
perché se non mi sbaglio
chi crederà ai miei errori?
Se continuo a essere saggio
nessuno mi terrà in conto.
 
Ma cercherò di cambiare:
saluterò con ogni cura,
curerò le apparenze       
con dedizione ed entusiasmo
fino ad essere tutto ciò che vorranno
che sia e che non sia,
fino a non essere che gli altri.
 
Allora se mi lasceran tranquillo
mi cambierò di persona,
sarà diversa la pelle,
e quando avrò ormai altra bocca
altre scarpe, altri occhi,
quando sarò ormai diverso
e nessuno potrà conoscermi
continuerò a far io stesso
perché non so far altro.
 
CAVALLI
 
Ho visto dalla finestra i cavalli.
 
Fu a Berlino, d'inverno. La luce
era senza luce, senza cielo il cielo.
 
L'aria bianca come un pane bagnato.
 
E dalla mia finestra un circo solitario
morso dai denti dell'inverno.
 
Improvvisamente, condotti da un uomo,
dieci cavalli uscirono dalla nebbia.
Ondeggiarono appena, uscendo, come il fuoco,
ma pei miei occhi empirono il mondo
vuoto fino a quell'ora. Perfetti, accesi,
erano come dieci dèi dalle lunghe zampe pure,
dai crini simili al sonno del sale.
 
Le loro groppe erano mondi e arance.
 
Il colore era miele, ambra, incendio.
 
I loro colli erano torri
tagliate nella pietra dell'orgoglio.
e agli occhi furiosi si affacciava
come una prigioniera, l'energia.
 
E lì in silenzio, in mezzo
al giorno dell'inverno sudicio e disordinato,
i cavalli intensi erano il sangue,
il ritmo, l'incitante tesoro della vita.
 
Guardai, guardai e allora rivissi: senza saperlo
lì era la fonte, la danza d'oro, il cielo,
il fuoco che viveva nella bellezza.
 
Ho dimenticato l'inverno di quella Berlino oscura.
 
Non dimenticherò la luce dei cavalli.
 
NON MI CHIEDETE
 
Ho il cuore pesante
per tante cose che conosco,
è come se portassi pietre
smisurate in un sacco,
o la pioggia fosse caduta,
senza sosta, sulla mia memoria.
 
Non mi chiedete di quello.
Non so di chi stiano parlando.
 
Non ho saputo che avvenne.
 
Neppure gli altri sapevano,
così andai di nebbia in nebbia
pensando che nulla accadesse,
cercando frutti nelle strade,
pensieri nelle praterie
e il risultato è il seguente:
che tutti avevano ragione
e io frattanto dormivo.
 
Per questo aggiungete al mio petto
non solo pietre, ma ombra,
non solo ombra, ma sangue.
 
Così son le cose, ragazzo,
e anche così non son le cose,
perché, malgrado tutto, vivo,
e la mia salute è eccellente,
mi crescon l'anima e le unghie,
vado per le barberie,
vado e vengo dalle frontiere,
reclamo e segno posizioni,
ma se volete sapere di più
si confondono le mie strade
e se udite latrare la tristezza
presso la mia casa, è menzogna:
il tempo chiaro è l'amore,
il tempo perduto è il pianto.
 
Così, dunque, di ciò che ricordo
e di ciò di cui non ho memoria,
di ciò che so e di ciò che seppi,
di ciò che persi per la strada
fra tante cose perdute,
dei morti che non mi udirono
e che vollero forse vedermi,
meglio non domandarmi nulla:
toccate qui, sul panciotto,
e vedrete come mi palpita
un sacco di pietre oscure.
 
QUEI GIORNI
 
Le brume del Nord e del Sud
mi lasciarono un poco Ovest
così passarono quei giorni
Navigavano tutte le cose.
 
Presi senza dubbio nome
di cavaliere errante,
mi posi tutti i cappelli,
conobbi ragazze veloci,
mangiai sabbia e sardine,
mi sposai di tanto in tanto.
 
Ma senza volermi dar l'aria
d'imperatore o marinaio
devo confessar che ricordo
i più gentili uragani,
che muoio di cupidigia
ricordando ciò che non ho:
quanto fui e non fui ricco,
la fame che mi sosteneva,
e quelle scarpe intruse
che non bussavano alla porta.
 
La grandezza della gioia
è il doppio fondo che possiede.
Non si vive solo d'oggi:
il presente è una valigia
con un orologio di contrabbando,
il nostro cuore è futuro
e il nostro piacere antico.
 
Così, dunque, andai di rotta in rotta
col caldo, col freddo e con fretta
e tutto ciò che non vidi
lo sto ricordando ora,
tutte le ombre che nuotai,
tutto il mare che mi riceveva:
errai sbattendo contro le pietre,
mi coricavo con le spine,
ed ebbi l'onore naturale
di quelli che non sono onorevoli.
 
Non so perché racconto queste cose,
queste terre, questi minuti,
il fumo di quei fuochi.
A nessuno interessa tremare
per i terremoti altrui
e in fondo a nessuno piace
la gioventù dei vicini.
Per questo non chiedo perdono.
Sto nel mio posto di sempre.
Ho un albero con tante foglie
che anche se non mi vanto d'eterno
me la rido di te e dell'autunno.
 
SIAM MOLTI
 
Di tanti uomini che sono, che siamo,
non posso trovare nessuno;
mi si perdono sotto il vestito,
sono andati in altre città.
 
Quando tutto è preparato
per mostrarmi intelligente,
lo sciocco che porto nascosto
prende la parola nella mia bocca.
 
Altre volte m'addormento in mezzo
alla società distinta
e quando cerco in me il coraggioso
un codardo che non conosco
corre a prendere col mio scheletro
mille deliziose precauzioni.
 
Quando arde una casa stimata
invece del pompiere che chiamo
a precipita l'incendiario
e quello son io. Non ho misura.
Che devo fare per distinguermi?
Come posso riabilitarmi ?
 
Tutti i libri che leggo
celebrano eroi fulgenti
sempre sicuri di se stessi:
muoio d'invidia per loro,
e nei films di venti e pallottole
resto a invidiare il cavaliere,
resto ad ammirare il cavallo.
 
Ma quando richiedo l'intrepido
mi esce il vecchio pigrone,
così io non so chi mi sia,
non so quanti sono o saremo.
Mi piacerebbe suonare un campanello
e tirar fuori il me vero,
perché se ho bisogno di me
non devo scomparirmi.
 
Mentre scrivo sono assente
e quando torno son già partito:
vediamo se all'altra gente
succede quanto a me succede,
se sono tanti come son io,
se assomigliano a se stessi
e quando l'avrò stabilito
apprenderò così bene le cose
che per spiegare i miei problemi
vi parlerò di geografia.
 
AL PIEDE DEL SUO BIMBO
 
II piede del bimbo ancora non sa di esser piede,
vuoL esser farfalla o mela.
 
Ma poi i vetri e le pietre,
le strade, le scale,
i sentieri della terra dura
vanno insegnando al piede che non può volare,
che non può essere frutto rotondo su un ramo.
Il piede del bimbo allora
fu sconfitto, cadde
nella battaglia,
fu prigioniero,
condannaTo a vivere in una scarpa.
 
A poco a poco senza luce
andò a suo modo conoscendo il mondo
senza conoscere l'altro piede, rinchiuso
a esplorar la vita come un cieco.
 
Quelle dolci unghie
di quarzo, di grappolo,
s’Indurirono, si mutarono
in opaca sostanza, in corno duro,
e i piccoli petali del bimbo
si schiacciarono, si squilibrarono,
presero forme di rettili senz'occhi,
di teste triangolari di verme.
 
Poi incallirono,
si coprirono
di minuscoli vulcani della morte,
inaccettabili indurimenti.
 
Ma questo cieco camminò
senza tregua, senza fermarsi,
ora per ora,
il piede e l'altro piede,
ora di uomo
o di donna,
giù,
pei campi, le miniere,
i magazzini e i ministeri,
indietro,
fuori, dentro,
avanti,
questo piede lavorò con la sua scarpa,
ebbe appena il tempo
di star nudo nell'amore o nel sonno,
camminò, camminarono
finché l'intero uomo si fermò.
 
Allora nella terra
discese e non seppe nulla,
perché lì tutto, tutto era oscuro,
non seppe che aveva cessato d'esser piede,
se lo sotterravano perché volasse
o perché potesse
esser mela.
 
QUI VIVIAMO
 
Io sono di quelli che vivono
a mezzo mare, vicino al crepuscolo,
al di là di quelle pietre.
 
Quando io venni
e vidi ciò che accadeva
mi decisi improvvisamente.
 
Già il giorno s'era diffuso,
ormai tutto era luce
e il mare combatteva
come un leone di sale,
con molteplici mani.
 
La solitudine aperta ivi cantava,
ed io, sperduto e puro,
guardando verso il silenzio
aprii la bocca e dissi:
"Oh madre della spuma,
solitudine vasta,
qui fonderò la mia gioia,
il mio lamento singolare".
 
La solitudine aperta ivi cantava,
ed io, sperduto e puro,
guardando verso il silenzio
aprii la bocca e dissi:
"Oh madre della spuma,
solitudine vasta,
qui fonderò la mia gioia,
il mio lamento singolare".
 
Da allora mai più
mi defraudò un'onda,
sempre incontrai sapor centrale di cielo
nell'acqua, nella terra,
e la legna e il mare arsero uniti
durante gli inverni solitari.
 
Rendo grazie alla terra
per avermi
atteso
nell'ora in cui il cielo e l'oceano
s'uniscono come due labbra,
perchè non è poco, vero ?, esser vissuto
in una solitudine ed esser pervenuto a un'altra,
sentirsi moltitudine e riviversi solo.
 
Amò tutte le cose,
e tra tutti quanti i fuochi
solo l'amore non consuma,
per questo vado di vita in vita,
di chitarra in chitarra,
e non ho paura alcuna
della luce o dell'ombra,
e perché quasi son di terra pura
possiedo cucchiai per l'infinito.
 
Così, dunque, nessuno può sbagliarsi,
non trovare la mia casa senza porte e numero,
lì tra le pietre oscure,
davanti allo scintillio
del sale violento,
lì viviamo mia moglie ed io,
lì noi rimarremo.
 
Aiuto, aiuto! Aiutateci!
Aiutateci a esser più terra ogni giorno!
Aiutateci a essere                         .
più spuma sacra, pia aria dell'onda!
 
SCAPPATOIA
 
Quasi pensai dormendo,
quasi sognai nella polvere,
nella pioggia del sonno.
Sentii i denti vecchi
addormentandomi, forse
a poco a poco mi vado
trasformando in cavallo.
 
Sentii l'odore dell'erba
dura, di cordigliere,
e galoppai verso l'acqua,
verso le quattro punte
tempestose del vento.
 
E' bello esser cavallo
libero nella luce di giugno
presso la Selva Nera
dove scorrono i fiumi
scavando la foresta:
l'aria lì accarezza
le ali del cavallo
e circola nel sangue
la lingua del fogliame.
 
Quella notte galoppai
senza fine, né patria, solo
calpestando fango e frumento,
sogni e sorgenti.
Lasciai indietro come secoli
i boschi raggrinziti,
gli alberi che parlavano,
le capitali verdi,
le famiglie del suolo.
 
Tornai dalle mie regioni,
tornai a non sognare
per le strade, a essere
questo viandante grigio
delle barberie,
quest'io con le scarpe,
la fame, gli occhiali,
che non sa da dove
è tornato, che s'è perduto,
che si alza senza
prato al mattino,
che si corica senz'occhi
per sognare senza pioggia.
 
Appena si distraggono
partirò per Renaico.
 
LA SVENTURATA
 
La lasciai alla porta attendendo,
e me n'andai per non tornare.
 
Non sapeva che non sarei tornato,
Passò un cane, passò una monaca,
passò una settimana e un anno.
 
Le piogge cancellarono i miei passi
e crebbe l'erba nella strada,
uno dopo l'altro come pietre,
come lente pietre, gli anni
caddero sul suo capo.
 
Allora arrivò la guerra,
arrivò come un vulcano sanguinoso.
Morirono i bimbi, le case.
 
E quella donna non moriva.
 
Bruciò tutta la prateria.
Le dolci divinità gialle
che da mill'anni meditavano
uscirono dal tempio a pezzi.
Non poteron continuare a sognare.
 
Le case fresche e la veranda
dove dormii sopra un'amaca,
le piante rosa, le foglie
con forme di mani giganti,
i camini, le marimbe,
tutto fu macinato e arso.
 
Là dove fu la città
Restaron cose incenerite,
ferri contorti, infernali
capigliature di statue morte
e una macchia nera di sangue.
 
E quella donna attenderà.
 
PASTORALE
 
Vado copiando montagne, fiumi, nubi,
levo la penna dal taschino, annoto
un uccello che sale
o un ragno nella sua fabbrica di seta,
non mi sovviene altro: son aria,
aria aperta, dove circola il frumento.
e mi commuove un volo, l'incerta
direzione di una foglia, il rotondo
occhio di un pesce immobile nel lago,
le statue che volano nelle nubi,
le moltiplicazioni della pioggia.
 
Altro non mi ricordo che del trasparente
estate, altro non canto che il vento,
così passa la storia col suo carro
raccogliendo sudari e medaglie,
passa, e io non sento che fiumi,
rimango solo con la primavera.
 
Pastore, pastore, non sai
che ti attendono?
 
Lo so, lo so, ma qui vicino all'acqua,
mentre crepitano e ardon le cicale
anche se m'attendono voglio aspettarmi,
anch'io voglio vedermi,
voglio sapere alfine come mi sento,
e quando arriverò dov'io m'attendo
mi addormenterò morto dal ridere.
 
INTORNO ALLA MIA CATTIVA EDUCAZIONE
 
Qual è il quale, qual è il corner
Chi sa come comportarsi?
 
Come son naturali i pesci!
Non sembrano mai inopportuni.
Stanno nel mare invitati
e si vestono correttamente
senza una squama di meno,
decorati dall'acqua.
 
Io tutti i giorni metto
non solo i piedi nel piatto,
ma i gomiti, i reni,
la lira, l'anima, lo schioppo.
 
Non so che fare delle mani,
ho pensato di venire senza,
ma dove metterò l'anello?
Che paurosa incertezza!
 
Poi non conosco nessuno.
Non ne ricordo i cognomi.
 
- Lei mi sembra di conoscerla.
- Lei non è un contrabbandiere?
- E lei, signora, non è l'amante
del poeta alcolizzato
che passeggiava senza sosta,
né rotta fissa sui cornicioni ?
- Volò perché aveva le ali.
- E lei è sempre terrestre.
- Mi piacerebbe averla deposta
qual india vedova su un gran braciere,
non potremmo bruciarla ora?
Sarebbe assai palpitante
 
Altra volta in un'Ambasciata
m'innamorai di una bruna,
non volle svestirsi lì,
io la ripresi con durezza;
sei pazza, statua silvestre,
come puoi andar vestita?
 
Mi esiliaron duramente
da quella e da altre riunioni,
se per errore mi avvicinavo
chiudevano porte e finestre.
 
Andai allora con gitani
e con prestidigitatori,
Con marmai senza nave,
con pescatori senza pesce,
ma tutti avevano regole,
inconcepibili protocolli
e la mia educazione lamentevole
mi trasse brutte conseguenze.
 
Perciò non vado né vengo,
non mi vesto né vado nudo,
ho gettato nel pozzo le forchette,
i cucchiai e i coltelli.
Sorrido solo a me stesso,
non faccio domande indiscrete
e quando vengono a cercarmi,
con grande onore, ai banchetti,
mando i miei vestiti, le scarpe,
la camicia col mio cappello,
ma anche così non son contenti:
era senza cravatta il mio vestito.
 
Così per uscire di dubbio
mi decisi a vita onorata
della più attiva pigrizia,
purificai le mie intenzioni,
andai a mangiare con me stesso
e così mi feci muto.
A volte m'invitai a ballare,
ma senza grande entusiasmo,
mi corico solo, senza voglia,
per non sbagliare di stanza.
 
Addio, perché sto arrivando.
 
Buon giorno, me ne vado in fretta.
 
Quando vorrete vedermi sapete:
cercatemi dove non sono
e se vi resta tempo e bocca
parlate col mio ritratto.
 
DIMENTICATO IN AUTUNNO
 
Erano le sette e mezzo
dell'autunno
e attendevo
non importa chi.
Il tempo
stanco di star lì con me
a poco a poco se ne andò,
mi lasciò solo.
Rimasi con la sabbia
del giorno, con l'acqua,
sedimenti
di una settimana triste, assassinata.
 
- Che succede ? - sai dissero
le foglie di Parigi, - Chi attendi? -
 
Così fui umiliato varie volte
prima dalla luce che se n'andava,
poi da cani, gatti e gendarmi.
 
Rimasi solo
come un cavallo solo
quando nel prato non v’è notte né giorno,
ma il sale dell'inverno.
 
Rimasi
così senza nessuno, così vuoto
che le foglie piangevano,
le ultime foglie, poi
cadevano come lacrime.
 
Mai prima
né dopo
rimasi così improvvisamente solo.
E fu attendendo chi,
non ricordo,
fu stoltamente,
in modo passeggero,
ma quella
fu l'istantanea solitudine,
quella
che s'era persa lungo la strada,
e che improvvisamente come l'ombra stessa
svolse il suo infinito stendardo.
 
Poi me n'andai da quella
cantonata pazza
con i passi più rapidi che ebbi,
fu come se scappassi
dalla notte
o da una pietra oscura e rotolante.
Ciò che racconto è niente,
ma questo mi accadde quando attendevo
non so chi un giorno.
 
LE VECCHIE DELL'OCEANO
 
Al grave mare vengono le vecchie
con annodati fazzoletti,
con fragili piedi gracili.
 
Sole si siedono alla riva
senza mutare occhi né mani,
senza mutare nube o silenzio.
 
Il mare osceno rompe e strappa,
rovescia monti di trombe,
scuote le sue barbe d'oro.
 
Le dolci signore sedute
come su ma nave trasparente
guardano le onde terroriste.
 
Dove andranno, dove son state?
Vengono da tutti gli angoli,
vengono dalla nostra stessa vita.
 
Ora possiedono l'oceano,
il vuoto freddo e ardente,
la solitudine piena di fiamme.
 
Vengono da ogni passato,
da case che furono fragranti,
da crepuscoli bruciati.
 
Guardano o non guardano il mare,
scrivono segni col bastone,
e il mare cancella la loro calligrafia.
 
Le vecchie si vanno alzando
con i fragili piedi d'uccello,
mentre le onde sbrigliate
viaggiano nude nel vento.
 
STAGIONE IMMOBILE
 
Voglio non sapere né sognare.
Chi può insegnarmi a non essere,
a vivere senza continuare a vivere?
 
Come continua l'acqua?
Qual è il cielo delle pietre?
 
Immobile, finché arresteranno
le migrazioni il loro apogeo
e voleranno con le loro frecce
verso il freddo arcipelago.
 
Immobile, con vita segreta
come una città sotterranea
perchè scivolino i giorni
come gocce incontenibili:
nulla si sciupa o muore
fino alla nostra resurrezione,
fino a ritornare con i passi
della primavera sepolta,
di ciò che giaceva perduto
interminabilmente immobile
e ora sale dal non essere
ad essere un ramo fiorito.
 
POVERI RAGAZZI
 
Come costa su questo pianeta
amarci tranquillamente:
tutti guardano le lenzuola,
tutti disturbano il tuo amore.
 
Si raccontan cose terribili
di un uomo e di una donna
che dopo molta fatica
e molte considerazioni
fanno qualcosa d'insostituibile,
si coricano in un solo letto.
 
Io mi chiedo se le rane
si vigilano e si sternutano»
se si sussurran nelle pozzanghere
contro le rane illegali,
contro il piacere dei batraci.
Io mi chiedo se gli uccelli
hanno uccelli nemici
e se il toro ascolta i buoi
prima di trovarsi con la vacca.
 
Le strade ormai hanno occhi,
i parchi hanno poliziotti,
sono cauti gli alberghi,
le finestre annotano nomi,
s’imbarcano truppe e cannoni
decisi contro l'amore,
lavorano senza posa
le gole e le orecchie,
e un ragazzo con la sua ragazza
furon obbligati a fiorire
volando su una bicicletta.
 
ESCONO COSÌ
 
L'uomo era buono, sicuro
con la zappa e con l'aratro.
Non ebbe neppure tempo
di sognare mentre dormiva.
 
Fu sudatamente povero.
Valeva un solo cavallo.
 
Oggi il figlio è assai orgoglioso
e vale varie automobili.
 
Parla con bocca di ministro,
passeggia molto tronfio,
dimenticò il padre campestre
e si è scoperto antenati,
pensa come un grosso giornale,
guadagna giorno e notte:
è importante quando dorme.
 
I figli del figlio sono molti
e sono da tempo sposati,
non fan nulla, ma divorano,
valgono migliaia di topi.
 
I figli del figlio del figlio
come troveranno il mondo?
Saranno buoni o cattivi?
Varranno mosche o frumento?
 
Tu non mi vuoi rispondere.
 
Ma le domande non muoiono.
 
BALLATA
 
Torna, mi disse una chitarra
presso Rancagua, d'autunno.
Tutti i pioppi avevano
colore e tremito di campana:
faceva freddo ed era tondo
il cielo della tristezza.
 
Entrò nell'osteria un ubriaco
barcollando sotto l'uva
che gli empiva il cappello
e gli usciva dagli occhi.
Aveva fango sulle scarpe,
aveva calpestato la statua
dell'autunno e schiacciato
tutte le sue mani gialle.
 
Mai son tornato alle praterie.
Ma appena suonano l'ore
claudicanti e disonorate,
quando al cuore cadono
i boccioli e il sorriso,
quando cessano d'esser celesti
i numerali dell'oblio,
quella chitarra mi chiama
e già è passato tanto tempo
che forse non esiste più nulla,
né prateria, né autunno,
e arriverei d'improvviso
come un fantasma nel vuoto
con il cappello pieno d'uva,
chiedendo della chitarra,
e poiché nessuno vi sarebbe,
nessuno capirebbe nulla
e me ne andrei chiudendo
quella porta che non esiste.
 
LARINGE
 
Ora se ne va davvero disse
la Morte e a me sembra
che mi guardasse, mi guardasse.
 
Questo accadeva in ospedali,
in corridoi affaticati
e il medico mi scrutava
con pupille da periscopio.
La sua testa m'entrò nella bocca,
mi graffiava la laringe:
lì era forse caduto
un seme della morte.
 
Dapprima mi feci fumo
perché la cenerentola
passasse senza riconoscermi.
Feci lo sciocco, il fragile,
il semplice, il trasparente:
volevo solo esser ciclista
e correre dove non fossi.
 
Poi l'ira m'invase
e dissi, Morte, figlia di puttana,
fino a quando c'interromperai?
 
Non ti bastano tante ossa?
Ti dirò quello che penso:
non discrimini, sei sorda
e inaccettabilmente stolta.
 
Perché sembri studiarmi?
Che ti succede col mio scheletro?
Perché non ti prendi il triste,
il catalettico, l'astuto,
l'amaro, infedele, duro,
l'assassino, gli adulteri,
il giudice prevaricatore,
il giornalista bugiardo,
i tiranni delle isole,
quelli che brucian le montagne,
i capi della polizia
con carcerieri e ladri?
Perché porti via me?
Che c'entro io col cielo?
L'inferno non mi conviene
e sto bene sulla terra.
 
Con queste vociferazioni
mentali mi sostenevo
mentre il Dottore inquieto
passeggiava nei miei polmoni:
andava di bronco in bronco
come uccello di ramo in ramo:
io non sentivo la gola,
la bocca si apriva come
il muso di un'armatura
e il Dottore entrava e usciva
per la laringe in bicicletta
finché adusto, incorreggibile,
mi guardò col suo telescopio
e mi staccò dalla morte.
 
Non era ciò che credeva.
Ora sì non mi toccava.
Se vi dico che soffrii molto,
che amavo alfine il mistero,
che Nostro Signore e Signora
m'attendevano sulla loro palma,
se vi dico la mia delusione,
e che l'angoscia mi divora
di non aver morte vicina,
se dico come la gallina,
che muoio perché non muoio,
datemi un calcio in culo
come castigo a un bugiardo.
 
GALOPPANDO NEL SUD
 
Quaranta leghe a cavallo:
le cordigliere di Malleco,
il campo è appena lavato,
l'aria è elettrica e verde.
Regioni di roccia e frumento,
un uccello improvviso si spezza,
l'acqua scivola e scrive
cifre perdute nella terra.
 
Piove, piove con lenta pioggia,
piove con aghi eterni
e il cavallo che galoppava
s'è disciolto nella pioggia:
poi sì ricostruì
con le gocce seppellitrici
e vo galoppando nel vento
sul cavallo della pioggia.
 
Sul cavallo della pioggia
lascio indietro le regioni,
la grande solitudine bagnata,
le cordigliere di Malleco.
 
SONATA CON ALCUNI PINI
 
Al semisol di lunghi giorni
appoggiamo le ossa stanche
 
dimentichiamo gli infedeli
gli amici senza pietà
 
il sole vacilla tra i pini
dimentichiamo chi non sa
 
vi son terre entro la terra
piccole patrie trascurate
 
non ricordiamo quelli felici
dimentichiamo i loro denti
 
che s'addormentino i delicati
nei lor divani extrapuri
 
bisogna conoscer certe pietre
piene di raggi e di segreti
 
albeggiare con luce verde
con treni disperati
 
toccare quella fine del mondo
che sempre viaggiò con noi
 
dimentichiamoci dell'offeso
che mangia una sola ingiustizia
 
gli alberi lasciano in alto
un semicielo incrociato
 
da fili di pino e d'ombra
dall'aria che si sfoglia
 
dimentichiamo senza arroganza
quelli che non possono amarci
 
quelli che cercan fuoco e cadono
come noi nell'oblio
 
nulla è migliore delle otto
del mattino nella spuma
 
s'avvicina un cane e fiuta il mare
non ha fiducia dell'acqua
 
frattanto arrivan le onde
a scuola vestite di bianco
 
c'è un sapore di sole salato
e sale nelle alghe funebri
odor di parto e d'obitorio
 
quel è la ragione di non essere?
dove ti han portato gli altri?
 
è Bello cambiare camicia
pelle peli e lavoro
 
conoscere un poco la terra
dare a tua moglie nuovi baci
 
appartenere all'aria pura
disprezzare le oligarchie
 
quando andai di bruma in bruma
navigando col mio cappello
 
nessuno trovai con strade
tutti eran preoccupati
 
tutti andavano a vender cose
nessuno mi chiese chi fossi
 
finché io mi riconobbi
finché toccai un sorriso
 
al semicielo e alla pergola
ricorriamo con la stanchezza
 
conversiamo con le radici
e con le onde scontente
 
dimentichiamo la rapidità
i denti degli efficaci
 
dimentichiamo la tenebrosa
miscellanea dei maligni
 
facciam professione terrestre
tocchiamo terra con l'anima.
 
AMORE
 
Tanti giorni, ahi tanti giorni
vedendoti sì ferma e vicina,
come lo pagherò, con che cosa?
 
La primavera sanguinaria
dei boschi s'è risvegliata,
escon le volpi dalle tane,
bevon le serpi la rugiada,
con te io vado tra le foglie,
tra i pini e in mezzo al silenzio
e mi chiedo se questa gioia
dovrò pagarla, come e quando.
 
Di tutte le cose che ho veduto
te voglio continuare a vedere,
di tutto ciò che ho toccato,
solo la tua pelle voglio toccare:
amo il tuo sorriso d'arancia,
mi piaci quando stai dormendo.
 
Che posso farci, amore, amata,
non so come amino gli altri,
non so come prima si amarono,
vivo vedendoti e amandoti,
naturalmente innamorato.
Mi piaci ogni sera di più.
 
Dove sarà ? - vado chiedendo
se i tuoi occhi scompaiono.
Come tarda! - penso e mi offendo.
Mi sento povero, sciocco e triste,
 
e arrivi e sei una raffica
che vola giù dai peschi.
 
Per questo ti amo e non per questo,
per tante cose e sì poche,
così dev'esser l'amore,
socchiuso e generale,
particolare e pauroso,
imbandierato e a lutto,
fiorito come le stelle
e smisurato come un bacio.
 
SOGNO DI GATTI
 
Come dorme grazioso un gatto
dorme con zampe e con peso,
dorme con l'unghie crudeli,
col suo sangue sanguinario,
dorme con tutti gli anelli
che come circoli bruciati
costruiron la geologia
di una coda color sabbia.
 
Vorrei dormire come un gatto
con tuttì i peli del tempo,
con la lingua dell'esca
col sesso secco del fuoco
e dopo aver parlato con nessuno,
distendermi su tutto il mondo,
sulle tegole e sulla terra
intensamente diretto
a cacciar le talpe del sonno.
 
Ho visto come ondeggiava,
dormendo, il gatto: correva
come acqua oscura in lui la notte,
a volte stava per cadere,
forse per precipitare
in mezzo ai crudi nevai,
forse crebbe tanto dormendo
come un bisnonno di tigre,
forse saltò nelle tenebre
tetti, nubi e vulcani.
 
Dormi, dormi, gatto notturno
con le tue moine di vescovo,
con i tuoi baffi di pietra;
ordina tutti i nostri sogni,
dirigi l'oscurità
delle nostre prodezze addormentate
con il tuo cuore sanguinario
e il largo collo della tua coda.
 
RICORDI E SETTIMANE
 
Poiché il mondo è rotondo
precipitan le notti
e cadono in basso.
E tutte si accumulano
e sono solo tenebre,
giù, giù, giù.
 
1.
 
Ho seguito un giorno qualsiasi,
ho voluto sapere che n'è di loro
dove vanno, dove muoiono.
 
Per il mare, per le isole,
per acide praterie
si perse, e io rimanevo
nascosto dietro
un albero o una pietra.
 
Fu azzurro, fu arancione,
corse come una ruota,
scese nella sera come
bandiera di nave,
e più oltre nei limiti
del silenzio e della neve
si arrotolò crepitando
come un filo di fuoco
e si spense coperto
dalla fredda bianchezza.
 
2.
 
Le settimane si arrotolano,
si fanno nubi, si perdono,
si nascondono nel cielo,
depositate lì
come luce stinta.
 
E' lungo il tempo, Pedro,
è corto il tempo. Rosa
e le settimane, giuste,
nella lor parte, sciupate,
si ammucchiano come grani,
cessan di palpitare.
 
Fino a che un giorno il vento
rumoroso, ignorante,
le apre, le distende,
le batte e ora
salgon come bandiere
sconfitte che ritornano
alla patria perduta.
 
Così sono i ricordi.
 
SE NE SONO ANDATI AlFINE
 
Tutti bussavano alla porta
e si prendevan qualcosa di mio,
era gente sconosciuta
che conoscevo moltissimo,
erano amici nemicI
e speravan di disconoscermi.
 
Che potevo fare senza ferirli?
 
Aprii cassetti, riempii piatti,
stappai versi e bottiglie:
essi masticavano con furia
in una sala da pranzo scoperta.
 
Frugavano con gran cura
negli angoli cercando cose,
io li trovai che dormivano
da vari mesi tra i miei libri,
davan ordini alla cuoca,
camminavano tra le mie cose.
 
Ma quando mi tormentarono
le brage d'un amore misterioso,
quando per amore e pietà
soffrii addormentato e sveglio,
la carovana si ruppe,
se n'andaron coi loro cammelli.
 
Si raccolsero a maledirmi.
Questi pittorescamente puri
si divertirono, riuniti,
cercando mezzi con affanno
per uccidermi in qualche modo:
una dama propose il pugnale
un coraggioso preferì il cannone,
ma con notturno entusiasmo
si decisero per la lingua.
 
Lavorarono intensamente,
con occhi, con bocca e con mani.
chi ero io, chi era lei?
Con che diritto e quando e come?
Con occhi casti rivelavano
interiorità supposte
e decidevano di proteggermi
contro un'incessante vampira.
Dimagrirono gravemente.
Esiliati dalla mia coscienza
si alimentavano di sospiri.
 
Passò il tempo e non rimasi solo.
 
Come sempre in queste storie
l'amore uccide il nemico.
 
Ora non so chi siano:
scomparendo per un minuto
si cancellarono dai miei ricordi:
sono come scarpe incomode
che alfine mi lasciaron tranquillo.
 
Io sto col miele dell'amore
nella dolcezza vespertina.
Se li è portati via l'ombra,
cattivi amici nemici,
conosciuti e sconosciuti
che non torneranno a casa mia.
 
ITINERARI
 
Son stato in tante città
che ormai mi manca la memoria
non so né come né quando.
 
Quei cani di Calcutta
che ondeggiavano e suonavano
tutto il giorno come campane,
e a Durango, cosa feci ?
 
Perché mi son sposato a Batavia?
 
Fui cavaliere senza castello,
antempestivo viandante,
persona senza vestito e senz'oro,
idiota puro ed errante.
 
Che andai cercando a Toledo,
in quel putrido ossario
che ha solo grossi gusci
con degli sciocchi fantasmi?
 
Perché vissi a Rangoon di Birmania
la capitale escrementizia
dei miei dolori naviganti?
 
Mi dicano quelli che sanno
cosa persi a Veracruz,
perché stetti cinquanta volte
strofinandomi e maledicendo
in quella stufa tutelare
d'ubriachi e di gelsomini?
 
Fui anche a Capri amando
come i sultani caduti,
il mio cuore ricostruì
i loro letti e le loro strade,
ma, veramente, perché li?
Che c'entro io con le isole?
 
Quella notte mi attendevano
con fuoco e candele accese,
i pini sussurravano cose
nel loro idioma malinconico
lì riunii la mia ragione
col mio cuore traboccante.
 
Ricordo giorni di Colombo
eccessivamente fragranti,
inebriantemente rossi.
Si son perduti quei giorni
e nel fondo della mia memoria
scende la pioggia di Carahue.
 
 
Perché, perché tante strade,
tante cittadelle ostili?
Che ottenni da tanti mercati?
Qual è il fiore che cercavo?
perchè mi mossi dalla mia sedia
e mi vestii di tempestoso?
 
Nessuno lo sa, né lo ignora:
è ciò che accade a ognuno:
si muove l'ombra sulla terra
e l'anima dell'uomo è d'ombra,
e per questo si muove.
 
Spesso quando mi sveglio
non so dove son coricato
e tendo l'orecchio finché giungono
i freschi rumori del giorno:
vado riconoscendo le onde
o il colpo dello spaccapietre,
le grida degli sdentati,
il sibilo della corrente,
e se mi sbaglio di sogni
come una nave smarrita
cerco la terra che albeggia
per confermare la mia strada.
 
D'improvviso mentre cammino
esce di colpo da qualche luogo
un odore di pietra o di pioggia,
qualcosa d'infinitamente puro
che sale non so da dove
e mi parla senza parole,
io riconosco la bocca
che non è lì e continua a parlare.
Cerco di dov'è quell'aroma,
di che città, di che strada,
so che qualcuno mi sta cercando,
qualcuno sperduto nelle tenebre.
E non so, se qualcuno mi ha baciato,
che significano quei baci.
 
Forse devo sistemar le mie cose
incominciando dalla mia testa:
numererò con quadratini
il mio cervello e il cervelletto
e quando mi uscirà un ricordo
dirò «numero cento e tanto».
Allora riconoscerò
il muro e i rampicanti
e forse mi divertirò
a porre nome all'oblio.
 
Ad ogni modo qui
mi propongo di terminare
e prima di tornare in Brasile
passando per Antofagasta
nell'Isola Nera vi attendo
tra ieri a Valparaiso.
 
ADDIO A PARIGI
 
Che bella la Senna, fiume abbondante
con i suoi alberi cinerini
le sue torri e le guglie.
 
E io, che vango a fare qui?
 
Tutto è più bello di una rosa,
una rosa scarmigliata,
una rosa che vien meno.
E' crepuscolare questa terra,
l'imbrunire e l'aurora
sono le due navi del fiume,
passano e s'incrociano
senza salutarsi, indifferenti,
perché fa mille volte mill'anni
si conobbero e si amarono.
 
È ormai troppo tempo.
 
Si raggrinzò la pietra e crebbero
le cattedrali gialle,
le fabbriche stravaganti,
ora l'autunno divora cielo,
si nutre di nubi e di fumo,
si stabilisce come un re negro
su un litorale vaporoso.
 
Non v'è sera più dolce nel mondo,
Tutto s'è raccolto in tempo,
il color brusco, il vago grido,
solo è rimasta la nebbia
e la luce avvolta negli alberi
s'è messa il suo vestito verde.
 
Ho tanto da fare in Cile,
m'attendono Salinas e Laura,
a tutti devo qualcosa in patria,
e a quest'ora la tavola è pronta,
e mi attende in ogni casa,
altri m'attendono per colpirmi,
e ci sono inoltre quegli alberi
dal fogliame ferruginoso
che conoscono le mie sventure,
la mia felicità, i miei dolori,
quelle ali sono le mie,
quella è l'acqua che io voglio,
il mare pesante come pietra,
più alto di questi edifici,
durq e azzurro come una stella.
 
E io che vengo a fare qui?
 
Come arrivai da queste parti ?
 
Devo essere dove mi chiamano
per battezzare le fondamenta,
per mescolare sabbia e uomo,
toccar le pale e la terra
perché dobbiamo far tutto
nella terra in cui siam nati,
dobbiamo fondare la patria,
il canto, il pane e la gioia,
dobbiamo pulire l'onore
come l'unghie d'una regina,
cosi sventoleran nel vento
le bandiere purificate
sopra le torri cristalline.
 
Addio Autunno di Parigi,
naviglio azzurro, mare amoroso,
addio fiumi, ponti, addio
pane crepitante e fragrante,
vino profondo e dolce, addio,
addio amici che mi amarono,
vado cantando per i mari
e torno a respirare radici.
Il mio indirizzo è vago, vivo
in alto mare e in alta terra:
la mia città è la geografia:
la strada ha nome «Me ne Vado»,
il numero «Per non Tornare».
 
AHI CHE SABATI PROFONDI!
 
Ahi, che Sabati profondi!
 
E' interessante il pianeta
con tanta gente in movimento;
onde di piedi negli alberghi,
urgenti motociclisti,
ferrovie dirette al mare
e quante ragazze immobili
capite da rapide ruote.
 
tutte le Settimane terminano
in uomini, donne, sabbia,
bisogna correre, non perder nulla,
vincere inutili colline,
masticar musica insolubile,
tornare stanchi al cemento.
 
Io bevo per tutti i Sabati
senza scordare il prigioniero
dietro le pareti crudeli;
più non han nome i suoi giorni
e il rumore che attraversa e corre
lo circonda come l'oceano,
lenza conoscer qual sia l'onda,
l'onda dell'umido Sabato.
 
Ahi, che Sabati irritanti,
armati di bocche e di gambe,
sfrenate, di gran carriera,
che bevono più del prudente:
non protestiamo per il baccano
che non vuol camminare con noi.
 
SOGNO DI TRENI
 
I treni stavano sognando
nella stazione, indifesi,
senza locomotive, addormentati.
 
Entrai titubando nell'aurora:
andai cercando segreti,
cose perdute nei vagoni,
nell'odor morto del viaggio.
In mezzo ai corpi che partirono
mi sedetti solo nel treno immobile.
 
Era compatta l'aria, un blocco
di conversazioni cadute
e fuggitivi scoraggiamenti.
Anime perdute nei treni
come chiavi senza serrature
cadute sotto i sedili.
 
Passeggere del Sud cariche
di mazzolini e di galline,
furono forse assassinate,
forse tornarono e piansero,
forse sciuparono i vagoni
col fuoco dei loro garofani:
forse io viaggio, son con loro,
forse il vapore dei viaggi,
le rotaie bagnate, forse
tutto vive nel treno immobile
e io un passeggero addormentato
sventuratamente sveglio.
 
Restai seduto e il treno
correva dentro il mio corpo,
distruggendo le mie frontiere,
era d'improvviso il treno dell'infanzia,
il fumo dell'alba,
l'estate felice e amara.
 
Erano altri treni che fuggivano,
carri pieni di dolori,
carichi come d'asfalto,
così correva il treno immobile
nel mattino che cresceva
doloroso sulle mie ossa.
 
Ero solo nel treno solo,
ma non solamente ero solo:
numerose solitudini
dovevan essersi riunite lì
in attesa di viaggiare
come poveri sui marciapiedi.
Io sul treno come fumo morto
con tanti esseri inafferrabili,
oppresso da tante morti
mi sentii perduto in un viaggio
in cui nulla si muoveva,
se non il mio cuore stanco.
 
DOVE SARÀ LA GUGUELMINA?
 
Dove sarà la Guglielmina?
 
Quando mia sorella l'invitò
e andai ad aprirle la porta,
entrò il sole, entraron le stelle,
entraron due trecce di frumento
e due occhi interminabili.
 
Avevo quattordici anni
ed ero orgogliosamente oscuro,
magro, chiuso e aggrottato,
funebre e cerimonioso:
vivevo con i ragni,
umidito dal bosco,
mi conoscevano i coleotteri
le api tricolori,
dormivo con le pernici
sommerso sorto la menta.
 
Allora entrò la Guglielmina
con due lampi azzurri
che mi passarono i capelli
e m'inchiodarono come spade
contro i muri dell'inverno.
Questo accadde a Temuco.
Là nel Sud, alla frontiera.
 
Son passati lenti gli anni
calpestando come pachidermi,
latrando come volpi pazze,
son passati impuri gli anni
 
crescenti, logori, mortuari,
e io andai di nube in nube,
di terra in terra, d'occhio in occhio,
mentre la pioggia alla frontiera
cadeva, con lo stesso vestito.
 
Il mio cuore ha camminato
con intrasferibili scarpe,
e ho digerito le spine:
dove fui non ebbi tregua:
dove picchiai mi picchiarono,
dove mi uccisero caddi
e risuscitai con freschezza,
e poi e poi e poi e poi,
è cosi lungo raccontar le cose.
 
Nulla ho da aggiungere.
 
Venni a vivere in questo mondo.
 
Dove sarà la Guglielmina?
 
TORNA L'AMICO
 
Quando il tuo amico muore
in te torna a morire.
 
Ti cerca fino a trovarti
affinchè tu lo uccida.
 
Prendiam nota, camminando,
conversando, mangiando,
della sua morte.
 
Quanto gli accadde è poco importante.
Tutti conoscevano i suoi dolori.
E' morto ormai e appena lo si nomina.
Il suo nome passò e nessuno lo trattenne.
 
Tuttavia dopo morto egli è giunto
perché solo qui lo ricordassimo.
Ha cercato implorando i nostri occhi.
Non volemmo vederlo e non l'abbiamo veduto.
Allora se ne andò e ora non torna.
Più non torna, più nessuno ormai l'ama.
 
ACCADDE D'INVERNO
 
Non c'era nessuno in quella casa.
Ero invitato ed entrai.
M'aveva invitato un rumore,
un pellegrino senza presenza,
ed era vuoto il salone,
i buchi del tappeto
mi guardavano con disprezzo.
 
Le scansie erano rotte.
 
Era l'autunno dei libri
che volavano foglio a foglio.
Nella cucina dolorosa
svolazzavano cose grige,
tetre carte stanche,
ali di cipolla morta.
 
Qualche sedia mi seguì
come un povero cavallo zoppo
sprovvisto di coda e crini,
con tre uniche, tristi zampe;
mi chinai sulla tavola
perché lì fu la gioia,
il pane, il vino, lo stufato,
conversazioni con la biancheria,
con mansioni indifferenti,
con sposalizi delicati:
ma la tavola era muta
come non avesse lingua.
 
Le camere mi spaventarono
quando varcai il silenzio.
Lì rimasero incagliati
con le sventure e i loro sogni,
forse perché i dormienti
lì rimasero svegli:
da lì entraron nella morte,
si smantellarono i letti
e le camere morirono
con mi naufragio di nave.
 
Sedetti nel giardino bagnato
da grosse sgocciolature d'inverno
e mi sembrava impossibile
che sotto la tristezza
della putrida solitudine
lavorassero ancora le radici
senza lo stimolo di nessuno.
 
Tuttavia tra vetri rotti
e sudici frammenti di gesso
stava per nascere un fiore:
non rinuncia, perché reietta,
alla sua passione, la primavera.
 
Quando uscii scricchiolò una porta
e sbatacchiate dal vento,
nitrirono alcune finestre
come desiderose di partire
verso altra repubblica, altro inverno,
dove la luce e le cortine
avessero color di birra.
 
Affrettai le mie scarpe
ché se mi fossi addormentato
e tali cose m'avessero coperto
non avrei saputo cosa non fare.
Fuggii come un intruso
che vide ciò che non avrebbe dovuto.
 
Perciò non contai mai a nessuno
questa visita che non feci:
quella casa neppure esiste,
non conosco quelle persone,
non c'è verità in questa favola:
 
son malinconie d'inverno.
 
DOLCE SEMPRE
 
Perché quelle materie sì dure?
Perché per scrivere le cose
e gli uomini di ogni giorno
si vestono i versi d'oro,
di antica pietra spaventosa?
 
Voglio versi di tela o penna
che pesino appena, versi tiepidi
con l'intimità dei letti
dove la gente amò e sognò.
Voglio poemi macchiati
dalle mani e da ogni giorno.
 
Versi di sfoglia che sciolgano
latte e zucchero in bocca,
l'aria e l'acqua si bevono,
l'amore si morde e si bacia,
voglio sonetti commestibili,
poesie di miele e di farina.
 
La vanità va chiedendoci
di elevarci al cielo,
e di scavare profonde gallerie
inutili sotto la terra.
 
Così dimentichiamo uffici
deliziosamente amorosi,
dimentichiamo le paste,
non diamo da mangiare al mondo.
 
A Madràs è tanto tempo,
vidi una piramide inzuccherata,
una torre di dolciume.
Ogni parte posta su un'altra e altra,
rubini nell'architettura,
e altre rosee delizie,
medioevali e gialle.
 
Qualcuno si sporcò le mani
impastando tanta dolcezza.
 
Fratelli poeti di qui,
di là, della terra e del ciclo,
di Medellin, di Vera Cruz,
d'Abissinia, d'Antofagasta,
con che si fecero i favi?
 
Lasciamo tanta pietrai
 
Che la tua poesia trabocchi
l'equinoziale pasticceria
che le nostre bocche voglion divorare,
tutte le bocche dei bimbi
e tutti i poveri adulti.
Non continuino soli senza guardare,
senza appetire né intendere
tanti cuori di zucchero.
 
Non abbiano paura della dolcezza.
Senza di noi o con noi
ciò che è dolce continuerà a vivere,
è vivo infinitamente,
eternamente redivivo,
perché in piena bocca dell'uomo
per cantare e per mangiare
é situata la dolcezza.
 
DIURNO CON CHIAVE NOTTURNA
 
Sono le nove del mattino
di un giorno interamente puro,
a righe azzurre e bianche,
appena lavato e stirato
a posto come una camicetta.
 
Tutti i fili dimenticati
di legna, d'alghe minuscole,
le zampe degli insetti,
le pallide penne erranti,
gli aghi che cadono dal pino,
tutto risplende come può,
il mondo profuma di stella.
 
Ma viene ormai il postino
sputando lettere terribili,
lettere che dobbiamo pagare,
che ci ricordano debiti duri,
lettere in cui qualcuno è morto,
gualche fratello è caduto prigioniero
e inoltre qualcuno c'impiglia
nelle sue arti di ragno,
portano poi un giornale
bianco e nero come la morte
e tutte le notizie piangono.
 
Mappa del mondo e del singhiozzo!
Giornale bagnato ogni notte,
bruciato ogni mattina
dalla guerra e dai dolori,
oh geografia dolorosa!
 
Ormai la sera infranta si raggrinza
e vola come carta morta,
di strada in strada in strada va,
le orinan sopra i cani erranti,
la inseguono gli spazzini,
le aggiungono ornamenti atroci,
intestini di galli, escrementi,
scarpe irriconoscibili,
ed è come un fardello il vecchio giorno:
carta sporca e vetri rotti
finché lo gettano via,
lo adagiano nei sobborghi.
 
La notte arriva con la sua coppa
di rampicanti stellati,
il sonno sommerge gli uomini,
li ammucchia nel suo sottosuolo
e il mondo si lava di nuovo,
torna di nuovo la luna,
l'ombra scuote i suoi guanti
mentre le radici lavorano.
 
E nasce nuovamente il giorno.
 
DI QUA E DI LÀ
 
Già sta la terra intorno
a me girando
come il metallo al suon della campana.
 
Già è di quanto amai
il mio piccolo universo,
il sistema stellato delle onde,
il disordine impervio delle pietre.
Lontano, una città con i suoi stracci,
mi chiama, povera sirena,
perché mai, no, si disamori
il mio cuore dei suoi duri doveri,
e io con cielo e lira
nella luce di ciò che amo,
immobile, indeciso,
alzo la coppa del mio canto.
 
Oh aurora staccata
dall'ombra e dalla luna nell'oceano,
sempre ritorno al tuo sale bruciante,
sempre la tua solitudine m'incita
e giunto nuovamente non so chi sono,
tocco la dura sabbia, guardo il cielo,
passeggio senza saper dove cammino,
fino a che dalla notte
salgono e scendono fiori indicibili;
nell'acido aroma
del litorale palpitan le stelle.
 
Errante amore, ritorno
con questo cuore fresco e stanco
che appartiene all'acqua e alla sabbia,
al territorio asciutto della riva,
alla battaglia bianca della spuma.
 
SCONOSCIUTI SULLA RIVA
 
Son ritornato e ancora il mare
mi rivolge strane spume,
non si abitua ai miei occhi,
l'arena non mi riconosce.
 
Non ha senso ritornare
senza annunciarsi, all'oceano:
egli non sa che si è tornati,
non sa che siam stati assenti
e l'acqua è cosi indaffarata
con tante faccende azzurre,
che siam giunti e non si sa:
le onde conservano il loro canto,
e benché il mare abbia molte mani,
molte bocche e molti baci
nessuno ti ha dato la mano,
nessuna bocca ti bacia
e bisogna accorgersi d'improvviso
di che poca cosa noi siamo:
ormai ci credevamo amici,
torniamo aprendo le braccia
e il mare è qui, prosegue la sua danza
senza preoccuparsi di noi.
 
Dovrò attendere la nebbia,
il sale aereo, il sole disperso,
che il mar respiri e mi respiri,
perché l'acqua non è solo acqua,
ma vaporose invasioni,
e nell'aria continuano l'onde
come invisibili cavalli.
 
Per questo devo imparare
a nuotare entro i miei sogni
non sia che il mare venga
a trovarmi quando dormo!
Se ciò avverrà starà bene
e quando mi sveglierò domani
le pietre bagnate, l'arena,
il gran movimento sonoro
sapranno chi sono e perché torno,
mi accetteranno nel loro istituto.
 
Sarò di nuovo felice
nella solitudine dell'arena,
svolto dal vento
e stimato dalla marina.
 
LETTERA PERCHÉ MI MANDINO LEGNA
 
Ora per costruire la casa
portatemi legna del Sud,
portatemi assi e assoni,
travi, listoni, assicelle,
voglio veder giungere il profumo,
voglio sentire mentre scaricano
il suono del Sud che recano.
 
Come posso vivere così lontano
da ciò che amai, da ciò che amo?
Dalle stazioni avvolte
di vapore e fumo freddo?
Benché morto da tanti anni
laggiù deve errare mio padre
col poncio coperto di gocce
e la barba color cuoio.
 
La barba color dell'orzo
che percorreva le diramazioni,
il cuore dell'acquazzone,
e che qualcuno gareggi con me
per un padre così errante,
per un padre così bagnato:
il suo treno andava disperato
tra le pietre di Carahue,
lungo le rotaie di Colli-Pulli,
nelle piogge di Puerto Varas.
 
Mentr'io spiavo le pernici
o i coleotteri violenti,
cercavo il colore del lampo,
cercavo un aroma indelebile,
fiore arbitrario o miele selvatico.
mio padre non perdeva tempo:
sopra l'inverno affermava
il sole delle sue ferrovie.
 
Persi la pioggia e il vento
e che ho guadagnato, mi chiedo?
Perché persi l'ombra verde
a volte soffoco e muoio:
la mia anima non è contenta
e cerca sotto le mie scarpe
cose sciupate o perdute.
Forse quella terra triste
si muove in me come una nave:
ma ho cambiato pianeta.
 
La pioggia più non mi conosce.
E ora per le pareti,
per le finestre e il pavimento,
per il tetto, per le lenzuola,
per i piatti e per la tavola
portatemi legni oscuri,
segreti come la foresta,
tavole chiare, tavole rosse,
larice, nocciolo, mañío,
lauro, raulí, ulmo fragrante,
tutto ciò che andò crescendo
segretamente nel folto,
ciò che crebbe con me:
hanno la mia età quei legni,
avemmo le stesse radici.
 
Quando si aprirà la porta ed entreranno
i frammenti della selva
respirerò e toccherò
ciò che forse io sono ancora:
legno dei boschi freddi,
legno duro di Temuco,
poi vedrò che il profumo
costruirà la mia casa,
s'innalzeranno le pareti
con i sussurri che persi,
con ciò che avveniva nella selva,
e sarò felice di essere
circondato da tanta purezza,
da tanto silenzio che torna
a conversare col mio silenzio.
 
IL CITTADINO
 
Entrai in botteghe di ferramenta
con il cuore innocente
a comprare un semplice martello
o delle forbici astratte:
mai avrei dovuto farlo,
da allora e senza sosta
dedico il mio tempo all'acciaio,
alle più vaghe ferramenta:
le zappe mi affascinano,
mi soggiogano le ferrature.
 
Sto inquieto tutta settimana
cercando nubi d'alluminio,
viti tormentate,
barre di nichel taciturno,
innecessari battenti;
ormai le botteghe di ferramcnta
conoscono il mio abbagliamento:
mi vedono entrar con occhi pazzi
di maniaco nella lor caverna
e si vede che accarezzo cose
così enigmatiche e affumicate
che nessuno potrebbe comprare
e che io solo guardo e ammiro.
 
Perché nel sogno dell'ingiusto
sorgono fiori inossidabili,
innnumeri pale di ferro,
contagocce per l'olio,
fluviali cucchiai di zinco,
saracchi di stirpe marina.
 
È come l'interno di una stella
la luce delle botteghe di ferramenta:
lì con i loro fulgori
stanno i chiodi essenziali,
gli invincibili battenti,
la bolla dei livelli
e i garbugli del fil di ferro.
 
Hanno cuore di balena
le botteghe di ferramema del Porto:
hanno inghiottito tutti i mari,
tutte le ossa del naviglio;
lì si riuniscono le onde,
l'antichità delle maree,
e depositano nel loro stomaco
barili che rotolarono molto,
corde come arterie d'oro,
ancore di peso planetario,
lunghe catene complicate
come intestini della Bestia
e arpioni che inghiottì nuotando
all'Est del Golfo delle Pene.
 
Quando entrai non uscii più,
più non cessai di ritornare
e mai cessò di avvolgermi
un odore di ferramenta:
mi chiama come la mia provincia,
mi consiglia inutili cose,
mi copre come la nostalgia.
 
Che farci! Esiston uomini soli
di albergo, di stanza nubile,
altri con patria e tamburo,
vi sono infiniti aviatori
cne salgono e scendono dall'aria.
Sono perduto per voi.
Son cittadino profondo,
patriota delle botteghe di ferramenta.
 
NON FATEMI CASO
 
Tra le cose che getta il mare
cerchiamo le più calcinate,
zampe viola di granchi,
testine di pesci defunti,
sillabe dolci di legno,
piccoli paesi di madreperla,
cerchiamo ciò che il mare distrusse
con insistenza senza riuscirvi,
ciò che ruppe e abbandonò
lasciandolo per noi.
 
Vi son petali inanellati,
cotoni della tormenta,
gioie inutili dell'acqua,
ossa dolci d'uccelli
ancora disposti al volo.
 
Il mare gettò il suo rifiuto,
l'aria giocò con le cose,
il sole bruciò quanto v'era,
e il tempo vive presso il mare
e conta e tocca ciò che esiste.
 
Conosco tutte le alghe,
gli occhi bianchi dell'arena,
le piccole mercanzie
delle maree in Autunno,
C3nunmo come un grosso pellicano
sollevando nidi bagnati,
spugne che adorano il vento,
labbra d'ombra sottomarina,
ma nulla di più straziante,
del sintomo dei naufragi:
il dolce legno perduto
che fu morso dalle onde
e disprezzato dalla morte.
 
Bisogna cercare cose oscure
in qualche parte della terra,
sull'azzurra riva del silenzio,
o dove passò come un treno
la tempesta travolgente:
lì stanno segni sottili,
monete del tempo e dell'acqua,
detriti, cenere celeste
e l'ebbrezza intrasferibile
di prender parte alle fatiche
della solitudine e dell'arena.
 
TROPPI NOMI
 
II lunedì s'impiglia col martedì
la settimana con l'anno;
non si può tagliare il tempo
con le tue forbici stanche,
e tutti i nomi del giorno
l'acqua della notte cancella.
 
Nessuno può chiamarsi Pedro,
nessuna è Rosa o Maria,
tutti siamo polvere o sabbia,
tutti siam pioggia nella pioggia.
Mi han parlato di Venezuele,
di Paraguai e di Cili,
non so di che stiano parlando:
conosco la pelle della terra
e so che non ha nome.
 
Quando vissi con le radici
mi piacquero più dei fiori,
quando parlai con una pietra
suonava come una campana.
 
E' si lunga la primavera
che dura tutto l'inverno;
il tempo ha perso le scarpe:
un anno ha quattro secoli.
 
Quando dormo tutte le notti,
come mi chiamo o non mi chiamo?
Quando mi sveglio chi sono
se non ero io quando dormivo?
 
Questo vuoi dire che appena
sbarchiamo nella vita,
appena veniamo al mondo,
non dobbiamo empirci la bocca
di tanti nomi insicuri,
di tante etichette tristi,
di tante lettere rimbombanti,
di tanto tuo e tanto mio,
di tante firme sulle carte.
 
Penso di confondere le cose,
di riunirle e farle rinascere,
di mescolarle, svestirle,
finché la luce del mondo
abbia l'unità dell'oceano,
un'integrità generosa,
una fragranza crepitante.
 
LE STATUE VERDI SUL TETTO DI NOTRE DAME
 
Contro i tetti neri,
contro la luce lattiginosa
queste lunghe donne
queste statue verdi,
che fanno, che fecero prima,
che faranno il prossimo anno?
Son frulli dell'inverno?
Delle età infrante
contro la pietra, sono
angeli, sante, regine
o semplicemente
statue
perdute, strappate
da parchi ormai senz'alberi,
da piazze che son morte?
 
Perché, perché nell'altezza
solitaria, donne
di ferro verde, d'acqua,
morte sotto la pioggia,
indifese, gracili
come pesci immobili
nuotate senza muovervi
come l'aria nell'acqua?
 
Penso che tuttavia
lavorano sull'altura,
son norme, fredde norme,
fuochi immobili,
lettere di luce sciupate
da altra luce oscura,
da un tremore senza baci,
dalle onde del cielo.
 
Monete, si, monete,
sbattute contro
il semiduro infinito,
tra il tetto e l'alba,
erette, solitarie
viventi d'aria e di fumo
come in una sfida,
vergini Stordite
che rimasero fuori,
che Dio non lasciò entrare
nel suo recinto «chiuso»
e così senza spogliarsi
vivono sotto la pioggia.
 
PORTATELO QUI SUBITO
 
II nemico che ebbi un tempo
sarà oggi ancora vivo?
Era un barabba vitalizio,
sempre fervente e fermentante.
 
E' malinconico non udire
le sue minacce tenebrose,
le lunghe liste di lamenti.
 
Devo richiamar la sua attenzione,
non dimentichi le sfuriate,
mi piacerebbe un nuovo libro
con argomenti schiaccianti
che alfine mi distruggesse.
 
Che farò senza venduti?
Nessuno mi terrà in conto.
 
Questo tipo vantaggioso
spiava la mia nascita
e appena volli respirare
decise di sterminarmi
seguendomi con fellonia
per terra e mare, in prosa e in verso.
 
S'accollò i suoi anni e i miei
con perseveranza encomiabile,
sulla sua anima picaresca
annotò tutti i miei peccati,
quelli che ebbi e non ebbi,
quelli che avrò probabilmente,
quelli che non penso di commettere.
Lì sta il pover'uomo col suo elenco,
col pesante scartafaccio,
preoccupato solo di me,
delle mie azioni funeste.
 
Ahi che tipo tanto ozioso!
 
In questa impresa singolare
prostituì i suoi discendenti,
contrasse debiti spaventosi,
le carceri lo spiavano,
ma l'infelice non cedette:
il suo compito era importante
e camminava col suo sacco
come uno strano essere gobbo
vaticinando il mio traviamento,
la mia perdita imminente.
 
Produsse generi entusiasti
di simile traiettoria
e mentre questi combattevano
lui perforava le loro tasche,
e come mai oggi non lo sento?
 
D'improvviso non sibila il tridente
e le mandibole dell'odio
osservano un silenzio putrefatto.
 
Caimano e genero di caimano,
ferrugginosi poliziotti,
non può essere, son qui vivo,
attivo nella luce duratura,
— che ne fu di quei denti?
Come possono lasciarmi solo?
 
E' questo il momento migliore
per saltare sulle riviste
con spilli, mazze e coltelli!
Accumulate qualcosa per favore!
Alla battaglia i tamburi!
 
Il nemico che ebbi un tempo
ha tolto i piedi dal piatto
con un silenzio pernicioso!
Ero abituato a quest'ombra,
alla sua invidia straziante,
alle sue goffe dita d'affogato.
 
Vediamo se lo vedete e lo trovate
che beve benzina e aceto:
che risusciti la sua furia,
senza la quale soffro, impallidisco
non posso mangiar pernici.
 
PER BOCCA CHIUSA ENTRANO LE MOSCHE
 
Perché con quelle fiamme rosse
si son messi ad ardere i rubini?
 
perché il cuore del topazio
possiede favi gialli?
 
Perché si diverte la rosa
cambiando il colore dei suoi sogni?
 
Perché si raffredda lo smeraldo
come un affogato sottomarino?
 
Perché impallidisce il cielo
sopra le stelle di Giugno?
 
Dove compra pittura fresca
la coda della lucertola?
 
Dov'è il fuoco sotterraneo
che risuscita i garofani?
 
Da dove prende il sale
quello sguardo trasparente?
 
Dove han dormito i carboni
che son levati oscuri?
 
E dove compra la tigre
righe di lutto, righe d'oro?
 
Quando incominciò a conoscere
la madreselva il suo profumo?
 
Quando si accorse il pino
del suo odoroso risultato ?
 
Quando appresero i limoni
la dottrina stessa del sole?
 
Quando imparò il fumo a volare?
Quando conversan le radici?" '
 
Com'è l'acqua nelle stelle?
Perché lo scorpione avvelena.
perché l'elefante è benigno?
 
A che medita la tartaruga?
Dove si ritira l'ombra?
Che canto ripete la pioggia?
Dove vanno a morire gli uccelli?
Perché sono verdi le foglie?
 
E' si poco ciò che sappiamo
e tanto ciò che presumiamo
e sì lentamente impariamo,
che interroghiamo e moriamo.
Meglio serbare l'orgoglio
per la città dei morti,
nel giorno dei defunti:
lì quando il vento percorrerà
i buchi del tuo teschio,
ti rivelerà tanto enigma,
sussurrandoti la verità
dove furono le tue orecchie.
 
FURIOSA LOTTA DI MARINAI CON UN POLIPO DI COLOSSLI DIMENSIONI
 
I
L'arrivo a Valparaiso
 
I naviganti che tornarono
dal combattere con l'octopus
più non si abituarono poi:
non volevano andare in treno,
temevano le rotaie,
vivevano cercando ventose
nell'anello dei pneumatici,
tra le gambe e tra gli alberi.
Temevano la luna!
 
Vivevano tristi raggomitolati
in mezzo a taverne e barili,
le barbe nere crescevano
simultanee, incontrollabili,
ed essi sotto le barbe
erano sempre più ostili
come se il remoto animale
li avesse empiti d'acqua.
 
Li trovai a Valparaiso
impigliati nei loro capelli,
scontrosi, indelicati,
e sembravano offesi
non dal mostro dell'oceano,
ma dalle sigarette,
dalle vaghe conversazioni,
dalle bevande trasparenti.
 
Leggevano giornali incredibili,
«El Mercurio», «El Diario Ilustrado»,
giornali postribolanti
con fotografie di dee
dagli ombelichi affascinanti,
ma leggevano più lontano,
ciò che non accadrà più,
ciò che ormai più non accade:
le battaglie del cefalopodo
che si nutre di balenieri,
e poiché non si trattava
di questi temi sul giornale
sputavano furiosamente,
rabbrividivano d'oblio.
 
II
Il combattimento,
 
Nel mare dormiva il veliero
tra i denti della notte,
russavano i duri ragazzi
decorati dalla luna
e il capodoglio dissanguandosi
recava affondato l'orgoglio
per le latitudini dell'acqua.
 
L'uomo si svegliò con otto
brividi pestilenti,
otto maniche d'acqua dell'abisso,
otto viscere del silenzio,
barcollò il puro naviglio,
s'abbatte il suo firmamento:
un gran frutto di mare l'avvolse
come una mano gigante,
entrò nel sogno del marinaio
un reggimento dì ventose.
 
La lotta fu sfrenata
ed ebbe tali proporzioni
che le alberature si spezzarono:
le accette tagliavano pezzi
di dura gomma sottomarina,
le bocche del mostro succhiavano
con lunghe catene di labbra,
le sue pupille senza palpebre
fosforescendo vigilavano.
 
Quella fu carneficina,
i piedi scivolavan nel sangue,
e quando cadevano tagliate
le dita fredde della Bestia,
altra mano infernale saliva
arrotolandosi alla vita
dei disgraziati cileni.
 
Quando giunse col suo manto
la gelida aurora dell'Antartico
trovò la morte nel mare:
quel veliero detronizzato
dall'octopus moribondo
e sette balenieri vivi
in mezzo all'onde e all'assenza.
 
Pianse l'aurora fino a inzuppare
il suo manto di acque gialle.
 
Passarono allora gli uccelli,
gli sciami interminabili,
le arnie dell'arcipelago
e sulle ferite crudeli
della Bestia e sopra i morti
passava la luce indifferente
e le ali sopra la spuma.
 
III
La partenza
 
Roberto López s'imbarcò sull'«Aurora».
Arturo Soto sull'«Antartic Star».
Olegario Ramírez sul «Maipo».„
Justino Pérez morì in una rissa.
Sinfín Carrasco è soldato a Iquique.
Juan de Dios González è contadino e taglia
tronchi di larice nelle isole del Sud.
 
CONTROCITTÀ
 
La triste città di Santiago
distende gambe polverose,
s'allunga come un cacio grigio
e dal ciclo puro e duro
si vede come un ragno morto.
 
La fecero di mattone triste
i tetri conquistatori
poi le mosche, il fumo,
i veicoli opprimenti,
i cileni che pelan patate,
gli odori del Mattatoio,
le tristezze municipali,
sotterrarono la mia città,
l'abbandonaron lentamente,
la seppellirono nelle ceneri.
 
Poi i figli di Chicago
fecero pallidi cassoni
e ogni volta era più triste
la povera città d'inverno:
sconquassate automobili
la martirizzavano con furia,
sulle cantonate oscillavano
le notizie opprimenti
dei giornali insanguinati.
 
Tutti i ricchi fuggirono
Con mobili e fotografie,
lontano, sulla cordigliera,
lì dormivano tra le rose,
ma al mattino ritornavano
al centro della povera città,
con denti duri di pantera.
 
I poveri non poterono andarsene,
né i cabarets senza speranza
dove ballavano senza decoro
i giovani sopravvissuti;
l'uomo qui si abituò
a passare tra gli stracci,
così come un brivido corre
per le pareti dell'inverno.
 
Il carcere è posto in mezzo
alla povera città colpita,
è un carcere con carie,
con neri denti purulenti
e opprime la città, le aggiunge
la sua spruzzata di sangue,
la sua massa di dolori.
 
Che posso fare, mia povera patria ?
Vengono e vanno i presidenti
e il cuore s'empie di fumo;
ti pietrificano i governi
e la città non si scuote,
sussurran tutti senza parlare,
s'incrociano lampi d'odio.
 
Io crebbi in queste strade tristi
osservando i negozi di ferramenta,
i mercati della verdura,
e quando la città invecchia,
si prostituisce, si dissangua,
muore tanto è polverosa:
quando l'estate senza foglie,
i] povero autunno senza monete,
l'inverno color di morte
coprono la cittadinanza,
soffro come una strada;
e ubbidendo alle mie pene
mi metto a ballar di tristezza.
 
Perché suppongo che un giorno
vedran alberi, vedranno acque
i disgraziati viandanti:
sapran come cade la pioggia
non solo sopra i cappelli,
potran conoscere la luce
e l'equilibrio dell'autunno.
 
CANTASANTIAGO
 
Non posso negare il tuo grembo
città nutrice, non posso
negare o rinnegar le strade
che alimentarono i miei dolori,
il crepuscolo che cadeva
sopra i tetti di Mapocho
con un color di caffè triste,
poi la città ardeva
crepitava come una stella,
e si sappia che i suoi raggi
prepararono il mio intendimento
la città era una nave verde
e partii per le mie navigazioni.
 
Non s'esaurisce la tua fragranza.
Forse perché il rampicante
che si perse in quell'angolo di strada
crebbe verso il basso, verso altro mondo,
mentre s'aprono sulla sua morte
i petali di un edificio.
 
Santiago, non nego la tua neve,
il sole d'aprile, i tuoi neri doni,
San Francisco è un almanacco
pieno di date gongorine,
la Stazione Centrale un leone,
la Moneta una colomba.
 
Amo la vergine ovalata
che illumina senza entusiasmo
i sogni della zoologia
incarcerata e sdegnosa,
i parchi pieni di mani,
pieni di bocche e di baci.
 
Di tanto in tanto il vento accarezza
le curve d'una stradina
che s'appartò senza dir nulla
dalla tua implacabile geometria,
ma i monti incoronarono
la linearità dei tuoi rettangoli
con solitario sale selvaggio,
nude statue di neve,
sgretolati vaneggiamenti.
 
Che dimenticai nelle tue strade, che torno
da ogni parte alle tue strade?
Come se ovunque vada ricordassi
un appuntamento d'improvviso
e mi affretto e volo e corro
fino a toccare il tuo suolo!
Allora sì io so che sono,
allora so che mi attendeva,
alfine con me mi ritrovo.
 
La neve che cade sulla tua fronte
cominciò a nevicare sulla mia:
invecchio con la mia città,
ma i sogni non invecchiano:
allevano tegole, allevan penne,
salgono le case e gli uccelli,
così Santiago ci vedremo
addormentati per l'eternità
e svegli profondamente.
 
Santiago non dimenticar che sono
cavaliere del tuo aumento:
giunsi galoppando a cavallo
dal Sud, dalla mia selvatichezza,
restai immobile in te
come un cavaliere di bronzo:
sono da allora città
senza dimenticare i miei territori,
senza abbandonare le strade:
ho il petto pavimentato,
la mia poesia e l'Alameda,
il mio cuore è un telefono.
 
Si, Santiago, sono un angolo di strada
del tuo amore sempre mobile
come entusiasmi di bandiera
e nel fondo ti amo tanto
che soffro se non mi batti,
se non mi uccidi muoio
e conto non solo su di te,
ma senza di tè non conto.
 
IL PIGRO
 
Continueranno a viaggiar cose
di metallo tra le stelle,
saliranno uomini estenuati,
violenteranno la soave luna
e fonderanno lì le loro farmacie,
 
In questo tempo d'uva piena
il vino inizia la sua vita
tra il mare e le cordigliere.
 
In Cile le ciliege danzano,
cantano le ragazze oscure,
nelle chitarre brilla l'acqua.
 
Il sole tocca tutte le porte
e fa miracoli col frumento.
 
I1 primo vino è rosa,
dolce come un bimbo tenero,
i1 secondo vino e robusto
come la voce di un marinaio
il terzo vino è un topazio,
un papavero e un incendio.
 
La mia casa ha mare e terra,
mia moglie ha occhi grandi
color di nocciola silvestre,
quando viene la notte il mare
si veste di bianco e di verde,
poi la luna nella spuma
sogna come fidanzata marina.
 
Non voglio cambiare pianeta.
 
BESTIARIO
 
Se potessi parlare con gli uccelli,
con le ostriche e le lucertole,
con le volpi di Selva Oscura,
con i pinguini esemplari;
se le pecore mi capissero,
i languidi cani lanuti,
i cavalli delle carrette,
se discutessi con i gatti,
se m'ascoltassero le galline!
 
Mai ho pensato di parlare
con animali eleganti:
non ho curiosità
per l'opinione delle vespe,
né delle cavalle da corsa:
che si arrangino volando,
guadagnino vesti correndo!
Voglio parlare con le mosche,
con la cagna che ha appena partorito
e conversare coi serpenti.
 
Quand'ebbi piede per camminare
in notti triple, ormai trascorse,
seguii i cani notturni,
quegli squallidi viandanti
che trottano viaggiando in silenzio
con gran fretta verso nessun luogo,
e li seguii per molte ore,
essi diffidavano di me,
ahi, poveri cani insensati,
perdettero l'occasione
di raccontare le loro malinconie,
di correre con pena e coda
per le strade dei fantasmi.
 
Sempre ebbi curiosità
per l'erotico coniglio:
chi lo incita e sussurra
nelle sue orecchie genitali?
Va senza fine procreando
e non bada a San Francesco,
non ascolta alcuna sciocchezza:
il coniglio monta e rimonta
con organismo inesauribile,
Voglio parlare col coniglio
amo i suoi costumi birichini.
 
I ragni sono sciupati
da pagine assai stolte
di semplicisti esasperanti
che li vedon con occhi di mosca,
li descrivono divoratori,
carnali, infedeli, lascivi, sessuali.
 
Per me questa reputazione
rispecchia gli estimatori,
il ragno è un ingegnere,
un divino orologiaio,
per una mosca più o meno
lo detestino gli idioti,
voglio conversare col ragno:
voglio che mi tessa una stella.
 
M'interessan tanto le pulci
che mi lascio pungere per ore,
sono perfette, antiche, sanscrite,
sono macchine inappellabili.
Non pungono per mangiare,
pungono solo per saltare,
son le salterine dell'orbe,
le delicate, le acrobate
del circo più dolce e profondo:
galoppino sulla mia pelle,
diffondano le loro emozioni,
si divertano col mio sangue,
ma qualcuno me le presenti,
voglio conoscerle da vicino,
voglio sapere a che attenermi.
 
Coi ruminanti non ho potuto
entrare in intimità profonda
eppure sono un ruminante,
non capisco che non m'intendano.
Devo trattare questo tema
pascolando con vacche e buoi,
pianificando con i tori.
In qualche modo saprò
tante cose intestinali
che stanno nascoste dentro
come passioni clandestine.
 
Che pensa il maiale dell'aurora?
Non cantano, ma la sostengono
con i grandi corpi rosei,
le piccole zampe dure.
 
I maiali sostengono l'aurora.
 
Gli uccelli si mangiano la notte.
 
E nel mattino è deserto
il mondo: dormono i ragni,
gli uomini, i cani, il vento,
grugniscono i maiali, e albeggia.
 
Voglio conversare con i maiali.
 
Dolci, sonore, rauche rane,
sempre desiderai essere rana un giorno;
sempre amai la pozzanghera, le foglie
sottili come filamenti,
il mondo verde del crescione
con le rane padrone del cielo.
 
La serenata della rana
sale nel mio sonno e lo stimola,
sale come un rampicante    
al balconi della mia infanzia,
ai capezzoli di mia cugina,
ai gelsomini astronomici
della nera notte del Sud,
e ora ch'è passato il tempo
non domandatemi del cielo:
penso che non ho ancora imparato
il rauco idioma delle rane.
 
Se è così, come posso esser poeta?
Che ne so io della geografia
moltiplicata della notte?
 
In questo mondo che corre e tace
voglio altre comunicazioni,
altri linguaggi, altri segni,
voglio conoscere questo mondo.
 
Tutti son rimasti contenti
con presentazioni sinistre
di rapidi capitalisti
e di sistematiche donne.
Voglio parlare con molte cose
e non me n'andrò da questo pianeta
senza sapere che venni a cercare,
senza chiarire questo affare,
e non mi bastano le persone,
devo andare molto più lontano,
devo andare molto più vicino.
 
Perciò, signori, me ne vado
a conversare con un cavallo,
mi scusi la poetessa
e il professore mi perdoni,
ho la settimana occupata,
devo ascoltare a borbottoni.
 
Come si chiama quel gatto?
 
TESTAMENTO D'AUTUNNO
 
Il poeta entra a raccontare la
sua condizione e le sue predilezioni.
 
Tra morire e non morire
mi decisi per la chitarra
e in questa professione intensa
il mio cuore non ha tregua,
perché dove meno m'attendono
arriverò col mio bagaglio
a raccogliere il primo vino
nei cappelli dell'Autunno.
 
Entrerò se chiudon la porta,
e se mi accolgono me ne vado,
non sono di quei naviganti
che si sperdono nel ghiaccio:
come il vento mi accontento
delle toglie più gialle,
dei capitoli caduti
dagli occhi delle statue
e se in qualche luogo riposo
è nel centro del focolare,
in ciò che palpita e crepita
e viaggia poi senza meta.
 
Lungo le righe
avrai trovato il tuo nome,
mi spiace proprio pochissimo,
non si trattava d'altra cosa,
ma di moltissime altre,
perché sei e perché non sei
e questo succede a tutti,
nessuno si rende conto di tutto
e quando si sommano le cifre
tutti eravamo falsi ricchi:
ora siamo poveri nuovi.
 
Parla dei suoi nemici
e partecipa loro la sua eredità.
 
Son stato» tagliato a pezzi
da rancorose bestiacce,
che sembravano invincibili.
Mi abituai nel mare
a mangiar cetrioli d'ombra,
strane varietà di ambra,
a entrare in città perdute
con maglietta e armatura
in modo tale che ti uccidono.
e tu muori dal ridere.
 
Lascio quindi a coloro che latrarono
le mie ciglia di viandante,
la mia predilezione per il sale,
l'indirizzo del mio sorriso
perché si portino via tutto
con discrezione, se son capaci:
giacché non poterono uccidermi
non posso impedir loro poi
di vestirsi dei miei vestiti,
di comparire la domenica
con pozzetti del mio cadavere,
efficacemente camuffati.
Se nessuno lasciai tranquillo,
non mi lasceranno tranquillo,
si vedrà, ciò non importa,
pubblicheranno i miei calzini.
 
Si rivolge ad altri settori
 
Ho lasciato i miei beni terreni
al mio Partito e al mio popolo,
ora si tratta di altre cose,
cose sì oscure e sì chiare
che tuttavia sono una sola.
Così avviene con l'uva,
coi suoi due possenti figli,
il vino bianco, il vino rosso,
tutta la vita è rossa e bianca,
ogni chiarita è oscura,
non tutto è ferra e fango,
nella mia eredità c'è ombra e sogni.
 
Risponde ad alcuni bene intenzionati.
 
Mi domandarono una volta
perché scrivevo così oscuro,
possono chiederlo alla notte,
al minerale, alle radici.
Non seppi cosa rispondere
finché subito e dipoi
mi aggrediron due forsennati
accusandomi di semplice:
risponda l'acqua che corre,
me n'andai correndo e cantando.
 
Destina le sue pene.
 
A chi lascio tanta gioia
che pullulò nelle mie vene
e questo esser e non esser fecondo
che mi diede la natura?
Son stato un lungo fiume pieno
di pietre dure che suonavano
con suoni chiari di notte,
con canti oscuri di giorno,
a chi posso lasciare tanto,
tanto da lasciare e sì poco,
una gioia senza oggetto
un cavallo solo nel mare,
un telaio che tesseva vento?
 
Dispone delle sue gioie.          
 
Le mie tristezze le lascio
a chi m'ha fatto soffrire,
ma dimenticai quali furono,
non so dove le ho lasciate,
se le vedete in mezzo al bosco
sono come i rampicanti,
salgon dalla terra con le loro foglie
e terminan dove tu termini,
nella tua testa o nell'aria,
e perché non salgano di più
bisogna cambiar di primavera.
 
Si pronuncia contro l'odio 
 
M’andai avvicinand all’odio
i suoi brividi sono seri,
le sue nozioni vertiginose.
L'odio è un pesce spada,
si muove nell'acqua invisibile,
allora lo si vede venire,
ha il sangue sul coltello:
lo disarma la trasparenza.
Allora perché odiare
quelli che tanto ci odiarono?
Stanno lì sotto l'acqua
m agguato e sdraiati
preparando spada e stagnina,
ragnatele e reti di cani.
Non si tratta di cristianismi,
non è orazione né sartoria,
è che l'odio ha perduto:
gli son cadute le squame
nel mercato del veleno,
e frattanto esce il sole
e ci si mette a lavorare
e a comprare pane e vino.
 
Ma lo considera nel suo testamento.
 
All'odio io lascerò
i miei ferri di cavallo,
la mia maglietta di naviglio,
le mie scarpe di viandante,
il mio cuore di falegname,
tutto ciò che seppi fare
e quanto m'aiutò a soffrire,
ciò che ebbi di duro e puro,
d'indissolubile e d'emigrante,
perché s'impari nel mondo
che chi possiede bosco e acqua
può tagliare e navigare,
può andare e può tornare,
può soffrire e può amare,
può temere e lavorare,
può essere e può continuare,
può fiorire e può morire,
può essere semplice e oscuro,
può non avere orecchie,
può sopportar la sventura,
può attendere un fiore.
possiamo, infine, esistere,
benché non accettino le nostre vite
alcuni figli di puttana.
 
Infine si rivolge con trasporto alla sua amata.
 
Matilde Urrutia, qui ti lascio
ciò che ebbi e che non ebbi,
ciò che sono e che non sono.
Il mio amore è un bimbo che piange,
non vuol uscire dalle tue braccia,
io te lo lascio per sempre!
sei per me la più bella.
 
Sei per me la più bella,
la più tatuata dal vento,
come un alberello del sud,
come un nocciolo in agosto,
sei per me succulenta
come una panetteria,
è di terra il tuo cuore,
ma le tue mani son celesti.
 
Sei rossa e sei pungente,
sei bianca e sei saporita
come salsa di cipolla,
sei un pianoforte che ride
con tutte le note dell'anima,
e, su me cade la musica
delle tue ciglia e dei capelli,
mi bagno nella tua ombra d'oro
mi dilettano le tue orecchie
come se le avessi viste
nelle maree di corallo:
per le tue unghie lottai nelle onde
contro pesci spaventosi.
 
Da Sud a Sud s'aprono i tuoi occhi,
da Est a Ovest il tuo sorriso,
non ti si possono vedere i piedi,
il sole si diverte frantumando
l'alba nei tuoi capelli,
U tuo corpo e il tuo viso vennero
come me, da regioni dure,
da cerimonie piovose,
da terre antiche e martiri,
continua a cantare il Bio-Bio
nella nostra argilla insanguinata,
ma tu recasti dal bosco
tutti i segreti profumi
e quel modo di sfoggiare
un profilo di freccia perduta,
una medaglia di guerriero.
Tu fosti la mia vincitrice
per l'amore e per la terra,
perché la tua bocca mi recava
antepassate sorgenti,
appuntamenti in bosco d'altre età,
oscuri tamburi bagnati:
d'improvviso udii che mi chiamavano:
era da lungi e da quando:
m'avvicinai all'antico fogliame,
baciai il mio sangue sulla tua bocca,
cuor mio, mia araucana.
Che posso lasciarti se hai,
Matilde Urrutia, nel tuo contatto
quell'aroma di foglie bruciate,
quella fragranza di fragole
e tra i tuoi due seni marini
il crepuscolo di Cauquenes
e rodare di peumo del Cile!
 
E' l'alto autunno del mare
pieno di nebbia e di cavità,
la terra si distende e respira,
cadono al mese le foglie.
E tu china sul mio lavoro
con la tua passione e pazienza
decifrando le zampe verdi,
le ragnatele, gli insetti
della mia mortale calligrafia,
oh leonessa dai piccoli piedi,
che farei senza le tue piccole mani?
Dove andrei camminando
senza cuore e senza oggetto?
In che lontani autobus,
malato di fuoco o di neve?
 
Ti debbo l'autunno marino
con l'umidità delle radici
e la nebbia come un'uva,
il sole silvestre ed elegante:
ti debbo questo cassetto silenzioso
in cui si perdono Ì dolori
e solo salgono alla fronte
le corolle della gioia.
Lo debbo tutto a te,
tortora scatenata,
mia quaglia piumata,
mio cardellino delle montagne,
mia contadina di Coihueco.
 
Un giorno, se più non siamo,
se più non andiamo nè veniamo,
sotto sette strati di polvere,
ai piedi secchi della morte,
staremo uniti, amore,
confusi stranamente.
Le nostre spine differenti,
I nostri occhi maleducati,
I nostri piedi che non s'incontravano
e i nostri baci indelebili,
tutto sarà alfine riunito,
ma a che ci servirà
l'unione in un cimitero?
Che non ci separi la vita
e vada al diavolo la morte!
 
Raccomandazioni finali.
 
Qui mi congedo, signori,
dopo tanti commiati
e poiché non vi lascio nulla
voglio che tutti tocchino qualcosa
quanto di più inclemente ebbi,
di più insano e di più fervido
torna alla terra e torna ad essere!
i petali della bontà
caddero come rintocchi di campana
nella bocca verde del vento.
 
Ma io raccolsi in abbondanza
bontà di amici ed estranei.
La bontà mi riceveva
dove passai camminando,
la trovai in ogni luogo
come un cuore ripartito.
 
Che frontiere medicinali
non detronizzarono il mio esilio
dividendo con me il pane,
il pericolo, il tetto, il vino?
Il mondo aprì i suoi albereti,
entrai come ]uan nella sua casa
fra due file di tenerezza.
 
Nel Sud ho tanti amici
quanti ne ho nel Nord,
il sole non può tramontare
tra i miei amici dell'Est,
tra quanti sono nell'Ovest.
Non posso contare il frumento.
Non posso nominare o contare
gli Oyarzunes fraterni:
nell'America sconvolta
da tanta minaccia notturna
non v’è luna che non mi conosca,
né strade che non mi attendano,
nei poveri villaggi d'argilla
o nelle città di cemento
c'è qualche Arce remoto
che ancora non conosco,
ma con cui nacqui fratello.
 
In ogni parte raccolsi
il miele che divoran gli orsi,
la primavera sommersa,
il tesoro dell'elefante,
questo lo debbo ai miei,
ai miei parenti cristallini.
II popolo m'identificò
e mai cessai d'esser popolo.
Ebbi nel palmo della mano
il mondo coi suoi arcipelaghi
e poiché sono irrinunciabile
non rinunciai al mio cuore,
alle ostriche né alle stelle.
 
Termina il suo libro il poeta parlando
delle sue varie trasformazioni e
confermando la sua fede nella poesia.
 
Per tante volte che sono nato
ho un'esperienza salubre
come creature del mare
con celestiali atavismi
e destinazione terrestre.
 
Così mi muovo senza sapere
a che mondo sto per tornare
o se continuerò a vivere.
Mentre si risolvono le cose
qui ho lasciato il mio testimonio,
il mio navigante stravagario
perché leggendolo molto
nessuno potesse apprender nulla,
altro che il moto perpetuo
di un uomo chiaro e confuso,
di un uomo piovoso e allegro.
energico e autunnabondo.
 
E ora dietro questa pagina
me ne vado e non sparisco:
spiccherò un salto nella trasparenza
come un nuotatore del cielo,
poi ritornerò a crescere
fino a esser sì piccolo un giorno
che il vento mi porterà via
e non saprò come mi chiamo,
né più sarò quando mi sveglio:
 
allora canterò in silenzio.
 
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