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-- Interviste scelte (1970-1971)

Conversazione di fronte all'oceano
Rita Guibert

CONVERSACIÓN FRENTE AL OCÉANO. (Pagine 1110-1182.) Uno delle più brevi, e la più estesa delle interviste che riunisco in questo volume, furono fatte da donne. Entrambe si avvicinano alla persona ed all'opera del poeta con rara sensibilità ed intelligenza. Questa intervista di Rita Guibert è un pezzo fondamentale della bibliografia nerudiana.

Isla Negra, Cile, dal 15 al 31 di gennaio del 1970


Dopo avere presenziato a Stoccolma alla consegna del premio Nobel della Letteratura 1971 a Pablo Neruda, viaggiai con lui e con sua moglie, Matilde Urrutia, fino a Varsavia, dove si inaugurava la sua opera teatrale Fulgor y muerte de Joaquín Murieta.
A sessantasette anni, Pablo Neruda, doppiamente consacrato come premio Nobel e come ambasciatore del Cile in Francia, fu ricevuto calorosamente, tanto a Varsavia come a Stoccolma, per intellettuali, reporter e fotografi. Ma Neruda, un poeta per cui "la vita è un regalo", è sempre stato una personalità carismatica. Come dice Margarita Aguirre in Las vidas de Pablo Neruda: "È un uomo al quale non può guardarsi in vano. Abbagliano la sua forza, il suo calore umano, ed è come se qualcosa di magnetico, una misteriosa attrazione, ci legasse alla sua presenza."
Quando conobbi Neruda, nell'anno 1966, a New York, era anche al centro dell'attrazione nel Congresso del PEN Club Internazionale; dovunque leggeva la sua poesia, sia nella sala strapiena del Poetry Center o in un cenacolo intimo di amici, si creava un magnetismo tra il poeta, la poesia e gli uditori. Tuttavia, di tutti i Neruda che ho visto, quello che meglio conosce è quello che intervistai nella sua casa di Isla Negra, dove mi ospitò durante le due ultime settimane della sua campagna politica come candidato presidenziale per il Partito Comunista del Cile. Neruda, come si sa, davanti ad una sinistra divisa, ritirò la sua candidatura per appoggiare al candidato socialista Salvatore Allende.
Isla Negra non è isola e non è nera. È una bella ed elegante spiaggia cilena situata a circa quaranta chilometri a sud di Valparaíso ed a due ore di automobile da Santiago. Nessuno sa qual'è l'origine del nome, ma Neruda la attribuisce ad alcune grandi rocce nere, vagamente delineate come isole che si vedono dalla terrazza della sua casa. Trenta anni fa, quando Isla Negra era un posto completamente sconosciuto e desolato, Neruda comprò con il denaro che aveva guadagnato con la sua poesia un terreno di 6.000 metri quadrati sulla spiaggia, con una casetta di pietra sulla cima di una collina. "Quindi la casa andò crescendo, come la gente, come gli alberi."
Neruda ha anche altre case, una sulla collina San Cristóbal, a Santiago, ed un'altra a Valparaíso, la quale è stata danneggiata dai tremori recenti. Per decorarle il poeta percorre, in qualunque parte del mondo dove sia, case di antichità e di cianfrusaglie vecchie specializzate in demolizioni, alla ricerca di ogni tipo di oggetti, da porte e finestre fino a statue di prua, sestanti, lampioni, campane, ancore, conchiglie. Ogni oggetto che possiede gli ricorda un aneddoto. “Non somiglia a Stalin?", domanda, segnalando il busto del filibustiere sir Henry Morgan che pende da una parete della sala da pranzo di Isla Negra. "Un antiquario, a Parigi, non me lo voleva vendere, ma quando seppe che io ero cileno mi domandò se conosceva Pablo Neruda. Fu così come ottenni che me lo vendesse."
In Isla Negra, vicino al mare (elemento ricorrente nella sua poesia), è dove Neruda, il "navigatore terrestre", e Matilde, la sua terza moglie ("Papera", come egli la chiama affettuosamente, la "musa" a cui ha dedicato tanti poemi di amore), hanno stabilito la loro residenza permanente.
Alto, robusto, mezzo calvo, di carnagione olivastra, i suoi tratti più distintivi sono un naso prominente e gli occhi castani, grandi ed assopiti. I suoi movimenti sono lenti ma fermi. Appoggiato ad un bastone di legno rustico e coperto da un lungo poncho argentino, normalmente fa lunghe passeggiate a piedi accompagnato dal suo due cani. Parla con voce cadenzata, ma senza affettazione. "Il suo è un tono molto particolare, carnoso e di una sfumatura interminabile - scrisse il cileno José Santos González Vera -. Uno si abitua alla sua voce ed a rileggere i suoi versi se la sente... Sentendo gli indios, mi venne il ricordo dall'accento nerudiano."
A Neruda piace ricevere i suoi amici e c'è sempre un posto nel tavolo per il convitato dell'ultimo momento. In generale li ascolta nel bar, al quale si entra da una terrazza che dà al mare, passando per un piccolo corridoio. Nel suolo del corridoio ci sono un bidé vittoriano ed un vecchio organo; nelle finestre, su file di scaffali, una collezione di bottiglie di tutte le forme e colori. Il bar, con grandi finestroni che danno al mare, è decorato con lampade e pitture marine; i mobili, come quelli di una barca, sono fissati al suolo. Il soffitto è incrociato da travi di raulí; in ognuna di esse il "poeta falegname" ha scritto con gessetto i nomi dei suoi cari amici morti: Federico (García Lorca), Paul Éluard, Alberto [Sánchez], Miguel Hernández, Ortiz de Zarate..., i quali dopo furono registrati nel legno da "Rafita..., il poeta della falegnameria." Una fotografia di Twiggy si estende dall'arco di ingresso fino al suolo. Su una parete ci sono due cartelli, opere dei suoi avversari. In uno, portato da un viaggio a Caracas, si legge: "Neruda, go home", in un altro (la copertina di una rivista argentina), sotto alla sua fotografia dice: "Neruda, perché non si suicida?". Dietro il banco, sullo scaffale dei liquori, si annuncia: "Non si fidi." Neruda prepara ogni tipo di bibite per i suoi convitati benché egli prenda solo whiskey o vino. Racconta che si abituò a prendere whiskey durante i suoi anni di console in India, dove era la bibita più economica.
I cibi sono tipicamente cileni. Alcuni di essi sono stati menzionati da Neruda nella sua poesia: un brodetto di grongo, un pesce coperto con delicata salsa di pomodori e gamberi, una torta di carne. Il vino, sempre cileno, si serve a volte da una brocca di porcellana in forma di uccello che canta quando si versa. Durante l'estate si pranza nella galleria di fronte al giardino di entrata dove risalta "La locomitiva: Tanto poderosa, tanto granario, tanto procreatore e fischiatore e ruggitore e tuonatore!... Mi piace perché somiglia a Walt Whitman."
Normalmente legge le sue poesie agli amici. Un mezzogiorno, nel bar, lesse la poema "Meditación sobre la Sierra Maestra", dal suo libro Canción de gesta. "Questo poema autobiografico e politico - spiegò - si suppone che sia stato scritto nell'anno 2000 d.C., quando si è già completata la Rivoluzione americana. Il poema incomincia allora e retrocede alla nostra era." dopo averlo letto propose di celebrare il giorno con un happening. Per questa occasione preparò, con ciliegie e vino spumante bianco, una bibita che prendiamo seduti in una piccola scialuppa, Marval de Isla Negra che sta sul prato della terrazza, di fronte al mare. Con noi stavano i Solimano, vecchi amici che nascosero nella loro casa a Neruda nel 1948 quando era ricercato dalla polizia perché nel suo famoso libello "Je accuse", Neruda aveva criticato duramente davanti al senato Gabriel González Videla, allora presidente del Cile...
Per Neruda non esiste una linea divisoria tra la sua poesia e la sua politica. Come disse accettando la candidatura presidenziale: "Non ho mai concepito la mia vita come divisa tra la poesia e la politica... Sono un cileno che durante tutto il secolo ha conosciuto le sventure e le difficoltà della nostra esistenza nazionale e che ha partecipato ad ognuno dei dolori ed allegrie del paese. Sono membro di una famiglia di lavoratori che divisero le loro aspre giornate tra il centro ed il sud del territorio. Non fui mai coi potenti e sentii sempre che la mia vocazione ed il mio compito era servire il paese dal Cile con la mia azione e la mia poesia. Ho vissuto cantandolo e difendendolo."
Le conversazioni che formano la nostra intervista si portarono a termine in brevi sessioni. Per le mattine, dopo che Neruda prendeva la colazione nella sua stanza, ci riunivamo nella biblioteca, in un'ala nuova della casa. Io aspettavo mentre egli rispondeva alla sua corrispondenza, componeva un poema o correggeva le bozze di una nuova edizione cilena del suo libro Veite poemas de amor y una canción desesperada, pubblicato per la prima volta nel 1924, e del quale si sono venduti più di due milioni di esemplari. I poemi nuovi li scrive, con inchiostro verde, in un quaderno. Può comporre un poema lungo in un tempo breve facendo solo piccole correzioni. Poi Homero Arce, il suo segretario ed amico da più di cinquanta anni, trascrive i poemi a macchina. Normalmente ci trovavamo per lavorare in "la piccola grotta" una piccola stanza della biblioteca. Neruda, lentamente, rispondeva alle mie domande come parlando per sé. L'unica volta che lo vidi spazientirsi fu quando sua nipote Alicia Urrutia lo interruppe, nel momento in cui stava descrivendo appassionatamente la storia del Cile, per annunciargli che aveva una chiamata telefonica urgente. (L'unico telefono di Isla Negra sta nella locanda, a circa cinque minuti a piedi della casa.)
Nei pomeriggi, dopo il suo pisolino giornaliero, seduto in una panca di pietra che sta di fronte al mare, Neruda parlava sostenendo nelle sue mani il microfono del registratore, il quale raccolse, oltre alla sua voce, "la voce del mare" che "rimbomba come un combattimento antico" che "canta e batte" che "non sta d'accordo."
RITA GUIBERT: Perché cambiò il suo nome e perché scelse quello di Pablo Neruda?
PABLO NERUDA: Non mi ricordo oramai di che cosa si tratta. Io avevo 13 o 14 anni. Ricordo che a mio padre disturbava molto che io scrivessi, col migliore delle intenzioni, perché egli pensava che quello di scrivere avrebbe portato alla distruzione della famiglia e della mia persona, e che, specialmente, mi avrebbe portato all'inutilità più completa. Cioè, egli aveva la sua ragione domestica per farlo, ragione che non pesò molto in me, nella mia vocazione. Ed una delle prime misure difensive che adottai fu quella di cambiarmi nome.
R.G.: Scelse Neruda per il poeta ceco Jan Neruda?
P.N.: Non mi sembra di avere conosciuto il nome del poeta ceco. È vero che lessi un suo piccolo racconto in quegli anni. Non ho mai letto la sua poesia. Ma egli ha un libro che si chiama Cuentos de Mala Strana, racconti sulla gente modesta di quel quartiere di Praga.
È possibile che sia uscito da lì il mio nuovo nome. Come gli dico, il fatto è tanto lontano nella mia memoria che non lo ricordo. Tuttavia, i cechi mi considerano come uno di loro, come parte del loro paese.
Da quel tempo ho un vincolo molto amichevole coi cechi.
R.G.: Sa che Pablo in ebraico vuole dire "quello che dice cose belle?"
P.N.: È sicura di quello? Deve essere l'altro Pablo, il compagno di Cristo.
R.G.: È questa la sua prima campagna presidenziale?
P.N.: Io ho accompagnato i candidati di sinistra alla presidenza nelle loro tappe per tutto il paese. Accompagnai Don Pedro Aguirre Cerda, nel 1938. Fu il trionfo della Fronte Popolare, il primo governo di sinistra che c'è stato nella storia di questo paese. C'era alleanza di comunisti, radicali, socialisti, etc. Da allora io ho continuato ad accompagnare gli altri candidati nelle loro tappe. Il candidato attuale del Partito Socialista, Salvatore Allende, ha fatto tre campagne antecedenti nelle quali non è uscito vittorioso. Io l'ho accompagnato in quelle tre campagne presidenziali attraverso tutto il paese, da Arica fino ad oltre lo stretto di Magellano.
R.G.: È questa la sua prima campagna presidenziale per Pablo Neruda?
P.N.: La prima e l'ultima.
R.G.: Chi sono i poeti politici che aspirarono alla presidenza e trionfarono?
P.N.: Il nostro tempo è un'epoca di poeti governanti, Mao Tse-tung, Ho Chi Minh. È chiaro che Mao Tse-tung ha altre qualità; come sa, è un magnifico nuotatore, cosa che mi manca. C'è anche un gran poeta che è presidente di una repubblica africana (Senegal) Léopold Senghor, e ce ne è un altro che scrive in francese, un poeta surrealista che è il sindaco di Fort de France, della Martinique, Aimé Césaire. I poeti sono intervenuti sempre nel mio paese in politica. Non abbiamo mai avuto un poeta presidente della repubblica. In America Latina ci sono stati scrittori che sono stati presidenti. Un grande scrittore venezuelano, Rómulo Gallegos, fu presidente della repubblica del Venezuela.
R.G.: Come fa le sue campagne presidenziali?
P.N.: In generale, il tipo di atti che facciamo noi in questa campagna comincia nei grandi centri urbani di Santiago, soprattutto nei grandi quartieri popolari dove ci sono centinaia di migliaia di abitanti. Si colloca un palco dove uno sale. Primo si sono presentate lì canzoni folcloristice, dopo una persona del comando spiega la portata strettamente politica della nostra campagna. Il mio tono per parlare con la gente del paese è molto più ampio e meno organizzato, è un tono più poetico. Finisco quasi sempre leggendo poesia. Se non leggessi poesia la gente andrebbe via delusa. Naturalmente, vogliono anche ascoltare il mio pensiero politico, ma non abuso di questa parte politica o economica perché penso che hanno bisogno di un'altra classe di linguaggio.
R.G.: Quello hanno fatto negli Stati Uniti Norman Mailer ed Eugene McCarthy.
P.N.: Io non lo sapevo. Io ho ammirato sempre gli antichi trovatori e tra i poeti nordamericani Carl Sandburg che suonava la chitarra e leggeva i suoi poemi. Quello mi è piaciuto molto. Avrei voluto farlo io stesso, ma ho tanto pessimo orecchio musicale che neanche so intonare la melodia più semplice. Mi è stato negato quel dono, ma quello che più mi piacerebbe sarebbe averlo.
R.G.: Come reagisce il popolo quando gli legge i suoi poemi?
P.N.: Io ho sempre una gran fiducia nel popolo, ed il popolo cileno mi conosce molto. Devo dire che mi ama in una maniera emozionante. Non potrei raccontare i dettagli perché sarebbero molti. Reagiscono stupendamente, di tale maniera che quasi non posso entrare né uscire da alcuni posti. Devono mettermi una guardia speciale che mi protegga dagli abbracci della gente perché si precipitano intorno a me. Questo mi succede da tutte le parti.
R.G.: Non ha bisogno di guardie del corpo?
P.N.: No, non si tratta della guardia che mi protegga da un attacco, bensì il contrario. Per esempio, entrare all'automobile è una gran difficoltà per Matilde e per me, perché la moltitudine ci spinge di un lato ad un altro, ostacolandoci, con la sua effusione, la libertà di movimento.
R.G.: Esiste la paura dell'attacco fisico?
P.N.: No, quella paura non esiste, né per i candidati né per i presidenti. I nostri presidenti camminano senza scorta per strada tutti i giorni.
R.G.: Esiste la possibilità di un'unità della sinistra?
P.N.: Sì, la avremo prima di una settimana.
R.G.: Crede che sarà eletto?
P.N.: Non credo, non lo so neanche. Noi siamo molto poco personalisti nel senso politico, e siamo disposti al ritiro della mia candidatura per il bene dell'unità. La cosa importante è l'unità popolare perché altrimenti non c'è possibilità di vittoria. Qui, i partiti di sinistra, se vanno separati all'elezione non possono affrontare le grandi forze della destra tradizionale, che ha un candidato fortemente appoggiato, economicamente. E l'altro candidato, quello della Democrazia Cristiana, è il candidato ufficiale del partito del governo. Sono cose poderose. C'è, in primo luogo, il denaro, e dopo una candidatura ufficiale che può essere aiutata direttamente dal governo. Solo un gran movimento che unisca tutti i settori della sinistra può vincere questi due candidati.
R.G.: Quali sarebbero le sue prime misure se fosse scelto presidente?
P.N.: Sta tutto scritto in un programma che hanno sottoscritto tutti i candidati di sinistra. È molto lungo dettagliare, ma primo è la nazionalizzazione delle ricchezze naturali del paese. Questo paese ha la miniera di rame più grande del mondo, Chuquicamata, ed è proprietà nordamericana. La compagnia di telefoni è nordamericana, la compagnia di elettricità è nordamericana. Noi cileni, quando accendiamo la luce tutte le notti, la stiamo pagando ad alcuni azionisti che stanno a New York o a Detroit che non sanno nemmeno che esistono i cileni. Non lo dico in forma tragica, perché questo è piuttosto comico. Che nel 1970, quasi arrivando all'anno 2000, persista questo sistema di colonialismo, è incredibile. Le nazionalizzazioni sono misure di senso comune ed io credo che i nordamericani se le aspettino.
R.G.: Ma il paese è preparato per farsi carico di quelle compagnie?
P.N.: Come tutte queste cose sono cambiate, si sono superati già i problemi, e si sa che questo accade. Perchè fare le cose in forma che litighiamo tutti? Tutto si deve parlare, notificare, trattare, ma non può cedere. Molte delle compagnie di questo paese hanno pagato tutti gli investimenti ed i tecnici per molto tempo. Per esempio, nelle nostre grandi miniere di rame rimane molto poco personale nordamericano. In alcune non arriva neppure a cinque persone.
R.G.: Sono tecnici?
P.N.: Sono alcuni tecnici quelli che rimangono, ma tutto il resto lo fanno tecnici cileni perché sono industrie molto antiche ed i cileni hanno ampie conoscenze tecniche. Se uno si riferisce alle rappresaglie economiche, non stiamo già nel tempo delle rappresaglie economiche. Devono capire i paesi imperialisti che è passata l'epoca degli imperi e che né le repressioni politiche né quelle economiche hanno senso nella nostra epoca. Bisogna cercare, benché dolgano, queste misure, l'intesa. Cioè, noi non vogliamo, perché nazionalizziamo le miniere, una rottura col governo nordamericano né con gli Stati Uniti. No. Dobbiamo continuare a capirci, e capirci meglio in materia economica ed in tutto il resto sulla base del mutuo rispetto, politico ed economico.
R.G.: Se arrivasse ad essere presidente, ci sarebbe libertà di stampa?
P.N.: Naturalmente c'è un accordo, un programma del governo popolare che garantisce la libertà di stampa. Il nostro governo popolare sarebbe fatto di una congiunzione di partiti, cioè, sarà un governo pluripartitico, quello che assicura la diversità e ricchezza dell'esperienza di ognuna delle correnti popolari. Noi garantiamo in quello programma di governo la libertà di stampa e di opinione.
R.G.: Si sente preparato economicamente, politicamente e socialmente per il compito della presidenza?
P.N.: Come ho già detto, questo compito ed il nostro programma è un programma antipersonalista. Si cerca di fare un governo collegiale e collettivo. Non mancheranno tecnici e specialisti per ogni materia. Non occorre che il presidente sappia più o meno. Naturalmente che non può essere né un ignorante né un idiota. Ma neanche può essere un monarca che disponga tutto quanto si fa, tutto quanto sia propizio. No, un presidente in questa epoca moderna deve avere consiglieri, deve avere specialisti, e questi abbondano del nostro paese. Questo è scritto nel nostro programma. La vigilanza l'avranno le stesse forze popolari affinché si realizzi il programma che si è promesso al paese cileno. Cosicché da questo lato io non ho nessuna paura. Nel remoto caso che io fossi l'eletto non ho nessun problema personale su questo. Non mi sembra che perché io sono un poeta sia predestinato a non essere presidente della repubblica. Non credo che sia una cosa molto gradevole essere presidente della repubblica, ma i poeti possono governare con lo stesso diritto che gli ingegneri, o gli industriali, o gli avvocati, o i politici, o i militari che tante volte hanno usurpato il potere con le buone o con le cattive maniere. Infine, io credo che anche un poeta abbia il diritto a credere che possa compiere i suoi doveri con il suo paese e col sentimento di amore e di giustizia che almeno dovessero avere tutti i poeti.
R.G.: Nell'anno 1933, in una delle sue lettere al pettegolo argentino Héctor Eandi gli diceva: "Politicamente non si può essere ora se non comunista o anticomunista. Le altre dottrine si sono andate sgretolando e cadendo". A che dottrine si riferiva?
P.N.: Non ricordo quella lettera, ma suppongo che mi riferivo alle dottrine anarchiche che ebbero tanta importanza in un'epoca della mia vita.
R.G.: Quello pensiero, ha attualmente validità?
P.N.: Lo stesso pensiero conta in una certa forma, non potrei dirlo tanto dogmaticamente come nella mia gioventù, ma più o meno. L'anticomunismo significa sempre un pensiero reazionario benché si vesta di apoliticismo o di sinistrismo.
R.G.: Ha il Partito Comunista molti adepti tra la gioventù?
R.N.: Molti. La gioventù comunista passa in questo momento per il suo più alto periodo di auge nella storia del nostro partito. Solo in Santiago ha più di 25000 aderenti.
R.G.: Ed il MAPU? (Movimento di Azione Popolare Unitaria.)
P.N.: Il MAPU è una frazione della Democrazia Cristiana.
Sono quelli della sinistra cattolica, un piccolo partito che sta appena cominciando ad agire nella vita politica. Si sono separati recentemente dal Partito Democratico Cristiano. Sono molto interessanti politicamente. Ci sono anche i gruppi sinistreggianti.
R.G.: Sono questi i più ribelli?
P.N.: Questi tendono al terrorismo e le azioni dirette. Sono superstiti del vecchio anarchismo e hanno anche a che vedere coi movimenti giovanili mondiale di questa epoca.
R.G.: Che cosa pensa di quei movimenti?
P.N.: Io trovo che hanno un principio di gran salute fisica. È importante che la gioventù senta la disubbidienza. Ora, se questa disubbidienza giovanile si incanala nell'azione individualista, personale, presa diretto, slegata dalle organizzazioni, slegata dal popolo, e soprattutto slegata dalla classe operaia, allora è male. Se questa gioventù dopo la sua disubbidienza tende alla comprensione del movimento operaio e delle grandi organizzazioni della sinistra, allora è bene. Che cosa penso io? Molti di questi giovani, che non sono una grande quantità, per lo meno in questo paese, sono giovani delle università, quasi sempre di famiglie benestanti, della borghesia, della piccola borghesia più prospera. Questi giovani, che non sono molti, come dico, riusciranno qualche volta ad integrarsi colle altre forze popolari. Altrimenti essi passeranno della estrema sinistra ad essere campioni della destra, campioni del conservatorismo, della borghesia. Perché questa oscillazione pendolare della gioventù è esistita sempre. Io vengo da una generazione in cui tutti eravamo anarchici. Tradussi i libri anarchici quando avevo 16 anni. Del francese tradussi Kropotkin, Jean Grave ed altri scrittori anarchici. Leggevo solamente i grandi scrittori russi di tipo anarchico, come Andréiev ed altri. In quel tempo, noi, giovani anarcoidi, cominciamo a scoprire per il nostro proprio conto che era indispensabile un'unione col movimento del popolo, che in quel momento era anche di tendenza anarchica. Era l'epoca dell'IWW (Industrial Workers of the World), e quasi tutti i sindacati appartenevano a quella tendenza, che rappresentava credo Harry Bridges, uno degli ultimi negli Stati Uniti. Questo gruppo di anarchici che ebbe martiri come Sacco e Vanzetti negli Stati Uniti, anche in America Latina ebbe enorme importanza. Ma, che cosa accadde alla gioventù dell'epoca che condivideva ancora il terrorismo e che predicava, come io stesso facevo, il sabotaggio, il boicottaggio alle elezioni, l'opposizione ai movimenti organizzati? Che cosa accadde? Alcuni comprendemmo che la nostra strada stava nell'organizzazione, stava di fianco al movimento operaio, ed altri passarono direttamente a servire gli interessi dalla grande borghesia, del capitalismo e dell'imperialismo. Col tempo possono ripetersi anche questi fenomeni. Questa gioventù o si integrerà col movimento popolare o si integrerà coi nemici del movimento popolare.
R.G.: Non potrebbero formare un nuovo fronte indipendente?
P.N.: Indipendente da che cosa? Del proletariato? Non credo. In ogni caso sarebbe un fronte divisionista che non avrebbe nessuna capacità, dato che sono molto grandi gli altri movimenti affinché uno o più possibili piccoli gruppi arrivino ad avere importanza.
R.G.: Come si spiega che il Partito Comunista cileno sia quello di più importanza in America latina?
P.N.: Avemmo noi un gran organizzatore, si chiamò Luis Emilio Recabarren, un uomo gigantesco, che fondò già 45 o 50 anni fa la stampa operaia cilena. Cioè, piccoli giornali che esprimevano le inquietudini del popolo cileno. Egli fondò i primi sindacati, le grandi federazioni sindacali, ed egli fondò anche il Partito Comunista. Fu un uomo straordinario. È un uomo venerato dal popolo del Cile. Lo si considera come un padre della patria. Questo uomo fondò nella sua appassionante lotta la base di un partito organico, di un partito instancabile che non ha deviato né verso la destra né verso la sinistra. Che ha cercato sempre la strada per affrontare i nemici popolari e mettere la concentrazione della sua forza e della sua lotta nell'appoggio alle masse operaie e campagnole, e questo partito ha continuato a crescere in volume ed in prestigio.
R.G.:  Non è questa la prima candidatura comunista in circa 38 anni?
P.N.: Sì, da molto tempo ci siamo astenuti dal presentare un candidato. Ma ormai era necessario che lo facessimo. Ci siamo uniti ad altre forze affinché uscisse dai partiti popolari una candidatura. Questa volta la presentiamo noi.
R.G.: Avete oggi più possibilità?
P.N.: Siamo il partito maggioritario della sinistra del Cile, pertanto abbiamo tante possibilità come gli altri partiti.
R.G.: Giustifica la violenza?
P.N.: Ci sono violenza e violenza. Nei paesi che sono dominati per il terrore e la violenza fascista io giustifico tutti i mezzi per uscire da quella situazione. Che possibilità c'è quando governa gente delinquente come nel caso di Papá Doc in Haiti? Lì sono piene da molto tempo le prigioni di carcerati politici, come nel Paraguay. Ogni popolo deve scegliere la sua strada. Non si può dire "non credo nella violenza" come un assioma generale politico. La violenza, cioè, l'unione delle forze rivoluzionarie in un paese per cambiare l'ordine stabilito, può essere preceduta per una congiunzione di forze che accompagnino un movimento di questa classe. Ma la violenza creata individualmente, solitariamente, in generale risulta fare un fiasco ed inoltre facilita la repressione antipopolare. Senza contare che molti degli atti terroristici sono organizzati da secoli dalla polizia.
R.G.: Sarebbe necessaria la violenza in Cile?
P.N.: Non possiamo neanche pensare a tale cosa dato che possiamo parlare e dire quanto vogliamo. Sarebbe pazzesco propiziare una soluzione di violenza.
R.G.: Lei ha passato momenti molto difficili in Cile...
P.N.: Sono momenti scarsi nella storia del Cile e noi i cileni conosciamo molto la nostra storia. Sappiamo che qualunque repressione della classe che io soffrii (io pagai conseguenze e fui perseguito) è un stato transitorio, e sempre quello che fa la repressione, quello che fa la violenza, la paga. Cioè che l'atto di violenza, venendo dai governi del Cile, invece di fortificarli li debilita profondamente.
R.G.: Crede che il socialismo potrebbe riscattare l'America Latina dal colonialismo e sottosviluppo, e perché?
P.N.: Naturalmente l'unico sistema che può riscattare all'America Latina dal suo tremendo ritardo è il socialismo. Già bisogna superare tutte le prove che si sono fatte in questi paesi, dirette piuttosto a mantenere lo sfruttamento coloniale ed il salasso dei nostri paesi verso la metropoli del capitalismo. Il socialismo ha una forza creativa, rappresenta una rivoluzione di tipo che si adatta interamente ai problemi dell'America Latina. Abbiamo inoltre un continente senza grandi tradizioni, pertanto la fertilità creativa del socialismo avrà qui una nuova forma, avrà caratteristiche straordinarie.
R.G.: Cioè, avrà una linea propria, senza essere né la russa, né la maoista, né la castrista.
P.N.: Il marxismo ci insegna che lo sviluppo della società deve adattarsi alla sua storia, a mezzo suo, a tutta la vita della sua gente, non deve seguire nessun modello. Ma deve contare sull'esperienza dei paesi che hanno fatto la loro rivoluzione. Abbiamo nell'America Latina la Rivoluzione cubana, non possiamo dire che ella sia un modello archetipo di nessun'altra. Naturalmente, noi cileni viviamo in un paese molto differente da Cuba ed abbiamo altre caratteristiche nel nostro sviluppo, tanto culturale come economico. Una rivoluzione in Cile troverebbe uno stato molto più avanzato di quello che aveva Cuba prima della sua rivoluzione. Il paese cileno è eminentemente creativo, è eminentemente capace di intraprendere qualunque tecnica. I nostri operai specializzati ed i nostri tecnici sono da tutte le parti del continente latinoamericano accettati molte volte come specialisti o come tecnici consiglieri di imprese. Cuba era paese di un solo prodotto, lo zucchero; ed i governi antecedenti alla rivoluzione trascurarono l'industria in tale maniera che la rivoluzione sorprese Cuba con un'alta percentuale di gente che non poteva fare nelle fabbriche quello che possono fare, per esempio, gli operai, i lavoratori ed i tecnici del Cile. Il fatto stesso che Cuba in questo tempo abbia intrapreso dentro sé una trasformazione in questo senso, prendendo altre strade e risvegliando il senso dell'industria, è stato anche un gran successo nella Rivoluzione cubana.
R.G.: Lei ha detto che gli Stati Uniti continuano ad essere una minaccia per l'America Latina. Perché?
P.N.: Disgraziatamente io sono un uomo pacifico e tutti questi concetti sono molto spiacevoli ma veri. La storia stessa dello sviluppo industriale ed economico degli Stati Uniti ha preso un carattere espansionista da molto tempo. E siamo stati non solo minacciati bensì aggrediti molte volte. La storia dell'America Latina è piena di questa classe di aggressioni che hanno lasciato naturalmente orme molto profonde nei nostri paesi. Negli ultimi anni la dottrina dell'imperialismo, tanto accentuata negli Stati Uniti, si è vista fortificata da teorici che a sono arrivati perfino a giustificare imprese tanto atroci come la guerra del Vietnam. Non so perché, non trovo ragione teorica attendibile per pensare che se l'imperialismo nordamericano è andato in posti tanto distanti del suo territorio, come Vietnam e Corea, per impiantare le sue teorie e per impiantare il suo dominio, perché non dovrebbe farlo dentro la nostra America Latina che è molto più vicina e che è stata considerata dagli imperialisti nordamericani come terreno proprio, come la loto retroguardia. I patti militari che hanno fatto coi paesi dell'America Latina non hanno niente a che vedere con l'assenso dei nostri paesi, sono eminentemente patti destinati a condurre una politica aggressiva per unirci al carro di questa esperienza aggressiva e minacciante dei politici e militari nordamericani. Inoltre, abbiamo l'esperienza molto vicina di Santo Domingo e di Cuba. Prima abbiamo il Nicaragua, Messico, America Centrale, Panama; infine, è una storia molto lunga. Ma recentemente queste cose arrivano ancora più lontano con la famosa relazione di Nelson Rockefeller. In un'epoca Nelson Rockefeller passò per una persona di atteggiamento intellettuale, di inquietudini artistiche, e ricordo che durante la grande guerra contro il fascismo Nelson Rockefeller sembrò essere per molti un amico dell'America Latina. Negli ultimi anni egli si è attaccato al carro di Johnson. Ultimamente ha servito il presidente Nixon per un'impresa di tipo colonizzatrice. La relazione di Rockefeller al presidente Nixon, che abbiamo letto, è stata pubblicata in molte parti, è un prodigio di indurimento politico, e di ignoranza totale delle nostre reazioni morali, storiche ed emotive. Egli consiglia ora l'appoggio americano ai governi militari in una forma franca e pretendendo che questi governi siano una forza costitutiva che può servire per impiantare un certo tipo di giustizia sociale che sia accettata dai nordamericani imperialista di oggi. Cioè, Nelson Rockefeller, con essere un uomo del 1970, che sa del suo antico e perduto prestigio, ricade nella politica che inaugurò Theodore Roosevelt che si chiamava la politica di big stick, cioe, di fomentare le caste militari con tutto quello che questo significa per l'America Latina di caudillismo, di colpi anticostituzionali. Fomentò anche la divisione e lo spirito militarista aggressivo tra le nazioni latinoamericane. È questa una prova che i latinoamericani hanno molto poco da sperare dalla politica nordamericana fino a che questa non si modifichi in una maniera integrale e razionale. Cioè, quando gli Stati Uniti prenderanno in considerazione l'esperienza attuale, quello che sta accadendo tra la sua gioventù, tra i suoi intellettuali, nelle sue università, vedranano allora la riprovazione che meritano i suoi atti aggressivi nella sua propria patria, allora, quando prenderanno in considerazione e si formuli di nuovo la nuova politica che possa unire al nostro continente potremmo cominciare a stabilire molti atti di collaborazione. Per il momento la politica generale degli Stati Uniti non è solo aggressiva contro noi bensì contro la maggioranza dei paesi del mondo. Si è costituita come una superpotenza che crede necessaria l'introduzione del suo potere senza limiti precisi, molto oltre il suo proprio territorio. Questo è grave. Questo capitolo è molto lungo e dovremmo tornare molte volte su di esso. Parlare di imperialismo può sembrare un tocco demagogico, soprattutto per l'osservatore europeo o per l'osservatore apolitico, ma noi, in America Latina, sappiamo a che cosa attenerci, abbiamo sofferto la conseguenza dell'intromissione degli Stati Uniti in quasi tutti i nostri paesi. Qui stesso, ed io non parlo per me stesso, il senatore Renán Fuentealba, senatore del Partito Democratico Cristiano, cioè del governo cileno, che ha intimi vincoli coi politici nordamericani e col suo governo, ha appena detto in una denuncia pubblica che la CIA sta tentando di provocare un colpo militare in Cile. Questo non lo dico io, non l'hanno detto i comunisti, è stato denunciato da un senatore del governo, di un governo che non si caratterizza per nessun spirito antinorteamericano. Non si è investigato totalmente su questa denuncia. Tuttavia, il senatore democraticocristiano, che è il partito unico del governo, ha fatto questa denuncia. Vuol dire che egli, ed il suo partito ed il governo del Cile hanno precedenti abbastanza chiari per fare una dichiarazione di questa specie. Naturalmente, prova un'altra volta il peso dell'influenza dannosa della politica nordamericana nei nostri paesi, il fatto stesso che su questa denuncia non si sia continuato a investigare. Uno spirito di indipendenza e di dignità avrebbe consigliato al governo di investigare e mostrare all'opinione nazionale quello che ci sia di vero in queste affermazioni del senatore democraticocristiano.
R.G.: Crede che possa arrivarsi una conciliazione tra le potenze?
P.N.: Io sono a favore dell'intendimento, sono a favore della pace. La conciliazione di principio tra capitalismo e socialismo è un'altra cosa. Sono due organismi che lottano per provare l'efficacia del loro sistema. Il capitalismo sta in retrocessione, stiamo presenziando alla sua decadenza. Il socialismo è una forza nuova nell'umanità, con poteri visibilmente superiori al capitalismo che si basano su una comprensione più intelligente delle relazioni tra gli esseri umani ed anche dei mezzi di produzione e di distribuzione della ricchezza tra gli uomini. Io credo che non si tratti di conciliazione, ma devono avere il rispetto necessario per coesistere. Mi disse una volta il mio vecchio amico Ehrenburg che stando egli a New York si propose di parlare con un milionario nordamericano. Gli cercarono il milionario più milionario affinché parlasse con un sovietico. Conversando con Ehrenburg, il milionario gli disse: "Lei non si faccia illusioni, noi non temiamo alle sue bombe, quello di cui abbiamo paura sono le sue casseruole. Le casseruole dell'Unione Sovietica". Credo che questo sia abbastanza comprensibile. Finché le casseruole sono piene, mentre le pentole stanno nelle cucine dei paesi socialisti, si sta provando che un sistema nuovo di economia nel mondo ha efficacia, ha successo, cammina. Ed il supermilionario aveva molta ragione. Ehrenburg era molto compiaciuto della sua franchezza.
R.G.: Creda che ci sarà una rivoluzione negli Stati Uniti?
P.N.: Non è imminente, ma c'è un stato di ribellione pronunciata negli Stati Uniti. Io non so dove vada, ma mi sembra che per lo meno questa presa di coscienza intellettuale dei giovani e degli universitari deve pesare qualche volta nella direzione dello Stato e nelle condizioni in cui si sviluppa la vita storica dagli Stati Uniti. È il principio di una tappa, è il primo inizio di una tappa. Non so quando ci sarà la seconda parte di questa tappa, né quando ci sarà la terza, quello dipende dai nordamericani. Non può determinarsi per ricetta. A me sembra che il capitalismo stia facendo crisi non solo negli Stati Uniti bensì in molte parti. Immediatamente può vedersi che c'è una crisi morale enorme dentro il sistema nordamericano di vita. The American Way of Life non ha portato esattamente alla prosperità la felicità, ma bensì, in molti casi, alla disperazione della gente nordamericana.
R.G.: A che cosa la attribuisce?
P.N.: Mi sembra che sia una crisi del sistema capitalista. Si è fissato come meta una prosperità basata in una serie di leggi feroci che stanno esplodendo. A me sembra che questa crisi del sistema generale stia arrivando in tutto il mondo. La guerra del Vietnam ha messo davanti all'umanità un fatto davvero inaudito. Che tutte le energie, la ricchezza di un gran paese come gli Stati Uniti si dedichino allo sterminio di una popolazione lontana, sconosciuta per i giovani nordamericani che sono inviati ad uccidere ed a morire, è un fatto che ha illuminato col sangue versato la conciencía assopita di gran parte dell'umanità. La tragedia del Vietnam illuminò in tale mpdo che svegliò negli Stati Uniti, in una certa parte degli Stati Uniti, un sentimento di colpa che si andò estendendo e che provocò molte cose; da un lato, la disubbidienza dei giovani, e da un altro, la disperazione. Io attribuisco alla guerra del Vietnam quello potere catalizzatore. Non si vide mai una guerra più ingiusta, mai si vide l'uomo commettere eccessi collettivi tanto strani e crudeli. Ma contemporaneamente dovette causare la riflessione istintiva dell'intellettuale. Perché un paese che ebbe pensatori tanto straordinari come Thoreau, o come Whitman, o come tanti altri, che praticamente estesero la misura umana, come un paese così, che si mise anche alla testa della Rivoluzione industriale, che fece tante cose straordinarie nel campo della conoscenza e della cultura negli anni prima alla guerra, potè arrivare a superare Hitler in barbarie e disumanità. Gli Stati Uniti fondarono quell'immenso capitale di sogni che fu Hollywood, anticipando la cinematografia, che senza quell'impulso avrebbe potuto tardare un secolo a svilupparsi. Infine, si aspettavano tante straordinarie gesta dei nordamericani (che si sono realizzate a volte, come le esplorazioni alla luna) che uno si domanda: Come quel paese può dedicare tutte le sue forze allo sterminio ed al terrore? Bene, mi sembra che tale domanda che si fece l'essere umano lo portò anche a dubitare del sistema, dell'establishment, dubitare della verità che gli era detta, ed incominciò a produrre l'amarezza, lo scetticismo e molte volte la disperazione che si vedono nella vita nordamericana. Inoltre, l'onda infinita di terrorismo, di attentati criminali, come la morte di Luther King, del presidente John Kennedy, del senatore Robert Kennedy, ed i massacri fatti da ragazzi, criminali di nuovo tipo, incredibili, disinteressati, demoniaci, come quello su cui scrisse Truman Capoti, In Cold Blood, o il crimine di Charles Manson, non sono casi tanto isolati, si incatenano gli uni agli altri formando un filo che ha a che vedere con la crisi morale del sistema, con una perversità che viene a galla, ma che in qualche modo stava già piantata nella vita di una società che si andò rovinando che si andò pervertendo. Pertanto questa domanda sulla quale stiamo facendo riflessioni tanto slegate si relaziona con l'altra domanda: ci sarà una rivoluzione? Questa rivoluzione, chi la farà? Se non intervengono le grandi masse operaio nella presa di coscienza, quella rivoluzione sarà posticipata. La rivoluzione non possono farla gli studenti in nessun paese. Possono avere la coscienza di come cammina male il mondo, ma la forza organizzata di un movimento deve venire dal popolo stesso. E quello io non lo vedo ancora negli Stati Uniti. Nel popolo nero si è visto un grande risveglio, ed è possibile anche che una prossima organizzazione si rivelerebbe interessantissima ed importantissima nello sviluppo stesso di questa rivoluzione, ma più in là non conosco, non so, non sono informato.
R.G.: Che cosa pensa della situazione cubana attuale?
P.N.: La Rivoluzione cubana è un fatto abbastanza grande ed importante per cui noi, gli scrittori della mia generazione, non abbiamo un altro obbligo che difenderla. Il fatto cubano ha un'importanza sorprendente nella vita dell'America Latina. È forse l'avvenimento più decisivo nella nostra storia dai movimenti dell'Indipendenza del 1810. Naturalmente la vita della Rivoluzione cubana si è vista turbata da una serie di fattori che hanno messo in grave pericolo la rivoluzione, che ha avuto bisogno di tutta la sua vitalità per sopravvivere, specialmente l'estensione del boicottaggio che le hanno imposto i governi latinoamericani per imposizione del Dipartimento di Stato. Questo è stato tragico. La cosa prima che avevamo dovuto fare fu aumentare le nostre relazioni con Cuba, aver conosciuto i progressi di questa gran esperienza nuova nel continente, aver avuto tutte le relazioni necessarie come per conoscere il processo della rivoluzione. Ora accadono cose tanto grottesche come questo: per andare a Cuba, la nipote dell'ex presidente Jorge Alessandri (ora nuovamente candidato presidenziale dalla destra) dovette andare da qui a Madrid, dai Madrid a Praga, da Praga a Cuba dove stette una settimana. Per ritornare dovette volare di L'Avana a Madrid o a Londra, da lì a Praga, da Praga a Buenos Aires, da Buenos Aires al Cile. Cioè che un volo di circa dieci ore richiede da quattro a cinque giorni per farlo di andata e ritorno. Questi sono i frutti ridicoli dell'isolamento e del blocco imposti a Cuba. Ma tutti quelli che applaudono queste misure sono quelli che si lamentano della Cortina di Ferro e delle difficoltà che crea gli scrittori; mentre si sta imponendo su Cuba una specie di cerchio inaccettabile, medievale, destinato ad ignorare il suo progresso ed ammazzarlo per fame. Questo è completamente grottesco oltre ad essere ingiusto. Il fatto che non si possa né visitare, né commerciare, né avere relazioni diplomatiche con un paese latinoamericano con gente tanto vicina a noi, come nostri parenti che parlano la nostra lingua, con una storia comune, mi sembra, veramente, il colmo. E tutto perché a governanti come Johnson o Nixon ed i capitalisti creoli non piace il sistema politico di quel paese. Questo è completamente grottesco. Essi sono padroni di darsi il regime che vogliono. Noi cileni stiamo molto attenti alle esperienze della Rivoluzione cubana e guardiamo con immensa simpatia il suo crescente sviluppo.
R.G.: Ed il Che Guevara?
P.N.: Il Che Guevara è arrivato ad essere un mito. Fu un uomo molto prode e molto interessante. Rimane poco da dire perché tutto si è detto. È arrivato ad essere un mito mondiale e ad avere una influenza attiva e creatrice del secolo XX. Molto doloroso il suo destino. Fu assassinato in un paese che presto alzerà monumenti nel suo onore.
R.G.: Tornando a Cuba, non potrebbe confrontarsi il suo blocco con quello delle Gemanie?
P.N.: Ah, questo è distinto. In un paese c'è uno Stato socialista e nell'altro uno Stato capitalista. Inoltre si stava facendo dalla Germania occidentale un'intensa campagna per distruggere da lì lo Stato della Repubblica Democratica Tedesca. Il muro è antipatico, ma credo che fosse necessario. Nel frattempo la Germania democratica, la Germania orientale, si è elevata come una delle più grandi potenze economiche del mondo; credo che occupi il nono posto tra i paesi produttori. È miracoloso che nonostante abbia accanto la Germania Federale col suo grande impulso e l'enorme aiuto degli Stati Uniti e dei monopoli, questo paese sia uscito dalla distruzione, delle rovine, e sia riuscito in tanti successi con la nuova società che ha costruito. In generale, tutte le frontiere tra i paesi devono finire. Ma ce ne sono alcune più dolorose di altre. Suppongo che quello che sta accadendo in Germania avrà causato pratici problemi umani, immensi problemi, ma mi sembra che per essere tanto prossimi geograficamente non rimanesse più rimedio che questa separazione. Finchè non si riconosca quella Germania e non ci sia mutuo rispetto disgraziatamente deve essere così. Perciò quello che vogliamo in America sono relazioni diplomatiche con Cuba, riconoscimento della Rivoluzione cubana e dello Stato cubano, dello stato attuale della nazione cubana, così come è, con la sua rivoluzione e la sua repubblica.
R.G.: Ha prodotto la tecnologia una crisi di valori della cultura umanistica?
P.N.: Bene, c'è gente che crede che la tecnologia inghiotta l'uomo. Io non credo tale cosa. Ricordo come gli agricoltori inglesi, ed anche i nordamericani, combattevano la ferrovia. La tecnologia è una necessità assoluta del progresso dell'umanità. Lo sviluppo della tecnologia non esiste per mangiarsi l'uomo. Questa paura del progresso tecnico e delle proiezioni che possa avere è una paura cosmica, con un carattere di superstizione tanto grande come quello delle tribù preistoriche. Ora siamo arrivati ad avere paura dell'uomo stesso, paura cosmica di quello che l'uomo può scoprire. Io, naturalmente, non sento nessuno di quei panici. Penso che, al contrario, il cammino dell'uomo è la scoperta, penso che Dio abdicò e che da allora Dio è l'uomo.
R.G.: Una delle paure, e giustificata, è che si usino i progressi tecnologici per fini distruttivi.
P.N.: La maledizione dell'umanità è che tutto quello che si perfeziona nella tecnica finisce per usarsi per la distruzione di vite umane. Bene, su quella base dobbiamo basare l'umanesimo di questa epoca, lottare contro la guerra e contro le esplosioni atomiche termonucleari. Ma questa è una lotta a parte. Non perché si producono queste cose chiudiamo il passo al progresso tecnico. Veramente è commovente che esistano questi mezzi di distruzione. Giustamente sta ora in Chile Linus Pauling, un uomo molto rispettabile, che ha parlato tanto francamente e ha espresso concetti tanto straordinari sulla distruzione atomica che dobbiano stare in guardia. Naturalmente, negli ultimi anni c'è stato un movimento molto grande contro il pericolo atomico e possibilmente le grandi potenze decidano di non continuare a fabbricarle. Non so in realtà come vanno quei negoziatz, ma credo che l'intenzione sia seria.
R.G.: Che cosa predice per la nuova decade?
P.N.: Non so se ci sono più speranze o predizioni. Penso che possa risolversi il problema del Vietnam, cioè, il ritiro delle truppe nordamericane e l'autodeterminazione del paese vietnamita. È il conflitto più grave che ha l'umanità. Mi sembra che ci siano anche vie di rispettarsi fra le due Germanie come repubbliche separate; questo porterà una grande tranquillità all'Europa. Ma, sembra che stia parlando come i veggenti!
R.G.: Bene, che cosa è allora quello che si aspetta dalla nuova decade?
P.N.: Realmente credo che quello accadrà. Invece, non vedo tanto vicina la soluzione al conflitto in Medio Oriente che è anche un problema grave. In America Latina credo che ci sarà una tendenza generale ad una maggiore indipendenza dall'imperialismo. Si aggraverà la lotta antimperialista e mi sembra che la cosa più importante succederà in Cile. Credo che l'elezione la vinceranno le forze popolari e che ci saranno cambiamenti abbastanza grandi. Non posso dire che cosa accadrà in altri paesi dell'America Latina; in molti di essi le condizioni sono insopportabili.
R.G.: Nel caso sia eletto presidente, continuerebbe a scrivere?
P.N.: Scrivere per me è come respirare. Non potrei vivere senza respirare e non potrebbe vivere senza scrivere.
R.G.: Potrebbe scrivere tanto quanto fino ad ora?
P.N.: Credo di sì.
R.G.: L'ho visto scrivere nell'auto...
P.N.: Io scrivo dove posso e quando posso, ma sto scrivendo sempre.
R.G.: Lo fa sempre in forma manoscritto?
P.N.: Da quando ebbi un incidente in cui mi ruppi un dito, non potei, per alcuni mesi, maneggiare la macchina da scrivere. Seguii l'abitudine della mia tenera gioventù e tornai a scrivere a mano. Dopo, quando già migliorai del mio dito che era mezzo rotto, e potei maneggiare la macchina, ci mi ero già riabotuato a scrivere a mano. Trovai che scrivere a mano aveva più sensibilità e che le forme plastiche della mia poesia potevano cambiare più facilmente. Cioè, compresi che la mano aveva qualcosa a che vedere con quello. Ho appena letto su París Review quello che dice Robert Graves al giornalista che lo interroga: "Non ha richiamato la sua attenzione qualcosa in questa casa, in questa stanza? Tutto è fatto a mano." "Lo scrittore - dice Robert Graves - non deve vivere se non tra cose fatte a mano". Ma mi sembra che Robert Graves si dimentichi che anche la poesia deve scriversi a mano. A me sembra che la macchina mi allontanava da molta intimità con la poesia, e la mano mi ha avvicinato di nuovo a quell'intimità.
R.G.: Quali sono le sue ore di lavoro?
P.N.: Non ho orario, ma di preferenza nella mattina. Cioè, se a questa ora non ci fosse Rita facendomi perdere tempo, e perdendo il suo, io starei scrivendo.
R.G.: Più o meno, quante ore giornaliere scrive?
P.N.: Non scrivo e leggo molte cose al giorno. Il mio grande desiderio sarebbe scrivere tutto il giorno, ma molte volte la pienezza di un pensiero, di un'espressione, di qualcosa che esce in una maniera tumultuosa dalla mia propria ispirazione, usando una parola antiquata, mi lascia o soddisfatto o esausto o pieno o vuoto. Cioè, non potrei proseguire. Per il resto mi piace troppo vivere per stare tutto il giorno seduto ad una scrivania. Questo è qualcosa che non è d'accordo con me; a me piace mettermi in tutti i viavai della vita, della mia casa, della politica, della natura. Sto sempre entrando ed uscendo. Non posso dire allora che consacro tutto il giorno a scrivere, ma dove sono e quando posso scrivo intensamente. Non mi disturba che ci sia molta gente intorno a me. Posso scrivere e sviluppare il mio pensiero benché stiano conversando, discutendo o litigando. Più ancora, se all'improvviso rimangono silenziosi, quello mi perturba.
R.G.: Già terminò di scrivere il suo ultimo libro?
P.N.: Sì, si chiama La espada encendida.
R.G.: Prosa o versi?
P.N.: Sempre versi. Si tratta del mito di Adamo ed Eva, del castigo e della colpa, in realtà, di un nuovo Adamo, di una nuova Eva. Il mondo è finito, la bomba e la guerra l'hanno distrutto, ed Adamo, l'unico uomo sulla terra, si incontra con Eva. La vita nell'umanità comincia nuovamente con essi. È un libro di grande intensità. Bene, lì sta il libro. Non lo conosco bene. L' ho appena scritto e non l'ho ancora letto. Quando termino un libro non mi piace correggere immediatamente gli errori perché sento il desiderio di allontanarmi da lui. Ora sto aspettando che passino alcuni giorni per tornare a leggerlo con più serenità.
R.G.: Quando si pubblicherà?
P.N.: In marzo o aprile dell'anno prossimo.
R.G.: Chi lo pubblica?
P.N.: Losada, di Buenos Aires. Losada è il mio editore e ho con lui le migliori relazioni. Non è stato sempre così per me; ho litigato con molti editori. La relazione tra scrittore ed editore è abbastanza difficile, ma ho la fortuna di avere un editore che mi capisce e col quale non ho avuto mai problemi.
R.G.: Non ha editori in Cile?
P.N.: Li ho, ma sono piccoli per la necessità di espansione dei miei libri. I miei primi editori furono cileni e di quando in quando do loro i miei libri. Molte volte mi interessa che un libro esca in primo luogo in un'edizione cilena. Così l'ho fatto con le ultime opere. Le edizioni limitate le facciamo qua e Losada non mi ha mai fatto difficoltà per questo.
R.G.: Pensa di scrivere un altro libro?
P.N.: Naturalmente ne scriverò un altro, ma non posso dire di che cosa si tratta, ancora non ho fatto un piano. Ho appena finito La espada encendida ed ancora non l'ho corretto.
R.G.: Quanto impiega a scrivere un libro?
P.N.: Più o meno un anno. Fin de mundo che si pubblicò l'anno scorso, impiegai più di un anno per scriverlo. L'ultimo è stato più rapido malgrado abbia avuto meno tempo.
R.G.: Lei non ha avuto mai molta stima della sua prosa. Perché?
P.N.: La prosa..., tutta la mia vita ho sentito la necessità di scrivere in versi e non mi interessa l'espressione in prosa. La uso per esprimere una certa classe passeggera di sentimenti, o avvenimenti derivati del racconto. Inoltre, ho scritto sempre prosa senza considerarla troppo e la verità è che posso lasciarla interamente. Scrivo solo transitoriamente in prosa.
R.G.: Per anni lei è stato menzionato come candidato per il premio Nobel. Crede che la presidenza potrebbe influire in qualche modo nella decisione dell'Accademia Svedese?
P.N.: Quella domanda deve essere fatta all'Accademia e non a me, e, naturalmente, l'Accademia non le risponderà.
R.G.: Se dovesse scegliere tra la presidenza ed il premio, che cosa sceglierebbe?
P.N.: Non è questione di decisione tra cose tanto illusorie.
R.G.: Supponendo gli mettano su un tavolo la presidenza ed il premio?
P.N.: Se me le mettono su un tavolo siedo a tavola.
R.G.: Che cosa pensa dell'atteggiamento di Sartre quando ricevè il premio Nobel?
P.N.: È molto rispettabile, ma è una reazione individuale della sua poderosa personalità. Non credo che sia una questione da dibattere, mi sembra che sia una reazione molto degna di un uomo tanto combattente e di tanta volontà come è Sartre.
R.G.: Crede giusto il premio a Beckett?
P.N.: Credo che sì. Beckett è un scrittore breve ma squisito. Anche io credo che il premio Nobel dove cada sta onorando sempre la letteratura, la poesia, il romanzo o il teatro. Io non sono di quelli che stanno sempre discriminando se il premio cadde bene o cadde male. Quello che costituisce l'importanza di quel premio, se la ha, è che concede al mestiere letterario un titolo di rispetto per la massa, per la gente, per gli altri. Quella è il più importante.
R.G.: Molte volte lei è stato fortemente attaccato per il modo in cui vive e per la sua ricchezza economica...
P.N.: In generale quello è un mito. Noi abbiamo ricevuto un'eredità abbastanza brutta in un certo senso della Spagna. Non potè mai tollerare che la sua gente emergesse che si distinguesse in qualcosa. Come si sa, Cristoforo Colombo lo incatenarono di ritorno in Spagna. Io credo che dalla Spagna riceviamo quell'impatto della piccola borghesia invidiosa che vive pensando a quello che hanno gli altri ed a quello che essa non ha. Io ho dedicato la mia vita alle rivendicazioni del popolo, e quello che io ho nella mia casa, i miei libri, è prodotto del mio proprio lavoro. Io non ho sfruttato nessuno. Ma questo rimprovero non lo fanno mai a quelli che hanno grandi fortune come eredità. Non lo fanno mai agli scrittori ricchi per famiglia. Si pensa che essi hanno diritto ad avere mezzi economici superiori agli altri. Invece, di un scrittore che come me ha praticamente 50 anni di lavoro, stanno tutto il tempo dicendo: "Guardi, guardi come vive. Ha una casa di fronte al mare, beve un buon vino". È ben difficile bere un cattivo vino in Cile perché quasi tutto il vino in Cile è buono. Infine, tutto questo coro dei cretini del nostro tempo non mi preoccupa affatto. È un problema che in un certo modo riflette il sottosviluppo del nostro paese, la mediocrità della  nostra classe media. Lei stessa mi ha raccontato che Norman Mailer gli avevano pagato circa 90.000 dollari per tre articoli in una rivista nordamericana. Qui, se un scrittore latinoamericano ricevesse un compenso così per il suo lavoro sveglierebbe un'onda di proteste degli altri scrittori, dicendo: "Che abuso! Che brutto! Ma dove andremo a finire!", invece di rimanere tutto il mondo contento che un scrittore possa raggiungere tali onorari. Bene, come dico, questi sono cattivi del cosiddetto sottosviluppo culturale.
R.G.: Non sarà quell'accusa più intensa per appartenere al Partito Comunista?
P.N.: Precisamente quello è il valore di una posizione come quella mia. Quello che non ha niente, si è già detto molte volte, non ha niente da perdere se non le sue catene. Ed io arrischio continuamente la mia vita, la mia persona, quello che ho, i miei libri, la mia casa, tutto questo lo metto in gioco per difendere il futuro e la giustizia. La mia casa è stata incendiata, io sono stato perseguito, sono stato più di una volta carcerato, sono stato esiliato, mi sono state impedite comunicazioni, sono stato cercato dappertutto da mille poliziotti. Molto bene, forse. Io non mi accontento di quello che ho. Quello che ho lo metto a disposizione della lotta popolare. Questa casa in cui lei sta appartiene da 20 anni al Partito Comunista di Cile a cui la ho regalata con scrittura pubblica. Io sto semplicemente in questa casa per una decisione del mio partito, per la generosità del mio partito. Sto usufruendo di un bene che non mi appartiene dato che lo donai, come tutte le collezioni, e tutti i libri, e tutti gli oggetti che ci sono in questa casa. Ho regalato una biblioteca intera all'università del mio paese. Ho regalato anche la casa in cui attualmente vivono alcuni dei dirigenti del mio partito. Vivo col prodotto dei miei libri. Non ho risparmi, non ho niente da disporre bensì di quello che mi pagano per i miei libri ogni mese. Finì lì. Sarebbe bene che quelli che mi rimproverano facciano la stessa cosa e che lascino per lo meno le loro scarpe da qualche parte per darle ad altri.
R.G.: Non sarà un'altra delle sue donazioni la Fondación Cantalao, una città di scrittori in Isla Negra?
P.N.: Ultimamente sono riuscito ad acquisire, pagandolo a rate, un grande terreno di fianco al mare affinché gli scrittori nel futuro possano passare la loro villeggiatura e fare la loro opera creativa in un ambiente di straordinaria bellezza, come lo sarà la Fondación Cantalao. Sarà diretta da persone dell'Università Cattolica, dell'Università del Cile e della Società di Scrittori. Sarà una fondazione affinché gli scrittori sovvenzionati possano vivere per un anno col prodotto dei miei diritti d'autore, godendo di una casa comune per riunioni ed atti oltre a capanne individuali per lavorare.
R.G.: A lei attribuiscono un antagonismo con Borges.
P.N.: L'antagonismo che mi è attribuito con Borges non esiste nel fondo, può esistere in forma intellettuale e culturale per il nostro diverso orientamento. Uno può litigare in pace. Ma io ho altri nemici, non gli scrittori. I miei nemici sono i militari-politici, per me il nemico è l'imperialismo, e sono i capitalisti e sono quelli che lasciano cadere il napalm in Vietnam. Ma non è Borges il mio nemico.
R.G.: Che cosa pensa della letteratura di Borges?
P.N.: È un grande scrittore, e caspita, la gente ispanofona è molto orgogliosa che esista Borges, soprattutto la gente latinoamericana, perché prima di Borges avevamo molto pochi scrittori che potevano affrontare il paragone con quelli dell'Europa. Abbiamo avuto grandi scrittori, ma un scrittore di tipo universale, come Borges, èsiste da molto poco nei nostri paesi. Egli è stato il primo. Non posso dire che è stato il più grande, e magari sarà cento volte superato da altri, ma comunque egli aprì la breccia, l'attenzione, la curiosità intellettuale dell'Europa verso i nostri paesi. Quello è tutto quello che posso dire. Ma io litigare con Borges, perché tutto il mondo vuole farmi litigare con Borges, non lo farò mai. Che egli pensi come un dinosauro, non ha niente a che vedere col mio pensiero. Egli non capisce niente di quello che accade nel mondo contemporaneo e pensa che neanche io lo capisco. Allora, siamo d'accordo.
R.G.: Domenica lo visitarono alcuni giovani argentini che cantarono, accompagnandosi per chitarre, una milonga di Borges. Credo che quello gli piacque molto.
P.N.: La milonga di Borges mi piacque moltissimo, soprattutto è un esempio, che un poeta tanto ermetico, un scrittore, diciamo tanto sofisticato, o tanto intelectualista, si dedichi ad un tema popolare facendolo in una maniera tanto abile e vera. A me piace molto la milonga di Borges e mi sembra che dovrebbero imitare il suo esempio molti dei poeti latinoamericani, poiché quasi tutti noi abbiamo la stessa preoccupazione popolare e tradizionale.
R.G.: Anche a lei hanno chiesto che scriva lettera delle milonghe. Lo farà?
P.N.: Non credo, non è una forma del mio paese, è una forma del Río de la Plata, pertanto io non la conosco abbastanza. Per farlo uno deve dominare quello stile popolare, deve essere d'accordo col paese, con le radici della nazione e della vita.
R.G.: Ha scritto per la musica folcloristica cilena?
P.N.: Ho fatto qualcosa. Sono molto conosciute in questo paese.
R.G.: Che cosa è quello che più ricorda della sua vita personale, politica e letteraria?
P.N.: Non so. Probabilmente i ricordi più intensi della mia vita sono i ricordi della mia vita in Spagna. Una grande fraternità di poeti, una grande amicizia con molti di essi, un'accoglienza tanto fraterna e di tanta qualità che io non avevo conosciuto in questo nostro mondo americano, tanto pieno di alacraneos, come si dice a Buenos Aires. Dopo, fu terribile per me vedere tutta quella repubblica di compagni, di amici, quello stato di cose, quello regno, spezzato dalla guerra civile che mi mostrò la terribile realtà dell'oppressione e del fascismo. I miei amici furono dispersi dalla guerra, alcuni furono sterminati lì stesso, come García Lorca, come Miguel Hernández, altri morirono nell'esilio ed altri continuano nell'esilio. Tutta questa faccia della mia vita fu ricca in avvenimenti, in emozioni profonde ed in cambiamenti decisivi nella mia propria storia e nell'evoluzione della mia vita.
R.G.: È allora la Spagna il paese più fondamentale nella sua vita?
P.N.: Il paese più fondamentale per me è il mio paese. Ma forse, dopo il Cile, la Spagna è quella che ha avuto più importanza. Non so come starà ora, dibattendosi ancora nella fine di Franco. Non ho potuto mai girarla con pienezza. Sono passato solo per i suoi porti.
R.G.: Gli permettono l'ingresso?
P.N.: Non mi è proibito l'ingresso in una maniera ufficiale. Al contrario, in un'occasione fui invitato per l'ambasciata del mio paese per fare recital. Sembrava allora che tutto fosse spianato in quanto ai visti. È molto possibile che mi avrebbero lasciato entrare. Non voglio discutere questo punto perché per a può essere convenienza del governo spagnolo che voleva mostrare qualche senso democratico permettendo l'entrata di chi tanto fortemente lo ha combattuto. Non so. Mi hanno impedito di entrare in tanti paesi e mi hanno espulso da tanti altri che veramente questo è un tema che oramai non mi causa l'irritazione che mi produsse all'inizio. Col tempo anche queste cose si sono ammorbidite. Molte delle misure che si presero contro di me per farmi uscire da un paese sono state invertite ed abolite. In ogni maniera, ha smesso di produrrmi un vivo prurito il fatto che mi lascino entrare o che non mi lascino entrare in una parte o in un'altra.
R.G.: Nella "Oda a Federico García Lorca", scritta prima che egli morisse, lei prediceva in una certa forma la sua tragica fine.
P.N.: Sì, è strano quel poema, sembra che stessi vaticinando in qualche modo la sua morte, essendo che Federico  era una persona tanto felice, era una creatura gioiosa. Molti pochi esseri ho conosciuto come lui. Era l'incarnazione, non diremo del successo, bensì dell'amore alla vita. Godeva ogni minuto della sua esistenza, era un gran scialacquatore di allegria. Per quel motivo quello è stato uno dei crimini più imperdonabili del fascismo.
R.G.: Lei lo menziona sempre nei suoi poemi, così come Miguel Hernández.
P.N.: Hernández era come un figlio, era un pò il mio discepolo in poesia. Viveva praticamente nella mia casa dove mangiava quasi tutti i giorni. Lì si provò la bugia che ha circondato la morte di Federico García Lorca, la bugia ufficiale che ha preteso di dare come causa di questo crimine i primi momenti di confusione della guerra civile che naturalmente esistettero. Ma, se fosse così, perché allora il governo fascista della Spagna mantenne per tanto tempo nella prigione, dopo l'assassinio di Federico García Lorca, il più straordinario dei poeti delle nuove generazioni che fu Miguel Hernández? Perché lo trattenne fino alla morte nella sua prigione? Perché si rifiutò ancora di trasportarlo in un ospedale, come propose l'ambasciata del Cile? Anche la morte di Miguel Hernández è un assassinio.
R.G.: Della sua permanenza in Oriente, che cosa è quello che più ricorda?
P.N.: La mia permanenza in Oriente fu in un certo modo un incontro per il quale io non ero preparato. Mi oppresse lo splendore di quello continente che io non conoscevo e contemporaneamente mi sentii disperato, perché era molto lungo il termine della mia vita e della mia solitudine. E molte volte mi sembrò che ero rinchiuso in un interminabile film ad ogni colore, meravigliosa, ma che non mi permettessero mai uscire da quel film che continuava per un'eternità. Io non ebbi il misticismo che guida molti sudamericani e molti altri all'India. Suppongo che la gente che va in India a cercare una risposta religiosa alle sue inquietudini vedrà altrimenti le cose. Mi commosse profondamente quel grande Stato, quell'immensa nazione tanto inerme, tanto indifesa, legata al giogo del suo impero. La cultura inglese stessa, per la quale ebbi sempre straordinaria predilezione, mi sembrò a volte nefanda per essere anche un strumento di sottomissione intellettuale per molti degli indù di quell'epoca. Mi mischiai anche con la gioventù ribelle di quello continente e, nonostante il mio incarico consolare, frequentai tutti i rivoluzionari. Stetti vicino al grande movimento che produsse più tardi l'indipendenza dell'India. In quegli anni del 1928 mi toccò conoscere (benché, solo scambiando alcune parole ed un saluto) Nehru, a suo padre il pandit Motilal Nehru ed a Subhas Chandra Bose, uno degli uomini più interessanti dell'epoca rivoluzionaria dell'India, che guidato dal suo intensissimo patriottismo si mise durante l'ultima guerra dalla parte dei giapponesi. Era lo spirito di molti di questi indipendentisti dell'India e degli imperi coloniali nell'Asia. Per essi un dominatore era come un'altro. Credevano che cambiare colonizzatori avrebbe dato l'opportunità di dividerli. Non posso giudicare Subhas Chandra Bose malgrado in quel momento il Giappone fosse un alleato di Hitler. La sua memoria è ancora molto rispettata in India. Conobbi anche studenti anonimi, maestri e scrittori, non senza difficoltà, perché anche essi diffidavano di me. Diffidavano di tutto ed avevano ragione. In una lotta tanto grande ognuno deve avere gli occhi aperti.
R.G.: Fu in India dove scrisse Residencia en la tierra?
P.N.: Sì, ma l'India non ha avuto influenza intellettuale nella mia poesia.
R.G.: Anche da lì scrisse quelle lettere tanto commoventi all'argentino Héctor Eandi?
P.N.: Sì, quelle lettere furono un grande episodio nella mia vita. Quello scrittore argentino, che io non conoscevo personalmente, si fece carico, come buon samaritano, di tenermi aggiornato delle notizie; egli mi mandava giornali in quelli momenti di grande solitudine. Io temevo perfino a di perdere contatto con la lingua perché ero circondato di genti che parlavano altre lingue, e per mesi e mesi, o per anni, non trovavo con chi parlare in spagnolo. Mi ricordo che in una lettera a Rafael Alberti gli chiedevo un dizionario spagnolo che non si trovava in India. Posso dire anche che per settimane intere non vedevo un solo essere umano.
R.G.: Andò in India per propria volontà?
P.N.: No, io avevo un posto di console, ma era un posto di piccolo console, di quei consoli che non hanno stipendio. Io vivevo in grande povertà ed anche nella solitudine più grande.
R.G.: Lì lei ebbe quel grande romanzo con Josie Bliss, che menziona in molti dei suoi poemi.
P.N.: Sì, Josie Bliss fu una donna che lasciò un'orma abbastanza profonda nella mia poesia. L'ho ricordata sempre, anche negli ultimi libri.
R.G.: La sua opera è molto legata alla sua vita personale?
P.N.: Naturalmente, la vita di un poeta deve riflettersi nella sua poesia. Questa è la legge del mestiere ed una legge della vita.
R.G.: Lei è uno dei poeti più tradotti, come in 30 lingue.
P.N.: Non le ho contate mai, ma sì so che si sono tradotto in vari posti.
R.G.: In che lingua crede che siano meglio tradotti
P.N.: Io direi nell'italiano, perché c'è una similitudine di valori tra le due lingue. Tanto l'inglese come il francese, che sono le due lingue che conosco al di fuori dell'italiano, non corrispondono con la lingua spagnola né nella vocalizzazione, né nella collocazione delle parole, né nel colore, né nel peso di esse. Cioè, la stabilità di un poema che si scrive in spagnolo con sperpero o economia verbale, ma che ha una misura ed una maniera di posare ogni parola, non trova il suo equivalente né nel francese, né nell'inglese. Non si tratta dell'equivalenza interpretativa, no, il senso può essere giusto, ma quella giustezza di traduzione, di senso, può essere la distruzione del poema. Per quel motivo penso che l'italiano è quello che più si avvicina, perché conservando i valori della parola, anche il suono riflette il senso. In francese, in molte delle mie traduzioni, non dico in tutte, sembra che la mia poesia scappi da esse che non rimanga niente, ed uno non può protestare perché lì è detta la stessa cosa che uno ha scritto. Ma è chiaro che se io avessi scritto in francese, se fosse stato un poeta francese, non avrebbe detto quello che dissi in quello poema, perché il valore delle parole, il colore, l'odore, il peso è differente. Avrei scritto allora un'altra cosa.
R.G.: Ed in inglese?
P.N.: Trovo che la lingua inglese, tanto differente della lingua spagnola e tanto più diretta, molte volte esprima il senso della mia poesia, ma non porta l'atmosfera della mia poesia. Può essere che accada la stessa cosa quando si traduce un poeta dall'inglese allo spagnolo.
R.G.: Anche lei ha fatto traduzioni allo spagnolo dall'inglese e del francese.
P.N.: Ho tradotto più dell'inglese. Ho tradotto William Blake, Whitman, Shakespeare. Credo di averlo fatto bene. Le mie traduzioni di Blake sono molto antiche. Sono tornato a leggere perché di quando in quando li riproducono e mi sono piaciute abbastanza.
R.G.: La sua traduzione di Romeo e Giulieta, rappresentata in Cile ed a New York, ha avuto molto successo.
P.N.: Sì, fu un'esperienza abbastanza interessante. Nei paesi latinoamericani c'è il mito di Shakespeare ed il mito di Dante. Praticamente nessuno che non legga inglese ha letto Shakespeare, nessuno che non legga italiano ha letto Dante. Le traduzioni di Shakespeare, per esempio, sono traduzioni che sono costate molto lavoro, ma che non hanno dato la complessità raggiante della poesia di Shakespeare, soprattutto in tragedie come Romeo e Giulieta che sono scritte totalmente in versi. Al contrario, diedero uno Shakespeare spagnolizzato, tradotto nella poesia retorica e rigida del principio del secolo. Io ho il merito di avere fatto una traduzione da Shakespeare umanizzata, nella quale rispetto totalmente il senso di Shakespeare. È tale la corrente di umanità che passa per questa mia versione che durante le centinaia di rappresentazioni che si fecero, non rimaneva nessuno nel teatro senza commuoversi o piangere.
R.G.: Non furono le sue prime traduzioni quelle di Rainer Maria Rilke?
P.N.: Nella mia gioventù, là negli anni più lontani della mia gioventù, tradussi Rilke dal francese. Tradussi anche qualcosa di Baudelaire.
R.G.: È d'accordo coi critichi che dividono la sua opera in tappe?
P.N.: Ho un pensiero abbastanza confuso su tutto quello. Non ho tappe, le scoprono i critichi. Uno vive senza tappe e non sa quando sta incominciando o quando sta finendo una tappa. La mia poesia, se ha qualcosa è che è un organismo, è organica e si stacca dal mio proprio corpo. La mia poesia fu infantile quando io ero bambino, giovanile quando io ero molto giovane, desolato quando soffrii, combattiva quando dovetti entrare nella lotta sociale, ed un miscuglio di tutte queste differenti tendenze sta sempre nella mia poesia attuale che può essere contemporaneamente forse infantile, combattiva e desolata. Infine, non ho molto più da dire su questo punto. Scrissi sempre per necessità interna e suppongo che questo accadrà a tutti gli scrittori e specialmente a tutti i poeti. Temo molto non essere interessante in questo. Sono un anti intelettualista, non mi piace molto né l'analisi né l'esame delle correnti letterarie. Non sono un scrittore che si nutre di libri, benché abbia bisogno dei libri per la mia vita.
R.G.: Dei poemi di Residencia en la tierra lei ha detto: "Non aiutano a vivere. Aiutano a morire."
P.N.: Il mio libro Residencia en la tierra rappresenta un momento pericoloso ed oscuro della mia vita. È una poesia senza uscita, quasi dovevo rinascere per uscire da essa. In quel senso la guerra della Spagna mi salvò da quella disperazione che non so ora fino a che punto era profonda. Si unì un momento di grande solitudine della mia vita in India, della quale già parlammo, in cui scrissi la maggior parte del mio libro Residencia en la tierra. Poi sono accadute molte cose, alcune di esse abbastanza gravi, abbastanza gravi per farmi meditare. Per esempio, una volta dissi che se io arrivassi ad avere l'autorità necessaria proibirei la lettura del mio proprio libro e che sarebbe disposto a che non si stamperebbe più. Comprendo che è una proposta abbastanza choccante, abbastanza dura di sentire. Questo mio libro esagera, o porta tanto lontano il sentimento della vita come un carico angoscioso, della vita come un'oppressione mortale, che arriva ad avere un'aria rarefatta. Anche io so che è uno dei miei migliori libri, nel senso che ha una profondità che potè darmi il momento in che io vissi quella poesia. Ma uno, quando scrive, e non sa se accadrà agli altri scrittori, deve pensare dove cadono i suoi versi. Robert Frost, in uno dei suoi saggi in prosa, dice che la poesia deve avere come orientamento solo il dolore: "Lasciate il dolore solo con la poesia." Egli non vuole avere in quella riflessione nessun sentimento civico, gli sembra che quello lo allontani dal suo centro, della sua essenza. Non so che cosa penserebbe Robert Frost se un giovane si suicidasse e lasciasse un suo libro macchiato di sangue di fianco alla sua testa perforata da uno spero. Quello mi è accaduto, qui in questo paese. Un ragazzo pieno di vita si suicidò vicino al mio libro. Non mi sento davvero colpevole della sua morte. Credo che molti problemi che non conosco lo portarono al suicidio. Ma quella pagina della mia poesia macchiata col sangue di un giovane è per fare riflettere non solo un poeta bensì tutti i poeti. Dopo, come con quasi tutte le cose che uno dice o di cui parla, si approfittò politicamente della censura che feci del mio proprio libro. Non conoscevano questo episodio quelli che mi criticarono in una maniera dogmatica, attribuendomi un dogmatismo di parte, attribuendomi il desiderio di fare solo una poesia di ottimismo, di allegria, escludente. Perché ebbene, ora lo conoscono. Ma neanche ho rinunciato ad esprimere i sentimenti della solitudine, dell'angoscia o della malinconia. Mi piace cambiare tutti i toni, cercare tutti i suoni, perseguire tutti i colori, cercare le forze della vita dove stiano, nella creazione o nella distruzione. E così ho continuato a compiere i miei doveri di poeta. Non ho un'altra dottrina né un'altra verità. La mia poesia diventò chiara e allegra quando deviò verso le cose e gli oggetti più umili.
R.G.: Come nelle Odas elementales.
P.N.: Principalmente nelle Odas elementales. Ma neanche lo consiglio come un precetto o una ricetta, soprattutto quando si tratta di poeti giovani. Mi sembra che non possano arrivare al terreno di un'elevata poesia di sentimento sociale di un'elevata poesia di protesta e lotta, se non sono passati per le tappe che devono passare: quelle dell'amore delirante e dell'infinita angoscia. È naturale che la propria esperienza indichi ad ognuno la sua strada; se non c'è nessuna luce in quella strada, la sincerità del poeta deve esprimere quell'oscurità nella quale egli è sommerso. Chiedergli un'altra cosa sarebbe tirarlo fuori dal suo mondo, del quale egli deve uscire con la sua propria forza e seguendo le direzioni che gli indichi quella che chiamiamo l'anima. Poi viene la poesia a mettere il mondo di un altro colore. Nel frattempo compiamo il dovere più assoluto che è quello della sincerità.
R.G.: Fin de mundo, uno dei suoi ultimi libri, è anche abbastanza angoscioso.
P.N.: Sì, è abbastanza angoscioso, ma ha un'altra classe di angoscia. Non è l'angoscia cosmica, è l'angoscia per un mondo che è tanto pieno di morte e di massacro. Il mondo che mi toccò vivere dalla guerra della Spagna..., l'invasione dei nazisti, il massacro di ebrei fatto da Hitler, gli infernali bombardamenti, la bomba atomiche e tante cose terribili che ci è toccato vivere. Fin de mundo si chiama piuttosto perché voglio che quel mondo finisca, ma nonostante il nero che dipingo, penso che  alla fine c'è un tocco di speranza. Dico lì che se attraverso i voli spaziali ci toccasse cercare un altro pianeta, ritorneremmo sempre a questo pianeta marcio e magnifico che si chiama Terra, dove continueremo a vivere, dove continueranno a vivere gli esseri umani.
R.G.: Quando dice: "Perché tante cose accaddero e perché non ne accaddero altre?." A quali cose che non acaddero si riferisce?
P.N.: L'uomo credette sempre che sta salvandosi, tuttavia, è tanto difficile quella salvezza di tipo sociale! Io non credo nella salvezza dell'anima ed in tutte quelle cose mistiche che sono estranee a me, bensì nella salvezza della vita, nella preservazione del più importante che esiste: la vita dell'essere umano. Siccome viviamo sempre minacciati dalla guerra e dell'annichilimento, pensai: perché non accaaddero quelle altre cose? Perché, per esempio, la guerra della Spagna non ebbe una soluzione più giusta? Infine, c'era motivo per la disperazione e per la speranza. Quello è quello che voglio dire. Si dice anche in quello libro:

[…]
Non ci facciamo illusioni
ci consiglia il calendario,
tutto continuerà come ora,
la terra non ha rimedio:
in altre regioni celesti
bisogna cercare alloggio.

Naturalmente è il riflesso di una reazione momentanea. Dico tutto il contrario in alcune pagine seguenti. Nessuna delle cose che io dico possono rimanere come affermazioni eterne. Sono disposto a contraddirmi finché vivo.
R.G.: Vorrebbe leggere alcuno dei suoi poemi?
P.N.: Leggo "Muchos somos", di Estravagario.

Di tanti uomini che sono, che siamo,
non posso trovare nessuno;
mi si perdono sotto il vestito,
sono andati in altre città.

Quando tutto è preparato
per mostrarmi intelligente,
lo sciocco che porto nascosto
prende la parola nella mia bocca.

Altre volte m'addormento in mezzo
alla società distinta
e quando cerco in me il coraggioso
un codardo che non conosco
corre a prendere col mio scheletro
mille deliziose precauzioni.

Quando arde una casa stimata
invece del pompiere che chiamo
a precipita l'incendiario
e quello son io. Non ho misura.
Che devo fare per distinguermi?
Come posso riabilitarmi ?

Tutti i libri che leggo
celebrano eroi fulgenti
sempre sicuri di se stessi:
muoio d'invidia per loro,
e nei films di venti e pallottole
resto a invidiare il cavaliere,
resto ad ammirare il cavallo.

Ma quando richiedo l'intrepido
mi esce il vecchio pigrone,
così io non so chi mi sia,
non so quanti sono o saremo.
Mi piacerebbe suonare un campanello
e tirar fuori il me vero,
perché se ho bisogno di me
non devo scomparirmi.

Mentre scrivo sono assente
e quando torno son già partito:
vediamo se all'altra gente
succede quanto a me succede,
se sono tanti come son io,
se assomigliano a se stessi
e quando l'avrò stabilito
apprenderò così bene le cose
che per spiegare i miei problemi
vi parlerò di geografia.

R.G.: In Estravagario c'è una vena umoristica più apparente che nei suoi altri libri.
P.N.: Estravagario ha una forma equivoca, diciamo dello scherzo dell'intelligenza, o un senso più sorridente di quello c'è in molti altri dei miei libri. Questa è stata sempre una costante nella mia opera dal mio libro Crepusculario, una vena che tenta di ridere di sé stessa. Naturalmente, non tratto, né avrò nessun successo nel farlo, di arrivare a quello che si chiama umorismo. Tuttavia, l'umorismo nella prosa, nel romanzo, nel teatro mi è sembrato sempre fondamentale. Non solo Mark Twain è un umorista, lo sono anche Dostoyevski e Shakespeare. Questo umorismo fondamentale sta più lontano dal mondo poetico. Tanto nel mio libro Estravagario come in altri, specialmente in Fin de mundo, io accetto una partecipazione più definitiva di una visione divisa del mondo. Per "visione divisa" voglio dire che il personaggio - cioè l'autobiografo, il poeta - ha vari scompartimenti separati che si esprimono uno ad uno.
R.G.: Uno dei suoi primi libri, Veinte poemas de amore y una canción desesperada, è stato, e continua ad essere, letto da migliaia di innamorati.
P.N.: È un grande problema, io non so se letterario o umano. Lo dissi già nel prologo dell'edizione che festeggiava un milione di esemplari e che presto saranno due milioni. Io non capisco bene di che cosa si tratta. Come questo libro che è una libro amore-tristezza, amore-dolore, continua essendo indefinitamente letto da tanta gente, da tanti giovani? In realtà, non lo capisco. Forse questo libro significò l'interrogazione giovanile a molti enigmi, forse significò la risposta a quegli enigmi. In fondo è un libro doloroso, ma ha un'attrattiva che non è potuta scadere.
R.G.: In Cien sonetos de amor (1959) c'è un cambiamento.
P.N.: È un'altra forma dell'amore, un amore più maturo e più completo. Ma in generale i miei libri sono sempre un cambiamento di situazione, sono sempre - prendendo il nome di un libro di Carlos Fuentes - un cambiamento di pelle.
R.G.: Sono anche autobiografici.
P.N.: Non so. L'organismo umano, come ci dicono gli scienziati, sta cambiando sempre e le cellule si rinnovano, cioè, nessuna persona è la stessa dopo qualche tempo. Pertanto, la poesia di un poeta deve cambiare fondamentalmente e contemporaneamente rimanere nella sua identità. Ma, come già le ho detto, a me non piace l'analisi, né ho un concetto analitico della poesia. È molto poco quello che possa aggregare a quello che già ho detto.
R.G.: Nella sua poesia ci sono simboli che si ripetono sempre e ffigurano sempre, come il mare, i pesci, gli uccelli...
P.N.: Non credo nei simboli. Sono cose materiali. Il mare, i pesci, gli uccelli esistono per me in una maniera materiale. Devo raccontare su essi come devo raccontare sulla luce del giorno. Il parola simbolo non si adatta esattamente al mio pensiero. Alcuni temi sopravvivono nella mia poesia, stanno riapparendo sempre, ma sono presenze materiali.
R.G.: Come il fuoco, il vino, l'incendio?
P.N.: Viviamo anche col fuoco, il vino e l'incendio. L'incendio fa parte della vita di questo mondo.
R.G.: La colomba, la chitarra, che significano?
P.N.: La colomba significa la colomba e la chitarra un strumento musicale chiamato chitarra.
R.G.: Cioè che quelli che hanno tentato di analizzare quegli elementi, sia partendo del concetto freudiano, o altro simile, non coincidono con la sua linea di pensiero.
P.N.: Io non ho nessun pensiero. Io scrivo perché devo scrivere, e quando vedo una colomba la chiamo colomba. Sia presente o non sia presente in quel momento, per me ha una forma, è nel soggettivo o nell'oggettivo, ma non va oltre essere una colomba.
R.G. : Di lei si è detto che è un poeta di libri e non di poemi.
P.N.: In realtà, se si pensa bene, hanno ragione, sono un poeta di libri e non di poemi, o posso essere delle due cose. Ma io penso in libri e per quel motivo non mi piace molto pubblicare su riviste. Le riviste fanno la delizia dell'adolescenza letteraria. Diventiamo pazzi per scrivere sulle riviste, pubblicare su riviste, benché quell'impazienza passi col tempo. A me, per lo meno, non sta interessando tanto che la mia poesia si pubblichi tra altri poemi sulle pagine letterarie dei giornali o delle riviste. Ogni volta mi piacciono meno le riviste, ogni volta mi piacciono più i libri. Le riviste tentano di avere lucentezza, fulgore, e tutto il mondo si prodiga per compiacere all'epoca, a quello che potrebbe chiamarsi la corrente contemporanea. Questo non mi preoccupa. Ho appena letto una bella intervista di Cortázar. A causa che un scrittore aveva criticato uno dei suoi recenti libri, Cortázar, con quella lucidità che caratterizza sempre il suo spirito polemico, spiega che i suoi libri formano una spirale. Alcuni, dice, possono contentarsi con un circolo ed una permanenza, ma egli vede la sua opera in spirale che forma una costruzione piramidale. Bene, non so quale sia la forma dei miei libri, non so se saranno orizzontali o spirali, ma vedo anche l'opera con un senso di costruzione. Forse io fornisco meno definizioni di Cortázar, ma la mia necessità è di cambiamento, di rispecchiare sempre nuove distanze. Mi piace pensare alla mia opera come estensione e come costruzione di qualcosa che precisamente non so quello che è, può essere un edificio, può essere una pergola o può essere anche una balaustra o una piazza, o un molo dove attraccano le barche, oppure possono essere qui alcune pietre sistemate qui e là. Ma il fatto è che non vedo le cose in forma isolata e se ho voluto fare un'opera ciclica è nel senso che voglio sempre esaurire i periodi, almeno percorrerli, percorrere i momenti, percorrere i temi in profondità ed in spazio. Da molto giovane mi preoccupò l'estensione, la distanza, lo spazio, le possibilità dell'uomo. Uno dei miei primi libri si chiama Tentativa del hombre infinito, bene, oggi io lo chiamerei "dell'uomo incompiuto". L'uomo è un essere incompiuto, e su quella mancanza di principio e di fine, due buchi della vita umana, deve costruirsi l'opera del poeta.
R.G.: Questo libro è stato sempre molto importante per lei, benché i critichi non l'abbiano tenuto tanto in conto.
P.N.: Mi piace molto, così come El habitante y su speranza, quasi il mio unico libro in prosa. Sono frutti persi dentro la mia opera, ma che stanno sempre in germinazione. Inoltre mi piace molto che siano nascosti sotto il fogliame che passi la gente senza vederli. Io ho gran affetto per essi.
R.G.: Se dovesse salvare le sue opere da un incendio, quale salverebbe?
P.N.: Probabilmente nessuna. Perchè ho bisogno delle mie opere fuori da un incendio? Mi piacerebbe salvare una ragazza..., o salvare una buona collezione di libri polizieschi che mi intratterrebbero molto più che la mia poesia.
R.G.: Quali dei suoi critichi hanno capito meglio la sua opera?
P.N.: Ahi, i miei critichi! I miei critichi mi hanno sminuzzato abbastanza. Mi hanno analizzato, mi hanno tagliato in pezzetti, con ogni amore o con ogni avversione. Nella vita, come nell'opera, uno non può lasciare contento tutto il mondo. Accadde sempre la stessa cosa, è molto poco cambiato dai tempi più remoti. Uno riceve baci o bastoni, carezze e calci, quella è la vita di un poeta. Quello che mi disturba è la tergiversazione, o la cattiva intenzione, con la quale si interpreta la poesia o gli atti della vita di uno. Per esempio, a lei consta, come giornalista che durante il mio soggiorno a New York durante quel Congresso del PEN Club che riunì tanta gente di un posto e di un altro, le mie dichiarazioni per Life en español (*) che lei come reporter riportò alla rivista, furono mozzate dopo dalla stessa direzione di Life. Ma a lei consta che le mie dichiarazioni su molti punti di cui conversammo in quell'occasione denotavano i miei punti di vista antimperialisti, non antiamericani. Fortemente io protestavo di tutte le avventure a che ci porta il carro di guerra nordamericano ed i suoi crimini del Vietnam, la sua invasione di Cuba, di Santo Domingo. Forse, quella parte del reportage, suo e mio, non vide la luce. E lei sa anche che io lessi i miei versi sociali a New York, e molto più in California dove lessi precisamente i miei poemi dedicati a Cuba, i miei poemi di adesione alla Rivoluzione cubana. Chi poteva pensare che gli scrittori cubani andavano a firmare una lettera ed a divulgarla in milioni di esemplari, nella quale le mie opinioni si mettevano in dubbio e mi segnalavano come una creatura protetta dai nordamericani; perfino si dava come un fatto che la mia entrata agli Stati Uniti era una specie di premio. Questo è perfettamente imbecille, se non fosse calunnioso, dato che io entrai come molti scrittori dei paesi socialisti, e si aspettava anche l'arrivo degli scrittori cubani. C'era in quello momento un'accettazione dei visti di entrata degli scrittori antimperialisti. Non perdevamo la nostra qualità di antimperialisti per andare precisamente a New York a dire le nostre verità. Tuttavia, così accadde, forse per fretta o per cattiva fede di questi scrittori. Io non mi mai sono dato il compito, né lo faccio ora, di rischiarare tale posizione. Il fatto stesso che io fino a pochi giorni fa fosse il candidato del mio partito alla presidenza della Repubblica significa che ho una storia vera di rivoluzionario. Sarebbe molto difficile trovare alcuni degli scrittori che firmarono quella lettera che potessero confrontarsi in storia, in consacrazione alla vita ed al lavoro di organizzazione, al lavoro rivoluzionario delle masse che potessero confrontarsi almeno colla centesima parte di quello che io ho fatto e lottato. Perciò, siamo disposti nella vita ad accettare successivamente l'ingiustizia critica o l'ingiustizia personale. Per fortuna ci sono intelligenze creative dentro la critica che sentono il vero germe della creazione degli altri. Ed anche, in tutti i posti, c'è gente in buona fede, e gente che crede nell'essere umano, ed è a quella gente che è un'enorme maggioranza che si chiama "popolo", alla quale io mi rivolgo. Cioè, mi rivolgo ad alcuni nel terreno intellettuale, alla limpidezza intellettuale di alcuni, e mi rivolgo anche a quelli che mi accompagnarono nel mio paese, ed in altri paesi, in una lotta che non penso di finire né ora né mai.
* Alcune delle domande e risposte non edite dell'intervista concessa per Life en español. L'intervista si portò a termine nel Luglio del 1966. L'articolo si pubblicò l'1 di agosto di 1966.
R.G.: Lei ha detto che tra gli scrittori dei paesi capitalisti ci sono più dissenzienti che tra quelli dei paesi socialisti...
P.N.: Gli scrittori in generale stanno male da tutte le parti. Questo è parte del nostro mestiere. Mi perdoni se io mi sento bene da tutte le parti. Il mio dovere è l'allegria. Se questo è antiliterario, I'm sorry.
R.G.: Che cosa influisce nell'opera di un autore il sapere che esistono rappresaglie contro la libera espressione?
P.N.: Questo delle rappresaglie mi sembra di moda una storia leggermente passata di moda. Gli scrittori non esulano dalla legge comune che concerne tutti i cittadini. Io sono a favore che in nessun paese gli scrittori siano portati davanti alla giustizia per quanto derivi dai loro libri, dalla loro funzione creativa. Per il resto, una sola bomba di napalm su una capanna in Vietnam può bruciare vivi, tra gli altri, più di uno scrittore e molti bambini che non avranno mai la libertà di espressione perché il napalm bruciò loro la gola.

R.G.: Quali furono le sue influenze letterarie?
P.N.: Questo è un capitolo interessante. A me sembra che sia stato influenzato da tutta la poesia che ho letto e naturalmente è difficile enumerare tante influenze. Il fatto è che sempre la letteratura soffre un'influenza che può essere demolitore o creatrice. È un processo. Così come l'azione degli elementi naturali polverizza i sentimenti profondi per trasformarli in una sostanza intima riflessiva, ardente o testimoniale, che si chiama la letteratura, così anche lo scrittore ha il dovere di apportare con la sua propria opera lo sviluppo dell'eredità culturale; di polverizzare in una maniera purificata quanto riceve e trasformarlo perpetuamente. È come il potere dell'alimentazione rispetto al sangue, alla circolazione. La cultura ha radici nella cultura, ma non solo in essa, perfino nella vita e nella natura. Tutte queste formule vanno e vengono dentro lo scrittore, dentro il poeta. Walt Whitman fu un gran compagno per me. Io sono stato poco whitmaniano nella mia maniera di scrivere, ma sono profondamente whitmaniano nella sua lezione vitale, in quell'accoglienza, in quell'abbraccio che dà al mondo, alla vita, agli esseri ed al paesaggio. Walt Whitman è una tremenda macchina che elabora instancabilmente coi materiali più nobili e più larghi che esistono sulla terra. È molto difficile trovare un altro poeta che abbia tanta importanza nel suo atteggiamento. Mi influenzarono anche nella mia epoca i simbolisti francesi, con quella scala luminosa da Rimbaud fino ai meno conosciuti o più screditati. A quattordici o quindici anni io fui un lettore affamato ed assetato, naturalmente tutto quello lasciò un'orma nella mia poesia. In qualche modo sempre si sta interscambiando con gli altri. Come l'aria che si respira non appartiene ad una zona, bensì all'atmosfera intera, uno sta interscambiando le esperienze, le conoscenze, l'avanzamento. Lo scrittore sempre sta cambiando di casa; egli deve cambiare i suoi mobili ma non la sua anima. Alcuni scrittori si sentono impoveriti da questa circostanza. Mi ricordo che Federico García Lorca, che era anche un umorista, un colossale umorista personale, stava chiedendomi sempre che gli leggessi i miei versi, i miei poemi, ma quando io ero a metà mi diceva: "Ferma, Ferma, non proseguire, che mi influenzi!."
R.G.: Quali sono le sue predilezioni letterarie?
P.N.: Le mie predilezioni letterarie sono a volte abbastanza discutibili per molti. Ma per parlare della gente più conosciuta che io ammiro letterariamente voglio fare un capitolo breve, ma separato, di Ramón Gómez de la Serna. Ramón Gómez de la Serna mi sembra un gran fenomeno letterario, un po' somigliante a quello di Picasso nella pittura, e con la stessa virilità. Fu un creatore fondamentale nella nostra lingua. Mi sembra che fosse più compreso nel suo paese, in Spagna, ed incominciava ad esserlo in Europa quando la guerra civile lo lasciò nelle nostre spiagge fino alla sua morte. Ramón fu un gran fiume di ispirazione e di invenzione favolosa. Non si è valutato quel mondo fantastico che ci lasciò come eredità. È un gran trasformatore della lingua, dei nessi, dell'immaginazione verbale; le sue associazioni fantastiche non hanno paragone in tutta la storia letteraria della lingua spagnola. È contemporaneamente il Quevedo ed il Picasso dei tempi moderni. Naturalmente, come accade con molti creatori, è troppo abbondante per consigliarlo intero; anche Marcel Proust è interminabile, difficile da digerire per una gola troppo giovane. Nel caso di Ramón, probabilmente la sua creazione tanto abile ed suo tremendo potere associativo arrivarono ad affaticare i lettori. Ma la fatica dei lettori non ha niente a che vedere con questo ciclopico pieno di faville, di fiammate, ed anche pieno di quell'umorismo che si trova nelle grandi opere dei maestri. Mi legò una certa amicizia con Ramón, ambedue fummo sempre troppo occupati e ci imbattemmo raramente. Al contrario, con Picasso, anni fa, con motivo dei miei viaggi per l'Europa, coltivai un'amicizia cordiale e straordinariamente fraterna. Con la modestia più grande, inoltre, mi aiutò nei bisogni e difficoltà della mia vita pratica e politica, e molte volte mi ricevette nella sua casa. Ebbi a volte il privilegio che poche persone hanno avuto, di avere la chiave del suo laboratorio. In varie occasioni lo trovai mentre dipingeva. Egli alzava la testa sorpreso; si era dimenticato che mi aveva prestato la chiave.
R.G.: Non fu lei uno dei primi a nominare Norman Mailer, quando molto pochi lo conoscevano fuori degli Stati Uniti?
P.N.: Già anni fa, appena uscito il libro di Norman Mailer, The Naked and the Dead, lo trovai in una libreria del Messico. Nessuno lo conosceva. Neanche il libraio sapeva di che cosa si trattava. Lo comprai perché dovevo mettermi in viaggio e volevo un nuovo romanzo americano. Io credevo che il romanzo era già morto dopo i grandi colossi, incominciando con Dreiser e finendo apparentemente con Hemingway, Steinbeck e Faulkner. Ma mi trovai con un uomo fatto e finito, di una capacità e di una violenza verbale straordinaria, contemporaneamente con una grande sottigliezza e di un potere di descrizione meraviglioso. Io ammiro molto la poesia di Pasternak, ma il Dottor Zhivago di fianco a The Naked and the Dead mi sembra un romanzo noioso, salvato in parte dalle sue descrizioni della natura, cioè, dalla vera poesia di Pasternak. Invece, The Naked and the Dead mi sembrò uno dei libri più begli che si siano iscritti negli ultimi anni. Non ho seguito bene Norman Mailer. Mi ricordo che per quello tempo, già molti anni fa, (ho molto cattiva memoria per le date), scrissi il poema "Che despierte el leñador". Questo poema che fu straordinariamente letto e tradotto, fu un poema dedicato alla pace del mondo invocando la figura di Lincoln. Parlando della guerra, menzionai Okinawa e la guerra nel Giappone, nominai anche Norman Mailer. In quello tempo il mio poema arrivava in Europa e cominciava ad essere tradotto; ricordo che Aragon mi diceva: "Ci è costato tanto sapere e cercare chi era Norman Mailer". In realtà nessuno lo conosceva, ed io ho un certo sentimento di orgoglio di essere stato uno dei primi scrittori che lo nominarono. Non c'è molto da dire, ed ora che tutto il mondo conosce Norman Mailer si tratta di un'altra cosa. Io lo avevo scoperto alla mia maniera, per lo meno per me stesso.
R.G.: Lei è un grande lettore di romanzi polizieschi. Quali sono i suoi autori preferiti?
P.N.: Il libro di questo tipo che più mi ha commosso come opera letteraria negli ultimi anni è quella di Eric Ambler, A Coffin for Dimitrios. Ho cercato da allora tutti i libri di Ambler, praticamente li ho letti tutti, ma nessuno ha la perfezione fondamentale, l'intrigo straordinario e l'ambito misterioso che ha A Coffin for Dimitrios. Per me è uno dei racconti più elevati della letteratura di suspence. Tra gli scrittori dedicati quasi esclusivamente a questo genere c'è James Hadley Chase, per me il più grande, il più poderoso. Simenon è anche molto importante, ma James Hadley Chase in alcuni dei suoi libri supera in terrore, in orrore ed in spirito distruttivo quanto si è scritto. Per esempio, Non Orchids for Miss Blandish è già un libro vecchio, ma che non cessa di essere una pietra miliare dentro il romanzo poliziesco. Mi sembrò trovare una strana somiglianza tra Non Orchids for Miss Blandish e Sanctuary, di Faulkner, quel libro tanto spiacevole e contemporaneamente tanto importante. Non ho potuto mai precisare quale il primo fu dei due, Faulkner o James Hadley Chase. Naturalmente, quando si parla di romanzo poliziesco ritorna sempre al nome di Dashiell Hammett, quel gran maestro della letteratura, modificatore di tutta una linea del romanzo poliziesco. Diciamo che egli è quello che la tirò fuori dal subletteratura spettrale per dargli un scheletro, un scheletro duro. Egli è il grande creatore di quel genere negli Stati Uniti; lo seguono centinaia di altri, dei quali John MC Donald è uno dei più brillanti. Tutti essi sono prolifici scrittori. Tutti i romanzieri nordamericani di questa scuola poliziesca sono forse quasi i più severi critichi del decadimento della società nordamericana nell'epoca del capitalismo. Non c'è denuncia più forte di quella del romanzo poliziesco - quella del vero grande romanzo poliziesco - di questi ultimi tempi sul traffico e la corruzione di politici e poliziotti, l'influenza del denaro nelle grandi città, la corruzione che spunta dappertutto nel sistema nordamericano, "in the American Way of L.ife". È probabilmente l'attestazione più drammatica di un'epoca e chissà l'accusa meno permanente, dato che i libri polizieschi non sono tenuti in conto dalla critica letteraria. Ma, benché transitoria non smette di essere una denuncia profonda di un'epoca di decadenza dell'impero nordamericano.
R.G.: Che altri libri legge?
P.N.: Io sono un lettore di storia, specialmente dell'appassionante storia del mio paese. Il mio paese, come lei saprà, ha una storia straordinaria, una profondità che normalmente non hanno altri paesi. Non per i monumenti né per le vecchie sculture che non esistono qui, bensì perché questo paese, il Cile, fu inventato da un poeta, Don Alonso de Ercilla y Zúñiga, paggio di Carlos V, aristocratico basco che arrivò in Cile tra i conquistatori. Rara avis dato che in Cile si inviava maggiormente la gente che usciva dalle prigioni. Questo era il posto più duro per venire. Qui, la guerra tra araucani e spagnoli si prolungò per secoli. Questa è stata la più lunga guerra patria nella storia dell'umanità. Le tribù semiselvagge dell'Araucanía lottarono 300 anni di seguito contro l'invasore spagnolo per la loro indipendenza, per la loro libertà. Don Alonso de Ercilla y Zúñiga, il giovane umanista, venne con crudeli soldati tra le truppe assaltatrici che volevano dominare tutta l'America, e la dominarono, con l'eccezione di questo territorio irsuto e selvaggio che si chiamò Cile. Don Alonso scrisse il suo poema La Araucana, ed in lui si vide obbligato a fare il raccanto più importante della letteratura epica castigliana, molto più in onore delle tribù sconosciute dell'Araucanía - degli eroi anonimi a cui egli diede per la prima volta nome - che dei soldati della Castiglia, i suoi compatrioti. La Araucana, edita nel secolo XVI, fu tradotto e le sue versioni corrono per tutta l'Europa. Così il nome del Cile nacque nel mondo. Un grande poema di un grande poeta. La storia del Cile racconta allora su quella epica grandiosa di una nascita, di una patria, del sangue versato da indomabili araucani e dalla variopinta soldatesca spagnola. Ma noi, al contrario di altri meticci dell'America ispanica ed india, non discendiamo dai soldati spagnoli e delle loro violenze o concubinati con le araucane. Noi, cileni, veniamo dal matrimonio volontario o forzato degli araucani con le donne spagnole prigioniere durante tanti anni di tremenda lotta. Siamo quella curiosa eccezione. Ma dopo viene la nostra accanita storia dell'indipendenza dal 1810, piena di tragedie, disaccordi e lotte, in cui i nomi di San Martín e di Bolivar, di José Miguel Carrera e di O'Higgins si alternano in una pagina interminabile di fortune e sfortune. Tutto questo mi fa lettore di libri e libracci che dissotterro e spolvero e che mi intrattengono enormemente cercando il significato originale di questo magro paese tanto remoto per tutti, tanto freddo nelle sue latitudini, tanto desertico nelle sue pampas salnitriche del nord e nelle sue patagonie immense, tanto innevato nelle Ande, tanto fiorito per il mare. E quella è la mia patria, il Cile. Io sono uno di quei cileni perpetui che da tutte parti, benché mi trattino bene, devo ritornare al mio paese. E benché molto mi piacciano le grandi città dell'Europa, benché adori la Valle dell'Arno ed alcuni strade di Copenhagen o di Stoccolma, e naturalmente Parigi, Parigi, Parigi, devo sempre tornare in Cile, ed a molto onore e per molto amore.
R.G.: Non fu Gabriela Mistral che l'introdusse alla lettura degli scrittori russi?
P.N.: Gabriela Mistral mi prestò tra gli altri alcuni libri degli scrittori russi del secolo XIX. Gabriela Mistral era una persona appassionata della lettura, leggeva molti romanzi e libri di geografia. Fu un'intensa creatrice. In generale è incompresa per la gente letteraria della nostra epoca. Gabriela Mistral è uno scrittore della cosa più preziosa della nostra letteratura latinoamericana, un poeta disuguale con grandi bassi e grandi altezze, ma che ha una vitalità ed una violenza verbale che supera tutti i suoi contemporanei nella lingua spagnola. Soprattutto i poemi della sua prima epoca, l'epoca dei "Sonetos de la muerte", e altri poemi della sua libro Desolación, difficilmente trovano paragone nella poesia spagnola, se non per i sonetti di Quevedo col quale si assomiglia a momenti per la sua straordinaria e vulcanica forza, per la sua grandezza e profondità emotiva. Io ho grande stima di lei, e mi sembra che la gente letteraria di oggi non nomini quasi Gabriela Mistral, un po' perché non è di moda e molto perché non la conoscono. Ella fu anche, alla sua maniera, un umanista. Una persona di grande primitivismo emozionale, una autodidatta, ma una autodidatta che riuscì ad elaborare, fabbricarsi un linguaggio attraverso numerose difficoltà. Il linguaggio poetico ed in prosa di Gabriela Mistral è straordinario e ha un valore incalcolabile. È soprattutto un grande insegnamento, perché dai suoi difetti ella tirò fuori il suo stile insistendo nei suoi stessi ostacoli di espressione. Le difficoltà che trovava nella sua forma di esprimere diedero un marchio al suo stile che corrisponde ad una grandezza incredibile.
R.G.: Quale deve essere la funzione della poesia e della letteratura.
P.N; Questa è una domanda che si fa molto ed a cui si risponde sempre in forma molto vaga; in realtà la domanda è vaga. La poesia ha secondo il tempo, secondo l'epoca, differenti situazioni. Può essere necessità di una poesia molto intima e soggettiva come può essere necessaria una poesia che accompagni il movimento umano, che accompagni le convulsioni, i dibattiti, le disubbidienze della società umana. Io penso che il dovere della poesia sarebbe abbracciare tutto, dal più segreto al più pubblico, dal più confuso e misterioso al più semplice, alle cose a portata di mano. Tutto dovrebbe abbracciare la poesia passando per il cuore di un poeta. Penso che essa deve preoccuparsi di tutto quello di cui si occupò sempre. Grandi opere maestre dell'umanità hanno molto di panfletario politico, come la Divina Commedia, di Dante Alighieri. Quasi nella loro totalità, molte opere di scrittori furono dedicate ad una violenta lotta contro lo Stato e contro le cose del loro tempo, come nel caso di Víctor Hugo, dello stesso Milton, o di Rimbaud. Il dibattito tra poesia pura e poesia impura è un dibattito inutile. Ci sarà sempre poesia pura e ci sarà sempre poesia impura. Io rimango con tutte e due. Io sono puro ed impuro. Cioè, io voglio che la mia poesia esprima l'ermetismo dell'anima ed esprima la semplicità delle cose elementari più vicine all'essere umano, e che anche prenda parte al riposo dei guerrieri ed alla guerra stessa, la guerra contro la crudeltà e contro l'ingiustizia, per la liberazione dell'uomo.
R.G.: Robert Graves ha detto che i poeti non hanno un pubblico ma parlano ad una sola persona. La cosa brutta, dice, è che poeticome Evtuchenko parlano a migliaia di persone ma non parlano a nessuno.
P.N.: Penso che è una carina frase di Robert Graves. Rispetto molto Graves ed amo la sua poesia. Ma mi piace molto la poesia che parla a migliaia di persone, ed egli si sbaglia quando dice che non si parla a nessuno. Se egli sapesse le attestazioni che riceviamo dalla gente che è stato toccata dalla nostra poesia multitudinaria allora conoscerebbe un'altra dimensione del poeta, e quella dimensione la difendo io, come difendo anche la dimensione di Robert Graves, di parlare ad una sola persona. La poesia deve parlare ad una sola persona, e molte volte ad una sola persona, ma deve parlare a migliaia di persone, e molte volte a migliaia di persone.
R.G.: Qual'è la sua posizione quanto al realismo nella poesia?
P.N.: Questa itterizia o anafilassi che mi producono i sistemi mi fa arrivare nella nostra conversazione al tema tanto dibattuto, ancora negli ultimi tempi e da scrittori molto responsabili, sulla realtà e la creazione letteraria. Io condivido la credenza, o la posizione, che la realtà abbia una parte splendida e definitiva nella visione letteraria, come non credo nel realismo letterario. Nello stesso modo, credo che il simbolo, dalla scuola francese, o da molto anteriormente, non perse mai la sua importanza. Il simbolo è uno delle regole della creazione poetica, ma tuttavia il simbolismo, come scuola, è un vasto cimitero di simboli. Credo nel pernicioso delle scuole e dei sistemi annunciati dai gruppi umani. Il realismo fa parte basilare della visione creativa, ma come ricetta non ha fatto altro che produrre strane deformazioni della realtà, come il simbolismo produsse il calo dei sogni. Realtà e simbolo continueranno a fare parte di tutto il movimento della fecondità, dello sviluppo della letteratura. In un certo piano si mischiano e si confondono, ma come scuole possono essere funestissime. Per il resto, lo stesso fatto di lottare con un'etichetta contro i fantasmi annunciatori di un'altra epoca letteraria denota già una sfiducia del processo stesso creativo. Credo che i movimenti letterari, musicali e plastici hanno la loro propria vita, le loro radici, la loro altezza, il loro fogliame, i loro frutti, la loro decadenza e la loro funzione funebre. Non c'è necessità di lottare contro nessun movimento culturale. Dentro di sé ogni nuovo movimento porta i germi della maturità e della morte. Credo che il realismo concepito come una vasta scuola affezionata formalmente all'esteriorità umana, non solo in letteratura, bensì in pittura, ha finito una tappa, è maturato, è fiorito e dato alcuni splendidi frutti. Ma ci ha inondati anche di una bruttezza formale e di una bassezza caratteristica. Non è che io desideri un'arte sublime - perché anche la vaghezza ermetica o la predicazione onirica, o verbalistica, o algebrica della poesia ci ha portato ad un stato di pietrificazione dei sonni - ma credo che le scuole siano di più. La letteratura deve essere un'esperienza profondamente personale nella quale interviene il tempo, la realtà ed il sogno. E bisogna lasciare che questi tremendi materiali si situino e si muovano d'accordo non solo con l'intimità dello scrittore, ma anche con l'epoca in cui viviamo.
R.G.: Lei ha detto molte volte che non crede nell'originalità...
P.N.: Non mi piace considerare l'originalità come un feticcio. Cercare ad ogni costo l'originalità è un problema moderno. Tanto i buffoni o i poeti popolari di tutte le epoche, come l'architettura primitiva e la scultura antica, furono opere in un certo modo anonime, prodotti di un'epoca. Tuttavia, furono grandi opere. Nella nostra epoca si vuole segnalare lo scrittore in una maniera vivente, e questa preoccupazione superficiale arriva a prendere caratteri feticisti. Ogni persona tenta di prendere una strada che lo sottolinei, non per profondità o per ritrovamento, bensì per l'imposizione di un metodo o di una diversità speciale. Io penso che il problema dell'originalità deve risolversi in ogni essere, esprimendo in forma più autentica tanto la sua propria esistenza e la sua propria esperienza come il suo proprio linguaggio. Questa necessità espressiva naturalmente si andrà definendo. Per il resto, anche cosí, l'artista più originale cambierà fasi d'accordo col tempo, con l'epoca, coi temi. Il caso più grandioso è Picasso che benché si nutra di grandi movimenti culturali, come per esempio quello della pittura o quello della scultura africana o quello delle arti primitive, in alcuni casi ha un potere tale di trasformazione che le sue opere sembrano tappe della geologia culturale del mondo.
R.G.: Octavio Paz ha detto recentemente in un'intervista che la letteratura, da Cervantes, ha avuto un tono critico che può vedersi nella poesia e la letteratura contemporanea. È d'accordo con lui in questo?
P.N.: Questo è uno dei punti in cui non sono di accordo con la sua brillante intelligenza. Io non credo che la letteratura possa prendersi in una forma globale, generalizante. Mi sembra che il romanzo abbia avuto sempre, specialmente dal Secolo d'Oro, specialmente dalla picaresca fino ai nostri giorni, un senso critico, come quel del romanzo poliziesco nordamericano che menzionavo prima. Grandi libri sono stati grandi denunce, ma il senso critico stesso, il senso di esame e di autoesame è a volte una debolezza ed una tritatura dello spirito creativo. Perciò tra quello spirito critico si sta autodistruggendosi la spontaneità creativa e soprattutto si sta rovinando il potere originale e la relazione diretta che deve esistere tra la natura, tra i sensi ed il suo trasferimento al linguaggio, al linguaggio poetico. Da parte mia, nonostante la mia poesia politica, che neanche è stata numerosa dentro i miei libri, sento che ogni poesia critica o autocritica, non nel senso personale, bensì nel senso di oltrepassare la poesia al sentimento critico, è transitoria e peritura. Ugualmente penso che tutta la letteratura che si fa sulla letteratura non cessa di essere un aspetto fugace della creazione letteraria. Cioè, sto perché la poesia affronti direttamente la contemplazione, il canto, l'energia vitale, le cose elementari, ma in nessun modo il sentimento riflessivo adattato ad ogni momento contemporaneo. Mi sembra che la poesia, soprattutto, deve svolgere un ruolo di elemento: direi che la poesia è un altro degli elementi, come il fuoco, la terra, l'acqua, l'aria. Ed a quella funzione spaziale, a quella funzione geologica naturale e fenomenale della poesia io non posso lasciare che gli aderiscano le interrogazioni stimolate dal momentaneo dovere di analizzare gli stessi fenomeni della creazione. Sono nemico di tutti i manifesti, di tutte le discussioni letterarie. Molto più importante, e l'ho ripetuto molte volte, è il lavoro ardente, accanito, in cui uno si sta compromettendo con la natura o con la profondità di uno stesso. Mi sembra che sopra tutte le cose quello è la carta naturale e soprannaturale della poesia. Naturalmente, trattandosi della poesia politica, alla quale io concedo validità, in un momento della storia, l'uomo, il popolo, il movimento umano ha bisogno dell'aiuto del poeta. Il poeta non può negarsi a quella sollecitazione della società umana perché se non lo fa è un codardo.
R.G.: Quali sono i poeti russi che più gli piacciono?
P.N.: La figura dominante nella poesia russa continua ad essere Mayakovski. Mayakovski è il Walt Whitman della Rivoluzione russa, come Walt Whitman lo fu della Rivoluzione industriale, della crescita nordamericana. Mayakovski impregnò la poesia in tale modo che quasi tutta la poesia ha proseguito essendo mayakovskiana. Insieme a lui i poeti più importanti furono Alexandr Blok, meraviglioso poeta, ed anche Esenin, anche straordinario. Nella generazione attuale ci sono molti e naturalmente più giovani. Tra quelli che non sono oramai tanto giovani stanno Evtuchenko, Kirsánov, Lukonin, Voznesenski ed Ajmadúlina che oltre ad essere molto buona poetessa è molto bella. Infine, ci sono molti altri e molti di essi sono molto grandi amici. Poeti come Evtuchenko, Voznesenski ed Ajmadúlina hanno rotto il ghiaccio con una poesia che ha cominciato ad interessare grandi pubblici. Io sono un poeta errante nel senso che come un trovatore ho percorso il mio paese, e quasi tutti i paesi dell'America, leggendo i miei versi a grandi moltitudini, ma non trovai da nessuna parte poeti simili, né nei paesi capitalisti, né nei paesi socialisti. L'unico che ricordo è Carl Sandburg, grande poeta nordamericano che molto spesso viaggiava facendo recitals accompagnato dalla sua chitarra. Lo invidio profondamente! Grande poeta insieme ad Edgar Lee Masters e Robert Frost. Sono i migliori poeti dell'epoca postwhitmaniana negli Stati Uniti.
In Russia, come dicevo, i poeti hanno rinnovato un interesse multiplo cittadino, e questo mi sembrò straordinario. Così, la lettura di poesie al pubblico cominciò di nuova a praticarsi ed a riviversi nell'Unione Sovietica. Si fanno quasi sempre vicino al piedistallo delle statue di Pushkin - un bel monumento romantico - o di Mayakovski, che aveva viso di pugile ed in quella statua sembra ancora più pugile. Bene, ai piedi di quei monumenti ho visto poeti recitare i loro versi durante ore ed ore; a volte sono passate le due della mattina ed ancora rimanevano gli ultimi poeti con più di nove o dieci uditori. Quello prova che questa specie di rivoluzione pubblica e poetica ha avuto effetto.
R.G.: Evtuchenko, per i suoi recital e personalità, è arrivato ad avere gran successo negli Stati Uniti.
P.N.: Evtuchenko è un poeta molto dotato. Mi piace molto non solo la sua poesia, bensì il suo carattere polemico, il suo atteggiamento eccentrico e gagliardo, la sua sfida alle abitudini stabilite. Probabilmente quello che più ammiro in lui è la sua franchezza in criticare un mondo e l'altro, e rimanere ad essere un patriota sovietico, orgoglioso della rivoluzione e della costruzione socialista. Sono sicuro che lo stesso accade con Vocenesensky ed Ajmadúlina. Evtuchenko, inoltre, è affascinante, infantilmente vanitoso e molto allegro. Si permette cose che io non mi sono potuto mai permettere per mancanza di indipendenza, di personalità. Per esempio, sopportare una giornalista che fa ad uno un reportage per vari giorni..., quello non lo sopporterebbe mai Evtuchenko, ma già vedi, così sono le cose.
R.G.: Che cosa pensa degli scrittori russi che sono andati via dalla Russia?
P.N.: In generale credo che la gente che voglia andare via da un posto deve andare via. Sono piuttosto problemi individuali. I problemi politici che derivano da tutto quello possono essere interpretati in molte maniere. Molti degli scrittori sovietici possono sentirsi insoddisfatti nella sua relazione con le organizzazioni letterarie o col proprio Stato. Questa è una situazione, o è un modo di sentire le cose degli scrittori che succede quasi in tutto il mondo. Un disaccordo può esistere. Ma io non ho mai visto meno disaccordo tra un Stato e gli scrittori come precisamente nei paesi socialisti. Conobbi sempre la maggioranza degli scrittori come orgogliosi della costruzione socialista, orgogliosi della gran guerra ingaggiata dall'Unione Sovietica contro i nazisti, orgogliosi della carta del popolo dentro la rivoluzione e dentro la grande guerra orgogliosi di tutte le costruzioni fatte dal socialismo. Ora, se ci sono eccezioni, quella è una questione umana e occorre vederlo in ciascuno dei casi.
R.G.: Ma l'opera creativa, tanto dello scrittore come quella del pittore, non deve sempre riflettere la linea di pensiero dello Stato?
P.N.: Quello è esagerato. Io ho parlato, ho conosciuto scrittori e pittori che non devono farlo né pensano di lodare né elogiare tale e quale cosa dello Stato. Sono scrittori soggettivi, e ho conosciuto molti di essi. Naturalmente, c'è una specie di cospirazione per pensare che questo è così una maniera dogmatica, generale e militare, ma in fondo non lo è. Inoltre, bisogna comprendere che ogni rivoluzione deve mobilitare le sue forze più profonde. Non può persistere una rivoluzione senza la costruzione e lo sviluppo. La commozione stesso che provoca un cambiamento tanto grande come è il cambiamento dal capitalismo al socialismo non può sussistere senza che questa rivoluzione reclami, con tutta la sua forza, l'appoggio di tutti gli strati della società nella quale gli scrittori, intellettuali ed anche artisti sono importantissimi. Pensiamo alla rivoluzione nordamericana, la guerra contro l'Inghilterra per la sua indipendenza, o la nostra guerra di indipendenza contro l'Impero spagnolo. Che cosa avrebbe successo se cinquanta o sessanta anni dopo si dedicassero scritti alla monarchia, o alla restituzione dei diritti dell'Inghilterra sugli Stati Uniti, o dei re spagnoli sulle loro antiche colonie delle quali nacquero le repubbliche indipendenti dall'America Latina? Se qualunque scrittore o artista, nei primi 10, 20, 30, 40, 50 anni, avesse fatto l'esaltazione del colonialismo, sarebbe stato perseguito per operare come un antipatriota. Con maggiore ragione, una rivoluzione che vuole costruire una società partendo dal punto zero, perché il passaggio dal capitalismo al socialismo ed al comunismo non aveva nessuna prova prima. Questa nuova società deve allora dirigersi e mobilitare tutte le sue genti, deve chiedere l'aiuto del pensiero e anche della creazione. Possono prodursi conflitti in questa strada, è umano e politico che si producano. Ma spero che col tempo le società socialiste, già completamente stabili, abbiano meno bisogno che i suoi scrittori ed artisti pensino sempre al problema sociale - benché non passi mai di moda l'umanesimo, non passerà mai di moda l'amore per la giustizia, la verità - e possano fare quello che più intimamente desiderano.
R.G.: Quale fu il suo lavoro nel Comitato Internazionale del Premio Lenin "Per il rafforzamento della pace tra i paesi?"
P.N.: Il premio Lenin è non una distinzione che si concede, non per meriti artistici, bensì per i lavori che abbia esercitato una personalità determinata in favore della pace del mondo. È molto lunga la lista e non potrei citarla interamente, ma col mio voto in favore hanno ottenuto questo premio personalità tanto rilevanti e differenti come Pablo Picasso, Paul Robeson, il pastore Martín Niemöller, il generale Lázaro Cárdenas, del Messico, il poeta Rafael Alberti, della Spagna, il grande architetto brasiliano Osear Niemeyer, il poeta Aragon, della Francia. Tutti difensori della pace mondiale, e che hanno dimostrato carattere e risolutezza nella lotta attuale contro le armi nucleari, contro la distruzione possibile dell'umanità. Una delle opere più importanti dell'epoca contemporanea è il quadro Guernica, di Picasso, un quadro commovente per il suo contenuto antiguerrero. Lì si vede l'orrore dell'essere umano e l'orrore animale davanti alla distruzione e l'assassinio che significa la guerra. Picasso fu, dunque, uno degli insigniti col premio Lenin. Il movimento della pace ebbe un'importanza decisiva in un momento determinato in cui sembravano infiammarsi un'altra volta le anime di un nuovo conflitto mondiale, ed in questi ultimi anni non ha finito di svolgere il suo ruolo. Noi, i membri del comitato del premio, siamo da 14 a 15 persone, molti apolitici ed altri politicizzati. C'è gente religiosa, buddisti, gente dell'India, della Polonia, dell'Italia, della Francia, ed io sono stato per molto tempo l'unico membro di questo Comitato per le Americhe. Non è una gran difficoltà mettersi d'accordo dato che le candidature si pongono durante tutto l'anno e le deliberazioni sono semplici. Si sono dati sempre  i premi all'unanimità. I premi non sono di enorme ammontare, non si possono paragonare al premio Nobel, ma sono significativi e quasi sempre sono caduti su persone di grandi conoscenze.
R.G.: Quali sono le sue preferenze nel cinema?
P.N.: In primo luogo bisogna dire che a Isla Negra non c'è cinema, non c'è teatro. Il più prossimo sta a 25 chilometri di viaggio e danno sempre film molto vecchi, in generale messicane o di cowboys. Io ho un piccolo poema, "A un cine de pueblo". Di quando in quando andiamo al cinema di Valparaíso o di Santiago e ho appena visto in cinemascope La gran avventura, un film sul Far West. È uno delle poche pellicole che ho visto negli ultimi sei mesi (a volte passiamo tre, quattro o cinque mesi senza andare al cinema), e l'interessante di questo film è la drastica forma di rivelare i motivi della marcia verso l'ovest, la marcia di possesso delle terre contro le tribù indiane nordamericane. Per la prima volta si parla di cose reali; si dice: "Andiamo a rubare agli indiani, ammazziamo gli indiani, non lasceremo nessuno perché dobbiamo togliergli le loro terre". Infine, più o meno quello che si è fatto da tutte le parti, anche in Cile. Ma mi sorprese, perché insieme a romanticizzare la figura di un militare aggressivo si rivela la verità nascosta in forma straordinaria. In quanto al film in generale, è di quelli di tipo superproduzione, con molte catastrofi, forze della natura travolgenti, battaglie con infinito numero di personaggi, etc. Non ha niente di inventivo né di novità, ma fondamentalmente possiede una pulsazione di azione e di violenza che sono interessanti. Di altri film, ho visto di Buñuel, i film più antichi ed alcuni dei nuovo. Lo conobbi in Spagna; è una grande figura del cinema, come lo svedese Bergman. Tuttavia, i miei film prediletti continuano essendo Miracolo a Milano, di Vittorio de Sica, quando lavorava con Zavattini, o La febbre dell'oro, di Chaplin. Sono i film che più mi piacciono e che più ricordo. Anche, negli ultimi tempi mi ha toccato vedere in alcuni sessioni continuate di cinema la resurrezione di Laurel e Hardy. Come attori mi sono sembrato di una qualità e di una grandezza straordinarie. Quando molto giovani vedevamo nel cinema El Gordo ed El Flaco, solamente li apprezzavamo come attori comici, come clowns. Ma ora, dopo  averli visti tante volte, nonostante siano morti, riscuotono un'importanza eccezionale nello sviluppo del cinema. Hanno una filosofia speciale, un certo nichilismo, con un aspetto o kafkiano o dostoyevskiano. Veramente mi sono sembrati sorprendenti.
R.G.: Non partecipò lei alla giuria di alcuni festival cinematografici?
P.N.: No, no. Ho presieduto alcuni festival di cinema, ma non sono stato mai nella giuria, né mi piacerebbe neanche esserlo.
R.G.: In una opportunità lei censurò, tra i prodotti del capitalismo, il cinema di Hollywood.
P.N.: Beneo, il cinema di Hollywood ha orribili, orripilanti difetti e geniali creazioni. Come già ho detto, mi sembra che senza quel sedimento di Hollywood il cinema non si fosse sviluppato con quella rapidità fantastica e quella grandezza colossale. A me sembra che lo sviluppo del cinema sia una conferma della teoria materialista. Così come un'epoca del rinascimento di grande prosperità facilitò che una nuova classe avesse i mezzi per circondarsi di opere d'arte, e che con essa tutta una tappa dell'umanità si sviluppasse con un'accelerazione incredibile, la prima tappa del cinema europeo conseguì la grandezza che raggiunse per l'impulso del grande capitalismo nordamericano che fu quello che gli diede quello sviluppo fulminante. Quell'enorme appoggio materiale che ebbe il cinema lo portò al suo splendore. Naturalmente, anche la decadenza del capitalismo nordamericano si riflette nella povertà attuale di Hollywood, nella sua lenta demolizione come fabbrica di sogni.
R.G.: Che cosa potrebbe commentare sui mezzi letterari dell'America Latina?
P.N.: Due o tre punti potrebbero indicare la mia discordanza con le riviste attuali e coi giudizi degli attuali scrittori latinoamericani, sebbene per quello non smetta di stimarli. In primo luogo, se leggiamo una rivista dell'Honduras, o di Montevideo, o di Guayaquil, o una di New York in spagnolo, troveremo che tutte, o quasi tutte, mostrano lo stesso catalogo letterario di moda. In generale, prima si usava anche Eliot e Kafka, non dirò come modelli, ma erano accettati nel catalogo. Essi appartengono all'establisbment attuale. Io non chiamerei snobismo tale cosa, ma sì, molto temo che quella catalogazione tanto continua abbia a che vedere col nostro colonialismo culturale. Nonostante in molti casi la nostra propria letteratura fondamentale in spagnolo - spagnolo della Spagna o spagnolo dell'America latina - risvegli qualche interesse se le nostre proprie radici sono messe nella catalogazione della nuova critica o delle nuove espressioni, questa curiosità viene raccomandata dall'Europa. Stiamo ancora cercando l'etichetta dell'Europa. Qui in Cile, e passando al terreno della vita domestica, quando ad uno gli mostrano qualcosa, per esempio, alcuni piatti di maiolica, la padrona di casa con un sorriso soddisfatto dirà: "È" importato". Effettivamente, alcune delle orribili porcellane che si esibiscono in milioni di stanze cilene sono importate; è il peggio che producono le fabbriche della Germania e Francia. Questi sgorbi, per essere importati, sono presi dalle nostre padrone di casa come oggetti di consumo di prima qualità. Questo si chiama insoddisfazione, frustrazione, mancanza di fiducia in se stessi, o pigrizia mentale, e tutto questo va sotto il titolo di colonialismo. Il colonialismo culturale, quella derivazione, specialmente verso l'Europa, dei nostri valori, quella consacrazione minuziosa per mostrare che si sta alla pari con l'ultimo modello, con quello che si usa, con quello che si fabbrica, caratterizza naturalmente la nostra tristezza culturale.
Benché stiamo in un momento di un certo rinascimento letterario abbastanza interessante, e che ci porterà abbastanza lontano, negli ultimi anni si vengono producendo nella nostra vita letteraria certi problemi con aspetti politici. Quando io venni alla letteratura, per esempio, quando arrivai alla politica, cioè quaranta anni fa, tutto il mondo aveva una paura terribile di essere considerato di sinistra, di apparire in convivenza con qualche idea rivoluzionaria. Gli scrittori, nella loro maggioranza, si arrabbiavano, si perdevano. Mi ricordo che il nostro grande scrittore nazionale Joaquín Edwards Bello mi raccontavo come un scrittore conosciuto era stato assimilato dal nostro gran quotidiano capitalista e conservatore El Mercurio, quotidiano che ha 150 anni di vita ed un ritardo nelle sue idee di circa 300 anni. Bene, questo uomo, che era stato vagamente rivoluzionario (ed il cui nome non cito perché ancora è vivo), quando fu accettato come redattore di El Mercurio, "sai la cosa prima che fece? - mi disse Edwards -, si comprò una pomata per farsi cadere i capelli". Tale era il suo terrore di apparire come giovane, con idee nuove e giovanili. Forse, in questa decade, e specialmente dopo la Rivoluzione cubana, la moda attuale è un'altra. Gli scrittori vivono terrorizzati che non li si consideri di estrema sinistra ed ognuno di essi assume una posizione guerrigliera. Ci sono molti che non hanno scritto più righe che quelle in cui affermano stare nella prima fila della guerra contro l'imperialismo. Noi che abbiamo fatto per tanto tempo la guerra all'imperialismo fortificando un'immensa azione di masse, mettendoci nelle viscere del popolo, lavorando con la nostra poesia ed i nostri dolori, con le nostre certezze ed i nostri dubbi, vediamo con gioia che la letteratura si mette dalla parte dei paesi; ma contemporaneamente crediamo che se si tratta di moda, e di avere paura che non si consideri di sinistra gli scrittori, non andremo troppo lontano con rivoluzionari di questo tipo. Infine, dentro la selva letteraria stanno tutti gli animali. Io che fui offeso durante moltissimi anni da uno, due, tre persecutori tenaci, che vivevano in funzione di attaccare la mia poesia e la mia vita, dissi in un'occasione: "Lasciamoli vivere, dato che ci sta di tutto in questa selva. Se nelle selve dell'Africa e della Ceylon c'è posto per gli elefanti, che sono animali di grande volume, perché non ci deve essere posto per tutti i poeti in questa giungla, non tanto gradevole, né tanto verde, a volte, come la giungla africana."
R.G.: Chi sono gli scrittori latinoamericani che lei menzionerebbe?
P.N.: Si sono prodotti vari fenomeni nuovi che stanno nella bocca di tutti, ma non è vano sottolinearli. Il gran salto che fece dare Cortázar alla prosa nell'America Latina è un movimento stellare dentro il nostra letteratura. Ho letto il reportage che lei gli fece per Life in español nel quale Cortázar dice tante verità, e quando parla delle sue origini come scrittore indica le sue probabili influenze. Naturalmente, è possibile che le cose non escano spontaneamente, non c'è generazione spontanea nella letteratura (salvo il caso di Rimbaud che è un vulcano), ma mi sembra che con tutto l'amalgama culturale che possa avere Cortázar, il suo prodotto sia straordinario. Un altro fenomeno della nostra letteratura ultima è stato il colombiano García Márquez. È un altro tipo di scrittore, è una specie di fiume abbondante. Quello che più mi piace di lui che prima trovai solo negli scrittori inglesi, è quel dono naturale del racconto, di raccontarci racconti fino a che rimaniamo addormentati. Per certo che è difficile con García Márquez rimanere addormentato perché il suo filo inesauribile di avvenimenti è miracoloso. Carlos Fuentes entrò con alcuni passi messicani nella letteratura e dobbiamo dire che il Messico è stato terra di grandi romanzieri. Il Perù ci racontò molto da Garcilaso l'Inca fino a Vargas Llosa, nuova scoperta del Perù. Non possiamo dimenticare Juan Rulfo, che col suo silenzio ed opera scarna è uno dei più importanti scrittori del nostro continente. Forse dimentico molti altri, ma, in generale, il romanzo latinoamericano ha avuto un passo molto grande. Naturalmente non possiamo dimenticare la generazione anteriore; sarebbe ingiusto che non nomini Manuel Rojas, o José Eustasio Rivera, o a Rómulo Gallegos, o agli scrittori della mia generazione come Miguel Otero Silva, del Venezuela, scrittori tanto profondi come Sabato y Onetti, dell'Argentina ed Uruguay, Fernando Alegría, Jorge Edwards, José Miguel Varas, del Cile. Questo panorama attuale e passato del romanzo è di grande diversità e splendore, ineguagliabile in molte generazioni.
R.G.: Che cosa è quello che più gli piace della pittura latinoamericana?
P.N.: Posso dire che mi entusiasmano queste arti cinetiche, o non so come si chiamano, di pittura, scultura, movimento, elettricità e luce che hanno proliferato negli ultimi anni e che hanno intensi creatori dentro la nostra gente dell'America Latina. In realtà non mi piacque mai la pittura o le arti in funzione dell'arte stessa. Io non saprei che cosa fare con un Rembrandt nella mia casa. Invece, un Le Parc mi darebbe una gran soddisfazione. Io ammiro intensamente Le Parc. Quello che sento è che la sua opera non possa diffondersi. Quando penso ai grandi artisti o alle grandi opere mi piacerebbe che fossero disseminate in tutta nostra l'America Latina, cioè, nella mia patria, nella mia patria americana. Mi piacerebbe che ci fosse una Casa Le Parc, un Museo Le Parc, o una Galleria Le Parc; che ce ne fosse una a Lima, un'altra a Buenos Aires, un'altra in Cile, ed a Caracas, ed a Guayaquil, ed in Messico, infine, da tutte le parti. Tale è il mio piacere vedendo le opere di Le Parc. Altri pittori o scultori, o come si chiamino, maghi dell'attuale pittura, sono Soto, del Venezuela, ed Alejandro Otero, sempre del Venezuela, i cui colossali costruzioni mobili, elettrificate, illuminate, sono veri monumenti affascinanti che dovrebbero stare in tutte le piazze e parchi della nostra America. L'arte primitiva mi piacque sempre, partendo dalle arti africane e polinesiane fino all'arte primitiva contemporanea, dal suo principio col più grande di tutti, il douanier Rousseau, a quella della nostra America, con la meravigliosa pittura istintiva fatta dalla gente del popolo. Salto quasi tutta l'epoca della pittura astratta (che molto raramente, molto raramente, arriva ad interessarmi in profondità) in favore della pittura primitiva, delle opere in cui si vede la mano del popolo, o una certa fantasia naturale comunicativa. Questa arte ha un'innocenza ed uno splendore che mi affascina. Forse, la verità è che non sono abbastanza artista e posso saltare grandi periodi della pittura senza che mi manchino. Non così nel romanzo e nella letteratura di questo tempo.
R.G.: Lei è stato anche un gran ammiratore dei muralisti messicani.
P.N.: I muralisti messicani compirono una tappa straordinaria nella storia della pittura dell'America Latina. Ho grande ammirazione per essi. In questa tappa nuova della pittura, nella quale dominano le arti cinetiche e la pittura astratta, essi sembrano dimenticati. Ma in realtà queste figure dell'arte messicana contribuirono in una maniera favolosa non solo allo sviluppo della pittura nell'America Latina, ma anche alla creazione di una scuola molto importante di personalità e grandi temi che copre un'epoca come una specie di rinascimento messicano. Il fatto che ora un'altra pittura richiami l'attenzione ed arricchisca di nuovo gli orizzonti delle arte plastiche significa l'eterna ricerca di nuove strade. Mi sembra che la nuova pittura messicana sia rimasta dietro a quella di altri paesi dell'America Latina dove le arti plastiche si sono sviluppate con maggior vigore; è come se la tappa dei muralisti avesse esaurito una certa epoca creativa del Messico. In questo momento la più intensa ricerca pittorico-estetica-plastica si sta realizzando in Venezuela e Brasile.
R.G.: Crede lei che esista una grande animosità tra, e contro, gli intellettuali latinoamericani?
P.N.: Il sottosviluppo intellettuale e materiale produce un'animosità esasperante. Mi spiego, da quel punto di vista, il fatto che molti dei nostri scrittori abbiano preferito andare in Europa per vivere con tranquillità. Io non lo farò mai, benché abbia dovuto affrontare un perpetuo attacco. Ci sono stati professionisti della calunnia contro di me. Ancora cammina qui un perditempo uruguaiano che si intrattiene in quello, e che vive cercando risonanza per l'unico obiettivo della sua vita che è apparire in società inimicata con me. Anche altre inimicizie mi perseguirono vicino a quaranta anni, alcune ebbero un punto finale troppo tragico per ricordarlo. In generale trovai il clima intellettuale dell'Europa più sano, l'atmosfera letteraria più trasparente. Forse le grandi città cancellano le passioni, le ambizioni, infine, il tessere e maneggio extraletterario. Io, per la mia propria condizione di uomo dedito alla lotta popolare, non posso abbandonare il mio paese; sarebbe come abbandonare me stesso. Sono un patriota, fondamentalmente in quel senso organico in cui il mio paese, col suo territorio e la sua gente, fanno parte di me stesso. Queste non sono parole vuote, così lo sento e lo vivo. È per quel motivo che ho dovuto trascinare al mio fianco un interminabile corteo professionista di rancori. Non ho risposto quasi mai; se l'ho fatto è stato in maniera passeggera, un po' per alimentare questa corrente avversa. In una certa occasione un reporter mi domandò quale era la mia relazione con questi avversari. Gli risposi: "Non creda lei che li stimolo come parte di un sistema di propaganda, benché tale sembrerebbe essere a giudicare dalla tenacia di alcuni di essi". I limiti a cui si è arrivati in questo senso sono incredibili. Mi si è accusato di tanti crimini quanti ne esistono; mi si è accusato di povero e di ricco, di stravagante per originalità e di plagiario contumace, di ladro, di truffatore, di insincero, di bigamo, infine, non ricordo tutti i crimini che mi sono stati attribuiti. Se uno scrittore ha tanta persecuzione nella sua vita, oltre alla persecuzione politica, ed assume l'enorme compito di difendersi, in realtà non ha tempo di scrivere. Per fortuna, siccome io non mi sono difeso ho avuto più tempo per dedicarmi ai miei temi.
R.G.: Si potrebbe parlare di una certa unità ideologica tra i nostri intellettuali?
P.N.: Credo che sì. Nella nostra America Latina sono rari gli scrittori francamente a favore dell'antico ordine di cose; la maggioranza dei nostri scrittori ha un senso rivoluzionario della vita sociale. Quello parla molto bene del nostro continente e delle esperienze dei nostri paesi, dato che gli scrittori, in tutto il continente, sono legati in un modo o nell'altro allo sviluppo delle nostre nazioni, allo sfruttamento dei nostri paesi, alla loro sofferenza. In questo senso il Cile dà un esempio da molti anni. Non abbiamo avuto nessun scrittore importante che appartenesse alla reazione, alla destra.
R.G.: Che cosa pensa degli scrittori latinoamericani esiliati o trapiantati?
P.N.: Questo è un problema che si è dibattuto molto, perché alcuni dei nostri più importanti scrittori vivono in Europa, benché col cuore in America Latina e con un'opera che riflette la vita dei nostri paesi. Questo è molto importante perché anticamente lo scrittore latinoamericano si esiliava, o si trapiantava come lei dice, ed il suo unico impegno era dimenticarsi e fare dimenticare il suo paese, la sua origine, il suo paese, i suoi conflitti. Ci furono eminenti i nostri scrittori che arrivarono perfino ad a scrivere il loro nome in francese, come ha fatto il gran poeta Vicente Huidobro che firmò i suoi libri Vincent Huidobro e li scrisse in francese. Ci sono altri scrittori dell'America Latina che anche passarono molto tempo in Francia e scrivevano in francese. Naturalmente, lo scrittore può scrivere in un'altra lingua; abbiamo esempi straordinari, come quello di Joseph Conrad, che essendo un polacco esiliato prese la lingua inglese come la sua lingua letteraria e scrisse grandi ed originale opere. Ma questo trapianto di uomini che con la loro opera e con la loro vita andavano in Europa, fece male agli americani latini. Soffrimmo di questa specie di diserzione perché non era solamente una questione di lingua, ma si vergognavano della nostra America povera e maltrattata. A questa generazione di scrittori, quelli che stanno vivendo lontano dall'America, come le peruviane Vargas Llosa o l'argentino Julio Cortázar, o il colombiano García Márquez, sembra che il cambiamento di pianeta, di paese, di continente, li fece più nazionali, diede loro più tema della loro terra e della vita della nostra gente. Allora, come può condannarsi attualmente questo atteggiamento? Sarebbe interamente irrazionale. Naturalmente che si presta ad un dibattito, ad un dibattito abbastanza lungo ed interminabile. Le ragioni di questo ostracismo possono essere i desideri di lavorare tranquilli. Nel nostro proprio continente, il nostro lavoro, quando continua a prendere importanza, continua a creare anticorpi che sono prodotti da rancori ed invidie, da meschinità incredibili. Persone che si dedicano esclusivamente a perseguirci, che vanno di paese in paese disturbandoci, ferendoci, riempendoci di leggende nere, che esistono anche tra i piccoli borghesi degli scrittori dell'America Latina. Per quelle ragioni, o senza ragioni, si spiega che alcuni scrittori dicano: "Bene, mi annoiai di questo, mi stancai e vado via dove mi lascino lavorare tranquillo". Ma esiste anche questo altro lato della medaglia. Abbiamo il dovere di lavorare in forma attiva ed unita con la nostra gente, col nostro paese, per poter arrivare ad una trasformazione della società, alla quale aspiriamo. Questo esiste, e se ci sono molti che non hanno vocazione per quella lotta diretta io lo comprendo. La mia vita è stata differente. Mi sono messo in mezzo a molte lotte e, tuttavia, ho potuto lavorare. Sono stato ferocemente attaccato, come molto pochi scrittori lo sono stati, ma ho potuto continuare la mia opera. Non sono scontento. Ogni giorno che passa sembra che la mia vita sia stata il torneo, e che se dovessi scegliere di nuovo la mia propria vita sceglierei quella che ebbi.
R.G.: In un articolo, "Mis contemporáneos", Ernesto Montenegro dice: "[...] suona francamente assurda la nozione del critico uruguaiano Emir Rodríguez Monegal quando esprime la vana speranza che gli scrittori europei e nordamericani di oggi studino i loro colleghi dell'America Latina se vogliono raggiungere il rinnovamento della loro propria letteratura. La formica dice all'elefante: arrampicati sulle mie spalle". Continua Montenegro con un citazione di Borges del suo prologo in Antologia poetica: "A differenza dei barbari Stati Uniti questo paese (questo continente) non ha prodotto un scrittore di influenza mondiale - un Emerson, un Whitman, un Poe - neanche un grande scrittore esoterico, un Henry James o un Melville."
P.N.: Io trovo che tale cosa non ha nessuna importanza. Uno degli aspetti provinciali del nostro continente latinoamericano è quello di dedicarsi con maggiore affanno a mettersi titoli che a lavorare ed a creare con modestia e con umiltà. Che importanza ha che si tengano o no nomi come quelli di Whitman, Baudelaire o Kafka nella nostra America? La storia della creazione letteraria è una storia tanto lunga come l'umanità e tanto larga come il mondo intero. Non possiamo mettere etichette. Gli Stati Uniti, con una popolazione insuperabile ed alfabeta, e l'Europa, con una tradizione millenaria ed una popolazione enorme, non si possono paragonare alla moltitudine senza libri e senza espressione della nostra America Latina. Quante sono le masse che possono produrre gli scrittori in America Latina? Dei 250 o 350 milioni di abitanti dell'America Latina la massa produttiva nel terreno delle arti e delle lettere si conta in numeri molto scarsi che non oso dire. Mentre un'enorme massa colta con eredità culturale di molti luoghi lavorava negli Stati Uniti o in Europa, milioni di uomini senza cultura, e molti milioni di analfabeti della nostra America Latina ci riducevano ad essere in realtà una piccola città con disuguaglianza enorme di mezzi culturali. Stare a lanciarsi pietre gli uni agli altri, o passare la vita sperando di superare questo o l'altro continente mi sembra un sentimento provinciale. Per il resto, tutte queste possono essere opinioni interamente individuali. Ci sono molti libri latinoamericani che mi piacciono più che gli europei e nordamericani, come ci sono molti romanzieri nordamericani o scrittori europei che mi piacciono più che molti sudamericani. Questo di continuare a lottizzare la cultura e tagliarla in pezzi non mi sembra bene; mi sembra una deficienza di carattere provinciale. Mi sembra anche che questa attesa per dare il filosofo o il gran saggista in America Latina, sia qualcosa di interamente sprovvista di senso. Solo paesi che hanno raggiunto un'antichità culturale ed un'eredità culturale molto antica e profonda possono darsi il lusso di costruire in profondità un nuovo esame del pensiero. Qui si prodigano per fare prove e per scrivere filosofia che non ci sta in un continente di pionieri che appena incomincia il suo sviluppo. Abbiamo inoltre il peso della colonia spagnola, un peso di ignoranza e di ritardo in cui si proibiva fino al 1810 l'entrata dei libri. Poi le enormi masse che ereditiamo della colonia che non avevano né libri, né scuole, né possibilità nessuna di averli. Tutto questo cambia, il panorama di questi paesi  sta cambiando, e ho la sicurezza che tutto questo avrà lo sviluppo normale e tranquillo che ha da tutte le parti l'affluenza della cultura. Per il resto, parlare in questa maniera, dire che non ci sono qui un Emerson o un Whitman può estendersi a moltissimi paesi. Non so dove stiano gli Emerson ed i Whitman di tanti paesi che non voglio nominare. Questi esami di carattere microbico, con microscopio, non mi piacciono, mi sembra che siano in fondo privi di sfumatura, di vero e basilare progetto. In luogo di quello mi piacerebbe esporre il contributo che diano gli scrittori allo sviluppo culturale dell'America Latina, la lotta per l'alfabetizzazione delle masse, la lotta per la conoscenza, o dell'accesso alla cultura di tutte quelle masse. Quello sì. In questo sì che saremmo d'accordo. Naturalmente, accelerare il processo di cultura delle masse è un processo molto lungo e non interessò né ai colonizzatori spagnoli né alle oligarchie creole; essi volevano masse di inquilini e di servi. Stiamo in un'epoca rivoluzionaria in cui i partiti del popolo hanno preso nelle loro mani come una rivendicazione l'accelerazione culturale del continente. Questo sì che è importante.
R.G.: Ma crede che l'Europa può guardare alla letteratura latinoamericana per un rinnovamento?
P.N.: Stanno guardando secondo quello che vedo nelle riviste e nei mezzi culturali europei. Stanno guardando in qualche modo. Io non so, i miei libri si pubblicano da tutte le parti in Europa. Ci sono paesi su che hanno pubblicato venti miei libri, come l'Italia. Ma, che importanza ha questo? Se essere è più importante di sembrare. Qui si tratta di lavorare e di creare e di produrre. Quelle sono discussioni inutili. Possibilmente possono sostenersi come conversazione dopo aver cenato, ma per me non hanno interesse fondamentale.
R.G.: Il fatto che l'Università Cattolica gli abbia concesso il titolo Doctor Scientia et Honoris Causa indica una nuova tendenza della Chiesa cattolica del Cile?
P.N.: Il cardinale del Cile, Raúl Silva Henríquez, sicuramente ascoltando qualche obiezione alla consegna del titolo si pronunciò in una forma interamente chiara, con parole che veramente bisogna far emergere. Rispose quanto  segue e glielo leggo: "La mia opinione personale è che, senza dubbio, il poeta lo merita. Credo che l'università, concedendogli questo titolo, realizzi un gesto che forse non è compreso dagli ignoranti, ma dalle altre persone di valore. In questo nostro atteggiamento si riflettono valori di straordinaria importanza, valori che la Chiesa desidera oggigiorno veementemente manifestare nel suo comportamento e nella sua maniera di essere. Il primo valore è che una volta per tutte si mostri e si creda che la Chiesa apprezza la verità, il bene e la bellezza, benché siano rappresentate in chi non partecipa nella sua convinzione religiosa. In altre parole, che la Chiesa cattolica, il cristianesimo, per la sua natura, non può essere settaria, che il settarismo è in cattivi rapporti con la nostra essenza profonda. Lì si stabilisce l'esistenza del sano pluralismo... E questo, che cosa significa? Può esserci una cattedra di ateismo o marxismo in un'università cattolica? Io dico di si: può esserci, perché noi cristiani siamo convinti che ciascuna di queste scienze o dottrine ha una parte di verità, e perché a volte ci espongono una critica che ci risulta utilissima conoscere... Credo anche indispensabile che riconosciamo l'atteggiamento ed il valore di quelli che si sono dedicati, per propria convinzione, a difendere il diritto degli umili, e che la nostra attestazione su questo appaia tanto chiaramente che rimanga oltre ogni mistificazione". Queste parole del cardinale Silva Henríquez mi sembrano molto decisive, mi sembra che indichino una tale svolta, un tale progresso nella conduzione o revisione delle dottrine della Chiesa che devono colpire profondamente le condizioni ideologiche ed il confronto delle idee, per lo meno nel mio paese. Qui abbiamo un grande partito cattolico dal quale si è appena separato un gruppo grande e rispettabile di cattolici militanti. Si sono segregati da esso perché trovarono nel Partito Democratico Cristiano l'influenza ogni volta maggiore del capitalismo e dell'imperialismo, ed una tendenza ad allearsi con questi sistemi invece di combatterli. Mi sembra che la Chiesa abbia avuto influenza in queste determinazioni, l'influenza che gli danno i nuovi movimenti iniziati da molto tempo prima del papa Giovanni XXIII - dalle dottrine di Maritain fino a qua -, in tale maniera che vediamo con chiarezza che nel futuro le migliori forze cristiane e cattoliche del Cile si impegneranno in un'alleanza con le grandi forze politiche marxiste del paese per portare a termine una rivoluzione vera.
R.G.: Che consiglio darebbe ai poeti giovani?
P.N.: Ahi!, non c'è consiglio da dare ai poeti giovani. Devono fare la loro strada, devono trovare gli ostacoli di espressione, devono combatterli. Quello che io non consiglierei loro mai è incominciare con la poesia politica. La poesia politica deve partire da una profonda emozione e convinzione. La poesia politica ha maggiore profondità emotiva che qualunque altra - tanto quanto la poesia amorosa - e non si può forzare perché arriva ad essere volgare ed inaccettabile. Bisogna passare per tutta la poesia per essere un poeta politico. Il poeta politico deve essere preparato anche ad accettare tutta la censura che gli cada addosso sulla base che sta tradendo la poesia, la letteratura, che sta prestando servizio ad una causa determinata. La poesia politica deve armarsi all'interno di tale contenuto, e tale sostanza, e tale ricchezza emozionale ed intellettuale che possa sfidare tale cosa. Questo si capisce molto poche volte.
R.G.: Lei reagisce alla natura in forma molto intensa...
P.N.: Penso che la separazione degli scrittori della natura, che si deve alle grandi città che assorbono, ammazza qualcosa della vita. Gli diceva già io ecceda il libro Il Dottor Zivago che l'unica cosa che vale per me è quella comunicazione tanto meravigliosa che ha Pasternak con la natura. Se il poeta non ha quella comunicazione ha molto da perdere. Naturalmente la vita delle città e la vita degli esseri umani è un materiale necessario per la vita dello scrittore attuale.
R.G.: Ha avuto sempre quell'inclinazione tanto intensa per gli uccelli, le conchiglie, le piante, la natura in generale?
P.N.: Conservo dalla mia infanzia una inclinazione per gli uccelli, per le conchiglie, per i boschi e le piante. Cercando conchiglie marine sono andato da molte parti, fino al golfo della California, le coste del Venezuela, i mari del sud del Cile. Arrivai ad avere una grande collezione. Niente è più misterioso per me, niente è più affascinante, quanto sempre più collezionavo e cercavo, che la diversità infinita di queste creature del mare, il loro colore, le loro forme straordinarie, incredibili, la sua somiglianza con gli stili dei paesi da dove provenivano. Infine, la mia collezione vera di conchiglie cominciò quando un famoso malacologo, Don Carlos de la Torre, un anziano saggio cubano ora deceduto, mi regalò la parte centrale della sua collezione personale, dato che egli aveva già formato la collezione del Museo di L'Avana. Mi regalò anche Don Carlos una collezione di polymita, quelle lumache di terra che vivono tra i muschi degli alberi. Le polymita ha i colori più accesi, dal giallo limone fino al rosso violento. Alcune sembrano picchiettate di sale, altre di pepe. Investigai anche la vita degli uccelli. Li seguii nei boschi, nella selva. Scrissi un libro, Arte de payaros. Camminai per le piante e tra gli animali. Scrissi il mio Bestiario, il mio Maremoto, il mio libro La rosa del herbolario, dedicato ai fiori ed ai rami ed alla crescita vegetale. Tutto questo mondo palpitante della vita e delle forme ha avuto costantemente un richiamo immenso per me, per i miei sensi, per la direzione della mia poesia, per la mia vita stessa. Io non potrei vivere separato della natura. Mi piacciono gli hotel per un paio di giorni, mi piacciono gli aeroplani per un'ora, ma sono felice nei boschi, o nella sabbia, o navigando. Sono felice con un contatto diretto col fuoco, con la terra, con l'acqua, con l'aria.
R.G.: Questi giorni in Isla Negra mi hanno rivelato un Pablo Neruda che credo pochi conoscono, allegro, con gran senso dell'umorismo ed una tale allegria di vivere che la trasferisce a chi lo circonda.
P.N.: La mia poesia ha passato le stesse tappe che la mia vita, e di un'infanzia molto solitaria e di un'adolescenza accantonata per i paesi lontani, isolati, uscii a fare parte della gran moltitudine umana. La mia vita maturò, e quello è tutto. Credo che fosse di moda nel secolo scorso che i poeti fossero tormentatamente malinconici e molti di essi morivano tubercolosi, o per lo meno morivano molto giovani. Bene, io ho fatto il possibile per contraddire quegli ideali del secolo XIX. Questa è un'epoca di poeti realisti e vitali, di poeti che conoscono la vita, che conoscono i problemi e che devono vivere attraversando tutte le correnti, che devono passare, attraverso la tristezza, alla pienezza.

Intervista fatta in Isla Negra, tra il 15 ed il 31 di gennaio
del 1970. Si pubblicò sul libro di interviste di Rita
Guibert, Siete voces, Messico, Editorial Novaro, 1974.

Sua Eccellenza, il Poeta
Jorge Lafforgue


Neruda, una delle maggiori figure dell'attuale letteratura latinoamericana, ancorò a Buenos Aires dalle 16.30 di martedì 2 di marzo - quando un aeroplano di LAN Chile lo depositò in Ezeiza - fino alle 18 di sabato 6. Quel pomeriggio il vapore Augustus partì di rotta all'Europa, conducendolo al suo nuovo destino: l'ambasciata del governo cileno in Francia. Durante quei giorni uno dei maggiori inconvenienti che gli impedirono di transitare liberamente per le strade abitate di Buenos Aires fu (oltre al cattivo tempo) il costante assedio di giornalisti, fotografi e cameraman della TV; una marea umana che circondò insormontabile l'accesso alla stanza 562 del Piazza Hotel ed obbligarono il poeta ed i suoi accompagnatori - i circostanziali e sua moglie, Matilde Patoja Urrutia - a fuggire quasi sempre per le porte di servizio. Questo inseguimento riuscì in determinate circostenze il suo proposito: alcuni dichiarazioni al volo, un'estemporanea conferenza stampa nella sede della Società Argentina di Scrittori durante l'omaggio che lo fu tributato il venerdì 5. Ma, dal Cile, Neruda aveva autorizzato solo un'intervista esclusiva, e Siete Días fu l'unico organo del giornalismo argentino che accompagnò il fiammante ambasciatore durante tutta la sua permanenza nel paese.
JORGE LAFFORGUE: Che cosa pensa rispetto alla situazione attuale del Cile? Come vede il trionfo dell'Unità Popolare?
PABLO NERUDA: Il processo politico del Cile è un processo naturale. E, naturalmente, quello che ha sorpreso la gente di buona volontà fuori dal Cile, ai nostri avversari politici e le persone interessate è osservare come è avvenuto il cambiamento di regime. Si sono sorpresi che noi abbiamo potuto raggiungere un governo differente mediante la volontà popolare, per l'espressione del voto. Ma per noi questo non ha niente di sorprendente. Basta pensare che il mio paese possiede antiche organizzazioni unitarie - operaie, sindacali - molto poderose, appoggiate da un immenso settore della classe operaia e degli impiegati. La nostra centrale sindacale è la più grande del continente ed una delle poche davvero unitarie del mondo. Per noi il fatto che quattro o cinque operai siano arrivati ad essere ministri di Stato o un socialista presidente della repubblica non significa altro che la logica conseguenza politica dello sviluppo completamente normale della nostra vita. Lo strano, in ogni caso, è che quelli fatti non si fossero prodotti prima, anche prima che a Cuba. Ora, in questa tappa, si parla molto o si vuole dare l''impressione che siamo un paese dove tutto è disordinato e caotico. Non è vero quello. Ed è tanto poco vero che, per esempio, stiamo compiendo la riforma agraria mediante le leggi che furono approvate in precedenza all'arrivo di questo governo popolare. Solamente con l'applicazione di quelle leggi - che non si concludero di applicare perché giustamente causano una contraddizione tra i sostenitori del sistema antico (cioè, dei latifondisti) -, di quelle misure, noi andremo molto lontano.
J.L.: Fino a dove?
P.N.: La stessa nazionalizzazione dei nostri prodotti come il rame (del quale siamo il più grande produttore mondiale), si agita nell'esterno come misura coercitiva. Ma, come è possibile che qualcuno creda che noi ci spaventiamo o ci sbagliamo? Non temiamo il Cuculo. Noi non possiamo ingannarci, perché sappiamo che il petrolio si nazionalizzò in Messico con Violaceo più di trenta anni fa, che il canale di Suez si nazionalizzò in Egitto con Nasser, che tutti i giorni c'è una nazionalizzazione nel mondo. In Cile, un paese tanto sviluppato politicamente ed intellettualmente che ha bisogno di un'espansione economica, una nuova velocità economica, si permetteva che perfino i telefoni e l'energia elettrica appartenessero a compagnie straniere, senza parlare del rame, che produce per i nordamericani un milione di dollari al giorno. Ma, per favore!, perché si spaventano che noi con quel milione di dollari giornalieri (che vogliamo recuperare, che andiamo a recuperare), tentiamo di vestire il nostro popolo, di fare ospedali, scuole, strade? Come è quello? In quale ciclo della civiltà stiamo? Stiamo allora con la legge della giungla? È che quelli che ebbero sempre tutto non possono lasciare vivere un paese più piccolo, vivere delle sue proprie ed inalienabili risorse? Le nostre rivendicazioni sono davvero naturali. Non solo politiche ma anche umane.
J.L.: Ed in relazione con altri processi politici che si vivono nel continente, Cuba da una parte, Perù e Bolivia da un'altra, quale è la posizione cilena?
P.N.: In quanto al nostro cammino in relazione con Cuba, con la Bolivia, col Perù, devo manifestare che noi abbiamo gran simpatia per tutti i movimenti che in qualsiasi parte della nostra America significhino avanzamento generale ed indipendenza economica delle nazioni; ma sentiamo anche amicizia verso tutti i paesi americani. È che noi non vogliamo esportare i nostri movimenti, non possiamo esportarli. Siamo intensamente occupati in fare le nostre cose, siamo convinti che le faremo bene e che abbiamo l'immensa maggioranza con noi. Non temiamo i chiassosi patriarchi di un sistema che si sta sgretolando in tutte le parti del mondo, ma d'altra parte non dobbiamo metterci con quello che succede in altri posti. È già abbastanza quello che sta accadendo nella nostra patria che è un paese ricco in possibilità ma con bambini denutriti. Il primo atto del presidente Salvatore Allende è stato disporre mezzo litro di latte giornaliero per ogni bambino del Cile; la misura si è realizzata già. Costa molto farlo, E benché sappiamo che il compito che ci aspetta è gigantesco, lo intraprendiamo con piena coscienza che il paese cileno ci risponde, che approva quello che stiamo facendo.
J.L.: Gli atti di violenza che si sono prodotti non possono ostacolare o frustrare quei piani?
P.N.: Nel compito intrapreso ci sentiamo tutti solidali; siamo solidali in un paese dove la gente sa quello che fa, sa quello che pensa. Se ci sono molti schiamazzi e molta protesta nell'esterno, non ce n'è dentro il nostro paese. Inoltre, noi siamo un paese ordinato, disciplinato e che sa e conosce le risorse della sua lotta, il suo potere e la sua tranquillità. Nella storia del Cile, una storia eccezionalmente quieta, è stata sempre l'estrema destra (la oligarchia) quella che ha portato al paese a situazioni terroristiche. Si sono commessi due grandi assassini politici in Cile; entrambi li ha realizzati la classe privilegiata, non il popolo del Cile. Il generale Schneider che è appena morto assassinato, è la prova di ciò. Si sta investigando il fatto, ma le connessioni che hanno rivelano che non ci fu nessun settore popolare implicato ,che questa provocazione va contro il movimento ed il trionfo del popolo. Ma, come allora può credere qualcuno che un movimento che ha evidenziato la sua propria capacità, conseguendo un'organizzazione che ha resistito tutti gli attacchi fino ad arrivare ad una situazione che offre prospettive più grandi per il futuro, si lanci ora al terreno della violenza ed il disordine? È impossibile, precisamente il popolo cileno ha raggiunto il potere per stabilire una tranquillità basata su una maggiore giustizia. Questo processo lo stiamo realizzando bene e con sicurezza. Il presidente Allende si sente molto equilibrato e contemporaneamente molto sicuro nelle sue espressioni, interpretando fedelmente quello che pensano i cileni. Tutto il mondo è entusiasmato con questa trasformazione e si fanno molte più cose; in tutto c'è un ambiente come di festa; tutti vengono a chiederci costruzioni, strade, libri, scuole, ospedali; gli operai entrano alla casa di governo e parlano col presidente; tutti i giorni la gente lo vede ed egli sta da tutte le parti. Ma non abbiamo capi unici; Allende non è un capo unico, è l'espressione dell'unità di molti partiti. Siamo quello che si è detto: un regime pluripartitico. Cioè che dentro il seno di questa unità ci siamo messi d'accordo sulla base di un avanzamento di tutto il paese, di tutte le forze creative del paese. Le differenze che possiamo avere non hanno importanza perché ci siamo messi d'accordo in un solo programma molto prima di vincere le elezioni; e quello programma si sta compiendo. Senza nessun dubbio.
J.L.: Si è detto molte volte, e perfino l'hanno affermato portavoci del governo che in Cile il popolo è arrivato al governo ma gli manca ancora di guadagnare il potere. Lo disse, per esempio, Carlos Altamirano, attuale presidente del Partito Socialista cileno. Che cosa gli sembra questa distinzione?
P.N.: In un certo senso è una differenziazione molto sottile. Siamo durante il tragitto ed abbiamo ancora la prospettiva di riforme più grandi; e le faremo, perché abbiamo i piedi molto fermi nel suolo. È naturale che la lotta di classe continui anche nei regimi più avanzati, e noi la sentiamo ogni giorno. Ma non possiamo estirpare l'opposizione, non abbiamo bisogno di  farlo, non l'abbiamo fatto né vogliamo farlo. Siamo d'accordo rispetto a quello che sarebbe il potere del popolo. La dignità assoluta in tutti i mezzi è la strada, chiaro, ma quella strada la faremo per la convinzione ed i cambiamenti storici che si stanno sviluppando. In quello siamo molto sicuri perché la semplicità di queste cose è enorme. Per distinguerci dalla Rivoluzione cubana, per esempio, teniate presente che Cuba ha fatto uno sforzo eroico per cambiare la sua antica forma di vita, perché era un paese di monocoltura che aveva trascurato le infinite faccende nella costruzione, nell'industria; invece, noi contiamo già da tempo su tutti quegli elementi, siamo arrivati ad essere un paese esportatore, e non di manodopera bensì di lavoro specializzato: i nostri tecnici in motori Diesel, per esempio, sono per tutta l'America da più di venti anni; o i telefoni del Venezuela, in parte installati da tecnici cileni. Siamo capaci ed abbiamo la qualità di uomini per l'industria, l'agricoltura, il settore minerario e tutte le forme della creazione. Perciò dicevo che tutto questo per noi è di una semplicità maggiore che in altri paesi di minore sviluppo. Abbiamo la gente per lavorare, il legno per fare le case, il ferro per le costruzioni, abbiamo le nostre risorse naturali. Voglio vedere chi può schiacciare un paese con tutta quella vitalità e con tutta l'organizzazione e l'esperienza di lotta che ha il paese cileno!
J.L.: Siccome qui si conosce il documento del gruppo Taller de Escritores de la UP ed alcune dichiarazioni di Antonio Skármeta e di Enrique Lihn, desidereremmo sapere quale è la politica culturale che pensa di seguire il governo cileno. Esiste una politica in tale senso?
P.N.: Si spingerà tutta la politica culturale; ma questo significa un studio di mercato troppo grande affinché possiamo anticipare quello che accade. C'è naturalmente nel governo - come si sta già vedendo - il maggiore desiderio di ribassare i libri, di diffondere i testi scolastici, di arrivare alla maggioranza senza mezzi economici, senza risorse; ed in quanto alla letteratura, partendo della base della creazione della Editoril del Estado, si sta pensando che siano gli stessi scrittori che programmino il suo sviluppo. Fino ad ora non abbiamo precisamente una politica culturale studiata. Ci sono si molte iniziative, ma tutto sta appena cominciando a farsi. Il governo non ha che quattro mesi, praticamente.
J.L.: Affronta, per esempio, la possibilità di iniziare una campagna di alfabetizzazione?
P.N.: Il governo sta dando molta forza al Ministero di Educazione. L'analfabetismo, benché non sia un gran problema, comunque si tenta di combatterlo. Per adesso si è spinto in forma massiccia la creazione di scuole, il censimento scolare si è concluso e si sono presi mezzi affinché non rimangano migliaia e migliaia di alunni fuori dallo scuole, come staca succedendo. Con la creazione di sempre di più scuole ed istituti di insegnamento, possibilmente prima di tre anni si risolveranno completamente questi problemi.
J.L.: Lei si riferì all'alto livello tecnico raggiunto in Cile. Non esiste inquietudine rispetto alla possibilità di un esodo di tecnici e di professionisti?
P.N.: Ci sono stati indubbiamente casi molto isolati da professionisti che furono presi dal panico, ma che già ritornarono quasi nella sua totalità. Non abbiamo avuto un esodo massiccio. I nostri tecnici rimangono in Cile, e lì cìè l'esempio della CAP (Compañía de Aceros de Pacífico), che è passata nelle mani dello Stato. La nazionalizzazione delle risorse minerali, tuttavia, necessiterà di sempre più tecnici di quelli che abbiamo. Tenteremo di ottenerli. Perché lo sviluppo della nostra produzione va non solo a conservarsi ma crescerà in forma insospettata. Io porto l'incarico espresso dal presidente Allende di parlare con organizzazioni che forniscono tecnici a paesi che lo richiedono. Il nostro problema è: abbiamo molto buoni tecnici, ma non ci basteranno.
J.L.: Passando ad un altro piano, crede lei che il suo posto di ambasciatore può interferire col suo lavoro letterario? E questo come la vede nel suo insieme; c'è una continuità o culminò in Residencias e Canto general, come pensano molti critichi?
P.N.: Quella che gli scrittori chiamano la "sua opera" è una parte molto organica di me stesso, come il sistema circolatorio, come i miei nervi. Non ho nessun senso analitico, critico; non ho neanche nessuna teoria sistematica sulla mia opera passata o futura. Essere scrittore è vitale in me. Mi credo un scrittore spontaneo, benché naturalmente accetti la disciplina, la disciplina come parte del mestiere. Non può esserci un scrittore che si proponga le cose in una maniera intellettuale ed intellettiva e passi la vita sviluppando un schema che può essere scientifico, ma mai poetico. Perciò sono nemico di processarmi o analizzarmi; le cose escono come io le sento, e questo è stato il mio unico sistema, che è non avere nessun sistema. D'altra parte, di alcuni libri mi sono dimenticato; altri, dovuto a qualche ricordo molto drammatico che conservo di essi, richiamano la mia attenzione, come il Canto general, scritto quasi nella sua totalità durante più di un anno e mezzo di illegalità, nascosto in Cile, e pubblicato anche clandestinamente; o come España en el corazón che mi porta ricordi di quella guerra civile. Residencia en la tierra appartiene ad un'epoca solitaria della mia vita ed ha molto poco a vedere con la mia persona attuale, ma non è un libro brutto, è un libro pessimistico ed un poco tragico, che corrisponde alla mia gioventù. Invece, le mie Odas elementales riflettono un altro senso della vita, di maggiore maturità e di maggiore partecipazione. Ieri Francisco Luis Bernárdez mi citava un mio verso, "la colectividad de la hermosura"; quello è quello che in qualche modo tentai con le mie odi. Ma io sto sempre cambiando e variando, per disgrazia di molti critichi che credono che io ho già terminato. Esco sempre d'altra parte. Ora, trovare eco in una certa gente non mi interessa, ma non per vanità, ma siccome la mia poesia è qualcosa di organico come penso di criticare il numero dei miei globuli sanguinei? Sarebbe molto strano per me (veramente lo sento così), perché non ho avuto mai vanterie, sono stato sempre l'antivanitoso.
J.L.: In quanto all'attuale panorama letterario del Cile, che cosa pensa rispetto ai poeti giovani? Chi emergerebbe? D'altra parte, che cosa pensa di Nicanor Parra e della sua proibizione a proposito del suo tè con la signora di Richard Nixon?
P.N.: Il Cile è un paese essenzialmente poetico, sempre in creazione. Nominare uno si fa allora molto difficile. Adesso penso di organizzare un recital di poeti giovani a Parigi. Mi sono incontrato con tanti che non so come fare per scegliere; volesse portarne dieci, ma non meno di trenta valgono la pena leggersi. Voglio che vadano e leggano in spagnolo e lì stesso li si traduca; che sia uno spettacolo grande di poesia e contemporaneamente una maniera di presentare la nostra gente. In quanto a Parra, non c'è nessun dubbio che è un poeta pieno di inventiva ed un gran creatore. C'è gente che vuole metterlo contro di me e fare il gioco della politica letteraria che non ha nessuna sopravvivenza. Noi, i poeti cileni, formiamo una grande unità. Parra ha potuto commettere errori - io stesso ho commesso mille errori -, ma quello non gli toglie la sua condizione di creatore. Parra è un poeta che rispetto molto. In quanto agli altri non voglio fare nomi perché non voglio che mi tradisca la dimenticanza e dopo qualcuno si offenda.
J.L.: Andando lei ora in Francia - benché le circostanze siano completamente distinte - in qualche modo andrà ad integrare il famoso gruppo europeo di scrittori latinoamericani. Sul tema dell'autoesilio si è generata un'ampia polemica, (Arguedas versus Cortázar, per esempio). Che cosa pensa al riguardo? Non gli sarebbe piaciuto più rimanere in Cile?
P.N.: Io scrissi già che stavo dalla parte di Cortázar e dalla parte di Arguedas, cioè, che ognuno faccia quello che gli pare. Apparentemente, Arguedas - un caso molto doloroso nella nostra vita, un grande scrittore che si lasciò portare dal suo proprio tormento fino a prendere la sua decisione tragica - potrebbe avere ragione: gli scrittori devono rimanere nel loro paese. Ma quando scrittori come Cortázar, Vargas Llosa o García Márquez scrivono libri tanto pieni dei nostri problemi, tanto profondamente americani - tanto peruviani, tanto colombiani, tanto dell'America Latina -, perché li critichiamo? Nello stesso Cortázar, i suoi sogni, il suo irrealismo, girano sempre attorno all'Argentina. Il suo letto può stare a Parigi, il suo cuore sta qui. Ora, con le comunicazioni attuali, il mondo è molto più piccolo; siamo a poco più di un'ora di Santiago ed a poche della Francia. Il mondo ha cambiato la sua struttura e già la separazione di un scrittore non si produce come un violento scisma. Credo che in questo problema non si possa essere tanto assolutisti come lo fu Arguedas. In quanto a me personalmente, non vado via solo per il mio gusto - poiché ammiro molto la Francia - ma ho un compito da compiere. Ed inoltre continuerò a scrivere, perché sono condannato a scrivere.

Intervista elaborata da Jorge Lafforgue ed edita in Siete
Días Illustrados, núm. 200, Buenos Aires, 15.3.1971.

Il poeta e l'ambasciatore
Revista "Marcha"


MARCHA: Poeta, politico, ambasciatore, chi è lei, Pablo Neruda, da dove viene?
PABLO NERUDA: Nacqui agli inizi di secolo, nel centro del Cile. Ma neonato i miei genitori mi portarono all'estremo meridionale del paese, a Temuco. In quell'epoca, era un paese molto piccolo. Si cominciavano a costruire le prime case, si ripartiva la terra tra gli abitanti, man mano che arrivavano. Attorno al paese, la selva ed il campo, dove viveva gli indios mapuches. Temuco è il mio paesaggio, l'essenziale della mia poesia.
M.: Lì andò alla scuola?
P.N.: Sì, alla scuola del paese. I miei compagni avevano cognomi tedeschi, inglesi, norvegesi e, naturalmente, cognomi cileni. Era una società senza casta, un mondo che era appena nato. Tutti eravamo uguali. La cristallizzazione di classe si prodursi dopo, quando la gente incominciò ad arricchirsi. Ma in quello momento, era una specie di grande democrazia popolare, dove tutti avevano lavoro. Ancora non esistevano proprietari terrieri, proprietari, se lei vuole.
M.: E gli indios?
P.N.: Vivevano completamente a parte. Sloggiati delle loro terre, alla fine del secolo scorso, i mapuches non vivevano nella stessa Temuco, bensì nei campi che la circondavano: una capanna qui, alcuni chilometri più lontano, un'altra capanna. Venivano al paese a vendere i suoi prodotti: tessuti di lana, uova, pecore. Di notte, intraprendevano il ritorno: l'uomo a cavallo, la donna a piedi.
M.: Lei li conosceva?
P.N.: Non avevamo comunicazione alcuna con loro. Non sapevamo la loro lingua; appena alcune parole. Ed essi non parlavano spagnolo. Ancora lo parlano molto male, inoltre.
M.: Tuttavia, la presenza degli indios segnò la sua poesia...
P.N.: Ebbi quel sentimento della storia che è un po' la coscienza del poeta. Fu sulla terra di Temuco dove si combattè la maggiore battaglia di Arauco, l'impero dei mapuches. I conquistatori spagnoli venivano a cercare oro, oro e più oro. Gli indi fecero loro inghiottire oro liquido dicendoli: "Ora hanno l'oro che volevano!". Nessun paese dell'America Latina resistè tanto ferocemente agli spagnoli. Credo che questo si è dimenticato.
M.: Quanti sono attualmente?
P.N.: I governi reazionari del Cile occultarono sempre la verità: 50.000 o 60.000 come massimo, dicevano. In realtà, sono approssimativamente mezzo milione. Costituiscono una minoranza etnica, possiedono la loro lingua - una delle più belle del mondo -, le loro tradizioni, la loro cultura. Il nostro attuale governo fu il primo a riconoscere a questi cileni la loroa condizione di cittadini veri. Prima non avevano più che diritti minori.
M.: Perché passò la sua infanzia in Temuco? Che cosa faceva suo padre?
P.N.: Fu capo di treni fino al fine dei suoi giorni. Non treni di passeggeri. Erano treni che trasportavano ghiaia che si metteva tra i dormienti di legno perché pioveva continuamente. Quella era come la sua casa. Aveva un vagone per dormire ed ogni tanto io andavo a passare alcuni giorni con lui. Noi facevamo delle escursioni con altri ferrovieri ed esploravamo la natura, i ruscelli, i fiori, le montagne. Era appassionante.
M.: Sua madre vi accompagnava?
P.N.: Morì quando io avevo due mesi. Mio padre tornò a sposarsi e la sua seconda moglie fu la mia vera madre. Gli dedicai vari poemi. Era realmente meravigliosa.
M.: Quando scrisse i suoi primi versi?
P.N.: Credo che avessi 7 o 8 anni. I miei genitori erano molto occupati, quel giorno, e quando mostrai loro i miei versi, mi dissero: "Di dove li copiasti?." Il poema era dedicato a mia madre...
M.: Quando lesse per la prima volta un suo poema in pubblico!
P.N.: A 16 anni. Studiavo nell'Università di Santiago. C'era una specie di carnevale, il festival della primavera, che doveva essere inaugurato da un poeta. A tali effetti, si organizzò un concorso in tutto il Cile per scegliere il migliore poema. Io presentai il mio e lo scelsero tra migliaia. Era il 1921, a quei tempi io ero molto isolato, molto solitario. Mi sentii tanto emozionato che non potei leggere i miei versi. Un altro lo fece nel mio posto.
M.: Tra i 7 ed i 16 anni, realizzò studi letterari?
P.N.: Aveva letto poesia francese. Prima di entrare nell'università conoscevo già a Sully Prudhomme, Verlaine... In quell'epoca c'era un'antologia della poesia francese molto bella. Era molto comune averla e passarla di mano in mano. Siccome io ero povero me la prestavano ed io copiavo i poemi.
M.: Quando pubblicò la sua prima collezione di poesia?
P.N.: Due anni dopo. Non fu facile. Alcuni amici mi aiutarono, la mia famiglia mi diede denaro e dovetti vendere il mio orologio. Ma all'ultimo momento, lo stampatore non volle darmi neppure un solo esemplare del mio libro perché ancora gli doveva alcuni pesos. Fu terribile. Corsi come un matto dappertutto e finalmente ottenni la somma necessaria. Poi trovai un editore; ancora continua a pubblicare i miei poemi.
M..: In realtà lei si chiama Ricardo Eliecer Re Ba-soalto. Perché cambiò nome?
P.N.: Cambiai nome a 14 anni, prima di andare da Santiago. A causa di mio padre. Era un'eccellente persona, ma stava contro i poeti, in generale, e contro me, in particolare. Arrivò a bruciare i miei libri e quaderni. Egli pensava che dovevo essere ingegnere, medico, architetto, perché di essi si aveva bisogno, diceva. Era come tutta quella gente di classe media uscita dai contadini che voleva vedere a suo figlio scalare posizioni nella società. E l'unica maniera di riuscirci erano l'università e le professioni liberali.
M.: Ma perché Pablo Neruda?
P.N.: C'era un gran poeta ceco che era anche cronista: Erwin Kisch. Questo uomo passò lunghi anni della sua vita inseguendomi e facendomi la stessa domanda che lei. Lo incontrai a Madrid, in Messico, a Praga. A Praga mi disse: "Contami il fine della storia, ora sono vecchio, ti inseguii tanto tempo....". La verità è che la verità non esiste, per quello che riguarda questa storia. Un giorno in cui io temevo che mio padre scoprisse la verità - ciò che sarebbe stato una catastrofe - sfogliai una rivista dove c'era un racconto firmato Jan Neruda. Giustamente dovevo inviare uno dei miei poemi ad un concorso. Allora presi Neruda e scelsi come nome Pablo. Credetti che fosse solamente per alcuni mesi.
M.: Si abituò facilmente alla sua nuova identità?
P.N.: Non all'inizio bensì dopo. Il governo finì per legalizzare il mio nome, trenta cinque anni fa. Attualmente, Pablo Neruda è il mio vero nome, non ne ho un altro.
M..: L'università costava cara. Poteva vivere scrivendo poemi?
P.N.: Ci arrangiavamo, nelle famiglie provinciali, per scoprire una zia che aveva una piccola pensione in Santiago. Vivevamo lì, era molto a buon mercato. C'erano molte pulci e mangiavamo molto poco. Tutta una generazione dei miei compagni dell'università morì praticamente di fame.
M.: Che cosa studiava?
P.N.: Nei primi tempi, architettura e francese. Francese per poter leggere. Ma non finii i miei studi perché la politica universitaria mi accaparrò. La vita letteraria anche. Per un provinciale come me, trovare gente che mi parlava di Baudelaire, che conosceva i poeti francesi, mi attraeva enormemente. Passavamo notti intere scambiando scoperte. Io avevo appena 19 anni a quei tempi.
M.: I cileni erano molto affezionati alla poesia?
P.N.: C'era una quantità di poeti i cui versi conoscevano a memoria. I cileni ebbero sempre debolezza per la poesia. Questo si deve magari all'isolamento del paese, contemporaneamente vulcanico e marittimo. Durante tutto quel periodo della mia vita da studente in cui percorsi il Cile recitando poemi, sentii che quello che più interessava alla gente era la poesia. Io potevo parlare di politica o economia, ma quello che appassionava la gente era la poesia.
M.: Essendo poeta, un giorno lei si trasformò in console. Come accadde questo?
P.N.: I cileni sono grandi navigatori e viaggiatori. Nel mio paese, tutto il mondo vuole andare ad un'altra parte. Quando lei scrive qualcosa gli dicono: "Ma, che cosa ci fa qui?". Come se fosse l'ultimo angolo del mondo! Mi fecero tante volte questa domanda che finii per domandarmi io stesso che cosa facevo nel mio paese e quale fosse la migliore maniera di viaggiare. Non avevo denaro. Allora mi consigliarono, mi dissero che poteva essere nominato console. Io non sapevo che cosa era. Ma mi convinsi che potevo esserlo ed andai al Ministero di Relazioni Esterne affinché mi dessero un posto. Mi guardarono strano ed andai via. Un giorno, tuttavia, qualcuno mi disse: "Sei tu quello che vuole essere console? È molto facile, seguimi." Detto e fatto. C'era un mappamondo sulla scrivania del ministero e esattamente nel posto che mi assegnarono, c'era un buco. Mi sentii tanto onorato che non domandai nemmeno dove rimaneva. Quando mi domandarono dove mi inviavano come console io risposi: "Al buco." Il buco era Rangún, in Birmania.
M.: Era lontano...
P.N.: Nella strada per Rangún, passai per Parigi. Era il 1927, nell'epoca della dominazione assoluta di Montparnasse. Passai quattro o cinque giorni, della notte fino all'alba, ne La Cave e La Coupole. Incontrai lì una quantità di gente, molti argentini soprattutto. Il tango era di moda. Dopo, mi imbarcai nelle Messageries Maritimes, in terza classe, ed arrivai a Singapore. Credeva che Rangún fosse vicino. Inoltre non aveva denaro per continuare. Chiesi al console di Cile che mi aiutassi per comprare il biglietto. Si negò. Allora lo minacciai di dare una conferenza sul Cile a Singapore. Questo lo fece tanto ingelosire che mi prestò il denaro immediatamente. E presi la nave per la Birmania.
M.: L'attraeva l'Oriente?
P.N.: Meno che agli scrittori della mia generazione in quell'epoca. Ma arrivando, scoprii qualcosa di insolito: un paese diretto per donne. Si vestivano molto eleganti, coi loro sari gialli, azzurri, con fiori bianchi, e fumavano avana come Fidel Castro. I ministeri, i consigli municipali, i commerci, tutto lo dirigevano le donne. Poi seppi che le birmane erano tanto importanti nella civiltà del loro paese che gli inglesi dettero loro prima il diritto al voto che alle inglesi. Era un paese strano. Ancora ricordo quella gran pagoda dorata nel centro di Rangún. Veniva la gente ed attaccava foglie d'oro che si vendevano vicino a lì. Si dice che la pagoda contenga tre capelli di Buddha, posizionati in una specie di vaso pieno di smeraldi e rubini. Ad una certa ora un enorme fiume colore arancia sboccava impetuosamente nella città. Erano i sacerdoti che venivano ad un'ora determinata a mendicare il loro cibo. Perché Buddha proibisce di possedere beni materiali...
M.: Viaggiò per gli altri paesi dell'Asia?
P.N.: Andai a Calcutta, Madras, Colombo, e realizzai un viaggio per l'Indocina che mi impressionò molto. Viaggiavo in autobus che attraversavano la penisola fino a Saigón. Si guastavano continuamente e ci fermavamo.
Una notte, io stavo in un autobus con quattro o cinque persone che mi sembravano pericolose, inoltre non sapevo una parola della loro lingua. All'improvviso, ci fermammo in piena selva. I passeggeri si guardarono tra loro ed uscirono. Io mi dissi: se esco da qui mi sgozzano. Non poteva esserci dialogo tra noi dato che né loro parlavano inglese o francese né io parlavo una parola della loro lingua.
Stavo dunque solo nell'autobus, con la selva attorno a me, nell'oscurità più assoluta, quando all'improvviso vidi luci e sentii tamburi. In quello momento, si avvicinò una persona parlando inglese, seguita da una moltitudine. Mi spiegò che siccome l'autobus era guasto ed io, essendo l'unico straniero dovevo star annoiandomi, gli altri passeggeri hanno cercato musicisti in un paese vicino affinché mi suonassero qualche cosa. Avevo temuto che mi ammazzassero ed è qui che mi portano la cosa migliore della vita: la musica e la danza.
M.: Aveva molto lavoro in Rangún?
P.N.: No. Bisognava dichiarare la mercanzia che veniva dal Cile o che si inviava là, ed io firmavo le carte. C'era una barca di tè ogni quattro mesi affinché venisse qualcuno al consolato a fare qualche tramite. Nel frattempo, non avevo nient'altro da fare. Nessuno voleva andare in Cile e né un cileno passava per la Birmania.
M.: Era ben pagato?
P.N.: Molto male. Le leggi cilene di quell'epoca erano tali che, se non entravano valute nel consolato, io non avevo diritto a niente. Si fissava una somma convenzionale che era di 166,66 dollari. Se la somma ricevuta era superiore, io dovevo inviare il resto allo Stato, e se era meno, potevo prendere tutto.
M.: Come faceva per vivere?
P.N.: Aveva convinto il proprietario del hotel che non era lcolpa mia se non avere denaro. Ogni volta che arrivava la barca, io lo pagavo e poteva vivere quattro mesi ancora nel suo hotel.
M.: Allora, aveva tempo di scrivere.
P.N.: Sì. Scrissi Residencia en la tierra, il mio quinto o sesto libro.
M.: Non l'attrassero mai le religioni orientali?
P.N.: Io ero agnostico. E già detestavo quei movimenti falsamente religiosi, mischiati di esotismo e filosofia nascosta, le teosofie, eccetera. Mi sembrava un modo di evadere dalla realtà. Effettivamente, quando arrivai in Oriente, ebbi la certezza che l'India ed i paesi buddisti erano terribilmente impegnati a sopravvivere. Per loro era primordiale. Un giorno, una grande pioggia tropicale cadde su Rangún e davanti ad un tempio c'erano migliaia di persone. Erano inginocchiati nel fango. Erano della stessa religione che i sacerdoti che stavano dentro, ma non potevano entrare. Questo mi risultò insopportabile. Che ingiustizia feroce! Interiormente, protestai, ma compresi che protestavo come cristiano. Che magari, dopo tutto, io ero cristiano perché nel cristianesimo, per lo meno, c'è uguaglianza. Ed inoltre, scoprii che il Buddismo non aveva realizzato il suo ideale: riformare la società. Buddha, nel suo pensiero, fu un gran riformatore, ma non seppe trasmettere la forza del suo pensiero al mondo, per cambiarlo. E mi resi conto che era naturalmente molto più vicino all'islam.
M.: Come accadde quello?
P.N.: In maniera strana. Un giorno, entrai in una moschea bianca, tutta di marmo. Non c'era un solo mobile, né un ritratto, né una statua. Fuori faceva un caldo terribile. Io ero stanco. Mi tolsi le scarpe, come si usa. La moschea era deserta. Ma poco dopo sentii voci e quando uscii c'erano musulmani con aria arrabbiata. Mi dissero: "Che cosa fai qui? Sei musulmano? - No -. Sei cristiano? - Probabilmente -. E perché ti coricasti lì? - Volli sedermi un po', era molto stanco -. E che cosa volevi fare? - Magari riflettere, pensare...." Allora parlarono tra essi e mi dissero: "Hai ragione, è il posto per riflettere. Puoi ritornare."
Questo mi commosse enormemente, questa comprensione senza dogma. Fu quello che più mi rimase in tutti gli anni che passai in Oriente. Sappia, quelle grandi processioni con elefanti, la dea Kali, fiorita di veli e collane di teste di morti, gli ululati delle bestie che sacrificano, il sangue nella strada, le mosche ed i sacerdoti avidi di alcuni monete, non trovai mai tutto questo molto gradevole... Invece, quella moschea chiara, fresca come una gran piscina senza acqua, quello mi commosse.
M.: Aveva già opinioni politiche in Oriente?
P.N.: Sì, subito mi unii agli studenti rivoluzionari dell'India. Piuttosto li ascoltavo, perché diffidavano degli occidentali come me. In quell'epoca, erano solamente anticolonialisti.
M.: E lei?
P.N.: Bene, quando studiavo nell'Università di Santiago, dedicavo parte del mio tempo a tradurre ad anarchici francesi che sicuramente voi non conoscete. Ma la classe operaia cilena era molto influenzata da essi. Era l'epoca di Sacco e Vanzetti. Io avevo allora 16 anni e scriveva già case editrici politiche nelle riviste universitarie.
M.: Poi lei si evolse. Come diventò comunista?
P.N.: Sappia, in Cile avemmo un vero titano delle organizzazioni sindacali. Se mi domanda a chi appartiene la vittoria dell'Unità Popolare, gli dirò: a quell'uomo, Luis Emilio Recabarren. Fu lui che fondò nel 1912 il Partito Operaio Socialista che più tardi sette anni si trasformerà nel Partito Comunista. Creó circa quaranta sindacati, dopo la prima centrale operaia. Finalmente, fondò la stampa operaia che tirò fuori quindici o venti quotidiani. Insegnò alle organizzazioni sindacali a lasciare da parte il denaro. In altre parole, Recabarren fu il pioniere del sindacalismo cileno. La sua carta fu decisiva e la sua influenza sugli uomini della mia generazione, enorme. Mentre le dittature si stabilivano dappertutto in America Latina, questo uomo seppe mettere al Cile in una strada differente, creando sindacati moderni. Ed ovviamente, noi, gli intellettuali e gli scrittori, seguiamo questa evoluzione. Questo si fa naturalmente.
M.: Quando si affiliò al Partito Comunista?
P.N.: Cominciai a diventare comunista in Spagna, durante la guerra civile. Mi nominarono console del Cile in Spagna. Fu lì che trascorsi il periodo più importante della mia vita politica. Come molti scrittori del mondo intero, d'altra parte. Ci sentiamo attratti da quella resistenza enorme al fascismo che fu la guerra di Spagna. Ma questa esperienza significò qualcosa di più per me. Prima della guerra di Spagna, io conobbi scrittori che erano tutti repubblicani, eccetto uno o due. E la repubblica per me, era il rinascimento della cultura, della letteratura, delle arti, in Spagna. Federico García Lorca è l'espressione di questa generazione poetica, la più esplosiva della storia spagnola in vari secoli. Allora, la distruzione fisica di tutti questi uomini fu un dramma per me. Tutta una parte della mia vita finì a Madrid.
M.: Conobbe bene quei poeti?
P.N.: Sì. Li vedevo al quotidiano, nei caffè o ci riunivamo. Soprattutto García Lorca. Era nell'epoca in cui faceva molto teatro. Lo accompagnavo spesso alle prove, cercavamo insieme gli arredamenti delle opere.
M.: Dopo la Spagna, lo nominarono console in Messico. Fu lì quando cominciarono i suoi dispiaceri politici... Con l'assassinio di Trotski, non è vero?
P.N.: In Europa, per ragioni politiche e letterarie, si tentò di vincolarmi alla morte di Trotski. Ma non vidi mai questo uomo, né da vicino né da lontano, né vivo né morto. Comunque, posso raccontargli un fatto che mi sembra pittoresco. Ero appena arrivato in Messico, per occupare l'incarico di console generale, quando ricevei la visita dell'ambasciatore del Messico in Cile, Octavio Reyes Espíndola. Credo che ancora viva ed attualmente è senatore. Mi fece sapere che il generale Manuel Ávila Camacho, presidente della repubblica messicana, lo aveva incaricato di una missione confidenziale. In una parola, mi chiese, a titolo personale, che concedessi, il più rapidamente possibile, un visto al pittore David Alfaro Siqueiros, autorizzandolo ad entrare in Cile. Devo confessare che questa domanda mi sorprese, perché credevo Siqueiros in prigione. In effetti, l'avevano accusato di mitragliare la casa di Lev Trotski. Dissi allora all'ambasciatore Reyes Espíndola: "Come potrebbe concedergli un visto se sta nella prigione?." Risposta dell'ambasciatore: "Non si preoccupi, lo faremo mettere in libertà."
Proposi allora andare a visitarlo, cosa che facemmo al giorno dopo. Andammo all'ufficio del capitano Pérez Rulfo, direttore della prigione, che ci ricevette molto gentilmente. Fece chiamare Siqueiros, che io non avevo mai visto, ed tutti e tre usciamo insieme a bere alcuni bicchieri nei caffè della città. Senza avere diritto ad esigere niente, poiché si trattava di una domanda del presidente del Messico, comunque esigetti da Siqueiros, per concedergli il visto, che donasse un'opera qualunque al Cile. Per conto del governo messicano. E fu così che Siqueiros, durante più di un anno, dipinse in Cile il suo più grande affresco murale. Si trova nella città di Chillán. C'è qui la verità di questa storia malevola alla quale non volli mai rispondere fino ad oggi.
M.: Perché andò via improvvisamente dal Messico?
P.N.: Ero stanco della vita consolare, di vivere permanentemente all'estero. Allora, un giorno, andai via...
M.: Da allora, lei mostrò una grande adesione alla linea comunista sovietica. Che cosa significa questo per lei?
P.N.: Se lei capisce la Rivoluzione francese, la sua importanza nel mondo, e fino a che punto le idee della Francia repubblicana attraverso la nostra lotta per l'indipendenza e contro l'Impero spagnolo, lasciarono la loro orma nel nostro continente, se lei capisce tutto questo, capirà anche perché la nostra adesione alla Francia repubblicana era un'adesione alla coscienza del Nuovo Mondo che si stava formando. È la stessa idea che ispira le mie relazioni con l'URSS. Non è la linea, è un processo intellettuale quello che mi guida, l'orma di una coscienza rivoluzionaria in un'epoca. L'URSS fu il primo paese che realizzò una rivoluzione socialista. Può avere molte cose che non sono riuscite. Ma, come Francia che commise immensi errori, l'URSS pose anche le basi di una grande epoca politica. E mi mantengo fedele a questo paese che fece la rivoluzione più grande della storia. Mi mantengo fedele alla sua esistenza, perché non posso permettermi il capriccio di avere discrepanze. Per me, la cosa fondamentale, è l'esistenza dell'URSS.
M.: Una cosa è non desiderare che si biasimi all'URSS perché rappresenta, in effetti, per i quali credono in lei, una certa forma di ideale. Ma un'altra cosa è approvare tale o quale l'errore commesso. Retrospettivamente, non si pente di avere avallato col suo talento tale o quale decisione nella storia sovietica?
P.N.: Sarebbe assurdo. Se penso che pioveva tale giorno di febbraio del 1923 e lei pensa il contrario, che cosa devo dirle? Tutto quello che posso rispondergli è che credo che piovesse quel giorno. Le cose sono cambiate, ma la Repubblica spagnola, per esempio, continua ad essere quello che era per me. È un'epoca che portiamo con noi stessi nella nostra vita. D'altra parte, non sono un filosofo politico per riflettere in quella maniera. Gli dissi semplicemente che cosa rappresenta l'URSS per me. Che lei lo discuta, è naturale, come si discute in Francia o in Inghilterra.
M.: Quando venne a sapere delle rivelazioni di Kruschov sugli errori di Stalin, questo lo lasciò indifferente?
P.N.: Mi produsse un grande impatto. Soprattutto sapere che tutto quello esisteva e che io non lo sapevo... benché stessi varie volte nell'URSS. Ma, nonostante tutto, l'URSS osò mostrare al mondo una verità che altri avrebbero occultato.
M.: Se lei vuole... Un altro scrittore che non può essere paragonabile a lei, Koestler, si allontanò dal PC perché pensava che nell'URSS stavano accadendo cose atroci. Retrospettivamente, crede che il suo attaccamento ad un'idea, anche se eventualmente falsa, possa essere più fruttifero della lucidità di Koestler su tali atrocità?
P.N.: Lessi un'intervista a Koestler poco tempo fa. E mi sembrò un po' stanco di dover continuare a rispondere alle stesse domande. Egli lo disse; dedicò la sua vita a fare quella letteratura, unicamente quello. Notai una grande stanchezza in lui. Io non mi sento stanco perché non scrissi solamente sulla politica. Devo aver scritto, magari, circa sette mila pagine di poemi. Bene, credo che non potrete trovare più di quattro pagine su quel tema. Ho molte ragioni, allora, per non essere legato a quella classe di domande. La mia poesia ha altre fonti. In realtà, dovrei aver lavorato la mia poesia in un paese, vicino ad un gran bosco. Koestler è un uomo di città, di grande metropoli, di idee e conflitti. Preferisco l'amore. Scrissi dieci libri sull'amore. La politica è un'ossessione degli altri. Non mia.
M.: Ma fu sempre vincolato a lei...
P.N.: Mi vincolano alla politica.
M.: Detto altrimenti, la politica non sarebbe più che un aspetto secondario della sua poesia.
P.N.: Sì, quello lo credo realmente. Non è la cosa fondamentale della mia poesia. Che cosa è la cosa fondamentale? È descrivere quello che si sente veramente, in ogni istante dell'esistenza. Non credo in un sistema poetico, in una organizzazione poetica. Andrei più lontano: non credo nelle scuole, né nel simbolismo, nel realismo o nel superrealismo. Sto assolutamente al margine delle insegne che mettono ai prodotti. Mi piacciono i prodotti, non le insegne. Ed abbiamo tante insegne nella nostra piccola storia.
M.: Ritorniamo al suo paese. Come spiega che il Cile abbia molta più tradizione democratica che gli altri paesi dell'America Latina?
P.N.: Abbiamo una oligarchia che si mantenne da centocinquanta anni al potere. Questa classe era molto istruita. Leggeva ai filosofi e in questo modo, la segnarono tutte le tendenze del secolo XIX. Più coltivata che in altri paesi, questa classe scelse la legge per governare. Una legge che non ammetteva contraddizioni e che, naturalmente, era fatta a loro misura. Di fronte a questo, la classe operaia, unita in grandi organizzazioni, disciplinata, seppe approfittare della legalità per svilupparsi e trascinare con essa grandi settori della popolazione. Quella è, la storia di un paese affezionato alle leggi e tranquillo.
M.: Non è molto spagnolo.
P.N.: Non creda. La Spagna lasciò un'eredità legalista in America Latina. Gli spagnoli erano grandi giuristi. Il feudalesimo rovinò tutto. Quando arrivarono i conquistatori nella nostra America, la monarchia spagnola era più progressista delle altre monarchie europee. Era umanista. Ma gli uomini che sbarcavano nel continente portavano i vecchi germi del feudalesimo. Noi cileni, magari abbiamo avuto la fortuna di ereditare quella venatura legalista della Spagna.
M.: Il governo del presidente Salvatore Allende che lei rappresenta a Parigi, pretende di mantenersi nella legalità. Non è questo un ostacolo per la rivoluzione?
P.N.: Perché? Prima, c'erano leggi che potevano soddisfare il paese, ma non si applicavano. La riforma agraria fu concepita dal presidente democratacristiano Eduardo Frei. Tuttavia, la persona che doveva portarla alla pratica, Jacques Chonchol, il nostro attuale ministro di Agricoltura, sbattè con l'opposizione di Frei ogni volta che voleva fare realmente qualcosa. Chonchol fu obbligato a rinunciare. In realtà, si facevano leggi per non applicarle. Noi le applichiamo o facciamo leggi nuove che si sottopongono obbligatoriamente all'approvazione del Congresso. Possiamo andare avanti molto per questa strada.
M.: Il successo della vostra esperienza, cioè l'instaurazione di una società marxista nella cornice della libertà, dipende grandemente dalla prosperità dell'economia. Dunque, se l'economia va male voi correte il rischio di perdere le prossime elezioni presidenziali. E se perdete le elezioni, metteranno fine alle libertà democratiche. Siccome vogliono il marxismo in libertà, corrono il rischio di perdere le elezioni. Che cosa pensa di quello?
P.N.: Credo che lei realizzi una analisi molto chiara. Evidentemente, per noi è una grande prova. In tutto il mondo, i paesi vogliono avere miglioramenti economici immediati, ed il popolo cileno non è differente degli altri. Questo vuol dire che inevitabilmente avremo difficoltà. E bene, bisognerà affrontarle e superarle! I commerci vendono già tre volte, quattro volte più di prima. Evidentemente, vogliamo produrre di più. È il nostro grande problema, perché per soddisfare l'aumento attuale del potere d'acquisto, dobbiamo aumentare la produzione.
Avremo difficoltà e lei sa, come me, da quale parte verranno. Che cosa vendiamo attualmente? Quale è la nostra principale produzione? Il rame. Non abbiamo paura di non vendere, il mondo ha fame di rame. Ed inoltre, nazionalizzando le miniere, stiamo recuperando centinaia di migliaia di franchi al giorno. È approssimativamente la somma che guadagnavano le imprese nordamericane in un paese che non aveva scuole, ospedali e strade carrozzabili. D'altra parte, sviluppiamo il nostro commercio con tutti i paesi dal mondo. Prima, ci ostacolavano. Non potevamo avere relazioni diplomatiche con Cuba e con la Germania Democratica. Tutto questo sta cambiando. Lei sappia, facciamo le cose alla cilena, con grande tranquillità.
M.: Che cosa pensa dell'esperienza cubana?
P.N.: Per me, la Rivoluzione cubana è qualcosa di molto importante. Oserei dire: sacra. È la prima rivoluzione socialista della nostra America. Pertanto, il mio desiderio è che tutti gli ostacoli che trova Fidel Castro possano eliminarsi e che la repubblica cubana sia ogni giorno più rispettata.
M.: Ma lei, personalmente, non sta in molto buone relazione coi cubani... Gli rimproverano aver risposto all'invito del PEN Club degli Stati Uniti...
P.N.: Vuole lei dire con gli scrittori cubani? Non ha importanza. Inoltre, gli scrittori cubani si sono specializzati in vedere nemici negli altri scrittori; se mi scelgono come esempio, gli domandi perché lo fanno. Non a me. Perché io sono fedele alla Rivoluzione cubana. Non dimentichi il mio primo libro sulla Rivoluzione cubana che si chiama Canción de gesta. Si fecero venticinque edizioni di questa opera. Desidero gli scrittori cubani che abbiano lo stesso successo.
M.: Che cosa pensa del caso Padilla? Della sua autocritica pubblica?
P.N.: I suoi poemi mi sembrano abbastanza interessanti, ma non sublimi.
M.: Il fatto che Padilla sia stato imprigionato ed abbia firmato una specie di confessione ebbe in Europa un'enorme ripercussione tra la quale guardavano a Cuba con simpatia.
P.N.: Lo comprendo. È un triste episodio. Ma in fin dei conti, credo che nella storia di una rivoluzione succedano all'inizio cose che sembrano tremende e dopo diventano minuscole. Spero che Padilla possa vivere in pace con la Rivoluzione cubana e che gli scrittori cubani vivano in pace con gli altri scrittori.
M.: Ma queste deformazioni della libertà in Cuba, non è quello che tenta di evitare la Rivoluzione cilena?
P.N.: Non lo comprendo. Per quello che riguarda noi cileni, proteggeremo la legalità e la libertà. La Rivoluzione cubana è il prodotto di una grande insurrezione armata, mentre la nostra esperienza è un movimento politico, un movimento di pensiero che si fa nella pluralità.
M.: Se dovesse scegliere tra perdere le elezioni o un meccanismo alla cubana, cioè, una soppressione relativa delle libertà, che cosa sceglierebbe?
P.N.: Sopprimerei dalla sua domanda "meccanismo alla cubana". E gli direi: se perdiamo le elezioni, le perdiamo. Successe già nell'elezione di un deputato in Valparaíso, vinta dall'opposizione. Attualmente, occupa un seggio nel Parlamento.
M.: E consegnerebbe loro il potere?
P.N.: In Cile non si può parlare di consegnare o no il potere. Quello che vinse, vinse. Prima della guerra, vincemmo la prima elezione del Fronte Popolare per 4.000 voti di differenza. Un quattro tre zeri. Erano facili da cancellare! Bene, tuttavia si rispettò il verdetto popolare. Sa, il rispetto è una virtù cilena.
M.: È lei ottimista?
P.N.: Non sono eccessivamente ottimista, di un ottimismo di ambasciatore. Abbiamo molte difficoltà, ne avremo molte, ma credo nella giustizia di quello che stiamo facendo. Risulta tanto chiaro per tutti che stiamo restituendo al popolo cileno quello che gli ero dovuto da secoli... Quella che ci farebbe fallire sarebbe una grande crisi economica. Lo sappiamo. E sappiamo anche che è preparata dalla reazione e dai nemici dall'esterno che chiamiamo per quel nome tanto usato: l'imperialismo. Sappiamo che tutto quello può succedere, sappiamo qual'è il nostro dovere.
E sappiamo anche che se ci allontaniamo dalla legalità che è caratteristica del nostro paese, faremo un bel regalo al nemico. Non siamo tanto tonti. Il presidente Allende dichiarò recentemente, davanti a Raúl Roa, ministro cubano di Relazioni Esterne, che il suo governo non si allontanerà dalla via democratica e costituzionale per condurre il Cile al socialismo. Condannò l'occupazione di terre e disse anche che l'esperienza cilena non assomiglia a quella di Cuba o a quella di altri paesi europei. È un'esperienza che, in una certa misura, è più difficile.
M.: Si sente comodo nella sua carica di ambasciatore?
P.N.: Sappia lei, è terribile per me. Io adoro alla Francia, adoro a Parigi e quello che più mi piace è passeggiare per le librerie, sul bordo della Senna. Ed ancora non ho potuto farlo.
M.: Lei dice che adora alla Francia e tuttavia scrisse poemi spiacevoli su lei.
P.N.: Persone che si amano molto possono litigare. Immagini Lei quante migliaia di volte parlai in onore della Francia, per amore alla Francia. Non dimentichi che ho un'onorificenza per servizi prestati alla Francia durante la guerra. Allora, perché non permettermi di criticarla a volte?
M.: Non l'espulsero alcuni anni fa del territorio francese?
P.N.: È verità. Ma non fui espulso perché la Francia voleva espellermi. Fu il governo cileno di allora che chiese la mia espulsione.
M.: Perché?
P.N.: Allora avevamo in Cile un presidente della repubblica che io avevo aiutato a vincere le elezioni. Fece tutto il contrario di quello che aveva promesso e mi opposi a lui. Venni in Francia, chiese la mia espulsione. Non solamente dalla Francia bensì da tutte parti, di tutti i paesi del mondo. Non potevo mettere piede da nessuna parte. Quando mi espulsero, mi sorpresi. Allora, ho allora alcune righe nelle quali protesto. Spero che le abbiano dimenticate.
M.: Pensa che la sua poesia apporta qualcosa al mondo? Che fa più felici agli uomini?
P.N.: Un giorno, già molto tempo fa, una coppia di francesi venne a trovarmi per dirmi che si erano sposati a causa del mio libro Veinte poemas de amor. Avevano cominciato a studiare insieme lo spagnolo. Quello mi emozionò molto. Spero che leggano questo... se non hanno divorziato.

Marcha, num. 1561, Montevideo, 7.9.1971.


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