-- Per Matilde e per la pace (1962-1963) - Pablo Neruda - Popol Vuh - Insetti

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-- Per Matilde e per la pace (1962-1963)

Per Matilde e per la pace
(1962-1963)


I: TESTI POLITICI

Al Partito Comunista del Cile nel suo quarantesimo anniversario
AL PARTIDO COMUNISTA DE CHILE EN SU CUADRAGÉSIMO ANIVERSARIO (Pagine 1105-1108.) siamo i vincitori di Pisagua! Il nome del campo di concentramento creato con la Legge di Difesa della Democrazia (González Videla) condensa in chiave nazionale le difficoltà di ogni tipo (includendo le internazionali) che i comunisti hanno dovuto affrontare negli anni recenti.

Partito,
mio partito!
Quanto dolore, amore
e gloria rinchiudi!
Che lunga storia pura
e lotta lunga!

Sei una catena
di uomini concatenati,
fermi e seri, forti
e semplici,
larghi di cuore,
duri di mano,
con gli occhi chiusi
alla morte,
con gli occhi aperti
alla vita:
all'improvviso, qualcuno manca
ed un altro arriva,
all'improvviso qualcuno cade
ed un altro cresce e si colmano le assenze
col metallo umano, innumerabile!

Partito, mio partito!
Sento di non essere stato
nella tua culla di rame,
la nascita:
erano tempi difficili,
era la strada dura
quando il paese del Cile con una pietra al collo
ed in fondo ad un pozzo
vide che lo sostenevano e lo aiutavano
e che la pietra stava
ora nella sua mano,
vide che non era solo
e si sentì crescere, crescere, crescere,
e cresceva la pietra con la mano.

Là lontano Ottobre
stabiliva
l'ordine dei popoli:
un raggio rosso
aveva mozzato,
la pace dei boia
ed il martello di acciaio
si unì alla falce del grano:
da allora
falce e martello furono la bandiera
degli abbandonati.

Partito, mio partito!
Mi sembra
ancora vedere Recabarren
appoggiato alla porta
della Federazione degli Operai.
Io avevo quindici anni.
I suoi occhi si socchiudevano
scorgendo
la Pampa, le sabbie
desolate
che attraversò passo a passo
costruendo
le vittoriose
organizzazioni.
Padre del nostro paese!
Gigante
compagno!

Come si semina il grano
rovesciandolo
così
fondò la stampa
proletaria.
Io ho visto
quelle
macchine rotte
dai boia della polizia
che vollero così ammazzare la luce.
Ho passato la mano
per il ferro
che conservava nella sua materia liscia
il ricordo del tatto
di quello sua mano, fondatrice,
e ancora la vecchia macchina lottava,
ancora imprimeva il nostra parola,
conservava ancora il ferro castigato
la sua profonda interezza
come se il cuore di Recabarren
ancora per noi palpitasse.

Partito, mio partito!
Che lunga lotta, lunga
come il Cile,
crudele come
il territorio duro
della patria!
Percorsi con Elías
le sabbie
del Nord desolato,
e con Luis Corvalán la terra verde
del Sud, e vidi arrivare i comunisti
da crudeli deserti,
salire
dalla miniera oscura
col sorriso chiaro
di chi sa la strada,
e sappiamo già, chiari compagni,
che tradimento o martirio non poterono
niente contro noi:

siamo i vincitori di Pisagua!

A quelli che arrivano ora,
ai giovani,
ai lavoratori
dall'alba al tramonto, del campo, contadini,
ai ragazzi
delle miniere ripide,
della città, inquieti,
di fabbriche, officine, uffici,
dico:
questo è il pane ed il vino
del partito,
questo è il libro e l'esempio: Lenin,
l'esempio in azione è Recabarren,
l'uomo proletario è la nostra forza
e la nostra stella la famiglia umana!

La nostra strada è larga.
C'è posto al nostro lato per tutti.

Principios, organo ufficiale del Partito Comunista
del Cile, num. 88, Santiago, gennaio-febbraio 1962.


La prodezza sovietica

Evviva la Terra. Quando si parla di questi due nuovi cosmonauti in volo, che girano per lo spazio che non è stato mai misurato che non può essere misurato, pensiamo: che cosa si può dire? Gli aggettivi si sono dichiarati in bancarotta. Non servono i "meravigliosi" ed i "fantastici." Queste parole sono ben piccole come cucchiai piccoli che tirano fuori acqua dal mare: dal mare e dallo spazio. Dallo spazio in cui volarono, navigarono, corsero nostri due cosmonauti. Dico nostri perché essi non appartengono solo all'Unione Sovietica, che rappresentano tra i pianeti, ma appartengono al mondo intero, a tutta la scienza, al progresso umano e naturalmente alla poesia. La poesia deve cercare nuove parole per parlare di queste cose, per parlare di questi avvenimenti che si realizzano.
    Quando queste novità della vita nuova, specialmente del mondo socialista, erano solo profezie, si predissero con un ricco vocabolario. Lo stesso Jules Verne, gran profeta romantico, inventò affascinanti anticipazioni, parlò in maniera appropriata popolando di miti sotterranei e celesti quello che accadeva allora e quello che andava ad accadere dopo.
    Poco tempo fa a Mosca vidi per la prima volta un dizionario di termini fisiconucleari. Mi meravigliai perché, tranne la parola atomo-reattore, e poche altre, non conoscevo nessuna delle molte che riempiono come colonne chiuse questo libro singolare. Quelle che lessi e che non compresi mi sembrarono parole chiaramente poetiche, assolutamente necessarie alle nuove odi, ai futuri canti, alla poesia che porrà in relazione in modo più stretto l'uomo di oggi con lo spazio sconosciuto e con l'uomo futuro mi resi conto che la poesia è rimasta indietro, possibilmente i romanzi di fantascienza che ancora non conosco contengono alcuni dagli elementi imponderabili dell'atmosfera misteriosa e del magico vocabolario dell'anticipazione. Ma rimarrà sempre molto fare. Questi due cosmonauti che comunicano tra loro che sono esaminati e diretti dal nostro pianeta lontano, che dormono e mangiano nel cosmo sconosciuto sono i poeti scopritori del mondo. Ed in questo nuovo Parnaso, Gagarin, Titov, hanno anche il loro diadema, ma manca che i poeti incorporino, prima e dopo avere volato con gli astronauti, la sensazione nuova che significa la dominazione dell'universo infinito.
    Ascendendo tanto in alto sono arrivati ad essere anche i più universali della nostra epoca. Hanno visto la Terra nella sua vera dimensione. E questa dimensione, che non potevamo sentirla prima, ora si è vista come si vede una mela su un tavolo. A questo dobbiamo aggiungere che sono i principali fondatori di un nuovo patriottismo, del patriottismo planetario. Gli uomini della mia età e molti altri prima, fummo orgogliosi del nostro villaggio, della nostra patria, della geografia del nostro continente, delle nostre piccole o grandi rivoluzioni. È l'epoca in cui gli esseri sono orgogliosi del loro pianeta. Arriveremo a raffrontare coi lunari le bellezze della luna, coi venusiani le montagne diamantine di Venere, coi saturniani il prodigioso anello che circonda il loro pianeta. Discuteremo con essi, esagerando le nostre cordigliere, i nostri laghi e le nostre opere umane. Saremo allora davvero uniti da un orgoglio terrestre. Le nostre guerre fredde e calde saranno finite. Ameremo e difenderemo il nostro pianeta.
    Onore alla nuova scienza spaziale. Vivano gli astronauti sovietici. Evviva la Terra.

Testo scritto in aereo, volando tra Sochi e Mosca,
mentre le capsule Vostok III e Vostok IV giravano in
tornio alla Terra pilotate per Adrián Nikoláiev e Pável
Popóvicb, agosto 1962. Ripreso da El Siglo, Santiago,
18.8.1962. Alcuni settimane dopo, Neruda riutilizzerà
questo stesso articolo - ampliandolo – all’inizio di un
suo discorso "Con los católicos hacia la paz", vedere
p. 1115 del presente volume.


Il continente della speranza

All'America Latina piace molto la parola speranza. Ci piace che ci chiamino "continente della speranza". I candidati a deputati, a presidenti si autotitulano "candidati della speranza".
    In realtà, questa speranza è come il cielo promesso, è qualcosa di indefinito, una promessa di pagamento, il cui compimento si proroga. Si proroga al prossimo periodo legislativo, al prossimo anno o al prossimo secolo.
    Quando si produsse qualcosa di simile in Cuba, recentemente, milioni di sudamericani ebbero un brusco risveglio. Non credevano a quello che ascoltavano. Questo non stava nei libri di un continente che ha vissuto disperatamente, pensando alla speranza.
    All'improvviso, ecco qui che Fidel Castro, un cubano che prima nessuno conosceva, afferrava la speranza per i capelli o per i piedi, prima che volasse e la sedeva alla tavola, cioè, al tavolo ed alla casa dei paesi dell'America.

CARRETTE E FANGO

Da allora, per dire la verità intera, abbiamo progredito molto in questo cammino della speranza fatta realtà. Ma viviamo con l'anima in un filo. Un paese vicino molto poderoso vuole schiacciare Cuba con la speranza e tutto. Le masse dell'America leggono tutti i giorni le notizie, ascoltano la radio tutte le notti. Sospirano di soddisfazione. Cuba esiste. Un giorno di più. Un anno di più. La nostra speranza non è stata decapitata.
    Nella regione dove io crebbi ci sono molta pioggia e molto vento. Di fronte alla mia casa nella mia infanzia la strada si trasformava in un fiume di fango.
    La mia gran distrazione infantile era vedere i carretti vinti dal fango. I buoi li tiravano invano. Si scuoteva il carretto come un'imbarcazione nel mare, ma le ruote di un solo pezzo di legno affondavano sempre di più nel liquido nero dell'inverno. Per arrivare alla mia scuola, spesso con le scarpe rotte, io dovevo fare acrobazie da una pietra ad un'altra per non rimanere attaccato come il carretto.
    La mia città è cambiata per lo meno in quella strada che è ora pavimentata. Continuano a passare gli stessi carretti con grano, con sacchi di patate, con agnelli. Non rimangono oramai seppellite lì, di fronte alla mia antica casa, ma un po' più lontano, in un’altra strada, di fronte ad altre case in cui forse un bambino simile a quello che io fui la guarda con profondo interesse dalla finestra.
    Prima del 1914, noi, milioni di persone che parliamo spagnolo ed altre lingue in America del Sud, avemmo la speranza che il secolo XX che allora aveva pantaloni corti finisse con i carretti e con il fango.
    La verità è che continuiamo a sperare. C'era sempre una guerra che impediva di pavimentare la strada, di fare scuole, creare nuovi ospedali, in Europa si sparavano coscientemente tedeschi e francesi, bulgari e turchi, austriaci e russi.

SENZA NESSUN ENTUSIASMO

In America, per non essere meno, si massacravano boliviani e paraguaiani, peruviani ed ecuadoriani, cileni e boliviani. In America Centrale sbarcavano i marines nordamericani e questi non discriminavano. Sparavano allo stesso modo contro i messicani e contro i nicaraguensi, ammazzavano i colombiani o cubani senza nessun entusiasmo, ma con una certa efficacia.
    Nel frattempo, l'immenso continente, America, cresceva esternamente ed internamente. Imparammo a conoscere quello che avevamo e quello che non avevamo.
    Quello che potevamo dare agli altri e quello che ci mancava. Quello che ci eccedeva era molto. Avevamo petrolio, nitrato, grano, argento, lana da dare al mondo. Quello che necessitavamo lo continuiamo a necessitare angosciosamente. Avevamo bisogno di vestiti, case, letti, alfabeto, medicine, cultura, macchinario, industrie, porti, aeroporti, strade, camion.
    Il mio compatriota, il signor Hernán Santa Cruz, dirigente dell'agricoltura ed alimentazione nell'ONU, ha dichiarato pochi giorni fa che in America Latina di 192 milioni di abitanti, 80 milioni sono analfabeti, 14 milioni di bambini in età scolare non vanno alla scuola per mancanza di locali e maestri, 100 milioni soffrono di inattività. Nel frattempo i monopoli nordamericani ottennero dal 1956 fino al 1961 il guadagno di 3.479 milioni di dollari.
    Questi dati ufficiali sono spiacevoli e difficili da inghiottire. Hanno odore di sudore e gusto di sangue. Ma, come metterli in un cassetto e dimenticarli? Sono tanto terribili che farebbero scoppiare il cassetto. È meglio contemplarli faccia a faccia. I nostri libri appaiono come aspri ed amari. È che vengono di là sotto, della verità terribile.
    Uscirono al mondo i nostri prodotti. Ma ascoltarono già quello che guadagniamo noi e gli altri. E nel frattempo, sapete voi che cosa riceviamo? Invece di quello che necessitiamo, riceviamo vecchie navi da guerra, aeroplani affinché i nostri paesi potessero bombardarsi tra loro, carri armati di terza classe, di decorativo stile sinistro, e mitragliatrici che furono usate frequentemente nell'antica guerra dai brutti governi contro i buoni paesi.

DANNI E DETRIMENTO

Un'altra gran guerra cominciò in Europa ed i nostri governanti trovarono un'altra volta che non potevano pavimentarsi le strade piene di fango dei piccoli paesi del continente americano perché un'altra volta il sangue ed il fuoco coprivano le strade dell'Europa.
    Questa vita dell'uomo tra le guerre ha fatto una profonda tacca nella cultura di questo tempo. La guerra fredda ha diviso ingiustamente la popolazione umana. Le opere artistiche hanno sofferto considerabili mutazioni. Da un lato l'umanesimo forse non raggiunse la sua precedente espansione. Molte delle nostre opere fermamente identificate con la nostra epoca furono, tuttavia, parziali, strette ed irritate. Esageriamo la bontà dei nostri amici o la malvagità dei nostri nemici. Abbracciamo anche falsi amici o inventiamo inesistenti nemici. Nell'altro settore l'ermetismo, l'astrazione o la perversità furono anche esagerati con l'affanno di non aderire a nessun principio ed allontanarsi dall'ossessione politica. Questa situazione ha lacerato gravemente la creazione del nostro tempo e molto pochi possono dichiararsi indenni da danni e detrimento.
    Anche in America Latina questa ferita si ripetè. Ma lì le grandi masse si allontanarono sempre di più dalle creazioni della cultura, dato che i creatori della cultura non ebbero molte volte mezzi per arrivare alle masse. L'enorme numero di analfabeti, la crudeltà di alcune tirannie, la mancanza di libri e case editrici, l'assenza di scuole e maestri, tutto questo contribuì ad aumentare la distanza tra i paesi ed i protagonisti della cultura. Questa situazione produsse generazioni nuove che, nate nel pessimismo, vogliono strappare rapidamente alla vita i suoi frutti più violenti. Veda in controluce questa parte della società umana sembra darsi ad una frenetica danza rituale che si sviluppa in nero e rosso contro lo splendore dall'agonia atomica.

VOLA LA COLOMBA DI PICASSO

Una pace ferma o una tregua responsabile curerà immediatamente molti di questi stigmate nei nostri giovani paesi che lottano oscuramente per la loro esistenza e per la loro indipendenza. Questa pace significherà nuova energia e fecondità per essi. Un disarmo mondiale toglierà dagli occhi le armi che si ammucchiano ed ossidano nei porti dell'America del Sud, o che si preparano per la lotta tra i fratelli. Eas prospettive della cultura saranno tanto estese come il territorio del nostro continente gigantesco.
    I veri problemi, i vecchi ed i nuovi problemi, conflitti e soluzioni si interrogeranno nelle tribune e nei libri. Gli alimenti ed i libri arriveranno in tutti gli angoli dall'America analfabeta ed affamata. Riapparirà allora l'ampio umanesimo che non può vivere eternamente affrontando le urgenti necessità, la vita stretta ed oscura ed il terrore cosmico di una possibile guerra totale.
    Penso che in questo nostro tempo comuni idee di pace sono riuscite a farsi presenti alla maggioranza dell'umanità. Quando alcuni anni fa aprì le sue ali per volta prima la colomba di Picasso, non pensammo che qualche volta il suo volo arriverebbe all'Africa remota ed agli ardenti Caraibi. Oggi tutta l'umanità la conosce e ci riuniamo affinché il suo volo musicale non si interrompa. L'uomo esplora il cosmo ed in questa esplorazione lo accompagnano i più vecchi sogni dell'uomo e le tremende energie delle nuove forze scoperte e sviluppate. Siamo al punto, mi sembra, di far arrivare fino ai più induriti i concetti della guerra impossibile e della pace ragionata. È un altro vecchio sogno dell'umanità, a cui uomini di coscienza e grandi paesi rappresentati in questa riunione, lavorano senza riposo. Rappresentiamo un nuovo continente, il vero continente della speranza umana che invita tutti gli uomini a lavorare in pace.

Testo letto durante il Congresso Mondiale per il
Disarmo Generale e per la Pace, Mosca, 9-14
Luglio 1962, ed edito in
Principios, num. 91,
Santiago, settembre-ottobre 1962.


Coi cattolici verso la pace

Visitai molti paesi in questo viaggio e comprendo che il mio dovere è raccontare tutti ed in ogni parte quanto ho visto da tutte le parti, quanto ho sentito. Cominciamo subito, ed a vanvera di quello che venga e di quello che mi suoni nel ricordo. Ai politici impazienti prometto di parlare dei vescovi e delle loro manifestazioni politiche alla fine di questa conversazione.
    Ma, prima che entriamo al massimo nel mio tema, voglio vagare con voi in largo per il mondo, per la terra e per gli spazi che appena sta scoprendo l'uomo, e facendogli strade. Non mi condannino immediatamente per parlare del più moralista, delle parole settarie, di quello che non avrà più rimedio che parlare, delle aggressioni alla coscienza, alla libertà ed al futuro dell'uomo. Lasciamo per alcuni minuti la Guerra Fredda ed il suo veleno congelato. Dedichiamoci, compagni, agli uccelli.
    In realtà, il mestiere del poeta è, in gran parte, parlare di uccelli. E lo dico senza nessun pudore, dunque, precisamente, per le coste del mare Nero e tra le montagnose gole del Caucaso sovietico, mi venne la tentazione irresistibile da scrivere un libro sugli uccelli del Cile.
    I medici mi avevano mandato ad uno di quelli grandiosi sanatori che, come sentinelle bianche, alzano per centinaia di chilometri le loro imponenti architetture lungo la costa per ricevere milioni di lavoratori stanchi, a poca distanza della frontiera turca dove la NATO accumula armamenti ed esplosivi per scatenare la guerra.

CONTENEMMO LA RESPIRAZIONE

Il vostro poeta, poeta di Temuco e del territorio nazionale, stava, dunque, coscientemente affezionato a parlare di uccelli, scrivendo, naturalmente, sugli uccelli della sua terra tanto lontana, sopra chincol e chercan, tinche e diuca, condor e queltehue, quando, uno dopo un altro, due uccelli umani, due cosmonauti sovietici si sostennero nel cielo, si capirono nello spazio e sbalordirono di ammirazione il mondo intero che stette in silenzio mentre circolavano attorno alla terra, non solo mezzo giro o sei giri, bensì giorni e notti intere.
    I miei uccellini si trattennero nella carta di fronte alla prodezza, e tutti contenemmo la respirazione, c'estasiamo sentendo sulle nostre teste e guardando coi nostri occhi il doppio volo cosmico.
    Perché, mentre volavano, potemmo contemplarli nella televisione. Potemmo vedere come si alimentavano, come lasciavano liberi oggetti che rimanevano nell'aria, e come comunicavano tra loro i due astronauti, parlandosi come se fossero per una strada tra Rancagua e San Fernando.
    Da tutte le parti si è commentata la portata dell'impresa, ma la cosa emozionante era saperlo e contemplarlo nella stessa terra socialista che aveva dato loro le ali, la forza ed il valore per volare.
    Quando si parli di questi due nuovi cosmonauti in volo, che girano per lo spazio che non è stato mai misurato che non può essere misurato, pensiamo: Che cosa si può dire? Gli aggettivi hanno dichiarato bancarotta. Non servono i "meravigliosi" ed i "fantastici." Queste parole sono ben piccole come cucchiai piccoli che tirano fuori acqua dal mare: dal mare e dallo spazio. Dallo spazio in cui volarono, navigarono, corsero i nostri due cosmonauti. Dico nostri perché essi non appartengono solo all'Unione Sovietica, che la rappresentano tra i pianeti, ma appartengono al mondo intero, a tutta la scienza, al progresso umano e naturalmente alla poesia. La poesia deve cercare nuove parole per parlare di queste cose, per parlare di questi avvenimenti che si realizzano.
    Quando queste novità della vita nuova, specialmente del mondo socialista, erano solo profezie, si predissero con un ricco vocabolario. Lo stesso Jules Verne, gran profeta romantico, inventò affascinanti anticipazioni, parlò in maniera appropriata popolando di miti sotterranei e celesti quello che accadeva allora e quello che andava ad accadere dopo.
    Poco tempo fa a Mosca vidi per la prima volta un dizionario di termini fisiconucleari. Mi meravigliai perché, tranne la parola atomo-reattore, e poche altre, non conoscevo nessuna delle molte che riempiono come colonne chiuse questo libro singolare. Quelle che lessi e che non compresi mi sembrarono parole chiaramente poetiche, assolutamente necessarie alle nuove odi, ai futuri canti, alla poesia che porrà in relazione in modo più stretto l'uomo di oggi con lo spazio sconosciuto e con l'uomo futuro mi resi conto che la poesia è rimasta indietro. Possibilmente i romanzi di fantascienza che ancora non conosco contengono alcuni dagli elementi imponderabili dell'atmosfera misteriosa e del magico vocabolario dell'anticipazione. Ma rimarrà sempre molto fare. Questi due cosmonauti che comunicano tra loro che sono esaminati e diretti dal nostro pianeta lontano, che dormono e mangiano nel cosmo sconosciuto sono i poeti scopritori del mondo. Ed in questo nuovo Parnaso, Gagarin, Titov, hanno anche il loro diadema, ma manca che i poeti incorporino, prima e dopo avere volato con gli astronauti, la sensazione nuova che significa la dominazione dell'universo infinito.
    Ascendendo tanto in alto sono arrivati ad essere anche i più universali della nostra epoca. Hanno visto la Terra nella sua vera dimensione e questa dimensione, che non potevamo sentire prima, ora si è vista come si vede una mela su un tavolo. A questo dobbiamo aggiungere che sono i principali fondatori di un nuovo patriottismo, del patriottismo planetario. Gli uomini della mia età e molti altri prima, fummo orgogliosi del nostro villaggio, della nostra patria, della geografia del nostro continente, delle nostre piccole o grandi rivoluzioni. È l'epoca in cui gli esseri sono orgogliosi del loro pianeta. Arriveremo a raffrontare coi lunari le bellezze della luna, coi venusiani le montagne diamantine di Venere, coi saturniani il prodigioso anello che circonda il loro pianeta. Discuteremo con loro, esagerando le nostre cordigliere, i nostri laghi e le nostre opere umane. Saremo allora davvero uniti da un orgoglio terrestre. Le nostre guerre fredde e calde saranno finite. Ameremo di più e difenderemo il nostro pianeta.
    Onore alla nuova scienza spaziale. Vivano gli astronauti sovietici. Evviva la Terra.
    Diamo la parola a un commentatore scientifico:

    Il Vostok IV era appena entrato nella sua orbita quando il Vostok III, che completava il suo sedicesimo giro, entrò nel campo visuale del comandante Popóvich. La riunione dei due veicoli rimaneva assicurata da quel momento.
    Immaginino un'automobile in un'autostrada. Marcia a 140 chilometri per ora. In una strada adiacente, un automobilista deve raggiungere il primo. Sta a dieci chilometri dell'autostrada e sa solo che all'ora "H" la prima automobile si troverà giustamente nella biforcazione.
    I due veicoli girano di notte. È impossibile vedersi e, pertanto, orientarsi con la vista. Solo una fortuna prodigiosa o un gran prodigio tecnico faranno che le due automobili si riuniscano soavemente e riescano a girare dopo uno vicino all'altro.
    Bene, moltiplicate per diecimila le difficoltà di questo appuntamento in strada e vi farete un'idea di quello che suppone l'appuntamento cosmico che si portò a termine sul Pacifico.
    Il viaggio dei due Vostok è, indubbiamente, l'impresa più audace e significativa di tutte le audacie dell'astronautica, di tutti i fuochi d'artificio dello spazio.

    Cari amici: Questo paragrafo che ho appena letto, firmato dal signor Lucien Barnier, dell'agenzia France Presse, si pubblicò il giorno 30 di settembre, solo alcuni giorni fa, dove?, indovinate. So già che direte, in El Siglo. No, signori, no. Si pubblicò su un altro quotidiano bolscevico che si chiama El Mercurio. Si pubblicò, forse, per distrazione, tra tanti articoli di piombo che ci provano fino alla sazietà che l'Unione Sovietica non fa niente di buono che tutta le cose buone lo fa nostro zio del Nord. È chiaro che nello stesso numero usciva un altro parere, secondo il quale questi astronauti sovietici erano sicuramente ipnotizzati, o dopati, come volgari calciatori. La verità è che tutto il mondo sa che gli unici ipnotizzati sono i redattori di El Mercurio. Ma, non abbiate paura: El Mercurio non imparerà mai a volare.

VENIVANO DAL POPOLO STESSO

Questo mondo nuovo degli astronauti mi preoccupò. Che cosa fanno nella vita giornaliera, nella terra di tutti i giorni? I poeti di un altro tempo si davano molta importanza. Pensavano che non potevano vivere come tutto il mondo, dopo aver camminato tra le nuvole e le nebulose dell'ispirazione. La vita ci provò da Víctor Hugo, da Parigi, fino a Pezoa Véliz, da Valparaíso, che noi poeti siamo gente come tutti gli altri che vive, soffre, gode e lotta come tutto il mondo. Ma questi astronauti, pensavo io, saranno come tutto il mondo? Essi navigarono tanto alto, tanto solitari lassù, essi, essi, forse gli unici esseri che poterono mangiare e dormire e cantare tra le stelle.
    Ci troviamo coi due nuovi cosmonauti: i comandanti del III ed IV Vostok, Popóvich e Nicoláiev. Li vedemmo arrivare alla Piazza Rossa dove, supremo onore, li ricevè il camerata Kruschov a nome della nazione sovietica. Poi li vedemmo nella sala di San Jorge, nel Cremlino. Questo salone costruito per gli zar, immenso, bianco e dorato, è per me la stanza più bella del mondo. Fu concepita per insignire gli antichi guerrieri della Russia feudale. Ora insigniva questi due russi che ritornavano dal cielo. Ma, vicino ad essi, completamente terrestri, i loro parenti mi mostravano da dove venivano, dal popolo stesso. I vecchi portavano, lui, immensi baffi contadini, lei, copriva i suoi capelli bianchi con lo scialle degli innumerabili villaggi e campagne. Mi resi conto che erano come noi, compari del campo, del villaggio, delle fabbriche, degli uffici, gente comune, elevata dalle viscere del popolo per una commozione più grande che nessuna, la parola di Lenin, la Rivoluzione di Ottobre.
    Un'altra volta mi trovai con Germán Titov, l'astronauta numero 2. Un ragazzo simpatico, dai occhi grandi e luminosi, un po' timido. Gli domandai all’improvviso: "Mi dica, comandante, quando navigava per il cosmo e guardava ed esaminava il nostro pianeta, si scorgeva il Cile?."
    Era come dirgli "Lei comprende che la cosa importante del suo viaggio era vedere in piccolo Cile da sopra ".
    Molto riflessivo di temperamento, non sorrise come mi aspettavo, pensò alcuni istanti e dopo mi disse: "Ricordo alcune cordigliere gialle. Si notava che erano molto alte. Forse era il Cile."

GAGARIN DORMIVA

Questo carattere meditativo dell'astronauta e la sua aria normale di giovane in buona salute, mi fece pensare a quello che mi avevano raccontato i miei amici nell'URSS. Sono queste cose che non appaiono nei giornali. A quanto pare i cosmonauti sono preparati in squadra, tre o quattro o cinque contemporaneamente. Fino all'ultimo giorno tutti ricevono la stessa preparazione, nessuno sa chi correrà la gran avventura. Questa avventura era la più grande, perché si trattava del primo viaggio. Era l'ultima notte, Titov, Gagarin e gli altri, erano riuniti. Nella mattina andava a realizzarsi il volo. Gli scienziati li comandarono a dormire. Tutto era preparato, ma non si designava ancora il primo eroe dei viaggi celesti. Chi sarebbe stato? Uno di essi sarebbe partito per il cosmo.
    Tardi, nella notte, gli scienziati guardarono la camera da letto. Vari dei possibili cosmonauti si rigiravano inquieti nei loro letti davanti all'imminenza dell'avventura spaziale. Uno di essi dormiva solo come un ghiro. Era Gagarin. Pertanto, egli volò alla mattina seguente.
    A proposito di Gagarin, saprete già la conversazione che ebbe con una signora cilena. Benché la sappiate, ve la racconto. Questa cilena andò a chiedergli un autografo, Gagarin gli domandò di che paese era. Ah!, gli rispose il nostro compatriota. Sono di un paese molto lontano e molto piccolino. Del Cile. Sì, replicò Gagarin firmandolo l'autografo, molto lontano e molto piccolino, ma ci misero 2 goal a Arica.

LA VEGETAZIONE DELL'ODIO

Ritornando in Cile trovai la vegetazione nuova per strade e nei parchi. Nei parchi di Santiago, negli alberi del nostra città meravigliosa primavera si era messa a dipingere di verde i fogliami forestali. Per la nostra vecchia capitale grigia, le foglie verdi sono necessarie come l’amore per il cuore umano. Respirai la freschezza di questa giovane primavera del 1962. Non so perché quando stiamo lontano dalla patria e l'andiamo ricordando sempre di più con nostalgia, mai la vediamo in inverno. A poco a poco la distanza ha continuato a cancellare il doloroso inverno, le popolazioni abbandonate, i bambini scalzi nel freddo. Per arte del ricordo, vediamo solo campagne coltivate verdi, fiori gialli e rossi, ed il cielo azzurrato dell'inno nazionale. Questa volta la visione della lontananza era il vero ritratto della bella stazione.
    Ma trovai un'altra vegetazione sui muri della città. Stava tutta tappezzata dalla vegetazione dell'odio. Cartelli anticomunisti, che colavano scortesia e bugie, cartelli contro Cuba, cartelli antisovietici, cartelli contro la pace e l'umanità: Questa era la nuova vegetazione che trovai che sviliva i muri della città.
    Io conoscevo già il tono di questa propaganda. Mi toccò vivere nell'Europa prima di Hitler e del fascismo, e questo era lo spirito della propaganda hitleriana. Lo spirito della bugia a tutta birra, la propaganda della paura, lo spiegamento di tutte le armi dell'odio contro il futuro.
    Sentii la sensazione penosa che da fuori avevano sporcato la città. Sentii che volevano cambiare lo spirito il nostro paese e della nostra vita. Ed in realtà non trovai chi, di tra noi, i cileni, potesse offendere in questa maniera il nostro spirito nazionale.
    Ma tutto già si sa. Milioni di questi cartelli sono stati stampati nelle presse de El Mercurio, ordinati e pagati dall'ambasciata degli Stati Uniti della Nordamerica.
I circoli dirigenti della politica nordamericana, influenzati in forma totale dal Pentagono, passano per un'epoca critica di acuto militarismo e di violento fascistizzazione. Convinti del loroo potere, credono che possano e devono opporsisi al crescente prestigio del socialismo. Gli abbaglianti progressi scientifici dell'URSS gli tolgono il sonno. I cambiamenti politici nell'Asia e nell'Africa li scoprono. Cuba che entra nel suo quarto anno di trasformazione sociale, li tiene perplessi.
    Ed ora, il Cile...
    Quattro o cinque mesi fa il senatore nordamericano Fulbright, capo delle Relazioni Esterne della Casa Bianca, diede una conferenza stampa a Washington. "In Cile non ci vogliono" disse in tono piagnucoloso. "Nell'anno 64 c’è un gran cambiamento in Cile. Tutto indica che guadagneranno le sinistre. Non ci saranno lì tiri. Non sarà il caso di Cuba. Tutto accadrà legalmente, ma, per noi, è la stessa cosa. Che cosa faremo?"
    Quello che fanno lo stiamo vedendo. Impegnarsi a distorcere la storia, la nostra storia. Primo con questa propaganda maligna, a base del grossolano tonnellaggio della carta stampata, con la ripetizione, a nome della democrazia, dell'ideologia fascista. Dopo, favorendo la disunione dell'opposizione, fomentando la divisione tra i cileni. E tutto questo portando nella manica nordamericana l'ultima carta: il colpo militare eseguito in nome della democrazia. Questo significa che gli imperialisti che vivono facendosi gargarismi della parola democrazia, propiziano per il Cile lo stesso destino di confusione, di caos e di stupidità che hanno impiantato in Argentina, in Perù, in Ecuador.
    Si sono affrettati a riconoscere questi governi che annullarono le elezioni popolari, perché queste non convenivano loro. Quando i voti non favoriscono i commercianti monopolisti nordamericani, i padroni del rame e del petrolio, il democratico signore Kennedy dopo alcuni pruriti di formula, si abbraccia col primo piccolo colonnello che dà un calcio alla costituzione e la democrazia rappresentativa, come chiamano pittorescamente certi radicali cileni la vacca che mungono.

GIÀ LO FECERO A VOI

Comunque, occorre domandare: Chi protegge questa propaganda? Sta nelle regole del diritto internazionale che le ambasciate straniere abbiano via libera per propagare le loro belligeranze? E come i poteri pubblici tollerano simile intervento nella vita politica dei cileni? Sentiamo parlare molto dal governo della sovranità nazionale riferendosi alle acque del Lauca o ai pinguini dell'Antartide, e perché non esercitare anche questa sovranità nella capitale della Repubblica del Cile?
    Da parte mia, ed a nome dei comunisti, devo dire ai promotori di questa rozza campagna che i comunisti non sentono paura. Sappiamo di che cosa si tratta. Si tenta di allarmare il tranquillo cittadino e l'ombra di quell'allarme si impadronisce di quello che ancora ci rimane di indipendenza e di materie prime.
    Già lo fecero a voi, signori imperialisti, della Cina e dell'Indonesia. Difficilmente potete continuare a succhiare il sangue dei paesi dell'Africa. Più difficile sarà che arrivino a colonizzare la Luna. Allora, pensate che l'America Latina appartiene a loro che i nostri paesi non possono disputarsela che non possiamo cambiare regime politico in questi paesi, secondo le nostre condizioni e le nostre decisioni. Considerate, signori imperialista, che il dollaro ed il bastone devono dirigere i destini di più di 200 milioni di latinoamericani.
    Questo concetto è un grossolano errore di calcolo politico e di conoscenza della storia umana.
    Noi consideriamo che nessuno ha stabilito come dovere divino che i nostri paesi non possano cambiare, né possano cercare la strada che credano giusto per il loro sviluppo. E dovete sapere, una volta per tutte, perché a qualcosa deve servire la lezione da Cuba che, quando arriverà l'ora, difenderemo le nostre culture, la nostra indipendenza, le nostre bandiere e la nostra sovranità con la nostra parola, con la nostra azione, col nostro lavoro e col nostro sangue. I cileni vogliamo continuare ad essere cileni. Sappiate una volta per tutte che non accetteremo di essere una colonia nordamericana.
    Salutiamo Cuba. Ci sembrò sempre risplendente, magica, azzurra, dorata e nera, l'isola bella tra tutte le isole del pianeta. Ma, non pensiamo mai prima, forse per mancanza di immaginazione che tutto suo l'incantesimo di ritmi e palme dovremmo unirlo qualche volta alla dimensione suprema dell'eroismo. Non pensiamo mai che nostra piccola sorella, dissanguata dall'avidità straniera e dalle tirannie interne, andava a mostrare in tutta la grandezza del suo destino, difendendo contemporaneamente tutti i diritti presenti e futuri del nostro continente latinoamericano:

Ed a Cuba guardano i minatori australi,
i figli solitari della pampa,
i pastori del freddo in Patagonia,
i genitori dello stagno e dell'argento,
quelli che sposandosi con la cordigliera
tirano fuori il rame da Chuquicamata,
gli uomini di autobus nascosti
in popolazioni pure di nostalgia,
le donne dei campi ed officine,
i bambini che piansero le loro infanzie:
questo è il bicchiere, prendilo, Fidel.
È pieno di tante speranze
che a berlo saprai che la tua vittoria
è come il vecchio vino dalla mia patria:
non lo fa un uomo bensì molti uomini
e non una sola uva bensì molte piante:
non è una goccia bensì molti fiumi:
non un capitano bensì molte battaglie.
E stanno con te perché rappresenti
tutto l'onore della nostra lotta lunga
e se cadesse Cuba cadremmo,
e verreremmo per rialzarla,
e se fiorisce con tutti i suoi fiori
fiorirà con la nostra propria linfa.
E se osano toccare la fronte
di Cuba dalle tue mani liberata
troveranno i pugni dei popoli,
tireremo fuori le armi sepolte:
il sangue e l'orgoglio accorreranno
a difendere Cuba benamata.

TUTTE LE ARMI

Sì, la difenderemo. Ma, tutte le armi sono necessarie in questa difesa. E tra noi le migliori armi dello spirito. Perché la propaganda reazionaria persegue di terrorizzare, nascondere il nome glorioso di Cuba, le sue gesta. Si tenta di invalidare questa conquista dentro le anime semplici. Si tenta di insistere nella muraglia, di presentare la giustizia rivoluzionaria con colori sinistri. Questo ha due obiettivi. Il primo è salvare, se possono, i criminali che dentro Cuba sono ancora giudicati colpevoli di perverse azioni. Si giudicò una combriccola che assassinò, crocifiggendolo, un adolescente, volontario di una brigata di alfabetizzatori, che insegnava a leggere ai contadini. La cosa curiosa è che alcuni "cristiani" compatiscono non il martire crocifisso, bensì i sadici assassini. La seconda parte di questa campagna è oscurare l'immenso lavoro di rigenerazione morale, economica, sociale, della gran Rivoluzione cubana. Ci non fu mai meno violenza in una rivoluzione e non si fecero mai tante cose e tanto importanti nella nostra America.
    Mai un cambiamento di struttura in un paese della nostra America partì fino alle radici dalla corruzione, del ritardo e dello sfruttamento. E mai, neanche, si videro forze tanto immense, forze straniere, disposte a schiacciare colla forza o colla menzogna quanto di nobile e di fecondo si sta costruendo in Cuba.
    Ora il Dipartimento di Stato ha appena riunito i ministri delle Relazioni latinoamericani in un nuovo sforzo per bloccare Cuba. Si tenta di ostacolare il paese cubano per ricevere alimenti, per ricevere petrolio affinché camminino le sue industrie, per ricevere carta e libri, per ricevere medicine per i suoi ospedali, e perfino si propone di terminare con la modesta vendita di agli e cipolle che è la cosa unica che arriva loro del Cile.
    In questo diabolico piano che si pretende portare a termine a nome della diplomazia, la voce cantante è stata portata dal cancelliere del Perù. Questo è stato il migliore alleato dei nordamericani. Come detiene il suo titolo, dato che con le sue proprie mani e quelle dei militari peruviani ha strangolato la democrazia nel Perù, rifiutandosi di rispettare i voti degli elettori peruviani. Così succede sempre. Il gran campione della democrazia imperialista ha bisogno di prove palpabili che i suoi alleati condividono la sua ideologia. Non c'è dubbio che i guerrieri peruviani che sembrano tanto ansiosi di versare sangue cubano, saranno favoriti ed insigniti come Franco, Salazar, ed altri boia che sarebbe lungo enumerare.
    La propaganda si rovescia sulle armi di cui dispongono i cubani e che causano molta irritazione a Washington. Disturba alla Casa Bianca anche che ricevano alimenti. E con quello abbiamo uno strano panorama: questi "cristiani" spiano con piacere, aspettano con preghiere i minimi sintomi della fame a Cuba. Questi sostenitori della giustizia e del diritto preparano invasioni, le confessano, falliscono in esse, continuano le loro minacce armate, ed in nome del diritto vogliono ostacolare che un paese indipendente ottenga armi con cui possa difendere la sua esistenza.
    Tutti i giorni leggiamo i titoli destinati all'inganno collettivo per farci credere che le armi di Cuba sono destinate ad invadere le repubbliche sorelle, Messico o Colombia, Cile o Uruguay. Francamente, se questo non fosse il colmo del cinismo e se non desse luogo a queste caricaturali riunioni di cancellieri, sarebbe per morire della risate.

IL PORTO DEI PESCHERECCI

Si fa anche molto chiasso per un grande porto peschereccio che costruiranno gli ingegneri sovietici nel litorale di Cuba. Vi spiego il motivo di questo chiasso.
    L'Unione Sovietica colla sua inesauribile generosità umanista ed il suo inflessibile senso di internazionalismo, non ha lasciato che strangolino Cuba che la uccidano per fame. E per aumentare le riserve alimentari dell'isola ha inviato il suo flotta di pescherecci ed i suoi pescatori dalla moderna tecnica. Con questo si è aumentata la produzione e la raccolta di pesci, già maggiorata, si raddoppierà nel prossimo anno 1963. Ciò nonostante, e per elevare ancora più questa difesa fisiologica del paese cubano, si vuol costruire, per regalarlo a Cuba, un porto moderno per le sue imbarcazioni da pesca e per le derivazioni dell'industria del pesce. Col fine di continuare la sua politica di blocco criminale, le agenzie di stampa nordamericane hanno diffuso la notizia che non si tratta di un porto di pescatori, bensì di una minaccia per il continente. Questo ha per oggetto di allarmare i governi, incitarli a rompere le loro relazioni con Cuba e, contemporaneamente, compiere il sinistro obiettivo che i cubani non abbiamo da mangiare.
    Tutti sappiamo che riguardo all'aggressione fisica dell'esercito nordamericano a Cuba, l'Unione Sovietica ha lasciato bene in chiaro le cose. Gli aggressori saranno puniti e sterminati. Sarebbe il principio della guerra mondiale. Allora, il piano imperialista consiste nel pressare i paesi che come Cile, Messico, Brasile, Uruguay e Bolivia, non hanno accettato l'indegnità di rompere le relazioni con nostra sorella rivoluzionaria. Vogliono portare a questi governi al parossismo e alla rottura. Allora dichiareranno che è stato aggredito uno dei suoi satelliti, come Nicaragua, Guatemala, Panama o Santo Domingo, e tenteranno allora di formare un falso esercito panamericano che diretto nominalmente da un traditore, tipo Moscoso, conti su due o tre file di guatemaltechi o nicaraguensi e signorini cubani di Miami che serviranno da schermo alle divisioni nordamericane dell'invasione in massa. Tutto questo sotto il padiglione dell'OEA. È un gioco che consiste nel tirare fuori le prime castagne dal fuoco, con la mano del gatto. Ma che può finire in catastrofe.

NON È DI FIDEL

Io voglio leggervi alcuni estratti di un testo altamente etico e politico che sembra diretto da Fidel Castro, a nome del popolo cubano, al signor Kennedy, aggressore per confessione propria della nazione cubana:

[...] è una storia di insulti ripetuti ed usurpazioni che hanno tutte come diretto obiettivo stabilire una tirannia assoluta su questi Stati. Per provare questo facciamo che i FATTI siano conosciuti per un mondo senza pregiudizi: Ha saccheggiato i nostri mari, ha assaltato le nostre coste, ha bruciato le nostre città e distrutto le vite del nostro popolo. In questo momento sta trasportando grandi eserciti di mercenari affinché completino il lavoro di morte, desolazione e tirannia che cominciarono già con aggravante di crudeltà e perfidia che raramente trovano parallelo nelle età più barbare e che sono completamente indegne del capo di una nazione civilizzata. Ha obbligato i nostri compatrioti... a sollevarsi in armi contro la loro patria, affinché siano i boia dei suoi amici e fratelli. Ha provocato insurrezioni domestiche tra di noi. Alle nostre petizioni ripetute è stato solo risposto con ripetuti insulti.

    Devo disingannarli. Non è Fidel Castro che accusa Kennedy con queste tremende parole: ho letto loro la propria Dichiarazione dell'Indipendenza degli Stati Uniti dell'America, e è Tomas Jefferson che, il 4 Luglio del 1776, lasciò scritte queste frasi incandescenti condannando la politica imperialista dell'Inghilterra. Ora, che la rileggano i governanti nordamericani perché si applicano in forma profetica all'attuale politica di coercizione e pirateria che pratica il governo degli Stati Uniti contro la Repubblica di Cuba.

CHE IL DESTINO DI CUBA RISPLENDA

Ma non ci scoraggiamo. Il mondo non è lo stesso di alcuni anni fa quando con tattiche simili il governo nordamericano schiacciò la democrazia e la dignità del Guatemala. Non sono passato molti anni, ma è passata molta acqua sotto i ponti, e non possiamo considerare oramai i governanti degli Stati Uniti come prepotenti del mondo, arbitri di vita o morte nello sviluppo dei popoli. Ora intervengono altri fattori. Naturalmente, la maggiore coscienza dei nostri popoli e le tremende forze di pace del mondo socialista. Con queste grandi energie umane, coi cubani uniti attorno a Fidel speriamo che il destino di Cuba risplenda. Per il resto, Cuba lo dice: "Patria o morte. Vinceremo".

[...]
ora arrivò l'ora delle ore:
l'ora dell'aurora aperta
e quello che pretenda di annichilire la luce
cadrà con la vita mozzata:
e quando dico che arrivò l'ora
penso alla libertà riconquistata:
penso che in Cuba cresce un seme
milioni di volte amato ed atteso:
il seme della nostra dignità,
pertanto tempo ferita e calpestata,
cade nel solco, e salgono le bandiere
della rivoluzione americana.
[...]


LA PASTORALE: UN DETTO ED UN FATTO

Ed ora entriamo nella pastorale dei vescovi. Io già passai l'epoca della gioventù iconoclasta, tra le altre cose perché il mio partito mi insegnò a valutare, rispettare in quello che si meritano ed esaminare tutte le idee. Ma, anche, il mio partito mi insegnò a valutare i fatti, i "testardi fatti."
    Questa pastorale dei vescovi cileni è un detto ed un fatto e dobbiamo pensare, per esaminarla, che vuole imprimere rotte, promuovere situazioni, raggiungere obiettivi determinati. Cioè che vuole accostare dei detti ai fatti.
    Pertanto, come con qualunque altra manifestazione o azione della nostra vita nazionale, noi i comunisti abbiamo il dovere di chiarire fino a che punto siamo di accordo e fino a che punto siamo in disaccordo.
    Noi, i comunisti, non mettiamo da parte nessuno, non presumiamo che nessuno sia fuori della convivenza e della discussione dei problemi della patria. In questo concetto, o concezione dialettica, non discriminiamo. Discriminiamo severamente non appena ci si riferisce alla composizione degli elementi sociali, delle classi che compongono la nostra nazione e le altre. In questo siamo chiari, fino all'insistenza: la società in tutti i paesi si comporsi non di cattolica e di atei, bensì di sfruttatori e sfruttati.
    È commovente che la pastorale cominci con una denuncia vigorosa dello stato di miseria economica e fisiologica in cui sopravvive il nostro nobile paese. In questo la pastorale della Chiesa cattolica del Cile non fa più che appoggiare, col suo proprio stile e rispettabili argomenti, quello che il Partito Comunista del Cile, da Luis Emilio Recabarren fino ai nostri giorni, ha rivelato e combattuto, lasciando durante il cammino, in prigioni, esili e martirii, innumerabili martiri del paese cileno.

    Celebriamo, dunque, che la pastorale attacchi l'egoismo, l'ingiustizia e la crudeltà del nostro stato sociale. Ma, segnalo con la più alta considerazione, che questa parte della esposizione ecclesiastica si sarebbe arricchita nominando i colpevoli di questo ritardo secolare, dell'indegnità e della miseria, dello sfruttamento e dell'ingiustizia. Deplorevolmente, non lo dicono i vescovi.

    Io si lo dico. I colpevoli di quanto ci succede sono gli stessi che da tutte le parti: una classe rapace di latifondisti, capitalisti, banchieri, monopolisti ed imperialisti il cui concetto della società umana ha la stessa ferocia che la legge della giungla in cui il più forte inghiotte il più debole ed indifeso.
    Neanche segnala il documento della Chiesa gli uomini od organizzazioni che lottarono contro questo stato di cose, e che lottarono, quando non era ancora tanto grave né disperato. Se la pastorale proclama la sua identificazione con la dottrina cristiana, ci sembra che sarebbe stato dentro il suo spirito quello che avrebbe preso in considerazione, con generosità coloro che diedero la vita in questa lotta. Se non si faccia questo riconoscimento sembrerebbe essere un'omissione ingiusta. La lotta per la giustizia e per la dignità del nostro popolo nacque molto tempo fa e nacque dentro la classe operaia. Sarà dentro questa classe che si continuerà. La classe operaa, alleata fermamente coi contadini, suoi compagni di lotta, formano la classe avanzata e rivoluzianaria del nostro tempo. Così, dunque, i cambiamenti si produrranno, non per la carità, né per la generosità delle classi sfruttatrici, bensì per la lotta conseguente e vittoriosa del popolo organizzato.
    Perciò, dentro una concezione pratica, utilitaria, del progresso sociale, delle possibilità piene della nostra patria, dobbiamo riconoscere che fondamentalmente è la lotta di classe quella che promuove i cambiamenti sociali che avverranno. Nella lotta di classe è ammirato il concorso che qualunque collettività o qualunque individualità apporti alla crisi del capitalismo.

LE SCOSSE DELLA SOCIETÀ

Non c'è dubbio che la Chiesa cattolica, nella sua esistenza millenaria, ha sentito e specchiato le scosse della società. Questo è, si è inclinata per una o un'altra forza nel combattimento umano, ha perso o ha guadagnato nel decorso della storia. In un viavai di lunga durata si è allontanata o si è avvicinata alle primitive fonti della sua origine. L'origine del cristianesimo fu una lotta di classi tra sfruttatori e sfruttati.
    Cito alcune parole rivoluzionarie. Forse queste parole poterono essere messe alla testa della pastorale, sia per quello che dicono come per l'autorità santificata da dove
vengono. Ascoltate:

    
La proprietà privata provoca dissensi, insurrezioni, guerre, massacri, peccati gravi o veniali. Perciò, se non ci risulta possibile rinunciare alla proprietà in generale, rinunciamo per lo meno alla proprietà privata. Possediamo troppe cose superflue. Acontentiamoci di quello che Dio ci ha dato e prendiamo solo quello che ci necessita per vivere. Perché il necessario è opera di Dio, ed il superfluo opera dell'avidità umana. Il superfluo dei ricchi è la cosa necessaria dei poveri. Chi possiede un bene superfluo possiede un bene che non gli appartiene.
    
    1.500 anni fa un padre della Chiesa, pensatore straordinario, Sant’Agostino, tracciò queste parole che avrebbero potuto significare la continuità di una dottrina. Ma, vediamo nella pastorale dei vescovi, come il viavai del tempo allontanò la Chiesa, in Cile, da questi puri concetti. Dice la pastorale citando un'enciclica del papa Pio XI:
    
    Gli individui non hanno diritto alcuno di proprietà sui beni naturali né sui mezzi di produzione; ogni tipo di proprietà privata, secondo i comunisti, deve essere distrutta radicalmente, per considerarla come la fonte principale dello schiavitú economica.

ATTENZIONE CON LE ENCICLICHE

Non credo, o forse non so se è mancare di rispetto al cardinale dirgli che bisogna fare attenzione alle encicliche. Un'enciclica di un altro papa, Pio VII, esecrò e condannò la lotta dei patrioti nel 1810 per l'indipendenza nazionale. I vescovi Zorrilla, di Santiago, e Villodres, di Concepciòn, con quasi tutti i sacerdoti cileni, dichiararono che nostri eminenti erano eretici e li scomunicarono.
    Signori vescovi, attenzione con le encicliche.
    La pastorale continua questa pericolosa discriminazione tentando di separare i comunisti, separando un gruppo grande di esseri umani, per non dire di elettori, non del cielo, bensì della terra, questo è, condannandoci ad un ostracismo che i comunisti non possono, signori vescovi, accettare.
    Suppongo che si sappia che nel mondo comunista vivono 60 milioni di cattolici. La Polonia, dei suoi 27 milioni, deve contare forse 26 milioni di cattolici. Il cardinale polacco e 14 dei suoi vescovi sono partiti dalla Polonia e deliberano in questo momento nel Concilio Ecumenico di Roma.
    Noi comunisti non mettiamo nell'ostracismo questi vescovi, né questi milioni di cattolici. Molti milioni di essi hanno preso parte importante alle trasformazioni socialiste che ha imposto la storia del nostro tempo.
    Adottando pienamente una posizione politica, con questa pastorale, la Chiesa ricade in posizioni che la legano alle cappe più reazionarie ed antiquate, come al senso violentemente anticomunista degli sfruttatori, colonialisti ed imperialisti. Contro questi non c'è una parola. I mali vengono dal popolo e del partito più combattivo della classe operaia. Contro questi bisogna combattere. Così combattè la Chiesa dentro la nostra America le correnti di idee che provocarono l'indipendenza dei nostri paesi latinoamericani.
    Durante la Riconquista il papa Leone XII appoggiava le pretese di Fernando VII. I vescovi di quell'epoca neanche comprendevano la causa della nostra liberazione. Il vescovo frate Hipólito Sánchez Rangel, primo vescovo di Mainas, richiamava alla guerra sacra contro San Martin ed O'Higgins, padri di più di una patria. Ascoltiamo alcune delle sue frasi:

    Uscite, figli, diceva loro, contro quei covoni di banditi e bricconi; presentate i vostri petti all'acciaio prima di accondiscendere ad un giuramento (quello dell'indipendenza) che vi fa spergiuri per Dio e traditori del vostro re, della vostra patria e della vostra nazione... vi vogliono obbligare ad offrire incenso a Baal, disprezzando al Dio di Israele. Ingrati! Inumani! Il nome solo di indipendenza è il nome più scandaloso. Fuggite da lui, figli, come dell'inferno... Per quello che ci compete, chiunque dei nostri sudditi che volontariamente giurasse la scandalosa indipendenza lo dichiariamo scomunicato esecrabile e comandiamo che sia messo in bacheche: se fosse ecclesiastico lo dichiariamo sospeso; e se lo facesse qualche città o paese della nostra diocesi, gli mettiamo proibizione locale e personale; e facciamo consumare le specie sacramentali e chiudere la chiesa fino a che ritratterà. Se alcuno dei nostri figli obbedisse ad un altro vescovo o vicario od udisse messa di sacerdote insorto o ricvesse di lui i sacramenti, lo dichiariamo anche scomunicato esecrabile per scismatico e cooperatore dello scisma politico e religioso, che è tutta l'opera degli insorti.

    Così parlavano i prelati nel 1810 in tutta l'America. Mettevano sotto il padiglione celestiale il loro appoggio alla monarchia e, pertanto, al sistema di servi e commissionari imperante in quegli anni.
    Per contraddire la causa popolare si dimenticano i termini e dolcezza cristiana, si ri corre alle parole violente.

DI NUOVO QUELLA FRASEOLOGIA

Sfortunatamente, dopo un secolo e mezzo troviamo che la pastorale del 1962, firmata dal cardinale Silva Henríquez, usa di nuovo la fraseologia virulenta del passato. Ah!, è che si tratta, anche ora, di una causa di liberazione incarnata principalmente dai comunisti. Si veda la differenzia dal linguaggio. Riferendosi ai capitalisti indica soavemente: "Che questo non faccia dimenticare, tuttavia ai cattolici che la Chiesa ha condannato gli abusi del liberalismo capitalista." Mentre quando si riferisce alle lotte emancipatrici dei comunisti è questa la maniera di parlare: "Non deve, dunque, causare stranezza che la Chiesa dichiari che coloro che tradiscono i sacri diritti di Dio, della patria e dell'uomo, collaborando in un'azione che va diretta direttamente contro questi grandi valori, fondamenti e base di tutta la civiltà cristiana, non stiano in comunione con Lei. Quelli che lo fanno, lo diciamo con dolore, sono figli che si sono allontanati dalla casa paterna."
    Dovremmo sentirci onesti nell'essere trattati dalla Chiesa quasi negli stessi termini insoliti che si impiegarono in un'altra epoca contro i patrioti del 1810. Sentiamo la responsabilità e la continuità di tutte le cause di liberazione. Oggigiorno i popoli lottano per il socialismo attaccati da tutte le forze dell'oppressione e dello sfruttamento. Sì, ci sentiamo orgogliosi di sostenere, vicino ai popoli, una lotta senza quartiere il cui vittoria si vede sempre più prossima. Ma avremmo voluto che i prelati del Cile non chiamassero di nuovo alla guerra santa, non toccassero le campane se non per calmare le anime.
    Questa campagna della Chiesa con questo pastorale che ci vuole gettare in una lotta inutile tra cattolici e non cattolici, può avere due origini. Uno è l'antico spirito di un Chiesa combattente, di tradizione rustica, di curati carlisti col catechismo in una mano ed il fudile nell'altra. Ricordiamo che l'arcivescovo Mariano Casanova, solo 60 anni fa, aveva la seguente concezione della vita sociale. Di lui sono queste parole:

    La dottrina socialista è, dunque, asociale, perché tende a turbare le basi in cui Dio, autore della società, l'ha stabilita. E non sta in mani dell'uomo correggere quello che Dio ha fatto. Dio, come padrone sovrano di tutto quello che esiste, ha ripartito la fortuna secondo il suo beneplacito e proibisce di attentare contro essa nel settimo dei suoi comandamenti. Ma per questo ha lasciato senza compensazione il destino dei poveri. Se non ha dato loro beni di fortuna, ha dato loro i mezzi di acquisire la sussistenza con un lavoro che, se opprime il corpo, rallegra l'anima. Se i poveri hanno meno fortuna, in cambio hanno meno necessità: sono felici nella loro stessa povertà. Se i ricchi hanno maggiori beni, hanno in cambio più inquietudini nell'anima, più desideri nel cuore, più dispiaceri nella vita. I poveri vivono contenti con poco, i ricchi vivono scontenti con molto.

    Fino a qui le parole del venerabile vescovo Mariano Casanova.
    Ma ci assale un dubbio. A chi dobbiamo credere. A questo stimabile sacerdote o a chi firma la pastorale di ora?
    Nell’uno e nell’altro caso essi credono sicuramente di interpretare la voce di Dio. Non ci saranno piccoli errori in queste interpretazioni? Non si ripeteranno questi errori? Non dovranno lamentarsi più tardi delle direttive di oggi?
    Attenzione, signori vescovi, attenzione con la voce di Dio! Nel vostro pastorale si trovano per illuminare il popolo cileno, le seguenti parole di Pio XI. Chiedo attenzione per esse: mi creda che li citi con un dolore profondo. Sento il dispiacere che qualcuno abbia potuto scriverle, che qualcuno potesse credere in esse:

    La famiglia, per il comunista, non ha ragione di essere: è una creazione borghese sulla quale si fonda la società attuale, che deve essere debilitata e distrutta. Il comunismo sopprime ogni vincolo che leghi la donna con la famiglia e con la sua casa; nega ai genitori il diritto all'educazione dei figli; e mette in mano della collettività l'attenzione della casa e della prole; la donna è lanciata nella vita pubblica e nel lavoro, per pesante che sia, la stessa cosa dell'uomo.

    Ahi, signori cardinali! Ahi, signori vescovi! Non basta dire che questo deforma la verità che queste righe non contengono un atomo di verità né di bontà, non basta dire che non sono vere!
    Sono esattamente il contrario della verità, sono parole irresponsabili e vuote. Forse non sono vuote, ma sono cariche di un mostruoso errore o di menzogna.
    Non c'è comunità con tanto forte, profondo e morale senso della famiglia come la società comunista. Non c'è da nessuna parte, tra i paesi capitalisti, un'attenzione tanto estesa e tanto tenera per il nucleo familiare, per la madre e per il figlio. Mai, in nessun paese socialista, si tolsero i figli alle madri. Al contrario, si diede alle madri tutte le possibilità per la felicità dei suoi figli. Né alimenti, né medicine, né vestiti, né scarpe, né educazione mancano ai bambini qui, come deplorevolmente mancano tra noi. Questa tragedia delle madri cilene, delle madri dell'America Latina, di milioni di madri, non esiste là, signori vescovi.
    In nessun posto le donne occupano posti tanto preminenti. Dirigono imprese, cliniche, case editrici, fabbriche, università.
    E come può arrivarsi a deformare i fatti in questa maniera?

ANDIAMO IN URSS, CARDINALE

Migliaia di cattolici hanno visitato questi anni l'Unione Sovietica. Ho visto lì e ho conversato con sacerdoti del Brasile, del Perù, dell'Italia. Migliaia di madri latinoamericane hanno visitato i meravigliosi asili infantili, ubicati negli edifici di abitazioni, nelle fabbriche, negli ospedali. I bambini meglio vestiti del mondo sono i bambini sovietici, tutti i bambini sovietici, non pochi come a Santiago del Cile.
    E perché non andiamo insieme, signor cardinale, e vediamo se questa è verità o non lo è? Io ho visto, signor cardinale. San Tommaso disse: "Vedere per credere". Sono sicuro che lei sarebbe ben ricevuto lì, col rispetto alla dignità della sua investitura. O è che sto uscendo dal testo o sto sognando? Può essere considerato impossibile che un cardinale cileno ed un poeta cileno vadano e vedano le cose? Mi piacerebbe entrare con lei in centinaia di case che conosco, conversare con le madri, accarezzare ai bambini, che lì sono come tutte le madri e tutti i bambini, amorose esse, innocenti essi, ma con qualcosa di nuovo: la sicurezza nella vita. Nessuno ha paura dell'abbandono, della miseria, della fame, del freddo. Quello non esiste lì.
    Mi trovai solo un mese fa nel sanatorio di Sochi, dove stavo curando le mie indisposizioni, con la vedova del gran pittore francese già scomparso Fernand Léger. Fu un caso solamente che ci incontrassimo, dato che quel paese di Sochi riceve in ogni stagione più di un milione di lavoratori che occupano migliaia di case di riposo e sanatori. Conversiamo come vecchi amici.
    La signora Léger è di origine russa, ma vive da più di 30 anni in Francia. Aveva appena visitato alla sua famiglia in un villaggio russo. Mi commosse profondamente quello che mi disse.

    Lei non ha idea, Pablo, dei cambiamenti che ho trovato. Ho visto a tutta la mia famiglia, i miei fratelli e sorelle. Tra come vivevamo prima e come vive ora la gente c'è un abisso. Noi non eravamo i più poveri del paese. Mio padre era un funzionario modesto, ma con maggiori entrate che molta altra gente. Io andavo alla scuola con una giacca rotta, da uomo, con una corda che me la stringeva alla vita. Non avemmo mai da comprarci collant. Le scarpe rotte di mio padre, scartate da lui, venivano ripiempite con carta di giornale affinché i miei piccoli piedi le trascinassero per le strade piene di fango. Io incominciavo a disegnare ed a dipingere e dovetti impadronirmi di una piccola lampada con le mie proprie mani per dipingere nella notte, perché di giorno bisognava lavorare tutte le ore, nonostante la nostra tenera età.
    Ora mi raccontarono come avevano passato la guerra.
    I nazisti invasero anche il mio paese. Occuparono tutte le case. I tedeschi fucilavano uomini e donne tutti i giorni. La mia famiglia, donne e bambini, trovarono un buco in terra. Lì passavano tutto il giorno. Nel buco non c'era spazio per stendersi. Tutto il giorno si stringevano gli uni agli altri in piedi e messi sotto terra. Solo molto tardi nella notte potevano cuocere alcune patate o radici, mangiarli e ritornare alla loro sepoltura. Così fino a che non andarono via i tedeschi.
    Che cosa mantenne questa famiglia unita contro la fame, contro il freddo, contro la guerra di sterminio? Il sentimento più profondo e più alto, l’alto morale della famiglia sovietica, l'alto livello dell'eroismo, il senso di patria e di nazionalità, il sentimento di unità familiare, la preservazione della casa, fondamento basilare della società socialista.

FINÌ L'IMMONDO TRAFFICO

Ma, come la casa e la famiglia della mia amica erano migliaia e milioni di case che soffrirono la guerra, la perdita dei loro beni, la separazione e la morte e che dopo si ricostruirono e fiorirono di nuovo nell'allegria e nel lavoro.
    Ricordo in questo momento quel libro terribile che alcune decadi fa produsse spavento e commozione nel mondo: El camino de Buenos Aires, del giornalista francese Albert Londres. Lì si descriveva come prima della Rivoluzione i trafficanti di bianchi compravano a migliaia le ragazze in Polonia e Besarabia e li vendevano nei postriboli di Buenos Aires. Quell'immondo traffico terminò col socialismo. Ma i postriboli continuano a prosperare nel mondo capitalista. I pirati non possono comprare lì la loro mercanzia umana. Dove la comprano? Io ho visto per le strade di Amburgo e di Anversa vetrine con luci al neon che esibiscono le prostitute, la mercanzia umana. Queste ragazze sono comprate, in base della distruzione della famiglia, nei campi e nei villaggi del cisiddetto Mondo Libero.
    Contro questo e contro la corruzione aristocratica della dolce vita, contro tutti gli attentati alla dignità dell'essere umano dobbiamo lottare tutti, cattolici e non cattolici, credenti o non credenti, ed inoltre abbiamo il dovere di lottare insieme, cattolici e non cattolici, contro la degradazione che impone la miseria, contro l'analfabetismo, contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. In questa lotta nessuno potrà separare i comunisti dai cattolici, né noi, i comunisti, accetteremo questa separazione.
    Dicevamo un momento fa che anche questa campagna della Chiesa contro i comunisti può nascere in altre fonti.
    La Chiesa ha visto allontanarsi le masse dal suo seno. I popoli hanno trovato sempre la Chiesa che appoggiava le cause antipopulari. Ricordiamo come i vescovi benedissero gli aeroplani fascisti che bombardarono le indifese città spagnole. Benedissero anche gli eserciti che partivano a massacrare innocenti in Abissina. La Chiesa appoggiò Franco e le sue guardie more. Solo il 17 maggio 1962. il nunzio papale in Spagna, Giliberto Antonietti, fece tali lodi dal capo fascista che centinaia di cattolici, o forse migliaia di essi, iniziarono a collaborare coi comunisti.
    Il governo di Salazar sovvenziona le Chiese dell'Angola e del Mozambico e queste aiutano a mantenere la schiavitú in quelle regioni dell'Africa. Nel Congo, i colonialisti belgi, contarono sull'aiuto della Chiesa. Nel 1947 il papa approvò la dottrina Truman che stabilisce la politica estera degli Stati Uniti orientata verso lo scatenamento di una terza guerra mondiale. Nel febbraio del 1949, Pio XII appoggiò il Patto Atlantico, patto di guerra e di aggressione. Nel 1959 la rivista del Vaticano Civiltá Cattolica accoglieva questi preparativi di guerra con la seguente frase: "Noi valutiamo il fatto dell'organizzazione del Patto dell'Atlantico come un atto enormemente positivo."
    Anticipando il crescente sentimento di disgusto e disaffezione che sentono i credenti ed i paesi in generale, la Chiesa ha cominciato a realizzare piccoli atti che sembrerebbero mostrare un'altra rotta. Un paio di fundi della sua proprietà sono stati ripartiti fra alcune famiglie campagnole col fine di fare nuovi proprietari.

IMMENSI VINCOLI

Ma, la verità è che la Chiesa conserva il suo favoloso potere finanziario, imparentato ai grandi monopoli mondiali. Conta con vincoli economici oltre Roma e l'Italia. Negli Stati Uniti della Nordamerica, per citare un paese, conta su forti investimenti di capitale nella Banca di Morgan, nel trust petrolifero Sinclair Oil, con parte apprezzabile delle azioni della Bank of America, delle grandi compagnie metallurgiche Republic Steel, National Steel, e delle compagnie di navigazione aerea Boeing, Douglas, Lockheed e Curtiss-Raith. Tutti i cileni sanno che le lussuose barche della Casa Grace, i Santa, come le raffinerie di zucchero ed altre industrie di quella sicetà appartengono in gran parte alla Chiesa. È anche di pubblica conoscenza che, nel piano mondiale, 92 delle più grandi società di capitali sono controllate dal Vaticano.
    È chiaro per quelli che mi ascoltano, e per quelli che sanno queste cose, che la Chiesa si è associata attraverso immensi vincoli col capitalismo, con le avventure coloniali, con la politica imperialista degli Stati Uniti. Che il crollo di tutta questa macchina, le sue crepe, le sue rotture, tutto quello che presagisce la fine di un'epoca, spaventa anche tanto secolare istituzione.
    Col risultato che, da un lato, vuole rimodernarsi per recuperare socialmente dal suo isolamento dalle masse popolari. Con questo fine e per unificare il mondo religioso apre e chiude le porte di un gran Concilio Ecumenico, in cui revisionerà la sua strategia.
    D'altra parte, tende a mettere sul trono grandi partiti politici direttamente legati al suo mandato, come sono i partiti democraticocristiani della Germania ed Italia. In questo senso non voglio parlare del Cile perché voi ne sapete più di me.
    Il salario di un operaio cattolico, di un impiegato cattolico, di un contadino cattolico, è completamente uguale e sempre insufficiente a quello che percepisce un operaio, un impiegato o un contadino senza credenze. Se separiamo quelli che credono nel cielo da quelli che non credono nel cielo, stiamo perdendo la terra, staremo consegnando il presente ad un regime di ingiustizia che non può sopravvivere. Se si dividono gli sfruttati non può guadagnare Dio, bensì gli sfruttatori.

SI PRECIPITA LA ROVINA

Nel frattempo le compagnie Weir Scott ed altre due guadagnarono in un giorno, il quattro novembre dell'anno scorso, cento milioni di pesos perché furono liberate dall’imposta per importare latte condensato. Il rialzo ufficiale del dollaro ha fatto salire ancora più il latte, e l'alimento tra i bambini, lo zucchero è salito di 12 pesos il chilo ed il chilo di burro di 800 pesos. Il rialzo del dollaro a 1.380 pesos lo pagherà il popolo 112 mila milioni. Se il rialzo è a 1.600 il pagamento arriva a 187 mila milioni di pesos.
    Le imprese nordamericane Anaconda e Braden guadagneranno automaticamente tra 10 e 20 milioni di dollari. Un piccolo numero di latifondisti e magnati finanziari guadagneranno in una sola volta da 50 mila a 80 mila milioni di pesos e se il dollaro sale a 2.000 pesos guadagneranno 152 mila milioni.
    Si sta precipitando, dunque, alla nostra vista la rovina del Cile. Le piccole riorganizzazioni che promette il governo saranno spazzate in questa onda di guadagni per alcuni poderosi in questa mareggiata di miseria che ci è venuta sopra. Il chilo di cipolle si sta vendendo fino a 900 pesos. Come comprerà il popolo la carne da cucinare a mille pesos?
    Nel frattempo i vescovi propongono ai cattolici, agli operai cattolici che lottino contro gli operai comunisti, propongono agli impiegati cattolici, ai professionisti cattolici, ai commercianti cattolici, ai contadini cattolici, alle madri cattoliche, non che lottino contro i rialzi, non ci propongono di fermare la valanga che abbatte le ossa della nostra patria, ma ci propongono una lotta tra fratelli su idee religiose che possono poggiare nella coscienza di ognuno.
    Noi, al contrario, pensiamo che niente può separarci, soprattutto in questa emergenza. Abbiamo il dovere sacro di fermare prima di tutto questo terremoto prima che il terremoto ci distrugga tutti insieme. Possiamo ancora farlo, possiamo unirci in un movimento nazionale contro la fame. La svalutazione è stata ordinata dal governo nordamericano, lo stesso governo che vuole distruggere Cuba senza altro argomento che le armi, vuole attaccare per fame il nostro paese. Vogliono trasformare la nostra patria in un paese di mendicanti. Noi comunisti cileni non possiamo permetterlo. Chiamiamo tutti i cileni a lottare, a manifestarsi, a protestare. Vogliamo lottare contro molte iniquità.
    L'impeto dei cileni deve dirigersi contro la miseria, contro le cause di essa. L'impeto dei cileni deve dirigersi in una sola forza comune contro quelli che impongono l'avversità e l'umiliazione alla nostra vita nazionale che può essere ogni giorno più bella e più grande.
    La pastorale dei vescovi sta dando già i suoi frutti.
    Si sta celebrando attualmente in Santiago un Festival di Cori Giovanili di tutto il Cile. Sono venute delegazioni dal nord e del sud, in maggiore quantità di quelle che venivano ad altri festival gli anni precedenti. I bambini si alloggiarono sempre in scuole pubbliche, stabilimenti particolari, commissariati, etc.
    Questo anno si chiusero le porte delle scuole cattoliche per i bambini di Lota e Coronel. Il Liceo Barros Arana non potè ricevere perchè non stava in condizioni adeguate il suo locale. Ma le scuole cattoliche, ai quali fu offerto loro dagli organizzatori del Festival la somma di 1.000 pesos per ogni bambino che avrebbero alloggiato, si rifiutarono di riceverli argomentando che si trattava di bambini comunisti.
    Signori vescovi, questo si chiama cristianesimo?
    Ma, l'impeto della pastorale si dirige contro il comunismo. Questo è spiegabile. La metà dell'umanità, mille milioni di uomini, si vivono, ordinano e lavorano nella struttura socialista. Hanno abolito la radice del capitalismo, e, tuttavia, vivono, creano, producono, e raggiungono i più alti livelli della cultura, della scienza e dell'economia. Si spiega, dunque, che tutte le istituzioni legate al capitalismo moribondo tocchino in allarme le loro campane: incendio, incendio, dicono. Ma nessuno si sta scottando.
    Vi sarete accorti, amici miei, che questa conversazione che cominciai tanto allegramente con voi, parlando di cosmonauti e di uccelli si sia andata oscurando con molti appuntamenti pontificali, con dati storici, fino a spaventosi nomi di società per zioni. Nessuno lo sente più di me.
    Mi sarebbe piaciuto di più leggervi i miei versi sugli uccelli del Cile. Ci sarà un'altra volta, ve lo prometto.

MI SONO SENTITO OFFESO

Ma la verità è che mi sono sentito offeso dalla pastorale. Non sono cattolico, né sono credente di nessuna religione. Ho visto nella mia lunga vita, nei miei continui viaggi, da molto giovane, i più diversi riti, i tempii di Maometto, le immense basiliche, le pagode buddiste, gli strani tempii indù in cui dei dalle venti braccia e visi di elefanti, furono venerati in quel millenario e profondo paese di cento milioni di abitanti. Ci sono molte religioni, ma in generale non è la sua carta a dominare il mondo e rompere la pace dell'uomo.
    In pomeriggi interi, nella solitudine della mia casa della Ceylon, ho visto la sfilata gialla di migliaia di monaci, discepoli di Gautama Budha, verso i tempii adornati con immense statue di pietra.
    Ho visto per giorni interi bruciare i cadaveri secondo riti antichi sul bordo del fiume Gange. Ho visto rappresentazioni di dei di tutte forme e colori, belli dei greci, dei a forma di serpente, dei con lunga lingua rossa, dee sanguinanti con collane fatte di teschi umani, tempii pieni di dei dorati. Ho visto ballare di fronte ai tempii, ho visto prosternarsi tutte le religioni, ho visto i credentidi Maometto attraversare con i piedi nudi un lungo tappeto di fuoco vivo, ho sentito ululare i dervisci, e ho visto rompersi la fronte nella terra ai vecchi mongoli, in adorazione dei loro antichi dei.
    Ma, tra tante cose che ho visto, forse la cosa più antica e la cosa più semplice è quello che continuò ad essere per me la cosa più incancellabile: è il ricordo di mia madre, incurvata per l'età, pregando le sue orazioni in un angolo della nostra povera casa di Temuco. Immaginai sempre, quando ero bambino, che quello era un atto in più della sua bontà.
    Perciò mi rattristò la pastorale. Mi sembrò inaccettabile la sua violenza politica, la sua incursione in un mondo di combattimento, il suo equivoco dei fatti della storia contemporanea. Senza essere credente io sentii che lo spirito del pastorale si sollevava contro i miei ricordi. Rimuoveva l'immagine di mia madre, della sua intimità religiosa, per lanciarla alle fiamme di una guerra. Di una guerra religiosa che i comunisti per nessun motivo accetteranno.
    Noi detestiamo l'anticlericalismo borghese che pretende distrarre l'attenzione verso un conflitto metafisico sentendosi al di sopra degli altari in uno pseudo Fronte Democratico coi veri colpevoli dello sfruttamento e del ritardo per disputarsi il bottino. Non è la religione quella che divide i cileni, né agli altri paesi. È la lotta per conservare i privilegi o per dare giustizia e benessere agli uomini. Non sono nemici nostri i cattolici, bensì gli sfruttatori. Questi possono essere cattolici o possono essere atei. Noi vogliamo cambiare la società umana e consegnare il beneficio della natura e del lavoro a tutti gli esseri umani. Vogliamo che non ci siano poveri nel mondo, vogliamo che la ricchezza si distribuisca, non per la carità né la pietà, bensì per il diritto sacro che ha ogni essere umano alla dignità ed alla vita.
    Alcuni giorni fa nel plenum del mio partito seppi che i giovani minerari della poderosa compagnia mineraria di El Tofo dormono in grotte, scavate da loro stessi.
    Che importanza ha che quei giovani compatrioti nelle sue tane siano cattolici o non siano cattolici? È un'altra cosa quella che li unisce: cattolici o non cattolici sono stati lì offesi ed umiliati da un trattamento inumano. Insieme devono lottare per finire una volta per tutte con un sistema sociale che li degrada.
    Un'altra volta noi comunisti cileni tendiamo la mano a tutti i cattolici per lavorare in comune, per il benessere, per il progresso, per la giustizia e per l'allegria.
    Questa è la nostra posizione ed in lei saremo inflessibili. Nessuno ci porterà a confondere il cammino verso la luce. Le differenze religiose non sono steccati che possano bloccare il progresso dell'umanità. Non lo sono state. Le masse saltano questi steccati e si uniscono gli uomini in una marcia che non retrocede, che avanza sempre per dominare e conquistare la natura e stabilire tutte le possibilità della fraternità sulla terra.

"ANCORA ABBIAMO LA PATRIA"

Mancano già pochi minuti affinché lasci questa tribuna e tutti ci disperdiamo, ai nostri quartieri, alle nostre popolazioni, ai nostri lavori. Non voglio lasciare solamente l'impressione di un futuro saturo solamente dalle calamità, dalle angosce, dalle tenaglie che ci stringono. Al contrario, vedo raggianti possibilità, immense vittorie, ma queste non ci cadranno dal cielo. Saranno la conseguenza di un lotta corpo a corpo, strada per strada e cuore per cuore per poter cambiare l'aspetto ed il fondo il nostro paese. La reazione, le forze nemiche del paese cileno sono appoggiate internazionalmente da gente malvagia e poderosa. Ma Fidel Castro ha provato che non sono invincibili. Anche noi possiamo provarlo, in forma pacifica ed in altre forme più decise, ma prima abbiamo bisogno del lavoro di ognuno dei lavoratori, la speranza di tutti quelli che hanno speranza, il coraggio di tutti i coraggiosi. Non dimentichiamo che uno dei nostri guerriglieri del passato che, a sua volta, fu il più coraggioso ed il più brillante dei guerriglieri della gesta per l'emancipazione americana ci lasciò un grido che ancora risuona: "Abbiamo ancora la patria, cittadini."
    Ritorno questo pomeriggio alla casa mia in Isla Negra. Abbiamo ancora la patria. Abbiamo ancora il meraviglioso mare, abbiamo ancora la primavera fiorita. Lasciatemi ritornare, anche se per alcuni giorni, alla mia poesia, a cantare anche tra tante bellezze della patria i begli uccelli del Cile.

Discorso pronunciato nel Teatro Caupolicán,
Santiago, 12.10.1962, Pubblicato in opuscolo
(Santiago) Imprenta Horizonte, 1962, ed in
El Siglo, Santiago, il 14.10.1962.


1° di maggio in autunno

Qui escono le bandiere nella strada, in autunno.
Sono vecchie e nuove bandiere, alcune furono ricamate
con l'amore antico, hanno emblemi, allori, mani
che si incrociano,
rose, locomotive, timoni, ruote di telaio.
Furono fatte con oro sul fondo oscuro del velluto rosso.
Sono gli stendardi di vecchi sindacati, i suoi dirigenti morirono
nella prigione, nell'ospedale, per strada, di uno o di molti colpi
o semplicemente nei loro letti, circondati dalle sue famiglie operaio.
Amai sempre queste bandiere, hanno ricami squisiti,
sono stati rammendati con una delicatezza che ora non esiste.

Ma esiste ora un altro mondo e la lotta non ha velluto,
e dove stette la rosa c'è una fiamma scoppiettante.
Sono appena cucite le bandiere del partito.
Sono di tessuto economico, le sue lettere bianche indicano
il comune, edificio il, la miniera, le corporazioni di pescatori,
di operai di tutti i mestieri, dalla cordigliera
fino alla costa, dal Polo fino al deserto caldo.
È il seme dell'azione, la geografia del paese,
la stella che si ruppe mille volte, cadde spruzzata di sangue,
e tornò a nascere, a palpitare ed a dominare le tenebre.
Avanza la moltitudine nell'aria dell'autunno.
Io, tra le bandiere, sono molto piccolo, ho alcuni pochi anni, e so che marcio alla mano di un gigante che ha molto da camminare ancora.

C'è nell'aria di autunno una nuova bandiera.
È la bandiera della piccola isola del ballo,
dello zucchero che come neve torrida riempiva i suoi porti,
del ritmo ripetuto dei tamburi alla luce della luna.
All'improvviso questa bandiera saltò dal paradiso fotografico
e si mise a camminare da tutte le parti con le bandiere rosse.
A noi argentini, cileni, fluviali,
patagonici, ai nostri uomini del rame terribile
e del salnitro amaro,
a tutti ci sorprese vedere questa stella bianca tra noi,
stavamo tanto lontano, vivevamo tanto separati.
I paesi dell'America vissero chinati guardando il solco,
guardando il carbone, guardando sempre la terra,
c'era appena tempo per guardare verso il Nord e verso il Sud,
di tutte parti arrivava il vento crudele e la notte terrificante.

C'era appena tempo per guardarsi le mani spaccate,
per asciugarsi il sudore, per guardare i fiori.
fino a che una gran rivoluzione nelle terre distanti,
in ottobre,
fermò tutti gli uomini e questi si guardarono tra loro.
Alcuni corsero a nascondere i loro patromoni. Altri sorrisero.
E cominciarono ad apparire infinite bandiere rosse.
Il primo di maggio si andò popolando con moltitudini e bandiere.
E quando si unì la bandiera di Cuba a tutte le sfilate
comprendemmo che la separazione era finita,
che potevamo guardarci da popolo a popolo
e che più dura e più alta delle Ande è la volontà della lotta.

1° di maggio 1963

Santiago, 30.4.15163.


La Spagna canta Cuba

              Parigi 13 (P.L). I giornali parigini commentano le notizie su un nuovo crimine commesso dai boia                fascisti. L'assassinio del giovane poeta Manuel Moreno Barranco.
    Detenuto nel febbraio di questo anno, Barranco è deceduto dopo 10 giorni dal suo arresto
nell'ospedale della prigione. Le autorità franchiste comunicarono ai suoi parenti un pretesto
simile a quello utilizzato quando vollero assassinare per la prima volta Julián Grimau, dicendoli
che "cercò di suicidarsi gettandosi dalla finestra dalla prigione", ma questa versione rimase
smentita quando i boia franchisti, per occultare i segni delle torture a cui avevano sottomesso
Moreno Barranco, negarono il permesso alla madre del giovane poeta affinché visitasse suo
figlio agonizzante.

Della stampa di Santiago del 14 di giugno


Albeggiò malato in questo giorno 14 di giugno dell'anno 1963. Pensai, dapprima, nella mattina: questo è il giorno affinché io scriva il prologo ai poeti spagnoli che cantano a Cuba. Dal mio letto, oltre il finestrone, vedo la rada di Valparaíso. Alcune di queste barche che si staccano nere sull'acqua di inverno verranno forse dalla Spagna, passeranno dalla Spagna nel suo ritorno. Anche i miei pensieri andavano e venivano dal libro ai porti, da Cuba alla nuova poesia. Aprii nel frattempo il giornale e lessi la triste notizia che ho lasciato qui per segnalare questo giorno della Spagna.
    Allora, tutto prosegue allo stesso modo?
    Mi sembra di si. Mi sembra di no.
    Mi sembra di si perché i crudeli continuano ad ammazzare.
    Mi sembra di no perché i poeti cantano di nuovo.
    Questo è un libro di quelli che graffiano il muro, di quelli che cantano sul muro, di quelli che raggiungono con la loro voce il grande oceano, di quelli che interpretano il profondo sotterraneo mormorio della terra spagnola.
    Quando noi, poeti di tutti i mondi, corremmo verso la Spagna con la nostra poesia, si vide che quelli che più sentirono e soffrirono, che quelli che più cantarono in quell'abbondanza delle gesta, furono i miei compagni, i poeti americani. Eravamo di qui e di là, ci separavano cime ferruginose, praterie planetarie, ma lo spazio non ci divise. Non ci conoscevamo, ma cantammo con una sola voce. Amavamo la Spagna ed il suo popolo, le nostre parole erano per combattere e proteggere. Una grande speranza c'insegnò l'unità cristallina. Qui costruiamo quella torre.
    Ora questi poeti da tutti i paesi della Spagna ci danno la meravigliosa sorpresa di ripetere per il bene nostro quel canto interrotto, di inventarlo di nuovo, di dargli nuova vita, nuovo senso, nuovo spazio.
    Quante ombre si dissolvono leggendo queste dolorose poesie. Sono fatte tanto vicino all'azione che si confondono con essa. Si alzano dalla resistenza spagnola, pensando a Cuba e combattendo per la propria liberazione.

Ci dice Pere Quart:

         La libertà giustamente ha scoperto l'America,
         vi ha piantato finalmente l'aspra bandiera...

Ci canta Gonzalo Abad:

         voglio tornare a vivere di nuovo
         sotto il sole di L'Avana

Ed Ángel Santiago:

         Io tolgo il mare che sta in mezzo
         dall'Europa fino all'America,
         perché mi disturba, e lo faccio
         per portare più secchi i miei stivali di soldato
 
Ed Antonio Pérez:

         Il rosso romanziere della guerra
         disse il suo stile,
         ma non tutto finì.

E Carlos Álvarez:

         che stringendo di Cuba la speranza
         contro il mio petto di spagnolo nascente
         dissanguato nella ferita della mia patria

E Santiago Puga:

         Voglio morire a L'Avana

E Julián Marcos:

         e se arriva il momento di abbandonare la piuma,
         il mio braccio è pronto

Ed Antonio Rodríguez:

         E quel qualcosa, che tu hai ravvivato,
         quel qualcosa è la speranza

E Francesc Vallverdú:

         La notte americana
         vede milioni di sguardi blandendo l'ora cubana

E Gabino Carriedo:

         Spagna, morde il cuore. Il giovane
         - bianco e verde scarlatto - dalle Antille arriva

Ed Ángel Crespo:

         Non ti invento. Ti ho
         davanti ai miei occhi, Cuba.
         Io anche taglio canne coi tuoi,
         attacco cartelli grandi
         in porte e pareti
         e metto questo poema
         vicino al mare

Ed Aquilino Duque:

         Il tagliatore di canna sguaina il machete
         e taglia gli ormeggi della sua isola marina

E López Pacheco:

         quella pace delle mani
         di Cuba

Ed Ángelo González:

         Antilla - sul suolo,
         temporale cieco o cielo abbattuto
         - alzata Cuba, come una bandiera -,
         chiama implacabile o luce definitrice

E Carlos Barral:

         Perché un'altra volta succede qualcosa che ci contagia,
         sta succedendo qualcosa che ci chiama
         da estranee rive, al di sopra
         di mari sordi e città sorde

E Jaime Ibarra:

         Io sono la Spagna. Vedi. Guarda la mia vita
         - la mia morte a sangue e prigione -. Vedi le mie mani.
         Guarda le mie strade. Non vanno in nessun posto
         e c’è bisogno che vadano da qualche parte

E Leopoldo de Luis:

         Perché un gregge azzurro d’ombra
         passa tra olivi, pini, roveri,
         per le pianure della vecchia
         geografia, sui suoi monti,
         canto a Cuba ora che ha sciolto
         le sue colombe contro la notte

E José Ángel Valente:

         Da lontano ci chiamano, da lontano
         si sente una voce. Pronuncia
         parole della mia stirpe e del mio sangue.

E Jaime Gil:

         Io penso che a queste ore albeggia nella Ciénaga,
         che tutto è indeciso, e che continua il combattimento,
         e cerco nelle notizie un po' di speranza
         che non venga da Miami

E Juan Rejano:

         È ritornato. Non lo vedete? È ritornato

E Ángela Figuera:

         Che il popolo di Cuba è
         già libero da piedi e mani,
         aprendosi a petto pulito
         strade speranzose,
         mentre il popolo spagnolo,
         spacciato ed imbavagliato,
         sopporta con rassegnazione e morde il freno
         per mille ferite sanguinando

    E Blas de Otero, Rafael Alberti, ed i tanto altri, e quelli che non poterono cantare, e quelli che già furono assassinati, e quelli che non raggiunsero questo libro. E quelli che stanno nascendo, quelli che stanno aprendo gli occhi e la bocca. A tutti appartiene questo coro unanime. La poesia degli spagnoli ci accompagna a difendere Cuba dandoci la sua forza solidale, la sua luce dolorosa, la sua tenerezza indomabile.

Valparaíso, 14 giugno 1963

Prologo al volume
España canta a Cuba,
Santiago, Editorial Universitaria, 1963.


"In memoriam" Javier Heraud

Ho letto con gran emozione le parole di Alejandro Romualdo su Javier Heraud. Anche il doloroso esame di Washington Delgado, le proteste di César Calvo, di Reinaldo Naranjo, di Arturo Corcuera, di Gustavo Valcárcel. Lessi anche la straziante relazione di Jorge A. Heraud, padre del poeta Javier.
    Mi rendo conto che una gran ferita è rimasta aperta nel cuore del Perù e che la poesia ed il sangue del giovane caduto proseguono risplendenti, indimenticabili.
    Morire a venti anni crivellato da colpi "nudo e senza armi in mezzo al fiume Madre de Dios, quando andava alla deriva, senza remi!...." Il giovane poeta morto lì, schiacciato lì in quelle solitudini dalle forze oscure! Dalla nostra America oscura, dalla nostra età oscura!
    Non ebbi la fortuna di conoscerlo. Per quanto voi lo cantiate, lo piangiate, lo ricordiate, la sua breve vita fu un abbagliante lampo di energia e di allegria.
    Onore alla sua memoria luminosa. Conserveremo il suo nome ben scritto, ben incisione nel più alto e nel più profondo affinché continui a risplendere. Tutti lo vedranno, tutti l'ameranno domani, nell'ora della luce.

Isla Negra, Luglio di 1963

Incluso in Javier Heraud,
Poesías completas y
Homenaje, Lima, Perù, Ediciones de La Rama Florida, 1964.


Ritratto del gladiatore


Ora che i moscoviti hanno visto e sentito, percepito e vissuto, Fidel Castro, racconterò che anche io lo conosco, l'ho visto poche volte e ho parlato con lui, così, passando, uscendo da un posto o arrivando ad un altro. Mi piacque questa maniera di conoscerlo perché dietro una scrivania sta quasi tutto il mondo, meno Fidel Castro. Bisogna vederlo in piedi, e siccome è molto alto, lo è guarda da sotto, ed quello anche succede con gli edifici e coi monti innevati del mio paese.
    È anche una maniera logica che noi americani guardiamo verso l'alto, perché al’improvviso crebbe molto questo uomo e fece crescere anche il suo paese. La piccola isola cubana occupò più posto nei linguaggi umani ed anche nelle acque dei Caraibi.
    Crebbero anche queste acque, si parla più dei Caraibi che del gran oceano Pacifico. Si riempirono quelle acque di avvenimenti e lì lottarono le antiche ideologie che sono sempre le nuove: la moltitudine di quelli che vogliono liberarsi, fecondare la vita e la terra e, d'altra parte, quelli che sono disposti a difendere i sistemi immobili.
    Dirò che quando vidi per la prima volta questo uomo, compresi che al nord la sua barba confinava col pensiero universale, con la chiarezza della nostra epoca, col celestiale che continuiamo a conquistare al futuro. Più su della sua barba, guardando all'est e l'ovest, ha due occhi acuti neri che non lasciano passare uccello senza annotarlo nel suo lungo libro. Più al nord ancora, ha una fronte capace di ricevere il vento contrario. E tra questi ha un naso da conquistatore antico, di quelli quali sbarcarono nelle nostre coste. È un naso come prua di vascello, ben diretta verso il combattimento.
    All'est del suo lungo corpo confina Fidel Castro con la trasmutazione del mondo, col senso socialista-leninista delle masse umane. Verso quello lato, con la sua mano sinistra, fa ogni tanto segni che muovono l'aria di tutto il continente in cui vivo. Quello sta bene.
    All'ovest confina Fidel col Nemico. È difficile descrivere questo Nemico, ha viso di giornale, voce di radio poderosa, denti atomici, forma di Pentagono e gambe che finiscono in artigli di tigre. Questa tigre, al contrario di quello che pensano alcuni sognatore buddisti, non è di carta. Lo diciamo per esperienza noi latinoamericani. Qualunque sia il materiale di questo felino, è provato che Fidel non ne ha paura.
    Al sud confina Fidel con la terra, non solo con la sua isola zuccheriera, bensì con tutta la terra. È quello che chiamiamo un uomo ben piantato, e benché si muova molto, come gli antichi cavalieri erranti, mette immediatamente radici dove sta e dove passa.
    Ma nel centro del suo corpo, nel preciso posto dove tutto il mondo ha il cuore, Fidel Castro ha un'isola. Questa isola si chiama Cuba e non pulsava fino a quando non arrivò al petto di Fidel. Da allora grandi ondate di vita, di emozione, di agonia e di resurrezione, hanno fatto di lei una viscere vera, generosa ed attiva. Per questo miracolo questo cuore si popolò di fatti valorosi, di costruzioni audaci, di evidenti trasformazioni, e tutto cominciò ad essere fecondo. E tutto il continente latinoamericano sentì nuovo sangue nelle vene, un'onda di freschezza, ardore e valore si estese per tutte le arterie della colossale agglomerazione che è il nostro corpo planetario. Così l'isola arrivò ad essere cuore del continente. E tutto questo battendo nel petto di Fidel.
    Vedo già che voi ora a prima vista lo amate, lo riempite di fiori, di belle parole e di grandioso appoggio. Vedete già che noi avevamo più ragioni per ammirarlo come l'ammiriamo, per difenderlo ed amarlo.
    Perciò i miei versi lo proclamarono nella lingua spagnola, lingua che suona a volte come chitarra ed a volte come tuono. Perciò, quando gli feci visita e ci troviamo uscendo o entrando da qualche luogo, da alcuno dei suoi grandi doveri, o semplicemente da un ristorante dove mangiava nella cucina, tirai fuori una bottiglia di vino, riempii un bicchiere e gli lanciai questi versi della mia Canción de gesta:

Fidel, Fidel, i popoli ti ringraziano
parole in azione e fatti che cantano,
perciò da lontano ti ho portato
un bicchiere del vino della mia patria:
è il sangue di un paese sotterraneo
che arriva dall'ombra alla tua gola,
sono minatori che vivono da secoli
tirando fuori fuoco dalla terra gelata.
Vanno sotto il mare per il carbone
e quando ritornano sono come fantasmi:
si abituarono alla notte eterna,
gli rubarono la luce della giornata
e tuttavia qui hai il bicchiere
di tante sofferenze e distanze:
l'allegria dell'uomo imprigionato,
popolato da tenebre e speranze
che dentro alla miniera sa quando
arrivò la primavera e la sua fragranza
perché sa che l'uomo sta lottando
fino a raggiungere la chiarezza più larga.
Ed a Cuba vedono i minatori australi,
i figli solitari della pampa,
i pastori del freddo in Patagonia,
i genitori dello stagno e dell'argento,
quelli che sposandosi con la cordigliera
tirano fuori il rame da Chuquicamata,
gli uomini di autobus nascosti
in popolazioni pure di nostalgia,
le donne di campi ed officine,
i bambini che piansero le loro infanzie:
questo è il bicchiere, prendilo, Fidel.
È pieno di tante speranze
che a berlo saprai che la tua vittoria
è come il vecchio vino dalla mia patria:
non lo fa un uomo bensì molti uomini
e non una uva bensì molte piante:
non è una goccia bensì molti fiumi:
non un capitano bensì molte battaglie.
E stanno con te perché rappresenti
tutto l'onore della nostra lunga lotta
e se cadesse Cuba cadremmo,
e verreremmo per rialzarla,
e se fiorisce con tutti i suoi fiori
fiorirà con la nostra propria linfa.
E se osano toccare la fronte
di Cuba dalle tue mani liberata
troveranno i pugni dei popoli,
tireremo fuori le armi sepolte:
il sangue e l'orgoglio accorreranno
a difendere Cuba benamata.

    Io vi ho descritto la mia maniera di vedere Fidel. Voi con dieci milioni di occhi lo guarderete in altro modo per strade di Mosca. Quando già se ne sia andato alzandosi nell'aria e volando di nuovo verso Cuba fragrante, lo seguirete voi vedendolo. È incancellabile non solo per quello che ha fatto, non solo per l'amicizia e la verità che rappresenta, bensì per la sua figura di indiscutibile lottatore.
    Vi racconto qualcosa. Un pomeriggio che guardavo con un certa noia i tesori romani, greci ed etruschi del museo Pushkin, a Mosca, mi fermai all'improvviso, attonito. Non credevo quello che i miei occhi vedevano. C’era lì, intagliata in bella pietra millenaria, una statua di Fidel Castro. La somiglianza era tanto sorprendente che quasi poteva conversarsi con lui. Ma, la statua di pietra non poteva uscire dal suo raccoglimento. Il naso aquilino, la barba arricciata, gli occhi di Fidel non prendevano in considerazione quelli che per di lì passavano. Sembrava assorta in un grave problema. È il problema della lotta.
    Si tratta della statua del gladiatore romano, scultura anonima in cui un uomo si prepara ad un gran combattimento.
    Compagni, vi consiglio di andare a vedere questo ritratto di Fidel Castro e dire a quel gladiatore pensoso che si prepara alla lotta, buona fortuna nel gran combattimento che dura ancora.

Alla vigilia del viaggio di Fidel Castro nell'Unione
Sovietica, il giornale Pravda di Mosca chiese a
Pablo Neruda di scrivere sul gran dirigente cubano.
Neruda inviò questo "Retrato del gladiador" il cui
testo originale in spagnolo fu pubblicato in
Santiago dal quotidiano
El Siglo, 28.7.1963.


Sotto la maschera anticomunista
BAJO LA MÁSCARA ANTICOMUNISTA. (Pagine 1159-1169.) Alcuni paragrafi di questo testo, lievemente modificati, saranno ritradotti più tardi in spagnolo (probabilmente dal russo) nell'articolo "Cierta flor de loto", edito in Principios num. 102, Santiago, luglio-agosto 1964.

Le distanze spariscono, le comunicazioni sono istantanee, il mondo è più piccolo. Quanto accade in altri continenti, ogni movimento di oppressione, di confusione, di intendimento, di liberazione, producono una piccola o vasta o elettrica onda, circola fino ad arrivare a toccare il corpo in Cile.
    Ci rendiamo conto, noi cileni, ogni giorno, che benché siamo un distante paese condividiamo in qualche modo gli avvenimenti, fallimenti o speranze di altri popoli. Da questo immenso mondo esterno ci rrivano notizie e viaggiatori.

NOTIZIE BRUTTE

I colonialisti vogliono utilizzare il nuovo Stato malese contro l'Indonesia. L'Indonesia si è distinta per la sua politica indipendente e la sua decisione di difendere la sua nazionalità, le sue abitudini e la sua rivoluzione. Varie volte gli stranieri di altri paesi hanno cercato di assassinare il presidente Sukarno, gran figura e promotore del patto neutralista di Bandung. Ora, con la complicità di altre nazioni, si preparano nuove minacce contro l'indipendenza dell'Indonesia.

BUONE NOTIZIE

Il Congresso nordamericano ha ratificato il Trattato di proscrizione parziale delle prove atomiche. Anni fa gli infuriati imperialisti si credevano padroni del mondo. Basavano tutta la loro speranza sul proprio potere di distruzione. Si impegnavano ad ignorare ed a far ignorare ai suoi popoli il gigantesco e tranquillo potere dell'Unione Sovietica. Ma hanno dovuto senza rimedio accettare davanti al mondo un patto che davanti alla storia significa, per lo meno, l'uguaglianza di forze. Ma sappiamo che ha un significato più esteso e più profondo.
    La Guerra Fredda arrivò oltre tutte le previsioni: si trasformò in un mostro che ha avvelenato allo stesso modo la vita dell’Oriente e dell’Occidente, del socialismo e del capitalismo. Si arrivò ad estremi che sorpassano i limiti economici e politici dei due sistemi. Per questa strada correremo il rischio di cessare di esseri uomini gli uni e gli altri. A Mosca si stimava pericolosa la musica jazz. Negli Stati Uniti si combattevano le leggi di prevenzione, medicina sociale ed aiuta gli anziani, tacciandoli di pericolosamente comuniste. La Guerra Fredda ha ricevuto il suo primo colpo di morte lenta. Speriamo di seppellirla qualche volta. Né la minaccia perpetua, la bomba sulle nostre teste, né la ridicolaggine extraideologica, possono aiutare la maturità morale dell'uomo, né la lotta per il cambiamento rivoluzionario dell'umanità.

BENVENUTO MARCOS ANA!

I comunisti sono arrivati ad un'età responsabile. Potranno ululare, mentire, adulterare, falsificare. Tutto questo può farlo il nemico di classe col suo poderoso denaro, ma, non c’è rimedio, non c’è rimedio! Devono prenderci in considerazione! Siamo il pensiero ossessionante dei reazionari, degli imperialisti, degli sfruttatori, precisamente perché siamo arrivati alla serenità dell'azione e della coscienza rivoluzionaria.
    Molti anni fa combattevo in Spagna e dopo nei crocevia e nelle montagne yugoslave un guerrigliero conosciuto solo da alcuni uomini. Abbiamo visto come in questi giorni il governo del Cile, esponente della nostra arretrata borghesia, interpretando tuttavia, il sentimento nazionale, lo ha aspettato, lo ha festeggiato, e gli ha dato le chiavi della nostra ospitalità.
    Anni fa giaceva tra migliaia di carcerati politici spagnoli un ragazzo raggiante, un adolescente che crebbe tormentato e condannato. Franco voleva sterminarlo. Voleva continuare la sua tragica lista. Antonio Machado, García Lorca, Miguel Hernández, poeti martirizzati ed assassinati. Ai tiranni spaventa più un poeta che una tigre. Tuttavia, qui in Cile, nel Salone d’Onore dell'Università o al tavolo direttivo dei sindacati nazionali, abbiamo ricevuto il poeta che usciva col cuore intatto dopo 23 anni di prigione: Marcos Ana è ospite del Cile. È ospite del Cile, malgrado l'ambasciata della Spagna ragliasse ufficialmente e malgrado El Mercurio raccomandasse ad uno dei suoi migliori asinelli un raglio mercantile che non ha impedito al nostro compagno poeta di dormire con calma tra la montagna innevata e l'oceano del Cile.
    Benvenuto, compagno poeta, testimone della "cultura franchista!" Benvenuto, condannato a morte e che si sappia che contiamo sulla tua vita e sulla tua poesia per la liberazione della Spagna!

L'ASSENZA STRAZIANTE DI NAZIM

Già mi conoscono i miei compatrioti e sanno che mi allontano da tutti i temi. A queste presenze che sono arrivate nella nostra patria confermando l'importanza crescente dei comunisti nell'ordine politico e morale del nostro tempo, chiedo loro di permettermo di aggiungere un'assenza, un'assenza straziante per la poesia in generale e per il mio cuore in particolare. Appena alcune settimane fa è morto a Mosca NAZIM HIKMET, grandioso poeta ed uno dei miei più cari compagni.
    Con lui è morto uno dei più grandi comunisti del nostro tempo, lontano dalla sua patria, la Turchia, dove passò moltissimi anni in prigione. Lo accolse l'Unione Sovietica, madre generosa di tutti i perseguitati.
    Uno dei suoi poemi diceva:

La maggioranza umana
di Nazim Hikmet

La maggioranza dell'umanità
viaggia sulla coperta dei vascelli
nei treni viaggia in terza classe
per le strade va camminando a piedi
la maggioranza umana.
La maggioranza umana va al lavoro alle otto
si sposa a venti anni
muore ai quaranta
la maggioranza umana.
Grazie alla maggioranza umana
c'è pane per tutto il mondo
con il riso accade la stessa cosa
con lo zucchero accade ugualmente
accade la stessa cosa coi vestiti
coi libri accade la stessa cosa
tutti ottengono tutto
tranne per la maggioranza umana
non c'è ombra sulla terra
della maggioranza umana
né luci per strade
né vetri nelle sue finestre
ma ha la speranza
la maggioranza umana
non si può vivere senza speranza.

SIGNORINI FURFANTI E SINISTREGGIANTI VESTITI DA RIVOLUZIONARIO

Sapete già voi che mi ascoltate che l'anticomunismo è una maschera avvilita per l'uso di quelli che la usarono. Questa maschera ha la particolarità di svilire immediatamente l'anima di quelli che la mettono al viso. Che nasconde questa maschera anticomunista? In Germania occultò il terrore dell'Europa. Sotto di essa ardevano i forni crematori. Sotto questa maschera si nascondevano il saccheggio, la distruzione di città intere che cadevano ridotte a polvere in alcuni minuti. Sotto la maschera anticomunista c'erano milioni di uomini deportati, montagne di denti d’oro estratti ai cadaveri degli assassinati, fiumi di chiome tagliate alle donne morte, piramidi colossali di giocattoli rubati ai bambini prima di bruciarli, e schermi di lampade foderate di pelle umana.
    Sotto la maschera dell'anticomunismo i grandi imperialisti attaccano dall'aria le industrie pacifiche ed i villaggi indifesi di Cuba. Sotto quella maschera si sostengono le prigioni del Paraguay, si chiudono università in Ecuador ed alzano la testa in Santo Domingo ed in Nicaragua i velenosi scorpioni di Trujillo e di Somoza.
    Sotto la maschera dell'anticomunismo i signorini furfanti di "Cile-libero" vogliono giustificare i loro stipendi di mercenari, scrivendo libelli ed attaccando bugie nelle pareti.
    A questi signorini furfanti e nostalgici del fascismo si sono venuti ad aggregare alcuni chiamate di sinistra che contribuiscono a sporcare le pareti con insulti verso l'Unione Sovietica e verso il nostro Partito Comunista.

SOLO I FRENETICI

Sempre questi sinistreggianti, vestiti da rivoluzionario, vollero mangiarsi i bambini crudi per impressionare. Ma adottarono sempre nell'attività politica, le bandiere macchiate della reazione.
    Quanto alla controrivoluzione ungherese molti di essi avrebbero desiderato che non intervenisse l'Unione Sovietica che aiutò al paese ungherese a schiacciare una cospirazione imperialista e fascista.
    Che cosa sarebbe accaduto se avessero vinto lì le forze dell'insurrezione? L'Ungheria sarebbe il centro della controrivoluzione mondiale nel cuore del mondo socialista.
    Più tardi stettero contro il ritiro dei proiettili nucleari installati a Cuba in un momento determinato della sua accelerata storia. Che cosa sarebbe accaduto se non si ritiravano quelli proiettili? Della rivoluzione cubana non rimarrebbe che cenere. Rimarrebbero solo i rottami delle città e le ossa bruciate degli uomini. Le esplosioni nucleari avrebbero raggiunto anche la maggior parte del pianeta portando la distruzione e la morte totale.
    La guerra nucleare non è uno spaventapasseri. In un solo giorno può quasi sterminarsi l'umanità. Chi può desiderare questa guerra? Solo i frenetici, solo i malati mentali, solo i perversi.

LA CAUSA DELLA PACE NON SIGNIFICA TREGUA

La causa della pace non significa tregua né un passo indietro nella lotta contro lo sfruttamento umano. La coesistenza pacifica significa il riconoscimento della stabilità raggiunta dal mondo socialista. La coesistenza pacifica significa il rispetto e la crescita del movimento popolare in tutti i paesi. Significa che si riconosce l'esistenza delle poderose forze vitali del socialismo e che queste continuano il suo cammino di lotta, di trasformazioni e di vittorie.
    All'ombra degli attuali errori di alcuni comunisti cinesi, gli anticomunisti, gli estremisti di sinistra, fanno il gioco alle forze reazionarie interne ed esterne. Attaccando l'Unione Sovietica aiutano al Dipartimento di Stato. Attaccando i comunisti cileni aiutano la barcollante candidatura di Julio Durán.
    Ho detto gli errori di alcuni comunisti cinesi. I comunisti cinesi che non sono d’accordo non possono parlare, perché sono impediti di esprimere le loro opinioni.
    Non mi sarebbe piaciuto parlare di questi fatti, di queste cose che transitoriamente ci separano attraversando in mezzo le nostre anime. Ma non c'è più rimedio. Tutti gli elementi dell'ultradestra celebrano le straniere manifestazioni cinesi. Sono felici dell'apparente divisione di opinioni. Perfino il nostro prestigioso critico Hernán Díaz Arrieta, Alone, molto conosciuto per le sue idee politiche coloniali, esclamò in una delle sue ineffabili audizioni di radio: "Magari per questa breccia entra la libertà." La libertà la concepisce Alone come lo schiacciamento del movimento operaio e degli avanzamenti della rivoluzione mondiale. Hernán Díaz Arrieta divise il mondo tra divisi e Díaz Arrieta. È perso perché noi divisi siamo più numerosi e migliori dei Díaz Arrieta.

IL CULTO A LA PERSONALITÀ IN CINESE

A me sembra che la Cina derivi i suoi errori e la sua politica violenta, interna ed esterna, da una sola fonte: del culto della personalità, interna ed esterna. Noi che che abbiamo visitato la Cina vedemmo ripetere lì il caso di Stalin. Ogni taccia, ogni porta, ha un ritratto di Mao Tse-tung. Mao Tse-tung si trasformò in un Buddha vivente, separato del popolo da una corte di bonzi che interpretano alla sua maniera il marxismo e la storia contemporanea. I contadini si vedevano obbligati a dare un consenso, una genuflessione davanti al ritratto del leader. Recentemente il camerata Chou En Lai, si congratulò pubblicamente con un giovane cinese perché si era sterilizzato volontariamente per servire alla Repubblica cinese.
    Dice il cablogramma di Pechino:

    Un contadino cinese che si era fatto sterilizzare per potere consacrare tutte le sue energie alla costruzione del socialismo in Cina, fu calorosamente congratulato in pubblico da Chou En Lai, narra il quindicinale Gioventù Comunista, organo della Lega di Giovani Comunisti nel suo numero del 10 settembre.
    Questo evento ha dato a tutto il mondo un eccellente esempio in quanto fu il marito che prese l'iniziativa. Questo esempio dovrebbe suscitare un gran esempio di emulazione, dichiarò Chou En Lai.

    Se pensiamo al pensiero naturale che se il padre del camerata Chou En Lai avesse avuto questa idea, Chou En Lai non esisterebbe. È questo comunismo? È piuttosto un'adorazione religiosa, ridicola, superstiziosa, inaccettabile.
    Compagni: ogni ferrovia, ogni ponte, edificio ogni, ogni aeroplano, ogni carabina, ogni strada moderna, ogni cooperativa agricola, fu strutturata nella Cina Popolare dagli ingegneri e dai tecnici sovietici. Quando stetti lì e passai alcuni giorni in un stabilimento balneare sul mare Giallo, in un solo hotel di quello stabilimento balneare riposavano due mila tecnici sovietici, generosamente prestati dallo Stato socialista.
    Questo Stato i dirigenti cinesi accusano di non aiutare le crescenti forze del socialismo. Quelli che tutto devono accusano chi gli diede tutto.
    Questi dirigenti inviano lettere a tutti gli intellettuali dell'America Latina incitandoli a collaborare nella divisione del mondo socialista. Questo incitamento può indurre a molti equivoci e può contribuire a debilitare i fronti nazionali di liberazione.

CINA E DUE CASI TRAGICI

Ma il culto della personalità arriva in Cina agli stessi tragici passi del passato. Solo parlando di quelli che conosco tra i miei compagni scrittori cinesi vado a raccontare che la prima figura del romanzo cinese, premio Lenin, ex presidente dell'Unione di Scrittori Cinesi, Tieng Lin è scomparso. Primo fu condannata a lavare piatti e dormire per terra in una comune popolare di lontani contadini. Quindi non sapemmo più nulla di lei. Io la conobbi moltissimo, dato che ella fu presidentessa della commissione designata dal Ministero della Cultura per ricevermi quando viaggiai a Pechino a consegnare il premio della Pace a Sun Chi Lin, Mme. Sun Yat Sen. Perché la condannarono? Trovarono che 25 anni fa aveva avuto amori con un sostenitore di Chiang Kai-shek. Sì, era la verità, ma non dicevano che la grande scrittrice, col suo bambino in braccio, scalza e con una carabina alla spalla, fece tutta la gran marcia da Yenán fino a Nankin coi guerriglieri del Partito Comunista cinese.
    Ed al poeta Al Chin, quello che tutti i cileni conobbero, il migliore poeta della Cina, vecchio comunista, che visitò il Cile con occasione dei miei 50 anni, dove sta? Accusato di conservatorimo perché conosce la lingua francese, e per altre accuse ridicole, è stato confinato nel deserto di Gobi, ad un'altezza inumana, ed è stato obbligato a firmare i suoi poemi con un altro nome. Cioè, è stato fucilato moralmente.
    Il dirigente cinese che mi dava questa informazione sorrideva con sorriso gelato.
    Io non sorrido, compagni. Credo che il Partito Comunista della Cina riparerà questi errori nel futuro. Credo che la causa mondiale del socialismo conterà domani sull'efficacia, l'intelligenza, il dinamismo e la bontà che le tornerà a dare la Repubblica Popolare della Cina. Ma, perché attraversare questa tappa di disorientamento, di divisione, di persecuzione?
    Se è verità che questi avvenimenti ci feriscono nel più profondo, abbiamo il dovere di rivelarli affinché non si diffonda negli intellettuali e nel paese la menzogna, condotta da una propaganda che piace ai nostri nemici.
    I comunisti non accettiamo il terrore. Sotto il governo oppressivo del culto alla personalità si deformano tutte le idee e la dura oppressione fa confuse e tenebrose le idee che nacquero specificatamente per porre termine con la confusione e con le tenebre.

NON COMPRENDERANNO LA LEZIONE DELLA STORIA

Nel terreno internazionale il nostro partito, con l'immensa maggioranza dei partiti comunisti del mondo, sta al fianco dell'Unione Sovietica, della sua sorprendente missione di pace, che è riuscito ad ammanettare gli imperialisti che ci guidavano verso la guerra atomica. Sta al fianco dell'Unione Sovietica i cui successi, il cui dinamismo, la cui energia, la cui libertà, la cui serenità, sono la fonte inesauribile di tutti i movimenti popolari. Quelli che non vogliano imparare gli insegnamenti dati per 45 anni dalla Rivoluzione più grandiosa, non comprenderanno la lezione stessa della storia.
    Solo tre mesi fa un gruppo di giovani mi chiese una pagina in omaggio ad un guerrigliero morto in un paese vicino. Questo ragazzo di 21 anni, luminosa personalità della poesia e della gioventù politica del suo paese, si lanciò alle montagne a fare solo la sua rivoluzione. Dopo due mesi di solitario eroismo la polizia spietata di quel paese lo trovò seminudo ed affamato, che conduceva da solo una piroga in mezzo alla corrente del fiume tropicale. Benché non portasse oramai nessuna arma lo crivellarono lungamente, con raffiche di mitragliatrice, anche dopo che il cadavere del valoroso ragazzo si era già dissanguato e andava l'imbarcazione alla deriva.
    Io inviai il mio omaggio che si lesse senza dubbio davanti ai suoi amici, davanti alla gioventù di quel paese che perdeva con lui un giovane capitano del futuro. Ma io scrissi il mio omaggio con dolore e con ira. Dolore per quello che noi tutti perdiamo. Ira per quelli che lo assassinarono e anche contro quelli che non incanalarono in tempo la sua azione, affinché dirigesse la sua disubbidienza per la strada giusta.
    Il partito di Luis Emilio Recabarren sostiene una lotta, una delle più eroiche lotte. Né la repressione infame, né i tentativi divisionisti, né l'aventurerismo senza principi né il destrismo conciliatorio, sono riusciti a diminuire la grandezza del nostro partito. Ma non siamo sperperatori del sangue del paese. In tutti i terreni ci troverà il nemico. Ci troverà organizzati, uniti e conoscitori della portata e l'opportunità della nostra azione. In questo momento segnaliamo come giusto il cammino di riunire tutte le volontà intorno alla vittoria popolare del 1964. Chi non sta con Allende non sta col paese. Chi tenti di dividerci e di separarci in questo momento cruciale dalla storia è perché vuole ostacolare la liberazione del Cile.

CONTRO I REAZIONARI INTERNI E GLI IMPERIALISTI ESTERNI

Noi comunisti alziamo la bandiera dell'unità, della liberazione, contro i nostri veri nemici: i reazionari interni e gli imperialisti esterni.
    Coscienti, attivi ed organizzati, appoggiandoci alle chiare lezioni del passato e nello splendore futuro dell'umanità, daremo al Cile la vittoria che si merita il nostro paese maltrattato e meraviglioso. In nome di tali possibilità, delle lotte antiche, prossime e future, a nome della gloriosa e poderosa primavera del mondo, finisco chiedendo a quelli che non appartengano alle nostre file che entrino nel Partito Comunista del Cile. Vogliamo nuovi compagni, saremo ogni giorno più grandi, saremo grandi come grande è il destino dell'uomo: vivere pienamente nella pienezza della giustizia, della pace e della creazione.
    Ho finito, cari compagni di ieri, di oggi, di sempre.

Discorso nel Parque Bustamante di Santiago, 29.9.1963,
edito in
El Siglo, Santiago, 30.9.1963,


Chi ammazzò Kennedy?

La moltitudine precipitandosi e spingendosi da qui a là, la notte, gli ululati, i pallidi visi, molta gente spaventata che tentava invano di uscire di lì, l'uomo attaccato, ancora non liberato delle mandibole della morte, già somigliante ad un cadavere, tutto questo, faceva da scenario alla grande tragedia dell'assassinio. Booth, l'assassino, vestito di nero, senza cappello, dai capelli nerissimi ed occhi di animale impazzito, lampeggianti risoluzione ha in una mano un largo coltello, si volge verso l'assemblea mostrando il suo viso di bellezza statuaria, illuminato da quegli occhi di basilisco che brillavano con disperazione e pazzia. Allora, con ferma e forte voce dice le parole SIC SEMPER TYRANNIS e poi sparisce con passi né rapidi né lenti. Non sembra che tutta questa scena terribile fosse stata provata prima dall'assassino?

    Con queste parole Walt Whitman descrisse il 14 di aprile del 1879 a Filadelfia la morte violenta del grande presidente Abraham Lincoln. Il gran poeta era giornalista e stava lì, nel teatro, quando per la prima volta fu assassinato un presidente nordamericano. John Kennedy è il quarto presidente che cade distrutto quasi dalle stesse oscure correnti della storia, da furiose forze regressive.
    Ma è corsa molta acqua sotto i ponti, da allora, e si vedono chiaramente le differenze in queste azioni sinistre. Si notano anche alcune somiglianze. La differenza è che il nemico di Lincoln si dirige verso la moltitudine e l'affronta, dicendo quello che crede la sua ragione. Adesso fu tutto premeditatamente confuso.
    Si potrebbe dire che la stessa mano fece cadere insanguinati i due presidenti attraverso il tempo. Ma nel caso di Lincoln la mano si vide e nel caso di Kennedy la mano fu occultata.
    Ma c'è anche somiglianza. Come dice Walt Whitman, in quello storico magnicidio c'è qualcosa di artificiale: egli lo dice "come se fosse stato provato il dramma terribile."
    Non c’è oramai dubbio per nessuno. L'assassinio del presidente Kennedy che ha ferito l'umanità intera, fu pensato, progettato e provato. Dallas ha la triste specialità della violenza. Lì si fabbricano e prefabbricano crimini. Il giornalista Juan Ehrmann ci dice, nell'ultimo numero della rivista Ercilla che nella città di Dallas, nel 1959, furono assassinate 1.094 persone e nel 1960, 1.080. Di quelle 1.080, solo circa 5 furono giustiziati per la via legale. Nella città di Dallas, con approssimativamente mezzo milione di abitanti, si assassina annualmente più gente che in Inghilterra, con 45 milioni. Fino a qui il giornalista.
    Dallas è, inoltre, notoria per il suo razzismo, per la feroce persecuzione antioperaia, per il suo spirito reazionario e per la sua corrotta polizia.
    In questo mattatoio portarono il giovane, sorridente e luminoso ragazzo, che, benché suprema autorità del suo paese, era negato ed apostrofato nella città dove lo portarono a morire. Affinché non sbagliassero le pallottole degli assassini, gli addetti di custodirlo non collocarono la copertura plastica protettrice dell'automobile in cui viaggiava. Perché fu dimenticata, in questa unica città, questa elementare precauzione?
    Il maggiore dell'esercito in pensione, Eugene Lee, che vive a San Francisco, ricevè una lettera prima dell'attentato, scritta per un parente di lui che risiede a Dallas il cui nome non vuole rivelare, naturalmente, per non mettere la sua vita in pericolo. La lettera, pubblicata dalla stampa nordamericana, dice la cosa seguente:
    "Siamo preoccupati per il presidente Kennedy, quando arriverà qui domani. Lo odiano alcuni estremisti che sono capaci di tutto". La lettera aggiungeva, riferendosi alla propaganda contro Kennedy: "Ci sono cartelli nella città che lo qualificano traditore. Subiamo lavaggio del cervello dai nostri giornali che attaccano giornalmente Washington, come se si trattasse di una sinistra potenza straniera. Credo che Kennedy sta qui in maggiore pericolo che quando viaggiava per tutta l'Europa".
    Un altro documento: "L'odio degli estremisti di destra di Dallas contro il presidente Kennedy era tanto grande che il 20 di novembre - due giorni prima dell'assassinio - un studente di diciotto anni, di Dallas, scrisse a sua madre che temeva che Kennedy fosse assassinato se veniva a Dallas". La lettera dallo studente la pubblicò il Quote Registers Unquote, giornale di New Haven, Connecticut, il 23 di quel mese.
    Leggevamo solo ieri nella stampa il seguente dispaccio: "Il pastore protestante di Dallas, William Holmes, rivelò per televisione che gli alunni di una scuola pubblica applaudirono quando fu data loro la notizia dell'assassinio di Kennedy. La polizia protegge ora la residenza del pastore perché immediatamente ricevè anonime minacce di morte. Le dichiarazioni di Holmes furono confermate dalla maestra elementare Joanna Morgan, che disse che anche i suoi alunni avevano applaudito la notizia. Holmes, parlando alla televisione, delimitò con sensatezza: "Gli alunni che applaudirono erano troppo giovani per odiare in tale forma e riflettevano solo i punti di vista dei loro genitori".
    Questo vuol dire che il seme dell'odio continua a germinare a Dallas. Non è bastato il crimine, né il dolore universale. Non è bastato che le forze tenebrose continuino ad occultare i veri autori. Non è bastato neanche l'assassinio di un presunto colpevole o di un presunto innocente. Quello, oltre a responsabilizzarlo, trovandosi a 6 chilometri di distanza dell'evento, gli furono aggiunte attività politiche. La mascherata sanguinante comprendeva di attribuire l'assassinio ad un castrista, ad un comunista, ad uno di sinistra, insomma.
    I veri colpevole acquistarono, preventivamente, un fucile per corrispondenza, attribuendo l'acquisto a quello che avrebbero designato come assassino. Dopo, in qualche modo, lo ritrassero con un fucile simile. Ma, questo uomo mai si riconobbe colpevole. Quelli che fabbricarono le prove, non poterono fabbricare l'uomo.
    Hitler, quando incendiò il Reichstag, victimizó al debole mentale Van der Lubbe. Lo drogarono ed in stato di annichilimento totale lo condannarono nei tribunali dove i nazisti furono sconfitti per il gigante Dimitrov. Tutto il mondo ricorda come i reazionari tedeschi forgiarono pezzo a pezzo quell'incendio per scatenare la crudeltà e la guerra sull’Europa ed il mondo.
    I veri colpevole della morte del presidente Kennedy non sono stati ancora smascherati. Ma hanno camminato più di fretta che i nazisti. Eliminarono con velocità il presunto colpevole, prima che arrivasse ad essere sottoposto al giudizio. Questo giudizio risultava pericoloso perché sicuramente questo uomo non era quello che conveniva loro per mantenere la farsa.
    Il mondo intero ha visto, stupefatto ed indignato, l'atroce fotografia del nuovo assassinio. Due poliziotti, imperterriti, sottomettono fermamente l'accusato affinché l'amico della polizia gli spari. Si vede la smorfia di dolore di chi non potrà mai più parlare e si vede la rivoltella di chi, fino ad ieri, riceveva le autorità del Texas nel suo cabaret di strip-tease.
    Nel frattempo, il cablogramma ci porta opinioni, come quella dell'esperto di Vienna, campione balistico di tiro con carabina, Huber Hammerer, che dicono che "è inverosimile che un tiratore equipaggiato con una carabina a ripetizione con teleobiettivo possa fare centro tre volte di seguito quando spara contro un obiettivo che si muove ad una distanza di 180 metri ed una velocità di 15 chilometri all’ora".
    Volodia Teitelboim, nel suo discorso del 28 di novembre, nella Camera di Deputati del Cile, disse, tra altre verità meravigliosamente espresse: "Kennedy  ebbe una vita chiara ed una morte oscura".
    Ma, la morte oscura di un uomo eminente tra tutti, non può essere inaccettabile in questa ora del mondo.
    Il vero omaggio alla vita di Kennedy sarà il chiarimento di questa oscurità che ha avvolto la sua morte.
    Non può accettare la coscienza del mondo attuale fatti tanto deliberatamente tenebrosi.
    Il signor Kennedy cercò di vincere i furibondi segregazionisti del sud degli Stati Uniti. Il signor Kennedy cercò di diminuire i giganteschi presupposti di guerra. Egli è caduto, senza dubbio, in quella battaglia. E benché fosse solo per quel motivo, meriterebbe la medaglia del gran ricordo, la medaglia del soldato che difese l'integrità e la verità.
    Ma, questo giovane governante comprese molto presto, per i colpi che gli assestò la storia contemporanea, che esiste un mondo che produce, crede e si moltiplica sotto altre leggi che quelle del capitalismo che egli difese come capo del suo gran paese. Egli giunse alla conclusione che la comprensione umana è fondamentale. Sostenendo tesi completamente contrarie al marxismo, imparò a rispettare l'immensa umanità socialista. I suoi nemici interni, che riconobbero prima che nessuno i cambiamenti a cui la sua esperienza portava, compresero che il presidente Kennedy camminava direttamente nel senso della comprensione e della pace, e non sopportarono questo cambiamento. Essi avrebbero sostenuto un aggressivo capitalista, sempre di più dipendente del Pentagono, sempre di più lontano della necessaria coesistenza dei paesi.
Per questo motivo fu eliminato. Il senatore Luis Corvalán lo disse in una sola frase: "Kennedy fu ucciso dai discendenti degli assassini di Lincoln".
    Ma questi discendenti feroci devono essere cercati e confrontati con la verità. Ci rifiutiamo di credere che una confabulazione di politici reazionari, di poliziotti e di gangsters, possa cancellare tutte le tracce, possa ostacolare il chiarimento di un fatto che tormenta e svergogna tutta l'umanità. Ci rifiutiamo di credere che la polizia di Dallas sia più forte della coscienza universale che chiede la punizione per i colpevoli.
    È stato costante nella lunga storia del pensiero e del progresso che quelli che vogliono fermare la marcia del pensiero e del progresso, cerchino di attribuire i loro propri delitti a quelli che rappresentano e difendono lo sviluppo storico e lottano per il rinnovamento dei sistemi che invecchiano. Molte volte la falsificazione dei fatti è passata come verità: chi la perpetrava ha gettato la colpa sulla spalla delle sue vittime e le vittime, non i criminali, arrivarono al calvario. Così accadde nei tribunali nordamericani con Sacco ed Vanzetti.
    Ma, questa volta, il mondo non si è divorato la menzogna, né sembra avere accettato la menzogna. Solo alcuni uomini mediocri e rancorosi, nel nostro paese, hanno preteso di ottenere vantaggi politici basati sulla confabulazione e sul sangue di Dallas. Tali ricorsi subalterne sono un insultoi per la grande tragedia che ha commosso il mondo e rivelano solo la meschinità di certi insensati.
L’importante è che questo crimine non fermi il corso delle migliori cause dell'umanità. Che continui il governo degli Stati Uniti a sostenere l'integrazione razziale, che finiscano le minacce contro la rivoluzione e l'indipendenza di Cuba, che progredisca l'accordo di sospensione degli esperimenti nucleari, fino ad eliminare totalmente il pericolo di una guerra atomica, che non si protegga la violenza e l'illegalità esistenti in Paraguay, Ecuador, Nicaragua, Honduras, Santo Domingo.
E che la convivenza pacifica tra i popoli che è favorita dall'Unione Sovietica e dalle nazioni socialiste sia tenuta di conto come l'unica strada per la fecondità e felicità del mondo in cui viviamo.

Testo di una dichiarazione diffusa per radio
e pubblicata in
El Siglo, Santiago, 1.12.1963.


II
TESTI DI AMORE E DI AMICIZIA

Un globo per Matilde

Un anno in più per la razza umana,
per la strada Prat, per mia zia,
un anno in più per La Sebastiana,
per dire "addio" o "ancora".

Un anno in più, picchiato per settimane
da Dio, il cardinale e la compagnia,
un anno in più, Patoja sovrana,
per la tua deficiente ortografia.

Ma non pe te, mio ben amata:
mi dai la luce e sei illuminata:
non ha un giorno in più il tuo mezzogiorno.

E benché perfino le stelle impallidiscono
con questo amore, gli anni non invecchiano;
hai un anno meno, anima mia.

Sonetto scritto in La Sebastiana. Valparaíso, 3.5.1963
(51° compleanno di Matilde) e stampato in fogli volanti da una
anonima stamperia di Valparaíso. Raccolto in FDV.p.58.


Prologo per Manuel Balbontín

Manuel Balbontín si dedica in questo libro, con amore e pazienza, a ricostruire un lampo. Il gran fulgore di corsa attraversò la notte coloniale, il suo passo lasciò la patria costellata per sempre.
    L'autore di questo racconto ci rivela con passione minuziosa gli avvenimenti, la composizione, lo sviluppo e lo spazio del dramma che continua a commuovere. Onore a quelli che come lui, lavorano ristabilendo la luce!

     Maggio, 1963

Prologo a Manuel  G. Balbontín M,
Epopeya
de los hússares, Santiago, Orbe, 1963.


Corona di inverno per Nazim Hikmet

               Perché sei morto, Nazim? Ed ora che cosa faremo senza i tuoi canti? Dove troveremo la fonte? Dove      starà il tuo gran sorriso, aspettandoci?
Che cosa facciamo senza la tua posizione, senza la tua tenerezza inflessibile?
Dove
trovare altri occhi che come quelli tuoi contengano il fuoco e l'acqua
della verità che esige, dell'angoscia che piange e dell'allegria coraggiosa?
Fratello, mi insegnasti tante cose che se le sfogliassi
nell'amaro vento del mare, a piene mani,
forse andrebbero via e cadrebbero come la neve là lontano,
nella terra che scegliesti nella vita, che ora ti accoglie
anche nella morte.
Un ramo di crisantemi dell'inverno del Cile,
la luna fredda del mese di giugno dei Mari del Sud
e qualcosa più: il combattimento dei popoli, del mio,
ed il raddoppio spento di un tamburo di lutto nella tua patria.
Fratello mio, soldato, quanto solitaria è la terra
per me d'ora in poi
senza il tuo viso che fioriva come un ciliegio
d’oro,
senza la tua amicizia che fu pane della mia bocca,
acqua della mia sete, forza per il mio sangue!
Dalle tue prigioni che furono come pozzi ombrosi,
pozzi della crudeltà, dell'errore e del dolore
ti vidi arrivare e spiai nelle tue mani l'orma
della punizione, nei tuoi occhi cercai la spina dell'odio,
ma quello che portavi era il tuo cuore raggiante,
il tuo cuore ferito portava solo luce.
Ed ora?, mi domando. Lasciami vedere, pensare,
immaginare il mondo senza il fiore che gli davi.
Immaginare la lotta senza che tu mi dimostri
la chiarezza del popolo e l'onore del poeta.
Grazie per quello che fosti e per il fuoco
che la tua canzone lasciò sempre per acceso.

Poema datato 8.5.1963, scritto in
memoria del poeta turco ed amico,
pubblicato in
El Siglo, Santiago, 9.6.1963


Addio a Zoilo Escobar
DESPEDIDA A ZOILO ESCOBAR. (Pagine 1178-1179.) Sullo stesso poeta, rimando alle pagine che Neruda gli dedica nelle sue memorie: "El vagabundo de Valparaíso", in CHV *, capitolo 3, pp. 81-92.

Ha smesso di battere il cuore più puro di Valparaíso. Come a tutti gli uomini, apriremo la terra che conserverà il suo corpo, ma questa terra sarà la terra che egli amò, terra delle colline del porto che egli cantò. Riposerà di fronte all'oceano le cui onde e venti fecero palpitare la sua poesia, come le vele di un vecchio vascello. Nessuna parola potrà coprire la sua assenza e, forse, qui non dovrei parlare io in questa ora per dirgli addio e rendergli omaggio, bensì la voce del mare, del mare di Valparaíso.
    Zoilo fu un poeta del popolo, uscito del popolo stesso, e conservò sempre quella stampa di cantore antico, di uccello marino. Quella picaresca allegria che brillava nei suoi occhi era una birichinata di minatore, di pescatore. Le rughe del suo viso erano solchi della terra cilena, la sua poesia era una chitarra del Cile.
    Due parole torneranno sempre quando si tenta di ricordare questa vita. Queste parole sono la purezza e la povertà. Zoilo Escobar fu puro di solennità e povero con allegria. Ma in questo luogo dell'abbraccio finale dobbiamo lasciare stabilito che non accetteremo i poeti che vogliano giocare con queste due parole, tergiversando la sua vita di sognatore. Molti vorranno confondere la sua purezza con la sua povertà per giustificare l'abbandono del popolo. Non vogliamo la povertà né nei poeti né nei popoli, ed in questo Zoilo Escobar fu come come ogni vero poeta, un rivoluzionario. Fratello di Pezoa Véliz, la sua poesia si tinge di rosso al principio del secolo. Erano tempi anarchici in cui Baldomero Lillo creava il primo romanzo realista sociale del continente. Zoilo Escobar accompagnò l'evoluzione del mondo e cantò col suo stile fiorito le vittorie del socialismo nel mondo nascente.
    Che posto occuperà Zoilo Escobar nella vita letteraria del nostro paese? Inutile domanda a cui nessuno può rispondere, né nessuno deve rispondere, ee non il vento dell'oceano. Non passò la sua vita difendendo a morsi il suo nome nel Parnaso. Invece, ci diede a tutti, da quando molto giovani lo conoscemmo, una lezione giornaliera di fraternità, di amicizia, di amore verso la vita, ci diede, dunque, una lunga lezione di poesia.
    Questa insigne tenerezza sarà per me un perpetuo ricordo. Molti poeti che sparirono già godettero della bontà di nostro fratello maggiore, più antico nella bontà e nella poesia che noi. Sarebbe molto onore per me se quelli che già tacquero per sempre parlassero per la mia voce accomiatansosi da lui, ora che anche egli ha taciuto.
    Io gli porto da Isla Negra questi rami di aromo. Esse fiorirono di fronte al vento del mare, come i suoi sogni e la sua poesia.

Valparaíso, 1963

PNN,pp. 111-112.


RLV

Quasi negli stessi giorni dell'anno 1921 in cui io arrivavo a Santiago del Cile dal mio popolo, moriva in Messico il poeta Ramón López Velarde, poeta essenziale e supremo delle nostre ampie Americhe. Ovviamente io non seppi né che moriva né che fosse esistito. Allora ed adesso ci riempivamo la testa con l’ultimo che arrivava da oltre atlantico: molto di quello che leggevamo passò come fumo o vapore per il nostro carnivoro appetito, altre rivelazioni ci abbagliarono e col tempo sostennero la loro fermezza. Ma non si pensò di domandare niente al Messico. Niente più che l'eco delle sue rivoluzioni ci svegliava ancora con la sua esplosione. Non conoscevamo il singolare, il fiorito di quella terra sanguinante,
    Moltissimi anni dopo mi toccò affittare la vecchia villa dei López Velarde, in Coyoacán, sulle rive del Distretto Federale del Messico. Qualcuno dei miei amici ricorderà quell'immensa casa, complesso in cui tutti i saloni erano invasi da scorpioni, si staccavano le travi attaccate da efficaci insetti ed affondavano le tavole dei piani come se si camminasse per una selva inumidita. Riuscii a rendere abitabili due o tre stanze e lì mi misi a vivere in piena atmosfera di López Velarde, la cui poesia cominciò ad trapassarmi.
    La casa spettrale conservava ancora un retaggio dell'antico parco, colossali palme ed ahuehuete, una piscina barocca, i cui resti fracassati non permettevano più acqua che quella della luna, e dappertutto statue di naiadi dell'anno 1910. Vagando per il giardino ci si trovava in posti inaspettati, guardando da dentro ad un chiosco che i rampicanti invadevano, o, semplicemente, come se andassimo con elegante passo verso la vecchia piscina senza acqua, a prendere il sole sulle sue rocce di muratura.
Allora sentii con ansietà non essere arrivato in tempo nella vita per avere conosciuto il poeta. Non so perchè mi sembra che l'avessi aiutato io a vivere, non so quando mai, quell'ombra che impregnava ancora gli ahuehuete. E andai anche decifrando la sua breve scrittura, le scarse pagine che scriveve nella sua breve vita e che fino ad ora,come molto poche, risplendono.
    Non c'è poesia più distillata che la sua poesia. È andato di alambicco in alambicco distillando la goccia giusta di alcool di zagara, si è riposato in minuti matracci fino ad arrivare ad essere la perfezione della fragranza. È tale la sua indipendenza che rimane lì addormentata, come in un fiasco azzurro di farmacia, avvolta nella sua tranquillità e nel suo oblio. Ma al minore contatto sentiamo che continua intatta, attraverso gli anni, questa energia voltaica. E sentiamo che ci attraversò il bersaglio del cuore l'ineffabile mira di una freccia che portava nel suo volo l'aroma dei gelsomini che anche attraversò.
    Deve sapersi, ugualmente, che questa poesia è commestibile, come torrone o marzapane, o dolci di villaggio, preparati con misteriosa accuratezza e la cui delizia scricchiola nei nostri denti golosi. Nessuna poesia ebbe prima o dopo tanta dolcezza, né fu tanto impastata con farine celestiali.
    Ma sotto questa fragilità ci sono acqua e pietra eterna. Attenzione a non sbagliarsi. Attenzione a non supervalutare questo adornamento e questa squisita esattezza. Pochi poeti con tanto brevi parole ci hanno detto tanto, e tanto eternamente, della loro propria terra. Anche López Velarde fa storia.
    Per quel tempo, quando Ramón López Velarde cantava e moriva, trepidava la vecchia terra. Galoppavano i centauri per imporre il pane agli affamati. Il petrolio attraeva i freddi filibustieri del Nord. Il Messico fu rubato e mozzato. Ma non fu vinto.
    Il poeta lasciò queste attestazioni. Si vedranno nella sua opera come si vedono controluce le vene della pelle, senza tratti eccessivi: ma lì stanno. Sono la protesta del patriota che volle solo cantare. Ma questo poeta civile, quasi surrettizio, con le sue due o tre note del piano, con le sue due o tre lacrime vere, col suo purissimo patriottismo, completa così la statua dal cantore incancellabile.
    È anche il più provinciale dei poeti, e conserva fino a nell'ultimo dei suoi versi incompiuti il silenzio, la patina di giardino nascosto di quelle case con muri bianchi di mattone crudo dalle quali emergono solo appuntite cime di albero. Da lì viene anche il liquido erotismo dalla sua poesia che circola in tutta la sua opera come sotterrata, avvolta dalla lunga estate, dalla castità diretta al peccato, per i letargici abbandoni di alcove dal soffitto alto in cui qualche insetto sonoro interrompe con le sue elitre il riposo del sognatore.
    Seppi che dieci secoli fa, tra una guerra ed un'altra, i custodi della Corona Reale di una monarchia ora defunta, lasciarono cadere l'Oggetto Prezioso e rimase per sempre storta l'antica croce della Corona. Molto saggi, i vecchi re conservarono la croce storta sulla Corona folgorante di pietre preziose. E così non solo proseguì custodita, ma la croce storta passò ai blasoni e le bandiere: cioè, si fece stile.
    In qualche modo mi ricorda questo antico episodio il modo poetico di López Velarde. Come se qualche volta avesse visto la scena di sbieco ed avesse conservato fedelmente una visione obliqua, una luce storta che dà a tutta la sua creazione tale inaspettata chiarezza.
    Nella gran trilogia del modernismo è Ramón López Velarde il maestro finale, quello che mette il punto senza virgola. Un'epoca rumorosa è finita. I suoi grandi fratelli, l'abbondante Rubén Darío ed il lunatico Herrera y Reissig, hanno aperto le porte di un’America antiquata, hanno fatto circolare l'aria aperta, hanno riempito di cigni i parchi municipali, e di impaziente saggezza, tristezza, rimorso, pazzia ed intelligenza gli album delle signorine, album che da allora esplosero con quel carico pericoloso nei saloni.
    Ma questa rivoluzione non è completa, se non consideriamo questo arcangelo finale che diede alla poesia americana un sapore ed una fragranza che durerà per sempre. Le sue brevi pagine raggiungono, in qualche modo sottile, l'eternità della poesia.

Isla Negra, agosto 1963

Prologo alla volume
Presencia de Ramón López
Velarde in Cile, che include poesie e prose dello
scrittore messicano selezionate da Pablo Neriida,
Santiago, Prensas de la Editorial Universitaria, 1963.


Alberto Sánchez ossuto e ferreo
ALBERTO SÁNCHEZ HUESUDO Y FÉRREO. (Pagine 1183-1187.) Allo scultore spagnolo Neruda dedicò anche altri testi compresi in questo stesso volume: "El escultor Alberto" del 1936 (pp. 385-386) e "Soneto a Alberto Sánchez de Toledo" del 1960 (pp. 1050-1051). Ed inoltre il poema IX ("Alberto el Toledano") del libro postumo Elegía (nel nostro OCGC, vol. III, p. 761).

La morte di Alberto Sánchez a Mosca non solo mi portò il subitaneo dolore di perdere un grande fratello, ma mi causò perplessità. Tutto il mondo, pensai, meno Alberto.
    Questo si spiega per l'opera e la persona che è stata per me il più straordinario scultore del nostro tempo.
    Poco dopo degli anni venti, i primi venti del nostro secolo, comincia Alberto a produrre la sua scultura ferruginosa con pietra e ferro. Ma anche egli stesso, col suo lungo corpo debole ed il suo viso secco in cui appariva lo scheletro audace e poderoso, era una scultura naturale della Castiglia. Era esternamente questo grande Alberto Sánchez intero e pietroso, ossuto e ferreo, come uno di quelli scheletri forgiati dalle intemperie castigliane, intagliatp al sole e freddo.
    Perciò la sua morte mi sembrò contraria alle leggi naturali. Era uno di quei prodotti duri della terra, un uomo minerale, conciato dalla sua nascita dalla natura. Mi sembrò sempre uno di quegli alberi altissimi della mia terra che si differenziano molto poco dal minerale andino. Era un albero Alberto Sánchez, e nell’alto aveva uccelli e parafulmini, ali per volare e magnetismo tempestuoso.
    Questo non voleva dire che il nostro gigantesco scultore fosse un uomo monolitico, lastricato all'interno. Nella sua gioventù fu, per mestiere, operaio panettiere e, in realtà, aveva un cuore di pane, di farina di grano rumoroso. Certamente in molte delle sue sculture, come fece notare Picasso, si vedeva il panettiere: allungava le masse e le torceva, dando loro un movimento, una forma, un ritmo di pane. Popolare, come quelle figure che si fanno nei paesi della Spagna con forme di animali ed uccelli. Ma non solo la panetteria si mostrava nella sua opera. Quando vidi per la prima volta in casa di Rafael Alberti, l'anno 1934, le sue sculture, compresi che lì stava un gran rivelatore della Spagna. Quelle opere di forma ardentemente libera avevano incrostati pezzi di ferro, rugosi ciottoli, ossa e chiodi che spuntavano nell'epidermide dei suoi strani animali. Pájaro de mi invención, ricordo che si chiamava uno dei suoi lavori. Lì brillavano questi frammenti strani, come se fossero parte della pelle irsuta della pianura. L'argilla o il cemento che formavano l'opera era rigata ed incrociata da linee e solchi come di seminagioni o visi campagnoli. E così, alla sua propria maniera, col suo stile singolare e grandioso ci dava l'immagine della sua terra che egli amò, comprese ed espresse come nessuno.
    Alberto veniva molte volte a casa mia a Madrid, prima che si sposasse con l'ammirevole e caro Clara Sancha. Questo castigliano doveva sposarsi con una donna chiara e sanchesca. E così succedè fino ad ora in che Clarita è rimasta senza Alberto e senza la Spagna.
    A quei tempi ed a Madrid, Alberto fece la sua prima esposizione. Solo un articolo compassionevole della critica ufficiale lo metteva nel retrobottega dell'incomprensione spagnola, nella quale, come in una cantina, si ammucchiavano tanti peccati. Per fortuna, Alberto aveva ferro e legno per sopportare quel disprezzo. Ma lo vidi impallidire e lo vidi anche piangere quando la borghesia di Madrid schernì la sua opera ed arrivò fino a sputare le sue sculture.
    Venne quel pomeriggio al mio domicilio nella Casa dai Fiori e mi trovò a letto, malato. Mi raccontò gli oltraggi che giornalmente facevano alla sua esposizione. Il suo realismo fondamentale, che va oltre le forme, la violenza della sua rivoluzione plastica, alla quale sembravano incorporarsi tutti gli elementi, cominciando dalla terra ed il fuoco, il colossale potere, il sorprendente volo della sua concezione monumentale, tutto questo lo portava verso una forma apparentemente astratta, ma che era fermamente reale. Le sue donne erano altre donne, le sue stelle, stelle differenti, i suoi uccelli erano uccelli che egli inventava. Ognuna delle sue opere era un piccolo pianeta che cercava la sua orbita nello spazio illimitato del nostro pensiero e del nostro sentimento e che entrava in essi svegliando presenze sconosciute.
    Creatore di favolosi oggetti che venivano formati misteriosamente, come le natura forma le vite, Alberto stava consegnandoci un mondo fatto dalle sue mani, mondo naturale e soprannaturale che io non solo compresi, ma mi aiutò a decifrare gli enigmi che ci circondano. Era naturale che la borghesia di Madrid reagisse violentemente contro di lui. Quelle genti indietro avevano codificato il realismo. La ripetizione di una forma, la brutta fotografia del sorriso e dei fiori, la limitazione ottusa che copia il tutto ed i dettagli, la morte dell'interpretazione, dell'immaginazione e della creazione erano la cima a cui era arrivata la cultura ufficiale dalla Spagna in quegli anni. Era naturale che il fascismo sorgesse lì vicino, inalberando anche le sue oscure limitazioni e le sue cornici di ferro per sottomettere l'uomo.
    Quella volta mi alzai del mio letto di malato e corremmo alla sala deserta dell'esposizione. Solo noi due, Alberto ed io. La smontiamo molti giorni prima che dovesse terminare. Di lì andammo in una taverna a bere aspro vino di Valdepeñas. Già girava la guerra per le strade. Quel vino amaro fu interrotto per alcuni esplosioni lontane. Presto arrivò la guerra intera, e tutto fu esplosione.
    Come contadino di Toledo, come panettiere e scultore, a fatica arrivò la guerra, Alberto diede tutto il suo sforzo e la sua passione alla battaglia antifascista. Chiamato dal suo grande amico, l'architetto Luis Lacasa, lo scultore Alberto con Picasso e con Miró fanno la trinità che decorò il padiglione della Spagna repubblicana del 1937 a Parigi. In quell'occasione vedemmo arrivare dalle mani di Picasso, appena uscita del suo forno incessante, un'opera maestra della pittura universale, il Guernica. Ma Picasso rimaneva lungo tempo distratto guardando all'entrata dell'esposizione una specie di obelisco, una presenza allungatissima, striata e rigata come un cactus della California e che nella sua verticalità mostrava il centrale tema che perseguì sempre il nostro gran Alberto: il viso rugoso e lunario della Castiglia. Quel Chisciotte senza braccia e senza occhi era il ritratto della Spagna. Alzato verticalmente verso il combattimento con tutto il suo secco potere.
    Giocandosi la fortuna con la sua patria, Alberto fu esiliato ed accolto a Mosca, e fino a questi giorni in che ci ha lasciato, lavorò lì con silenziosa profondità.
    Primo si immerse, durante l'acerbo ultimo tempo di Stalin, nel realismo. Non era il realismo della moda sovietica, di quelli giorni tormentati. Ma egli fece splendide scenografie. La sua presentazione del Balletto degli Uccelli è una gran opera, ineguagliata, trovando egli la magica bellezza vestimentale degli uccelli che tanto amò. Riuscì anche a consegnare al Teatro Gitano splendide visioni per le opere del teatro spagnolo. E quella voce che sorge nel film Don Chisciotte, cantando alcuni vecchie canzoni che danno gran nobiltà a questo film straordinario, è la voce di Alberto, che continuerà a cantare lì per noi, è voce della nostra Chisciotte che se ne è andato.
    Dipinse anche numerose opere. Non aveva mai dipinto all'olio in Spagna ed imparò a Mosca a farlo per completare il suo realismo. Si tratta di nature morte di gran purezza plastica, belle ed asciutte di materia, tenere nel suo apprezzamento degli umilissimi oggetti.
    Questo realismo zurbaranesco in cui invece di monaci pallidi lasciò Alberto dipinti con esaltazione mistiche reste di agli, bicchieri di legno, bottiglioni che brillano nella nostalgia della luce spagnola. Queste nature morte sono l’apice della pittura reale, e qualche volta il Museo del Prato li ambirà.
Ma ho detto che quell'epoca trovò Alberto appena arrivato di Mosca e ricevuto in pieno confraternita ed affetto. Da allora, amò appassionatamente l'Unione Sovietica. Lì visse gli infortuni della guerra e la felicità della vittoria. Tuttavia, come quei fiumi che si seppelliscono nella sabbia di un grande deserto per sorgere di nuovo e sboccare nell'oceano, solo dopo il XX Congresso, Alberto ritornò a suo vera, alla sua trascendente creazione.
    Lì rimangono nella sua officina del quartiere dell'Università di Mosca, dove viveva felice questi ultimi anni, lavorando e cantando, molte opere e molti progetti. Costituiscono il suo reincontro con la sua propria verità e col mondo che questo gran artista universale contribuì a creare. Un mondo in cui le più aspre materie si alzano verso l'altezza infinita per l’arte di uno straordinario spirito inventore. Le opere di Alberto Sánchez, severo e grandioso, nate dell'intensa comunicazione tra un uomo e la sua patria, creature dell'amore straordinario tra un grande essere umano ed una terra poderosa, rimarranno nella storia della cultura come monumenti eretti da una vita che si consumò cercando l'espressione più alta e più vera del nostro tempo.

Testo scritto in omaggio all'artista spagnolo
deceduto a Mosca il 12 ottobre 1963. Pubblicato
in
Realidad, organo dei comunisti spagnoli
nell'esilio, num. 1, Roma, settembre-ottobre 1963.


L'uomo più importante del mio paese
EL HOMBRE MÁS IMPORTANTE DE MI PAÍS. (Pagine 1187-1190.) L'affetto e l'ammirazione di Neruda verso il professore Lipschütz erano state già espresse in un articolo del 1944 compreso in questo volume (pp. 532-535).

L'uomo più importante del mio paese vive in una vecchia casa che affronta la grande cordigliera. Dal fondo del suo giardino normalmente siede a contemplare gli immensi muri di pietra innevata che c'isolano, facendo danno, e ci preservano, facendoci bene. Si vede molto fragile il mio amico, con lo sguardo sistemato nella colossale bianchezza, e la sua testa e la sua barba bianca sembrano un piccolo petalo caduto dalla grandezza della neve.
    Ma, benché nordico originario, ha poco o niente a che vedere questo grande uomo fragile con la neve. Piuttosto potrebbe cercarsi parentela col fuoco. Questo paragone sembrerebbe semplicista e, naturalmente, è solo la parziale somiglianza di un'anima tanto abbondante. Egli ha, in realtà, la condizione del fuoco quando distrugge e fa cenerini pregiudizi, ingiustizie e confabulazioni, per più antiche di esse siano. La ricerca, la punisce, la brucia, ne fa cener. In questo somiglia al fuoco, ha quella scoppiettante energia.
    Il fuoco è impaziente, divora senza continuità. Si allontana, ballando, della sua propria opera. Ma il nostro amico, nella sua vecchia casa di Los Guindos, non solo riduce a cenere la sciocchezza e la menzogna, ma stabilisce anche la verità cristallina costruendola con tutti i materiali della conoscenza. Sebbene è un impaziente nemico della falsità è anche il più testardo investigatore della ragione.
    Per me, il suo umile vicino delle prossimità della montagna innevata, paraggio nel quale conviviamo da molti anni, fu sempre la mia sorprendente ammirazione e la rivelazione successiva della grandezza e la bellezza. Pensiamo sempre noi bambini provinciali che i saggi avevano scarpe di bronzo, guanti di marmo, e pesante contesto di statue. I saggi, per noi i bambini tonti, avevano pensieri di pietra. E come tonti che eravamo crescemmo ammirando falsi saggi di pietra che accumularono pesanti e ripetuti pensieri. Il mio vicino mi diede la sorpresa dell'eterna scoperta, del continuo fiorire, dell'incessante curiosità, della giustiziera passione, della perpetua allegria della conoscenza.
    Ricordo una volta, ed era tardi, e dalle alte Ande erano cadute coprendo le nostre vicine stanze le tenebre fredde dell'inverno del Cile. Quello giorno io avevo visto il mio amico nel suo laboratorio ed avevo sopportato il tormento che mi mostrasse uno ad uno tumori e provette, cifre ormonali, lavagne piene di numeri: tutti gli elementi della sua lotta fruttifera col cancro che è, nei nostri giorni, la lotta contro il demonio. Non c'è dubbio che là stava come un arcangelo bianco combattendo con la sua spada incomprensibile contro le tenebre dell'organismo umano.
    All'improvviso suonò il telefono, nella notte. Era la sua voce che mi diceva, scusandosi con l'estrema cortesia che è lo scudo della sua nobile audacia: "Non posso, Pablo, resistere. Devo trasmettere questa meravigliosa poesia" e per quindici minuti, faticosamente, mi tradusse verso per verso, pagine e pagine di Lucrecio. La sua voce si alzava con l'entusiasmo. In realtà, la splendida essenza materialista mi sembrò flagrante, istantanea, come se dalla casa di Los Guindos la più antica saggezza e poesia illuminassero, nell'ombra della mia ignoranza, l'alba nucleare, il risveglio dell'atomo.
    Per poi mandarmi, poco dopo, versi burleschi e fiori del suo giardino che io retribuii anche con poesia e fiori, si appassionò per la recondita storia dell'America. Questo lottatore inespugnabile si preoccupa prontamente di Gonzalo Guerriero, marinaio di Palos, che si appassionò alla vita dei maya in piena guerra imperiale, come delle vecchie tribù araucane, della sua condizione e precarie protezioni legali. Ognuno dei suoi lavori non solo difende, accusa, è dundamento, ma propone tutte le norme della futura considerazione degli incrociati problemi indigeni e delle sue derivazioni filosofiche, razziali, sociali e politiche.
    E poetiche io direi. C'è tale intensità nel minuzioso progetto di tutte le sue tesi, proposte, schiarimenti e verità che ci comunica la sua generosità, che trema la terra, nonostante le sue misurate parole. Perché ognuna delle sue azioni ha radici indistruttibili. È il gran illuminatore marxista di regioni oscurate della nostra storia, oscurate dalla loquacità senza sostanza o dall'interessata viltà. Pertanto, le sue parole svegliano, come le rivelazioni poetiche, la contro onda del furore, la sterile schiuma reazionaria. Su quelle ondosità del passato, il nostro inestinguibile amico lavora a piena coscienza dandoci tanta luce che siamo ancora incapaci di misurarla.
    L'uomo più importante del Cile non comandò mai reggimenti, non esercitò mai un ministero, non comandò, ma fu comandato in un'università di provincia. Tuttavia, per la nostra coscienza, egli è un generale del pensiero, un ministro della creazione nazionale, il rettore dell'università del futuro.
    Il più universale dei cileni nacque lontano da queste terre, da queste genti, da queste cordigliere. Ma ci ha insegnato più che milioni di quelli che qui nacquero: ci ha insegnato non solo scienza universale, metodo sistematico, disciplina dell'intelligenza, devozione per la pace. Ci ha insegnato la verità della nostra origine mostrandoci la strada nazionale della coscienza. E la sua saggezza ci rivela che l'esattezza, la pienezza e la passione possono convivere con la giustizia e l'allegria.
    L'uomo più importante del mio paese in questi anni in cui scrivo è Don Alejandro Lipschütz, vicino de Los Guindos, sobborgo di Santiago del Cile. In questi giorni compie ottanta anni di vita e mi sento orgoglioso di lasciare qui questo debole ritratto scritto di un'anima ardente, di un saggio vero. Il mio orgoglio è, inoltre, dire qui che benché non ci vediamo quasi mai da quando io venni a vivere alla mia Isla Negra, continuiamo ad essere i semplici amici che si scambiano da casa a casa ritrovamenti nuovi, fiori e poesia.

Prologo ad Alejandro Lipschülz, El
problema racial en la conquista de
América y el mestizaje, Santiago, Ed. Austral, 1963


Saluuuuuto! Diego Muñoz
SALUUUUUD! A DIEGO MUÑOZ. (Pagine 1190-1191.) Informazioni di gran interesse su alcuni aspetti della vita santiaghena del giovane Neruda nel libro postumo del suo amico Diego Muñoz: Memorias. Recuerdos de la bohemia nerudiana, Santiago, Mosquito Editores, 1999.

I due piccoli libri più affascinanti della nostra letteratura sono, sicuramente, La amortajada di María Luisa Bombal e De repente di Diego Muñoz.
    Sono lontani uno dell'altro come due poli. L'uno è polarmente sognatore, l'altro è antarticamente reale. Ma in ambedue può viversi e sognare, essere e smettere di essere. I due sono una caduta, una cascata, un abisso nel cui fondo cadremo con gli occhi chiusi per trovarci con noi stessi.
    Queste pagine sono la cronologia di settimane, di quartieri della città, di gruppi umani che oramai non esistono. Io comprendo che questo libro magico abbia contribuito a distruggerli. Tanto essenziale mi sembra lo sconquassamento che regna in lui come protagonista profondo. I suoi segni rapidi, i suoi giorni cabalistici, ci sono dimostrati atti inutili, lente dissoluzioni, conversazioni perdute.
    Ma io conobbi quell'epoca, quei vicoli e la luce che riverberando dalle mani di Diego illumina queste vite come una lampada sottomarina. Io toccai queste vite, e non diedi loro importanza. Solo l'infinita poesia con cui lo scrittore me li rivelava che mi fece comprendere che non tutti possono vedere il tesoro passivo. Bisogna sviscerarlo e dargli il suo vero colore di cenere. In questa maniera Diego Muñoz produsse questo splendido fiore cresciuto nei sobborghi del mio tempo.
    Pubblicato nel mese di ottobre del 1933, questo è stato il più inosservato dei libri. Critici e criticoni della disimpenata letteratura pubblicano con efficienza grandi e funesti cataloghi in cui appaiono, bene o male giudicati, quelli che ci raccontano la vita, la terra, il tempo e la morte di quanto ci circonda. Ma nessuno nominò questo piccolissimo libro che a me sembra gigantesco.
    Ho la preoccupazione che mi prendano per uomo di parte. In ogni caso non fui dalla parte dell'ingiustizia, né accettai posto alcuno nell'esercito negativo degli invidiosi. Il bello è amare ed ammirare e tanto quanto amo il mio compagno fraterno, Diego Muñoz, per tanta vita e percorsi che facemmo insieme con allegria, ammiro questa opera singolare, singolare anche tra tutto quello che ha fatto.
    Che cosa possono importare a queste pagine alcuni anni di proscrizione, alcuni guerre della dimenticanza? Non c'è dubbio che usciranno invincibili dalla loro sepoltura, con tre stelle nella fronte. Ed occuperanno con calma il posto preferito, perché il tempo non farà altro che aggiungere attenzione e lodi alla sua spietata grandezza.
    Io compio il mio dovere di riporre nella predilezione di molti quello che fu sempre tranquilla predilezione tra le mie letture. Compiuto questo dovere grido a Diego Muñoz dalla collina: SALUUUUTE! A LUNGOOO! EVVIVA LA VITAAAA! E continuo a camminare fino a perdermi nella sabbia.

Isla Negra, primavera, 1963

Prologo a Diego Muñoz,
De repente,
2.a edizione, Santiago, Orbe, 1964.


Miguel Otero Silva ed i suoi romanzi

Passai per Ortiz in un giorno bruciante. Il sole venezuelano picchiava duro sulla terra. Vicino alla chiesa in rovine, avevano legato con un filo di ferro grosso la vecchia campana, che tante volte ascoltarono i morti ed i vivi, le cui vite e morti ci racconta Miguel Otero Silva. Non so perché figurava ancora nella mappa quello villaggio, quelle case morte. Un gran silenzio ed il duro sole era tutto quello che esisteva. E la vecchia campana sospesa al sole ed al silenzio.
    Non passai mai per Oficina n.° 1, ma sono sicuro che la vita indiavolata, il costante movimento, le forze che credono e quelle che distruggono, la società umana che per la prima volta si riconosce e lotta, tutto questo proseguirà vivo, come nel libro. Perché questo libro contiene, nella sua desolazione e nella sua vitalità, la realtà caotica del continente latinoamericano. E, naturalmente, è una fotografia straziante e poetica dello scheletro e dell'anima del Venezuela.
    L'autore appartiene ad una giovane generazione di venezuelani che, da quando nacquero, impararono a vivere inquieti. Una gran ombra tirannica, una graduale e violenta egemonia del terrore scese dalle grandi montagne venezuelane e coprì fino agli ultimi angoli: famiglie intere erano trascinate nella prigione. I campi ed i villaggi erano decimati dalla malaria e dalla miseria. In Ortiz, tra le case morte di quello villaggio che agonizzava, si vedono arrivare catene di carcerati politici che attraversano il silenzio verso un'altra direzione misteriosa, che era anche la direzione della morte.
    Quello che non dice Miguel Otero Silva è che egli passò per quelle strade ed attraversò quel silenzio maligno con catene nelle caviglie verso le prigioni di Gómez. Allora aveva l'autore 15 o 16 anni.
    Quello che non dice l'autore è che egli, già maggiore di età, imprenditore ed appassionato, visse molti Oficina n.° 1, molti paesi che sorsero dal petrolio, molti germogli e crescite della nostra sorprendente vita di continente che continua a nascere. Poeta popolare, cuore generoso, integrale patriota venezuelano, non c’è rissa di galli né sindacato che non abbiano visto la sua figura, non c'è assito popolare che non l'abbia sostenuto ballando, meglio che nessuno, il joropo, non è rinnovamento del suo paese né sonno di liberazione della sua patria che non sia stata covato, cresciuto, in Otero Silva.
    Per noi americani dell'estremo meridionale dell'America quieta e fredda, solo percossa dalle commozioni telluriche, il Venezuela fu una pietra misteriosa, pietra che pesava sul cuore di tutti gli americani. Dopo quello tiranno che con quaranta anni di regno se ne andò tranquillamente alla tomba, lasciando ancora le prigioni piene, accaddero cose inaspettate. Un nobile poeta, Andrés Eloy Bianco, un tanto ubriaco per la disabituata aria della libertà, propose di raccogliere i grilli e le catene che formavano l'unica legge del Tiranno delle Ande. In effetti, riunirono quei ferri che insieme facevano una montagna, e tra discorsi lirici, li gettarono in mare.
    Quei giovani ignari della storia, quando vollero soffocare nella dimenticanza le tonnellate del supplizio, credettero che avrebbero seppellito i dolori del Venezuela. Ma non è stato così.
    Col petrolio e gli stabilimenti nordamericani, non solo sorse la vita tumultuosa descritta in questo libro, bensì una nuova casta di governanti: i seguaci di betancour. Questi applicarono per il loro paese i decreti delle compagnie del petrolio, si fecero strumento dell'avidità straniera. Minacciarono, travolsero e spararono sulle masse che reclamavano nuovi diritti. E quando la stella di Cuba brillò come nessuna nel cielo tormentato dei Caraibi, i seguaci di betancour si allearono con gli interessi del petrolio per bloccare e tradire la pulita rivoluzione dell'isola gemella.
    Si vede che, invece di gettare nel mare i ceppi, li avrebbero dovuti conservare come montagna dei ricordi, come monumento sempre presente.
    L'autore di questo libro è, meglio di niente, un vero ed essenziale poeta. I suoi versi hanno percorso l'estensione della lingua spagnola e li sentii recitare, non solo negli atenei e nelle accademie, ma anche nelle grandi riunioni operaie, in giornate di lotta, in giorni di allegria o in pomeriggi di tenebre. La sua trasparente poesia gli dà un dominio che abbraccia tutto il regno degli esseri umani: nomina e descrive gli strani fiori e piante del territorio venezuelano con la stessa chiarezza con cui definisce gli atti e le inclinazioni della gente semplice e nascosta che ci va scoprendo.
    Queste regioni e questi esseri sono divisi implacabilmente tra l'agonia e la salute, tra il passato e speranza, tra il danno e la verità.
    Sembrerebbe schematico, sembrerebbe solo tratto di luce ed ombra, ma questa divisione esiste. Questa cicatrice segna crudelmente il viso abbagliante e doloroso della repubblica venezuelana. Ed in questo libro è rivelata l'origine di questi mali, con tenerezza, a volte, e con realtà spietata, in altre occasioni.
    Miguel Otero Silva ci sommerge nel suo mondo, mostrandoci la testa o croce della terra drammatica.
    INVIO. Abituato ad una vita di compagni ed alla profonda milizia dell'amicizia, rimpiango, all'improvviso, gli assenti. Non nel loro insieme, non in quello che occupano dello spazio. No, bensì un tratto, qualcosa che rimase persistendo nell'aria, nel vuoto dell'assenza.
    Di Miguel Otero Silva rimpiango a volte e, violentemente, la sua risata. Le due migliori risate dell'America sono quelle del poeta andaluso Rafael Alberti, divertente esiliato, e quella di Miguel. Rafael continua a covare la risata, continua a suscitarla fino a che, irresistibile, lo scuote tutto il corpo, comprendendo quello che prima fu la sua riccia chioma. Miguel, al contrario, ride in una sola volta, con una risata interiettiva che, salendo molto in alto, non perde la sua larghezza e rauco tono. È una risata che va di dosso in dosso nelle altezze del suo Venezuela natale, e di strada in strada quando insieme percorriamo l'esteso mondo. È una risata che proclama per i passanti il diritto alla grazia, alla libertà dell'allegria, anche nelle circostanze più ingarbugliate.
    Su questo libro tanto serio, tanto bello e tanto rivelatore, vedo alzarsi la risata di Miguel Otero Silva, come se dalle sue pagine si alzasse il volo un uccello libero e alto.

Prologo all'edizione ceca di Miguel Otero Silva,
Casas muertas. Oficina n.° 1, Praga, 1963.




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